Fideiussione, fonte inesauribile di incertezze: la Cassazione si pronuncia su una questione relativa all’omessa escussione
04 Ottobre 2024
Massima Ritenere contrario ai principi di correttezza e buona fede la mera mancata escussione di un fideiussore (e non, si badi bene, particolari circostanze o modalità del comportamento del creditore) ed addirittura “danno” ingiusto risarcibile la parte del debito garantita dal fideiussore stesso non escusso equivale, sostanzialmente, ad introdurre nell'ordinamento un obbligo, in capo al creditore, non previsto da alcuna norma. In altri termini, la semplice mancata escussione del fideiussore non può condurre, di per sé sola, alla produzione di un danno, tantomeno ingiusto, atteso che il debitore garantito è e rimane l'unico soggetto a dover rispondere del debito per l'intero, stante la funzione di garanzia di un debito altrui della fideiussione ed il diritto di regresso spettante al garante ai sensi dell'art. 1950 c.c. Il caso Con distinti atti ritualmente notificati una società di commercio all'ingrosso di prodotti ittici ed i suoi fideiussori (sette persone fisiche) proponevano opposizione avverso il decreto ingiuntivo con il quale il Tribunale di Bari aveva intimato il pagamento in favore della Banca Popolare di Bari s.c. a r.l. di due importanti somme di denaro (maggiorate degli interessi convenzionali e delle spese di giudizio), quale saldo dei due rispettivi conti correnti, intrattenuti dalla debitrice principale presso una filiale del menzionato istituto di credito. Previa riunione dei giudizi ed espletamento di una c.t.u. contabile, il giudice a quo accoglieva parzialmente le opposizioni, revocando il decreto opposto, ma condannando comunque gli opponenti, in solido, al pagamento di due non trascurabili somme, sia pur ridotte rispetto a quelle ingiunte, oltre ulteriori interessi di mora dalla data di calcolo dei saldi in consulenza tecnica d'ufficio al soddisfo. Successivamente, la sentenza di prime cure veniva appellata dalla debitrice principale e da taluni fideiussori. Si costituiva in giudizio l'istituto di credito appellato ed interveniva, altresì, ai sensi dell'art. 111 c.p.c., l'ente cessionario del credito. All'esito, la Corte di appello di Bari accoglieva in parte il gravame, non solo riducendo in maniera ben più considerevole, rispetto alla sentenza di primo grado, le somme originariamente ingiunte, ma dichiarando la nullità dei contratti di fideiussione, con conseguente rigetto della domanda di pagamento della banca nei confronti dei fideiussori appellanti. Quel che più rileva, in ogni caso, è il percorso motivazionale che aveva condotto il giudice dell'appello a questa decisione, vale a dire:
Per di più, la Corte di appello aveva escluso di poter pronunciare la condanna al pagamento delle somme direttamente in favore della società intervenuta quale cessionaria del credito, in ragione della mancata adesione della cedente a tale domanda. Ricorreva per la cassazione della predetta sentenza l'ente cessionario del credito e proponeva ricorso incidentale l'istituto di credito cedente, in amministrazione straordinaria. Resistevano, con separati controricorsi, i fideiussori appellati e la debitrice principale, proponendo, altresì, autonomi ricorsi incidentali per taluni specifici motivi. La Corte procedeva, dunque, al separato esame di ciascuno dei ricorsi, principale ed incidentali, predetti. La questione Il principale interrogativo al quale è stata chiamata a rispondere la Cassazione è il seguente: integra un dovere della banca creditrice escutere il fideiussore, oppur no? E ancora: può la mancata escussione della garanzia cagionare un danno al debitore? Le soluzioni giuridiche Il tema merita un inquadramento preliminare della fideiussione, istituto molto diffuso nella prassi bancaria. L'art. 1936 c.c., in realtà, non fa riferimento precipuo alla fideiussione, bensì al fideiussore, definendolo come colui che “obbligandosi personalmente verso il creditore, garantisce l'adempimento di un'obbligazione altrui”. Dalla definizione de qua si desume che la fideiussione è quel rapporto obbligatorio, che generalmente (sia pure non necessariamente) trova la sua fonte in un contratto, in virtù del quale il fideiussore assume un obbligo nei confronti del creditore di adempiere l'obbligazione del debitore, aggiungendo a quest'ultimo la propria responsabilità. Sempre dalla littera legis si evince, altresì, che la fideiussione ha (in linea di principio e salve eccezioni; cfr. artt. 1943 e 1945 c.c.) carattere di accessorietà rispetto all'obbligazione garantita, nel senso che le vicende relative al rapporto principale (es. transazione, novazione, remissione, compensazione, confusione) si riflettono sulla garanzia fideiussoria, che di questo segue le sorti. Esula, invece, dall'obbligazione in parola il carattere della sussidiarietà, essendo il garante obbligato in solido con il debitore principale, così come stabilito dall'art. 1944 c. 1 c.c. Ne consegue che il creditore può rivolgersi indifferentemente al debitore o al fideiussore per esigere il pagamento della prestazione. La sussidiarietà può venire in rilievo solo se nel titolo è stato espressamente previsto il c.d. beneficium ordinis, che impone al creditore di sollecitare preventivamente l'adempimento del debitore principale prima di potersi rivolgere al fideiussore. L'art. 1944 c. 2 c.c. attribuisce, inoltre, espressamente alle parti la possibilità di convenire il beneficium excussionis, eccezione che consente al garante, convenuto in giudizio, di invitare il creditore a voler previamente agire in executivis contro il debitore principale, indicando i beni di quest'ultimo che siano passibili di esecuzione forzata. Si tratta, in ogni caso, di una forma di garanzia personale, nel senso che il fideiussore garantisce l'obbligazione principale con tutto il suo patrimonio, ai sensi e per gli effetti dell'art. 2740 cod. civ. In sostanza, si determina un ampliamento della garanzia patrimoniale generica, nel senso che viene offerto al creditore, in caso di inadempimento del debitore, un altro patrimonio sul quale rivalersi, quale, appunto, quello del fideiussore. Proprio tale ultima caratteristica vale a distinguere nettamente la fideiussione dal genus delle garanzie reali, che, invece, attribuiscono un diritto su un dato bene, opponibile anche ai terzi acquirenti, ovvero una preferenza rispetto ad altri creditori. Ciò nondimeno, la dottrina si è lungamente interrogata sulla funzione della fideiussione. Volendo semplificare al massimo i termini della questione, le principali posizioni sono due:
La soluzione al dilemma reca con sé implicazioni pratiche di non poco momento. Segnatamente, in caso di inadempimento del debitore principale, laddove si voglia accogliere la prima tesi, il fideiussore sarà obbligato unicamente ad eseguire la prestazione principale. Viceversa, aderendo alla seconda teoria, il fideiussore sarà tenuto anche a risarcire i danni che siano stati eventualmente provocati dall'inadempimento dell'obbligazione principale. A favore della prima ricostruzione, depone, fra l'altro, il dato testuale contenuto nell'art. 1936 c.c., in forza del quale il fideiussore deve adempiere un'obbligazione altrui e non un'obbligazione propria. Per contro, a voler sostenere che il fideiussore garantisca dall'inadempimento, si rischierebbe un'indebita confusione con la affine, ma diversa figura del contratto autonomo di garanzia, come si dirà funditus nel corso della presente analisi. La stessa Cassazione, nella pronuncia in esame, pur non richiamando expressis verbis i termini del dibattito appena riportati, mostra un chiaro favore per la prima opzione interpretativa, giungendo ad affermare che «il debitore garantito è e rimane l'unico soggetto a dover rispondere del debito per l'intero, stante la funzione di garanzia di un debito altrui della fideiussione ed il diritto di regresso spettante al garante ai sensi dell'art. 1950 c.c.». È rimasta, invece, sullo sfondo, nell'ordinanza in commento, un'altra questione teorica molto delicata, quale quella del rapporto tra intese restrittive della concorrenza e contratti stipulati a valle. Da questo punto di vista, il Collegio ha correttamente dichiarato infondata la censura di omessa pronuncia sull'inammissibilità dell'eccezione di nullità della fideiussione, essendo il vizio di omissione di pronuncia non configurabile su questioni processuali, ma soltanto con riferimento alle domande ed eccezioni di merito. Sotto ulteriore (ma pur sempre marginale, in termini accademici) profilo, la Corte è stata chiamata a stabilire se la produzione, ad opera degli appellanti, in sede di gravame del provvedimento della Banca d'Italia n. 55 del 2005, a corredo dell'eccezione di nullità della fideiussione da essi sottoscritta su schema ABI, risultasse o meno tardiva. Quest'ultima eccezione è stata accolta, non avendo gli appellanti medesimi neppure argomentato circa l'impossibilità, ad essi non imputabile, di produrla in precedenza, così come richiesto dall'art. 345 c.p.c., riformato dall'art. 54 DL 83/2012 conv. in L. 134/2012, né potendosi invocare il principio iura novit curia, in ragione del carattere amministrativo e non normativo del citato provvedimento della Banca d'Italia, soggetto, in quanto tale, ai noti principi in materia di onere probatorio. Osservazioni La pronuncia esaminata, come si è inteso suggerire in rubrica, presenta indubbi caratteri di originalità, non tanto per la soluzione adottata dalla Suprema Corte, che si è sostanzialmente attenuta alle conclusioni già raggiunte da dottrina e giurisprudenza prevalenti, quanto per la prospettazione offerta dai resistenti. Più nello specifico, suscita interesse la censura tesa a far valere un dovere della banca creditrice di escutere il fideiussore e la pretesa che la mancata escussione della garanzia abbia cagionato un danno al debitore. Come innanzi ricordato, infatti, l'effetto che la fideiussione produce è la responsabilità solidale, nei confronti del creditore, del debitore principale e del suo fideiussore, a meno che non siano stati puntualmente contemplati un beneficium ordinis o un beneficium excussionis. Nel caso concreto, però, non si dà atto della pattuizione di nessuno dei due istituti che fondano possibili ipotesi di sussidiarietà. Come può, allora, pretendere il debitore che la banca si rivolga necessariamente al fideiussore? Non solo non vi è alcun obbligo in tal senso in capo all'ente creditore, ma quest'ultimo è addirittura facoltizzato, ex lege, a pretendere indifferentemente l'adempimento dal debitore principale o dal fideiussore. Importa, comunque, rammentare che – a detta della dottrina più attenta – anche quando non siano stati previsti il beneficium ordinis o il beneficium excussionis, la solidarietà che caratterizza la fideiussione è una solidarietà c.d. imperfetta. Ed invero, nei rapporti interni, contrariamente a quanto accade nelle altre forme di solidarietà passiva, ove ogni debitore risponde della sua parte di debito, il fideiuvato deve tenere del tutto indenne il fideiussore da quanto sia stato eventualmente costretto a pagare. Il fideiussore che ha “pagato” (in senso tecnico, perché, comunemente, oggetto della fideiussione è la garanzia di un debito pecuniario) ha non solo il diritto di surrogarsi nelle ragioni del creditore, ai sensi dell'art. 1949 c.c., ma anche il diritto di regresso contro il debitore principale per ottenere la ripetizione del capitale, degli interessi e delle spese da lui sostenute, ai sensi dell'art. 1950 c.c. Si appalesa, dunque, più che condivisibile la posizione assunta dalla Suprema Corte, nella parte in cui evidenzia che il debitore principale rimane l'unico soggetto obbligato a dover rispondere del debito per l'intero, dovendosi circoscrivere la funzione della fideiussione alla mera garanzia di un debito altrui. Da questo punto di vista, è sottile, ma di non scarsa importanza la differenza che intercorre tra la fideiussione e il contratto autonomo di garanzia, contratto atipico di matrice tedesca (denominato Garantievertrag), in forza del quale un soggetto terzo (spesso un istituto di credito o una compagnia di assicurazione) si obbliga, a semplice richiesta del creditore, a tenerlo indenne, mediante la dazione di una determinata somma di denaro, dalle conseguenze del mancato (o inesatto o parziale) adempimento della prestazione gravante sul debitore principale. Poiché il garante non può opporre le eccezioni relative al rapporto base, ivi comprese quelle relative all'invalidità del contratto da cui tale rapporto deriva, si ritiene che detto contratto abbia come causa concreta quella di trasferire da un soggetto ad un altro il rischio economico connesso alla detta mancata esecuzione (cfr., ex multis, Cass. 22 novembre 2018 n. 30181). È proprio in questa funzione indennitaria che risiede la differenza ontologica tra tale figura e la fideiussione, come statuito dai giudici di nomofilachia in un'importante sentenza del 2010 (cfr. Cass. SU 18 febbraio 2010 n. 3947). In altri termini, l'obbligazione del garante autonomo è qualitativamente altra rispetto a quella dell'ordinante, sia perché non necessariamente sovrapponibile ad essa (nel senso che potrebbe non essere identica, né omogenea a quella), sia perché non rivolta al pagamento del debito principale, bensì ad indennizzare il creditore insoddisfatto. Il tempestivo versamento di una somma di denaro predeterminata sostituisce, infatti, la mancata o inesatta prestazione del debitore e, in tal senso, va a “coprire” il danno causato dall'inadempimento. Di contro, con la fideiussione è tutelato il solo interesse all'esatto adempimento della prestazione principale, per cui il fideiussore non è altro che un “vicario” del debitore. Appare, dunque, coerente – almeno in linea di principio – la conclusione della Suprema Corte, laddove nega che la mancata escussione del fideiussore possa condurre, di per sé, alla produzione di un danno nella sfera giuridica del debitore principale. Nondimeno, suscita perplessità l'ulteriore passaggio motivazionale nel quale si censura l'affermazione della corte territoriale, secondo cui “il comportamento dell'istituto bancario si è rivelato contrario ai principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto di cui agli artt. 1175-1375 c.c. in quanto, omettendo di escutere la garanzia (…), ha provocato un danno alla società debitrice pari alla quota di debito che sarebbe stata abbattuta a seguito della escussione così come determinata dal consulente tecnico d'ufficio”. Da questo punto di vista, la posizione assunta dai giudici di ultima istanza, nella parte in cui si afferma che “ritenere contrario ai principi di correttezza e buona fede la mera mancata escussione di un fideiussore (e non, si badi bene, particolari circostanze o modalità del comportamento del creditore) ed addirittura “danno” ingiusto risarcibile la parte del debito garantita dal fideiussore stesso non escusso equivale, sostanzialmente, ad introdurre nell'ordinamento un obbligo, in capo al creditore, non previsto da alcuna norma”, appare anacronistica e non coerente con il quadro giurisprudenziale più recente e ormai consolidato. Tale conclusione sembra richiamare l'antico e desueto filone interpretativo, a mente del quale fuori dalle ipotesi in cui è lo stesso legislatore a disciplinarne la violazione, un comportamento contrario alle regole della buona fede “non può essere reputato illegittimo e, quindi, fonte di responsabilità ove al contempo non concreti la violazione di un diritto altrui, già direttamente riconosciuto da una norma giuridica” (cfr. Cass. 18 ottobre 1980 n. 5610). In passato, si negava, infatti, che il principio della buona fede oggettiva potesse assumere rilievo giuridico autonomo. Così opinando, si era giunti alla conclusione che la violazione dei doveri di correttezza e di buona fede previsti dagli artt. 1375 e 1175 c.c. costituisse un mero criterio di qualificazione e di valutazione del comportamento dei contraenti, proprio perché tali doveri non erano considerati, in forma primaria e autonoma, da una norma, come nel caso della concorrenza sleale, ai sensi dell'art. 2598 n. 3 c.c. (cfr. Cass. 20 luglio 1977 n. 3250). È noto, però, come tale orientamento sia stato già da diversi anni abbandonato dal formante giurisprudenziale (la sentenza “capostipite”, in tal senso, Cass. SU 15 novembre 2007 n. 23726, che individuò tra le violazioni del dovere di correttezza e di buona fede la parcellizzazione delle azioni di recupero del credito), secondo cui, invece, la violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva o di correttezza esprime un generale principio di solidarietà sociale che, in ambito contrattuale, implica un obbligo di reciproca lealtà di condotta, deputato a presiedere sia all'esecuzione del contratto, sia alla sua formazione e interpretazione, a prescindere dall'esistenza di specifichi obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da norme di legge. Sul punto, per vero, autorevole dottrina, precorrendo i tempi e anticipando le conclusioni della giurisprudenza, aveva già avuto cura di osservare che la buona fede oggettiva, quale principio generale dell'ordinamento giuridico, trova il suo fondamento nel principio di solidarietà contenuto nell'art. 1175 c.c. e costituisce espressione dello stesso valore costituzionale di cui all'art. 2 Cost. (Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 1969). Si è, inoltre, specificato che la clausola generale della buona fede e correttezza opera sia sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 c.c.), sia sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione di un contratto (art. 1375 c.c.). Quanto al danno risarcibile, trattandosi di responsabilità di tipo contrattuale, i criteri utilizzabili sono quelli previsti per effetto dell'inadempimento contrattuale. Una volta provato il danno, esso va risarcito nella misura del c.d. “interesse positivo”, ovvero nella misura dei vantaggi economici che sarebbero derivati dall'esecuzione del contratto secondo buona fede. Coglie, invece, nel segno il rilievo del massimo consesso della giustizia civile (sia pure non bene argomentato e in contrasto con quanto affermato in precedenza), nella parte in cui afferma, sostanzialmente, che, nel caso di mancata escussione della garanzia fideiussoria da parte del creditore, non è configurabile un danno “ingiusto”. Ed invero, secondo la dottrina più attenta, in materia contrattuale gli interessi risarcibili non sono quelli stabiliti dalla legge, ma quelli stabiliti dalle parti, attraverso la causa del contratto, vale a dire gli interessi che entrano nel regolamento contrattuale, cioè che il contratto è oggettivamente diretto a realizzare e la cui perdurante realizzabilità condiziona la sopravvivenza del contratto, nel senso che, se questi interessi diventano irrealizzabili, viene meno la causa del contratto. Ebbene, quando questi interessi vengono sacrificati dall'inadempimento, il relativo danno, può essere, sì, risarcito, ma il criterio di selezione degli interessi, la cui lesione obbliga al risarcimento del danno, deve rinvenirsi nella causa del contratto e non nella previsione di legge, come richiesto dall'art. 2059 c.c. Ecco perché, tecnicamente, non può parlarsi di danno ingiusto, che etimologicamente vuol dire, appunto, “contra ius”. In ultima analisi, nell'ordinanza in commento, la Cassazione ha svolto delle importanti considerazioni, ricordando agli operatori del diritto che la fideiussione è una garanzia personale, caratterizzata dai requisiti dell'accessorietà e della solidarietà. Ne discende che il creditore può rivolgersi, indifferentemente, per il pagamento della (unica) prestazione tanto al debitore principale, quanto al garante, senza che l'omessa escussione di quest'ultimo possa cagionare, di per sé, un danno al primo. È pur vero, però, che – a dispetto di quanto asserito nella pronuncia – l'omessa escussione del fideiussore, pur non essendovi un obbligo in tal senso, espressamente posto da una norma ad hoc, potrebbe presentare dei tratti di “abusività” (ponendosi in contrasto con i doveri di correttezza e buona fede), dando la stura ad un danno risarcibile, nei termini sopra descritti. |