Prova della simulazione della malattia del lavoratore
17 Aprile 2025
Massima Nell’ambito del potere di controllo sullo stato di malattia del dipendente, il datore di lavoro, gravato in caso di sua contestazione dell’onere di provare che l’infermità è simulata ovvero che l’attività posta in essere dal lavoratore durante l’assenza è potenzialmente idonea a pregiudicare o comunque ritardare il rientro in servizio, può contestare l’esattezza della diagnosi riportata nel certificato medico senza allo scopo dover proporre querela di falso ed avvalendosi di ogni altro mezzo di prova. Il caso Proposto appello avverso la sentenza di rigetto dell'impugnativa di un licenziamento disciplinare, il giudice di secondo grado, in riforma della sentenza di prime cure, riteneva illegittimo il provvedimento di licenziamento intimato da un datore di lavoro per assunto uso improprio dell'assenza per malattia, tale da far desumere la «simulazione della malattia» medesima, ovvero per comportamento contrario ai doveri di correttezza, buona fede, fedeltà aziendale nell'esecuzione del rapporto, idoneo a determinare il prolungamento della malattia, disponendo la reintegrazione del lavoratore. Proposto ricorso per Cassazione, con il secondo motivo la società denunziava ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 2700 c.c., 221 c.p.c., 5 l n. 300/1970, per avere la Corte territoriale erroneamente affermato che il datore di lavoro che intenda contestare in giudizio la sussistenza della malattia del proprio dipendente è tenuto a impugnare con querela di falso la certificazione medica. Riteneva, per contro, applicabile il consolidato orientamento secondo cui la simulazione dello stato di malattia del lavoratore può desumersi dalla valorizzazione di una pluralità di circostanze di fatto, senza necessità di contestare la falsità dei certificati medici con lo strumento dell'art. 221 c.p.c. Ritenuto fondato il motivo, la Corte cassava la pronuncia, rinviando alla Corte territoriale in diversa composizione. La questione Lo stato di malattia del prestatore di lavoro integra una fattispecie sospensiva ex lege della prestazione lavorativa, per tutto il suo protrarsi, con automatica reviviscenza del sinallagma funzionale del rapporto alla cessazione dello stato morboso (Cass. civ., sez. lav., 25 maggio 2016, n. 10852). La sospensione del sinallagma non incide sui generali doveri di diligenza fedeltà, correttezza e buona fede, di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., che permangono anche nel periodo coperto dalla malattia sì da giustificare, ad esempio, il recesso datoriale per giusta causa ai sensi dell'art. 2119 c.c. laddove emerga la simulazione dello stato di malattia o lo svolgimento, nel periodo coperto dalla stessa, di attività potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio del dipendente (Cass. civ., sez. lav., 4 settembre 2024, n. 23747). L'eventuale valorizzazione della violazione dei doveri che permangono in capo al lavoratore in chiave espulsiva riconduce la contestazione giudiziale del licenziamento, eventualmente intervenuto, nell'alveo dell'art. 5, l. n. 604/1966, che stabilisce la regola generale di ripartizione dell'onere probatorio sulla sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento, ponendolo a carico del datore di lavoro. Va, innanzitutto, sgombrato il campo dal potenziale equivoco che il riferimento nominalistico alla «simulazione» rischia di ingenerare, anche sotto il profilo delle regole che presiedono la prova giudiziale, non essendovi alcuna attinenza con la simulazione dei contratti e degli atti unilaterali ricettizi, disciplinata dagli artt. 1414 ss. c.c., la cui prova è soggetta ai limiti ed alle condizioni posti dall'art. 1417 c.c. La simulazione dello stato morboso riposa, dunque, nell'inveritiera attestazione di uno stato morboso o dell'incompatibilità tra lo stato morboso, effettivamente sussistente, e la prosecuzione dell'attività lavorativa. In evidenza, la simulazione della patologia non presuppone necessariamente la falsità delle attestazioni diagnostiche e prognostiche rese dal medico chiamato a redigere il certificato, residuando un margine di diagnosi fondate su valutazioni anamnestiche, come quando il lavoratore riferisca di persistenti cefalee non rilevabili strumentalmente, o di uno stato ansioso-depressivo. Ferma, dunque, la natura di quaestio facti dell'accertamento della fraudolenta simulazione dello stato di malattia, ribadita anche dalla sentenza in commento, da operare sulle circostanze del caso concreto, come tale riservato al giudice del merito, con i consueti limiti di sindacato in sede di legittimità laddove risulti congruamente motivato (Cass. civ., sez. lav., 19 settembre 2017, n. 21667), occorre domandarsi quali strumenti possa attivare il datore di lavoro al fine di fornire la prova, di cui è gravato, circa la natura fittizia dello stato morboso o, comunque, la piena compatibilità tra le reali condizioni del lavoratore e l'adempimento dei doveri inerenti alle mansioni affidategli. Le soluzioni giuridiche La premessa maggiore del sillogismo non può che essere l'accertamento della natura e valore giuridico del certificato redatto dal medico convenzionato con un ente previdenziale o con il Servizio Sanitario Nazionale, riconducibile agli atti pubblici, in quanto redatti da pubblico ufficiale che, secondo quanto disposto dall'art. 2700 c.c., fanno piena prova, fino a querela di falso, «della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti». La fede privilegiata del documento proveniente dal sanitario si estende, dunque, al suo contenuto estrinseco e recettivo, ma non a quello intrinseco o ideologico, ovvero alla valutazione che il sanitario, in occasione del controllo, ha espresso in ordine alla sussistenza e gravità dello stato di malattia e all'impossibilità temporanea di svolgimento della prestazione lavorativa, in relazione a tale stato di malattia (ex plurimis, Cass. civ., sez. lav., 21 settembre 2016, n. 18507). Residua, dunque, un'area di intersezione tra simulazione della malattia e esperibilità della querela di falso laddove, ad esempio, il sanitario abbia falsamente attestato di avere visitato il paziente o di avere raccolto, nel corso della valutazione anamnestica, dichiarazioni circa il proprio stato di salute e la sintomatologia, mai rese dal lavoratore. Su tali premesse, pienamente condivisibile appare la posizione della Corte di legittimità secondo cui, a fronte della contestazione disciplinare irrogata dalla società, comprendente il duplice profilo della simulazione della malattia e dell'aggravamento della stessa durante l'assenza dal lavoro, il giudice d'appello aveva omesso di considerare l'aspetto della simulazione affermando, in modo lapidario, che per contestare l'esattezza della diagnosi medica fosse sempre necessaria la proposizione di querela di falso del certificato medico. Osservazioni Esclusa, dunque, l'esperibilità della querela di falso avente ad oggetto il certificato medico, se non negli stringenti limiti di cui si è fatto cenno, occorre domandarsi quali siano i rimedi di cui il datore di lavoro può avvalersi al fine di fornire prova giudiziale della fraudolenta simulazione dello stato di malattia. Non vi sono limiti di ammissibilità, secondo la pronuncia in commento, ai mezzi di prova utilizzabili a tal fine, trattandosi piuttosto di una questione di effettività o attitudine dello specifico mezzo di prova a fornire dimostrazione di una circostanza, id est la fraudolenta simulazione dello stato di malattia, nella quale si registra la commistione di profili tecnici, oggettivi e soggettivi. Certamente la consulenza tecnica d'ufficio appare il mezzo più idoneo a fornire evidenza tecnica della circostanza. In recente pronuncia la Corte ha affermato che i fatti rappresentati nel certificato, e le annesse valutazioni cliniche, costituiscono elementi di convincimento liberamente apprezzabili dal giudice, il quale può accogliere o rigettare un'istanza di ammissione di consulenza tecnica d'ufficio, sulle valutazioni mediche, senza che il relativo provvedimento possa essere censurato in sede di legittimità (Cass. civ., sez. III, 24 marzo 2023, n. 8536). Si assiste, talvolta, in ragione della transitorietà della situazione e della connaturata urgenza di provvedere, alla proposizione, ad opera del datore di lavoro, di accertamento tecnico preventivo ai sensi dell'art. 696 c.p.c. che, secondo quanto disposto dalla parte finale del primo comma, può essere disposto, «se questa vi consente», sulla persona nei cui confronti l'istanza è proposta. Il consenso del lavoratore è, dunque, necessario al fine di procedere agli accertamenti sanitari demandati in sede di a.t.p., e il suo diniego comporta l'inammissibilità dell'accertamento; tale diniego potrà tuttavia costituire argomento di prova nel giudizio di merito (Trib. Milano, sez. lav., 7 ottobre 2006). Altro fondamentale strumento è rappresentato dalla prova testimoniale, da attivare in via esclusiva, o a supporto o completamento di un eventuale accertamento tecnico, preventivo o in corso di causa. Può, ad esempio, registrarsi la situazione in cui, nel corso della malattia, il lavoratore svolga attività di natura ricreativa o ludica, o anche lavorativa in favore di soggetti terzi, inconciliabili con la patologia diagnosticata. Tra i testi sovente citati sul punto si registrano eventuali investigatori privati ingaggiati dal datore di lavoro. Non è, difatti, precluso dall'art. 5, l. n. 300/1970, che vieta al datore di lavoro di svolgere accertamenti sulle infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente, di procedere ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l'insussistenza della malattia o la non idoneità di quest'ultima a determinare uno stato d'incapacità lavorativa rilevante e, quindi, a giustificare l'assenza (cfr. Trib. Velletri, sez. lav., 5 novembre 2020, n. 1186). Va, infine, contemplata la possibilità che il giudice attivi, motu proprio o su stimolo della parte datoriale, i poteri officiosi che gli competono ex art. 421 c.p.c., nell'ottica del contemperamento del principio dispositivo con la ricerca della verità materiale, qualora reputi insufficienti le prove esistenti per superare l'incertezza sui fatti fondamentali della controversia, purché tali fatti siano stati puntualmente allegati nell'atto introduttivo, al fine di dissipare dubbi residuati dalle prove già acquisite e approfondire elementi probatori già presenti nel processo (Cass. civ., sez. lav., 23 ottobre 2024, n. 27423). |