Il servizio di reperibilità con permanenza presso la struttura rientra nella nozione di orario di lavoro e dà diritto ad una remunerazione adeguata

16 Giugno 2025

Con l’ordinanza n. 10648/2025, la Corte di cassazione ritorna sul tema della qualificazione dei c.d. tempi grigi. Attingendo dalla ormai consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’UE, il Collegio afferma che il turno di reperibilità con obbligo di pernottamento presso il luogo di lavoro deve essere qualificato come orario di lavoro anche quando non è svolto concretamente alcun intervento di assistenza. Sulla base di tale premessa ritiene che spetti al lavoratore una retribuzione determinata alla luce dei principi di proporzionalità e sufficienza fissati dall'art. 36 Cost., giudicando inadeguata l'indennità fissata dal contratto collettivo applicato nel caso di specie al rapporto di lavoro.

Massima

Alla luce della dicotomica visione del tempo accolta dalla direttiva 2003/88/Ce e dell'interpretazione che ne ha offerto la Corte di Giustizia dell'UE, i periodi di reperibilità con obbligo di pernottamento sul luogo di lavoro si devono qualificare come “orario di lavoro” anche se non comportano l'effettivo svolgimento di interventi di assistenza. In tali casi il lavoratore ha diritto ad una retribuzione adeguata, determinata nel rispetto dei criteri di proporzionalità e sufficienza fissati dall'art. 36, comma 1, Cost.

Il caso

Un lavoratore, adibito a mansioni di educatore (e inquadrato nel 5° livello del CCNL Cooperative sociali), adiva il Tribunale di Agrigento per rivendicare il diritto a ricevere il compenso per lavoro straordinario e notturno a fronte dello svolgimento di servizi di reperibilità eseguiti per due notti a settimana, immediatamente dopo la fine del proprio turno di lavoro, per un totale di 48 ore di lavoro settimanali. Il giudice di prime cure accoglieva il ricorso, ma la sentenza veniva riformata dalla Corte d’Appello di Palermo. Invero, a parere del giudice di secondo grado, nel caso di specie non avrebbe dovuto trovare applicazione l’art. 53 del CCNL sul lavoro straordinario, ma l’art. 57, che regolava l’istituto della reperibilità con pernottamento. Il dipendente proponeva dunque ricorso per cassazione, formulando otto motivi di gravame.

La questione

La Corte di cassazione è stata chiamata a pronunciarsi sull’inquadramento – in termini di orario di lavoro o di riposo – delle ore svolte in regime di reperibilità con obbligo del dipendente di pernottare presso il luogo di lavoro. Dopo aver stabilito che questi periodi temporali rientrano nel concetto di “orario di lavoro”, i giudici si sono interrogati sul relativo trattamento economico spettante al lavoratore, prendendo espressa posizione sulle previsioni della contrattazione collettiva sul punto.

Le soluzioni giuridiche

L'ordinanza in commento si sofferma sulla qualificazione dei c.d. tempi grigi (e, nello specifico, del servizio di reperibilità) che attiene alla necessità di inquadrare giuridicamente quelle porzioni temporali che, per le loro caratteristiche, tendono a sfuggire alla logica binaria accolta dal legislatore europeo e, a cascata, da quello nazionale (come è noto, il d.lgs. n. 66/2003 è stato adottato per recepire nel nostro ordinamento la disciplina contenuta nelle direttive 93/104/CE e 2000/34/Ce, poi sostituite dalla direttiva di consolidamento 2003/88/Ce). Invero, in base alla disciplina eurounitaria, il tempo del lavoratore è suddiviso in due aree, l'orario di lavoro e il riposo. Soltanto dell'orario è offerta però una nozione “in positivo”, dovendosi ricondurre all'interno di tale perimetro tutti quei periodi in cui il lavoratore è «al lavoro, a disposizione del datore e nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni» (art. 2, n. 1. Direttiva 2003/88/Ce, riprodotto nell'art. 1, comma 2, lett. a), d.lgs. n. 66/2003). Lo spazio occupato dal riposo, invece, si ricava per sottrazione, includendo tutti i segmenti temporali non riconducibili all'orario di lavoro (art. 2, n. 2, direttiva 2003/88/Ce, testualmente riportato nell'art. 1, comma 2, lett. b), d.lgs. n. 66/2003). In un simile contesto normativo, che non ammette la configurabilità categorie intermedie (così, ex multis, Corte di Giustizia 3 ottobre 2000, Simap, C-303/98, punto 47; Corte di Giustizia, ordinanza, 11 gennaio 2007, Vorel, C-437/05, punto 25; Corte di Giustizia 1° dicembre 2005, Dellas, C-14/04, punto 43; Corte di Giustizia 10 settembre 2015, Federacion de Servicios Privados del sindicato Comisiones obreras, C-266/14, punto 25; Corte di Giustizia 21 febbraio 2018, Matzak, C-518/15, punto 55; Corte di Giustizia 9 marzo 2021, C-344/2019, Radiotelevizija Slovenija, punto 29), è stata determinante l'attività esegetica della Corte di Giustizia che, forzando il dato letterale, ha gradualmente allargato le maglie della nozione di orario, offrendo una lettura flessibile degli elementi costitutivi individuati dal legislatore. L'attenzione si è principalmente concentrata sui “tempi di attesa” e, più precisamente, sul c.d. servizio di guardia, che impone al lavoratore di rimanere a disposizione del datore di lavoro e pronto ad intervenire qualora risulti necessario (ma si veda Corte di Giustizia10 settembre 2015, Federación de Servicios Privados del sindicato Comisiones obreras, C-266/14, sui tempi di spostamento nonché le due sentenze – che giungono, peraltro, a conclusioni difformi – sul tempo dedicato alla formazione: Corte di Giustizia 9 luglio 2015, Commissione europea c. Irlanda, C-87/14 e Corte di Giustizia 28 ottobre 2021, BX, C-909/19). Con la prima pronuncia sul tema (Corte di Giustizia, Simap, cit.), la Corte di Lussemburgo ha fornito un'interpretazione elastica del terzo requisito sopra richiamato, ritenendo integrata la definizione di orario di lavoro in relazione al servizio di guardia con obbligo di permanenza sul luogo di lavoro anche quando, concretamente, il prestatore non è chiamato a svolgere alcuna attività lavorativa. In proposito si è precisato che «anche se l'attività effettivamente svolta varia secondo le circostanze, l'obbligo imposto a tali medici di essere presenti e disponibili sul luogo di lavoro per prestare la loro opera professionale de-v'essere considerato rientrante nell'esercizio delle loro funzioni» (Corte di Giustizia, Simap, cit., punto 48). Sviluppando ulteriormente tale ragionamento, non si è ritenuta ostativa neppure la circostanza che al lavoratore fosse concesso riposare durante l'attesa, dovendosi qualificare anche quel tempo come orario di lavoro (Corte di Giustizia del 9 settembre 2003, Jaeger, C-151/02). Nella prospettiva accolta dai giudici – è bene chiarire – assume un peso dirimente il dato spaziale: in ambedue i casi da ultimo menzionati il servizio di guardia imponeva la permanenza sul luogo di lavoro. Tant'è che, il servizio di guardia restava ancora estraneo al concetto di orario di lavoro se svolto in regime di reperibilità, ossia quando il lavoratore rimane in attesa della chiamata in un luogo diverso da quello dell'intervento (pur dovendo essere pronto a raggiungerlo tempestivamente ove contattato). Si è osservato infatti che, rispetto all'ipotesi della reperibilità, il lavoratore che effettua un servizio di guardia con permanenza sul luogo di lavoro è assoggettato ad «obblighi decisamente più onerosi, perché deve restare lontano dal suo ambiente familiare e sociale e beneficiando di una minore libertà di gestire il tempo in cui non è richiesta la sua attività professionale» (Corte di Giustizia, Jaeger, cit., punto 65). Proprio il criterio della piena e libera disponibilità del proprio tempo da parte del lavoratore verrà invocato, dopo diversi anni, dalla stessa Corte di Giustizia per operare un ulteriore ampliamento della nozione di orario di lavoro. Invero, alla luce di un indirizzo ormai consolidato, anche il servizio di guardia effettuato in regime di reperibilità deve essere ricondotto nel perimetro dell'orario di lavoro se ricorrono determinate condizioni e, segnatamente, quando l'intensità dei vincoli imposti al dipendente è tale da compromettere significativamente la libera gestione e programmabilità del proprio tempo libero (il cambio di prospettiva è stato inaugurato con la sentenza del 21 febbraio 2018, Matzak, C-518/15, ma il ragionamento si è perfezionato con le sentenze del 9 marzo 2021, Stadt Offenbach am Main, C-580/2019 e Radiotelevizija Slovenija, C-344/2019. In dottrina, sulla qualificazione dei tempi c.d. grigi, cfr. V. Bavaro, Il tempo nel contratto di lavoro subordinato: critica sulla de-oggettivazione del tempo-lavoro, Cacucci, 2008; P. Ichino, L. Valente, Artt. 2107-2109: l'orario di lavoro e i riposi, in Commentario Schlesinger, II ed., Giuffrè, 2012; A. Occhino, Il tempo libero nel diritto del lavoro, Giappichelli, 2010; G. Ricci, Tempi di lavoro e tempi sociali. Profili di regolazione giuridica nel diritto interno e dell'UE, Giuffrè, 2005; G. Calvellini, La funzione del part-time: tempi della persona e vincoli di sistema, Edizioni Scientifiche Italiane, 2020. Un rinvio sia consentito anche a L. Monterossi, I “tempi grigi” nel lavoro che cambia, Giappichelli, 2024). È sulla base del quadro giurisprudenziale sinteticamente descritto che la Corte di cassazione giunge, nella fattispecie concreta in commento, a qualificare come orario di lavoro il servizio di reperibilità notturna con obbligo di permanenza presso la struttura. In particolare, dopo aver richiamato i principali arresti sul tema, la Suprema Corte evidenzia che anche il turno di reperibilità, a certe condizioni, deve essere incluso nell'orario di lavoro. La medesima conclusione, a fortiori, è valida «se il lavoratore è obbligato alla presenza fisica sul luogo indicato dal datore, manifestando una sostanziale disponibilità nei confronti di quest'ultimo, al fine di intervenire immediatamente in caso di necessità». Del resto, i principi elaborati dalla Corte di Giustizia in materia di orario di lavoro sono stati da anni pacificamente recepiti dalla giurisprudenza nazionale che, a ben vedere, ancor prima dell'intervento di quella eurounitaria, si era dovuta misurare con la problematica questione della classificazione di quelle aree temporali che si ponevano nella zona d'ombra tra orario di lavoro e riposo (si veda, tra l'altro, la copiosa giurisprudenza sul c.d. tempo-tuta o sui tempi di spostamento: di recente, su ambedue le ipotesi, Cass. 31 maggio 2024, n. 15332, in DeJure.it). Con specifico riferimento all'obbligo di reperibilità, la giurisprudenza si è soffermata sulla distinzione tra “reperibilità attiva” e “reperibilità passiva”. In ambedue le ipotesi il lavoratore è a disposizione del datore di lavoro, ma nel primo caso, a differenza di quanto si riscontra nel secondo, il tempo di attesa si “converte” in orario di lavoro perché il lavoratore riceve la chiamata e, dunque, rende effettivamente la prestazione di lavoro. Si è quindi, in più occasioni, affermato che la c.d. reperibilità passiva «non può essere equiparata alla prestazione di lavoro, risolvendosi, invece, in una obbligazione strumentale ed accessoria, qualitativamente diversa da quella lavorativa, che, pur comportando una limitazione della sfera individuale del lavoratore, non impedisce il recupero delle energie psicofisiche. Proprio detta ontologica diversità fra prestazione lavorativa e obbligo di reperibilità giustifica la previsione di un riposo compensativo “senza riduzione del debito orario settimanale”, ossia di una giornata di riposo la cui fruizione lascia globalmente immutata l'ordinaria prestazione oraria settimanale e, quindi, impone una variazione in aumento della durata dell'attività lavorativa da prestare negli altri giorni della settimana (…) La Corte, invece, per ciò che concerne la reperibilità attiva, ha rilevato che la previsione di un compenso maggiorato per l'attività prestata in giorno festivo (o in alternativa, su richiesta del dipendente, il permesso compensativo) non incide, neppure indirettamente, sulla disciplina della durata complessiva settimanale dell'attività lavorativa e sul diritto del dipendente alla fruizione del necessario riposo, che dovrà essere garantito dalla azienda, a prescindere da una richiesta, trattandosi di diritto indisponibile, riconosciuto dalla Carta costituzionale oltre che dall'art. 5 della direttiva 2003/88/CE» (così di recente Trib. Bari, 19 settembre 2024, in Dejure.it, che riprende l'indirizzo espresso da diverse pronunce della Corte di cassazione, ivi richiamate. In senso analogo anche Cass. 24 marzo 2023, n. 8508, in Dejure.it). Si deve tuttavia precisare che l'indirizzo sopra riportato si è formato essenzialmente attorno al c.d. obbligo di pronta disponibilità regolato dal contratto collettivo del comparto sanità, che impone al lavoratore di restare a disposizione in un luogo diverso dal posto di lavoro (e si affianca infatti al servizio di guardia che implica la permanenza presso la struttura sanitaria). Al contrario, nella fattispecie analizzata nell'ordinanza n. Cass. 10648/2025, il lavoratore, come già anticipato, è costretto ad osservare turni di guardia con obbligo di permanenza presso la struttura. Non stupisce, dunque, la decisione di collocare quel segmento temporale nell'area dell'orario di lavoro, secondo un percorso argomentativo del tutto coerente con i criteri elaborati dalla Corte di Giustizia. Particolarmente degno di menzione è l'ulteriore passaggio sviluppato dalla Suprema Corte sulla inadeguatezza dell'indennità mensile fissata dalla contrattazione collettiva. L'art. 57 del CCNL – secondo la formulazione applicabile ratione temporis al caso di specie (e modificata all'esito dell'accordo di rinnovo del 5 marzo 2024) – stabiliva che, a fronte dell'osservanza di un servizio di reperibilità con obbligo di residenza nella struttura, al lavoratore spettava, oltre alla normale retribuzione, un'indennità fissa mensile lorda di 77,47 euro. Ebbene, il Collegio, da un lato, ricorda che, alla luce della giurisprudenza eurounitaria (cfr. Corte di Giustizia Stadt Offenbach am Main, cit., punto 57 e Radiotelevizija Slovenija, cit., punto 58), ai fini della retribuzione del servizio di guardia, la legislazione nazionale, il contratto collettivo o il datore di lavoro possono considerare in modo differente i periodi in cui è stata svolta regolarmente la prestazione e quelli in cui non è effettuata alcuna attività effettiva, anche quando questi periodi sono da qualificarsi, nella loro integralità, in termini di orario di lavoro. Sulla base di tali premesse, già condivise in altri precedenti arresti (cfr. Cass. 22 novembre 2023, n. 32418, in Dejure.it, nella quale ci si limita, però, a ribadire che non è necessario remunerare il servizio di guardia come lavoro straordinario, senza invece esprimersi sulla congruità della indennità di pernottamento riconosciuta, in quel caso, al lavoratore), la Suprema Corte giunge a giudicare il trattamento indennitario fissato dal contratto collettivo non conforme ai canoni di proporzionalità e sufficienza sanciti dal primo comma dell'art. 36 della Costituzione, rimettendo nuovamente la questione al giudice di secondo grado. Nello specifico, si osserva che, se, da una parte, la dicotomia tra orario di lavoro e riposo non implica necessariamente che il turno di reperibilità notturno dia diritto al compenso per lavoro straordinario notturno, dall'altra «non giustifica la sua mancata considerazione ai fini retributivi (o quantomeno adeguatamente indennitari)». In altri termini, esercitando il potere riconosciuto al giudice di sindacare la rispondenza del trattamento retributivo ai contenuti precettivi contenuti nell'art. 36, comma 1, Cost. (si vedano in questo senso i precedenti arresti della Corte di cassazione, espressamente richiamati nell'ordinanza in commento, nn. Cass. 27711/2023, Cass. 27713/2023, Cass. 27769/2023, Cass. n. 28320/2023, Cass. n. 28321/2023, Cass. n. 28323/2023, in cui il giudice di legittimità si è discostato dalle previsioni, in tema di retribuzione, contenute nel CCNL vigilanza privata e servizi fiduciari stipulato dalle associazioni comparativamente più rappresentative dal lato datoriale e sindacale) si ritiene errata la decisione della Corte di appello, laddove ha ricondotto la fattispecie concreta nella previsione di cui all'art. 57 del CCNL, senza valutare la disapplicazione di tale norma sulla base dell'entità del compenso ivi previsto, che deve rispettare il «principio di retribuzione proporzionata e dignitosa, secondo una interpretazione costituzionalmente orientata della normativa» (nello stesso senso anche Cass., ordinanze, n. 10651/2025 e Cass. 10653/2025, in DeJure.it).

Osservazioni

La pronuncia in esame si inserisce nel solco di un orientamento giurisprudenziale che accoglie una nozione ampia di “orario di lavoro”, che trascende il mero dato letterale, e mira a rafforzare la tutela del tempo libero, in linea con il crescente bisogno dei lavoratori di garantirsi il “tempo per sé” (C. Cester, Lavoro e tempo libero nell’esperienza giuridica, in Quad. Dir. Lav. Rel. Ind., 1995, 17, 9, p. 22, il quale parla di «tempo per sé e basta»; sul tema cfr. anche R. De Luca Tamajo, Il tempo nel rapporto di lavoro, in Giorn. Dir. Rel. Ind., 1986, 31, pp. 433 ss.). Nell’ordinanza n. 10648/2025, però, la dimensione temporale è messa direttamente in correlazione con la garanzia di una retribuzione dignitosa, coerente con i principi di proporzionalità e sufficienza, al fine di realizzare una piena protezione della persona che lavora. Non basta, dunque, classificare come orario di lavoro ogni lasso temporale in cui il lavoratore è a disposizione del datore e subisce una significativa limitazione nella gestione e pianificazione del proprio tempo libero. A tale qualificazione deve corrispondere altresì un trattamento economico adeguato, la cui conformità deve essere verificata dal giudice alla stregua dei criteri fissati dall’art. 36, comma 1, Cost.

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