La Corte costituzionale sulla preclusione del giudizio abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo
22 Gennaio 2025
Massima La disciplina prevista dall'art. 438, comma 1-bis, c.p.p., introdotto dall'art. 1, comma 1, lett. a), l. 12 aprile 2019, n. 33, nella parte in cui prevede che non è ammesso il giudizio abbreviato per i delitti puniti con la pena dell'ergastolo, è costituzionalmente legittima, sotto il profilo della conformità agli artt. 3,24,27, e 111 Cost., anche se la pena dell'ergastolo consegue ad una circostanza aggravante e anche se l'azione penale viene esercitata nelle forme del giudizio immediato. Il caso Tizio, ricevuta la notifica del decreto di giudizio immediato per il delitto di omicidio aggravato dall'aver agito per motivi abietti e futili (artt. 61 n. 4, 575 e 577, comma 1, n. 4, c.p.), chiedeva di definire il processo nelle forme del giudizio abbreviato. Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Cassino dichiarava inammissibile la richiesta ai sensi dell'art. 438, comma 1-bis, c.p.p., rilevando che per tale delitto, così come aggravato, è prevista la pena dell'ergastolo Tizio reiterava la richiesta di ammissione al rito dinanzi alla Corte di Assise di Cassino e la Corte sospendeva il giudizio sollevando questione di legittimità costituzionale dell'art. 438, comma 1-bis, c.p.p., sotto plurimi profili. In primo luogo, i giudici rimettenti ritengono irragionevole l'equiparazione, sotto il profilo della preclusione in esame, tra i reati puniti con l'ergastolo nell'ipotesi base (come, ad esempio, la strage) e i reati puniti con tale pena a seguito di una circostanza aggravante (come nel caso dell'omicidio). Tale irragionevolezza, poi, sarebbe stata accentuata dall'introduzione, ad opera del d.lgs. n. 150/2022, dell'art. 442, comma 2-bis, c.p.p., che consente all'imputato giudicato con rito abbreviato di ottenere un ulteriore sconto di pena omettendo di impugnare la sentenza di condanna. Tale incentivo amplia ulteriormente il divario punitivo fra chi è accusato di omicidio semplice e chi deve rispondere del medesimo reato aggravato anche da una sola circostanza, perché solo il primo può ottenere una riduzione di un terzo per la scelta del rito e un'ulteriore riduzione di un sesto omettendo di impugnare la sentenza di condanna, potendo arrivare ad una pena minima di sette anni, nove mesi e dieci giorni. Tale divario, oltre che irragionevole, pregiudicherebbe la finalità rieducativa della pena, attesa l'impossibilità, per il condannato, «di comprendere adeguatamente, con piena consapevolezza, il disvalore del proprio comportamento». Un'ulteriore doglianza attiene alle peculiarità del caso di specie, dove l'azione penale è stata esercitata nelle forme del giudizio immediato. In tale rito l'accesso diretto al dibattimento, senza passare per l'udienza preliminare, viene deciso dal giudice per le indagini preliminari senza un'interlocuzione con la difesa, a cui è data soltanto la possibilità di chiedere un rito diverso da quello scelto dall'organo di accusa. L'udienza conseguente alla richiesta di un rito premiale, che il giudice deve fissare in ogni caso ai sensi dell'art. 458, comma 2, c.p.p., come novellato dal d.lgs. n. 150/2022, non vale a surrogare tale omessa interlocuzione, perché il giudice per le indagini preliminari non potrebbe comunque modificare l'imputazione a favore del reo, dovendosi attenere a quella contestata in sede di decreto di giudizio immediato. Ne consegue che nei casi di giudizio immediato, l'inammissibilità della richiesta di accesso al giudizio abbreviato sarebbe determinata dalla sola contestazione del pubblico ministero, senza un adeguato vaglio da parte del giudice dell'udienza preliminare, contrariamente a quanto richiesto dai principi del giusto processo. La questione La questione rimessa alla Corte costituzione è la seguente: è costituzionalmente legittimo il comma 1-bis dell'art. 438 c.p.p., nella parte in cui prevede che non è ammesso il giudizio abbreviato per i delitti puniti con la pena dell'ergastolo, anche quando tale pena è l'effetto dell'applicazione di una circostanza aggravante ad effetto speciale e anche quando il giudizio abbreviato viene chiesto a seguito della notifica del decreto che dispone il giudizio immediato? Le soluzioni giuridiche La Corte costituzionale ha ritenuto infondate tutte le questioni. In primo luogo, ha rilevato come già nel 1992, con l'ordinanza n. 163, quando i delitti puniti con la pena dell'ergastolo, per effetto della sentenza n. 176 del 1991, erano rimasti esclusi dal campo di applicazione del rito abbreviato, ritenne ragionevole la preclusione, precisando che l'esclusione di alcune categorie di reati, come quelli punibili con l'ergastolo, in ragione della loro maggiore gravità, non determina una ingiustificata disparità di trattamento rispetto agli altri reati, trattandosi di situazioni non omogenee. Quanto alla sperequazione fra chi è imputato di un delitto cui consegue la pena detentiva perpetua in ragione della sussistenza di circostanze aggravanti e chi è imputato di delitti puniti con l'ergastolo nella loro ipotesi base, la Corte richiama i propri precedenti del 2020 (sentenza n. 260) e del 2021 (ordinanza n. 214), nei quali aveva già chiarito che tali critiche dovrebbero appuntarsi sulle scelte sanzionatorie del legislatore (nel caso di specie la previsione dell'ergastolo per l'omicidio aggravato), più che sulle relative implicazioni processuali. Del resto, ribadisce la Corte, la scelta legislativa di far dipendere l'accesso al giudizio abbreviato dalla sussistenza o meno di una circostanza è ragionevole in quanto quest'ultima «esprime un giudizio di disvalore della fattispecie astratta marcatamente superiore a quello che connota la corrispondente fattispecie non aggravata; e ciò indipendentemente dalla sussistenza nel caso concreto di circostanze attenuanti, che ben potranno essere considerate dal giudice quando, in esito al giudizio, irrogherà la pena nel caso di condanna» (così la sentenza n. 260 del 2020). Ritiene, poi, la Corte che tale ragionevolezza non sia scalfita dalla previsione di un meccanismo premiale per i casi di omessa impugnazione della sentenza di condanna emessa all'esito del giudizio abbreviato (su cui non si era pronunciata, non sussistendo all'epoca la previsione normativa, la sentenza n. 260 del 2020). Ciò in ragione della specificità che assume il principio di proporzionalità della pena nel caso dell'omicidio. Tale fattispecie, infatti, necessita di una graduazione punitiva potendo esse connotata, nei casi concreti, da «livelli di gravità notevolmente differenziati», che possono aver riguardo tanto al profilo oggettivo – in relazione, in particolare, alla tipologia e alle modalità della condotta – quanto a quelli soggettivi, attinenti al diverso grado di manifestazione dell'intento omicidiario. Venendo all'ultima doglianza, la Corte ribadisce che il diritto di accesso ai riti premiali costituisce un profilo essenziale del diritto di difesa (art. 24 Cost., considerato in sé e in relazione agli artt. 2,3 e 27, comma 2, Cost.), ma precisa che la norma costituzionale non assicura il diritto di qualunque imputato ad accedere a tutti i riti alternativi previsti dall'ordinamento processuale penale, quale che sia il reato in contestazione; semmai la Costituzione impone la garanzia che l'accesso al rito non sia precluso sulla base di decisioni arbitrariamente assunte con riguardo al caso concreto; il legislatore può, dunque, prevedere che l'accesso ai riti avvenga in presenza di determinate condizioni purché garantisca il recupero del rito, almeno nelle sue implicazioni sanzionatorie, ogniqualvolta il rito alternativo sia stato ingiustificatamente negato a un imputato per effetto di un errore del pubblico ministero nella formulazione dell'imputazione, di una erronea valutazione di un giudice intervenuto in precedenza nella medesima vicenda processuale, ovvero di una modifica dell'imputazione nel corso del processo. La disciplina introdotta con la l. n. 33/2019 è conforme a tali coordinate. L'obiettivo di garantire l'accesso al rito, quando questo sia nella sostanza ammissibile, è stato perseguito con un meccanismo complesso. In primo luogo, la preclusione al rito potrebbe essere superata da una modifica dell'imputazione fatta dal pubblico ministero su invito del giudice dell'udienza preliminare ai sensi degli artt. 421, comma 1-bis, e 423, comma 1-bis, c.p.p. In secondo luogo, il comma 6 dell'art. 438 c.p.p. prevede che la domanda di accesso al rito, dichiarata inammissibile prima (o in apertura) dell'udienza preliminare, possa essere riproposta fino a quando non siano formulate le conclusioni a norma degli artt. 421 e 422 c.p.p. Infine, e per tutti i provvedimenti negativi assunti nell'ambito della stessa udienza preliminare, è stato previsto un sindacato da parte del giudice del dibattimento, il quale può applicare la riduzione della pena ai sensi dell'art. 442 comma 2, c.p.p. se all'esito del dibattimento ritiene che per il fatto accertato sia ammissibile il giudizio abbreviato (art. 438, comma 6-ter, c.p.p.). La preclusione all'accesso al giudizio abbreviato, pertanto, dipende solo nella fase iniziale dalla valutazione del pubblico ministero sull'oggetto della contestazione. Tale valutazione «è poi oggetto di puntuale vaglio da parte dei giudici che intervengono nelle fasi successive del processo, ed è sempre suscettibile di correzione, quanto meno nella forma del riconoscimento della riduzione di pena connessa alla scelta del rito, come accade rispetto a ogni altro rito alternativo» (ancora la sentenza n. 260 del 2020). Osserva la Corte che questa affermazione vale anche per il giudizio immediato (non oggetto del vaglio di costituzionalità fatto nel 2020), rispetto al quale l'art. 458 c.p.p. demanda al giudice per le indagini preliminari di decidere sulla richiesta di giudizio abbreviato avanzata dall'imputato, pronunciandosi «in ogni caso» in camera di consiglio, nel corso della quale, a seguito delle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 150/2022, è applicabile anche l'art. 438, comma 6-ter, c.p.p., che consente il recupero in dibattimento della diminuente processuale legata al rito ingiustamente negato. Osservazioni I rapporti fra giudizio abbreviato e reati puniti con la pena detentiva massima sono da sempre travagliati. Da un lato, può apparire “ingiusta” una disciplina che consenta ad un soggetto imputato di delitti di estrema gravità di ottenere una riduzione della pena per il solo fatto di aver richiesto un rito speciale. A tale diminuzione si cumulerebbe oggi la possibilità di ridurre ulteriormente la pena rinunciando all'impugnazione. Il trattamento punitivo complessivo che ne conseguirebbe potrebbe essere carente di proporzionalità rispetto al fatto. Dall'altro lato, può essere ritenuta altrettanto “ingiusta” una disciplina che escluda per una intera classe di reati l'opportunità di una rapida ed economica definizione, a prescindere dalla volontà dell'accusato e dalla stessa qualità della prova a suo carico. Tuttavia, passando dal piano dell'opportunità a quello della intrinseca ragionevolezza dell'opzione legislativa, va detto che a favore della scelta di escludere i reati puniti con l'ergastolo dal novero di quelli per i quali è possibile accedere al rito contratto militano solidi argomenti: evitare che delitti di estrema gravità subiscano risposte sanzionatorie sproporzionate per difetto; non affidare ad un organo giudicante monocratico la cognizione di reati con elevatissima risposta sanzionatoria e tradizionalmente affidati alla cognizione del giudice collegiale a composizione mista, tale da inverare la partecipazione del popolo all'amministrazione della giustizia; non sacrificare, attraverso una sessione camerale, l'interesse sociale alla diretta conoscenza delle attività di giurisdizione aventi ad oggetto reati che attentano ai valori fondanti la società; assicurare, per reati puniti con la pena di massima gravità, le maggiori garanze dovute alla connotazione ordinaria del rito, in casi nei quali la decisione giudiziale, quale che sia, produce effetti particolarmente rilevanti, anche (sebbene non soltanto) per lo stesso imputato. In merito alla scelta di interdire l'accesso al giudizio abbreviato anche quando la pena dell'ergastolo consegue quale effetto della ricorrenza di una circostanza aggravante – soluzione che, sia detto per inciso, non è espressamente prevista dalla disciplina normativa, che parla di reati “puniti con la pena dell'ergastolo”, ma frutto di una interpretazione giurisprudenziale incontestata (risalente a Cass. pen., sez. un., 6 marzo 1992, n. 2977, emessa prima che la preclusione, introdotta dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 176 del 1991, fosse rimossa dalla legge Carotti) – appare altrettanto ragionevole. Il legislatore può certamente riferirsi, per limitare l'accesso ad un rito premiale, all'astratta comminatoria di pena, che esprime la valutazione normativa circa il disvalore del fatto. E non può certo definirsi irrazionale la scelta di ancorare alla pena massima prevista dall'ordinamento la selezione dei fatti ritenuti immeritevoli della semplificazione. Altrettanto ragionevole, però, è l'equiparazione, ai fini preclusivi, delle circostanze c.d. autonome che fanno scattare la pena perpetua, sia per la comune previsione edittale dell'ergastolo, sia perché le circostanze in esame, in quanto ad effetto speciale (comportando variazione della pena prevista per il reato base superiore ad un terzo), sono concettualmente assimilabili più alle fattispecie autonome che alle circostanze in senso tradizionale. A questo punto è opportuno sgombrare il campo da un equivoco. La preclusione in esame è ancorata alla previsione astratta. Dunque, se il giudice del dibattimento esclude la circostanza aggravante deve riconoscere la diminuzione connessa al rito inizialmente precluso. Se invece, neutralizza l'aggravante, sul piano sanzionatorio, mediante la comparazione con attenuanti, la riduzione processuale non spetta. Le due situazioni non possono essere assimilate: in quest'ultimo caso, l'imputato è stato correttamente accusato del delitto aggravato che giustifica il giudizio di disvalore più severo, anche se poi è stato ammesso a valersi di fattori attenuanti (e ciò anche quando sia possibile ipotizzare, sulla base di dati certi relativi al fatto o alla persona dell'imputato, l'irrogazione di una pena diversa dall'ergastolo in caso di condanna: così la Corte costituzionale con la sentenza n. 214 del 2021); nel primo caso, invece, all'accusato è stato interdetto l'accesso al rito senza che si giustificasse la contestazione con effetti preclusivi. Dunque, le critiche alla preclusione per i reati puniti con l'ergastolo dovrebbero essere più correttamente indirizzate contro le scelte sanzionatorie del legislatore, anziché le relative implicazioni processuali. Si tratterebbe, comunque, di censure che non condurrebbero ad un giudizio di manifesta irragionevolezza, il solo praticabile riguardo ad opzioni rimesse ad una discrezionalità particolarmente elevata del legislatore. Altrettanto condivisibile è il ragionamento seguito dalla Corte in ordine all'ipotesi in cui il pubblico ministero decida di esercitare l'azione penale in ordine all'imputazione preclusiva nelle forme del giudizio immediato. Dopo le modifiche del 2019 e del 2022 l'ordinamento prevede plurimi meccanismi di recupero del rito o delle sue implicazioni sanzionatorie a fronte di preclusioni patologiche (contestazioni errate in fatto o in diritto). Due di questi sono tipici dell'udienza preliminare: la modifica dell'imputazione (artt. 421, comma 1-bis e 423, comma 1-bis, c.p.p.) e la riproposizione, prima delle conclusioni, della richiesta dichiarata inammissibile (art. 438 c.p.p.). Va da sé che l'eliminazione dell'udienza preliminare che caratterizza il giudizio immediato impedisce all'imputato di avvalersi di questi meccanismi di recupero. Tuttavia, ciò non implica che nel rito immediato al pubblico ministero sia consentito impedire arbitrariamente all'imputato l'accesso al rito abbreviato tramite una contestazione preclusiva. In primo luogo, vi è un controllo da parte del giudice per le indagini preliminari che deve emettere il decreto di giudizio immediato. Il giudice ha il potere di attribuire al fatto una qualificazione giuridica diversa, potere che trova la sua fonte nell'art. 521 c.p.p., che è norma di carattere generale, destinata a regolare il vaglio giurisdizionale sul corretto inquadramento giuridico della fattispecie concreta in ogni stato e grado del procedimento. In secondo luogo, è previsto un meccanismo post-dibattimentale di sindacato, in forza del quale il giudice del dibattimento è tenuto ad applicare la riduzione di pena prevista per il rito speciale nel caso in cui, in esito all'accertamento del fatto, ritenga insussistenti le aggravanti contestate dal pubblico ministero che avrebbero determinato l'irrogazione della pena dell'ergastolo e, quindi, l'inammissibilità del giudizio abbreviato (art. 438, comma 6-ter, c.p.p.). In conclusione, la linea della Corte, che ormai si è espressa in ben quattro occasioni (1992, 2020, 2021 e 2025), è chiara: la scelta legislativa di ancorare la preclusione del rito speciale alla pena edittale più grave prevista nel nostro ordinamento rientra tra le scelte discrezionali del legislatore e non può essere considerata manifestamente irragionevole o arbitraria nemmeno nell'ipotesi in cui la pena perpetua consegua ad una circostanza aggravante e neppure se la circostanza dalla quale dipende l'applicabilità dell'ergastolo sia ritenuta equivalente o soccombente rispetto a una circostanza attenuante, con conseguente irrogazione in concreto di una pena detentiva temporanea. Tale ragionevolezza prescinde dalle forme di esercizio dell'azione penale perché in ogni caso l'ordinamento prevede dei meccanismi che consento all'imputato di recuperare il rito ingiustamente precluso o comunque i suoi risvolti sanzionatori. |