Sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte e autoriciclaggio: il profitto del reato
26 Maggio 2025
Massima Il profitto del reato di autoriciclaggio deve essere individuato nell'intero valore dei beni oggetto di condotte dissimulatorie, e non solo nell'ipotetico quid pluris derivante dalla condotta che integra il reato derivato. Il caso Il caso sottoposto alla Corte di cassazione (Cass. Pen., Sez. II, 8 aprile 2025, n. 13793) origina dal ricorso presentato dal pubblico ministero contro l'ordinanza emessa dal Tribunale del riesame che aveva parzialmente accolto l'appello presentato nell'interesse dell'indagato contro il rigetto dell'istanza di dissequestro dei suoi beni, vincolati per equivalente con il sequestro preventivo funzionale a garantire la confisca del profitto generato dai reati a lui contestati. Il gravame si basava sulla violazione di legge. La questione Il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, disciplinato dall'art. 11 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, rappresenta un unicum nel panorama dei reati tributari: si tratta, infatti, di un reato di pericolo concreto, volto a sanzionare condotte che, pur non compromettendo immediatamente l'interesse erariale, appaiono astrattamente idonee a renderne infruttuosa l'azione esecutiva. La sua ratio non è tanto quella di colpire l'evasione in sé, ma di proteggere la garanzia patrimoniale dell'Erario, evitando che il contribuente possa sottrarsi all'obbligo di pagamento mediante artifici o simulazioni (F. MATTEO MAGNELLI, Sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte: con la sentenza “Corona” la Cassazione marca i confini della fattispecie, in Giur. Pen., n. 6, 2020). Con tale delitto si è inteso punire la condotta di chi, destinatario di un accertamento fiscale, compia operazioni fraudolente sui propri od altrui beni nell'ottica di rendere infruttuoso il recupero coattivo delle somme illecitamente sottratte al fisco. Trattandosi di un reato di pericolo concreto, per la configurazione della fattispecie è sufficiente che l'operazione fraudolenta sui beni del debitore fiscale sia idonea a frustrare la procedura di riscossione forzosa, a nulla rilevando né la circostanza che questa sia stata già intrapresa, né che, successivamente, la riscossione abbia effetto o il debito fiscale venga spontaneamente pagato. La condotta fraudolenta risulta penalmente rilevante anche laddove il contribuente abbia fatto ricorso in sede tributaria avverso un atto di accertamento, contestando an e quantum del debito fiscale o abbia avviato procedure conciliative con il Fisco, come ad esempio l'accertamento con adesione, salvo, in ogni caso, un eventuale annullamento dell'avviso di accertamento de della cartella esattoriale, per cui, a ben vedere, il presupposto del reato diverrebbe insussistente (L. GIORDANO, Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte: integra il reato anche il trasferimento all'estero di fondi, in Ius Tributario, 08.05.2020). La condotta è integrata tanto da atti fraudolenti, quanto da alienazioni simulate. L'alienazione può definirsi simulata, ossia finalizzata a creare una situazione giuridica apparente diversa da quella reale, quando il programma contrattuale non corrisponde deliberatamente in tutto (simulazione assoluta) o in parte (simulazione relativa) all'effettiva volontà dei contraenti. La norma incriminatrice richiede, quale presupposto della condotta, un debito tributario complessivamente superiore a 50.000 euro, il reato si perfeziona allorché il debitore non possieda altri beni di importo sufficiente a coprire integralmente le spettanze del Fisco e che quelli sottratti siano pignorabili. Uno dei profili problematici che l'applicazione della norma presenta è rappresentato dalla qualificazione degli atti dispositivi. Tali atti sono oggettivamente idonei ad eludere l'esecuzione esattoriale; essi, però, ove determinano un trasferimento effettivo del bene e, dunque, non siano totalmente o parzialmente simulati, non hanno di per sé natura fraudolenta; possono peraltro presentare tale connotazione nel caso in cui ricorrano elementi di inganno o di artificio, cioè costituiscano parte di uno stratagemma tendente a sottrarre le garanzie patrimoniali all'esecuzione. Non basta dunque, perché sia configurabile il reato, che l'atto costituisca un ostacolo all'azione di recupero del bene da parte dell'Erario, ma è invece necessario il compimento di atti che, nell'essere diretti a questo fine, si caratterizzano per la loro natura simulatoria o fraudolenta (S. DORIGO, I nuovi confini giurisprudenziali del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, in Giur. Pen., n. 9, 2017). Il reato, poi, è configurabile anche nel caso di trasferimento a titolo gratuito di beni immobili o mobili registrati, suscettibili di espropriazione. Sul piano dell'elemento soggettivo, ai fini della integrazione del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, presupposto la sussistenza del dolo specifico di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di interessi o sanzioni amministrative relativi a dette imposte La soluzione giuridica Nell'esaminare il ricorso proposto, la Corte di cassazione afferma che il profitto del reato di cui all'art. 11 d.lgs. 74/2000 è rappresentato dal valore dei beni sottratti fraudolentemente alla garanzia dei crediti della Amministrazione finanziaria per le imposte evase e non già dal debito tributario rimasto inadempiuto. Inoltre, in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca prevista dall'art. 322-ter c.p., costituisce profitto del reato anche il bene immobile acquistato con somme di danaro illecitamente conseguite, quando l'impiego del denaro sia causalmente collegabile al reato e sia soggettivamente attribuibile all'autore di quest'ultimo. In merito poi alle condotte di autoriciclaggio la Corte ha affermato che: «Il profitto del reato di autoriciclaggio (come anche quello dei reati di riciclaggio e reimpiego) deve essere individuato nell'intero valore dei beni oggetto di condotte dissimulatorie, e non solo nell'ipotetico quid pluris derivante dalla condotta che integra il reato derivato. Tuttavia non è legittimo, duplicare il vincolo, ovvero apprendere lo stesso valore sia come profitto diretto del reato presupposto che come prodotto del reato derivato». Osservazioni Mediante la decisione oggetto del presente commento la Suprema corte ha fatto buon governo e corretta applicazione dei principi dettati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di individuazione del profitto del reato di cui all'art. 11 d.lgs. 74/2000. È stato ormai superato l'orientamento che, in tema di autoriciclaggio, affermava che il prodotto, il profitto o il prezzo del reato non coincidono con il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dal reato presupposto, consistendo invece nei proventi conseguiti dall'impiego di questi ultimi in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative. A ben vedere infatti il profitto dei reati di riciclaggio e reimpiego di denaro è costituito dal valore delle somme oggetto delle operazioni dirette a ostacolare l'identificazione della loro provenienza delittuosa, posto che, in assenza di tali operazioni, esse sarebbero destinate a essere sottratte definitivamente, essendo provento del delitto presupposto. Il denaro, i beni o le altre utilità trasferite, ovvero manipolate in modo da ostacolare l'identificazione della provenienza delittuosa, si prestano ad essere qualificate, comunque, come prodotto del reato, rappresentando il risultato empirico dell'attività illecita in cui si sostanzia la fattispecie, in quanto tale assoggettabile a vincolo ex art. 648-quater, comma 1 e 2, c.p.. |