La risoluzione consensuale del rapporto di lavoro: condizione sospensiva e formalismo nella tutela del lavoratore
23 Giugno 2025
Massima In materia di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, l’art. 4 commi 17-22 l. 92/2012 prevede una condizione sospensiva di efficacia dell’accordo estintivo concluso (espressamente o per facta concludentia) tra le parti, con la conseguenza che la mancata osservanza delle modalità di conferma ivi descritte pone il rapporto di lavoro in uno stato di quiescenza. Il caso Una lavoratrice ha proposto ricorso per accertare la prosecuzione del rapporto di lavoro con una prima società quale giornalista della carta stampata anche dopo la data in cui aveva iniziato a lavorare per un altro datore di lavoro, quale giornalista televisiva, sostenendo che il rapporto precedente non fosse stato validamente risolto. La Corte d'Appello di Venezia, confermando la sentenza del Tribunale di Verona, ha respinto la domanda della lavoratrice. Il giudice di secondo grado ha ritenuto che vi fossero molteplici elementi probatori dai quali risultava che le parti avevano risolto consensualmente, per facta concludentia, il rapporto di lavoro, considerando i seguenti elementi probatori: • L'avvio di una nuova attività lavorativa da parte della lavoratrice presso altro datore di lavoro a partire dal 7 luglio 2015. • La comunicazione all'INPGI dell'instaurazione del nuovo rapporto. • La successiva istanza all'INPS per la concessione di permessi ex Legge n. 104/1992 con il nuovo datore. • La mancata richiesta di prosecuzione del rapporto originario e il disinteresse della lavoratrice alla prosecuzione dello stesso. • La constatazione che i due rapporti di lavoro non si erano sovrapposti e che la risoluzione per facta concludentia non era stata impedita dall'art. 4, comma 22, Legge n. 92/2012. La Corte d'Appello ha, dunque, escluso la sovrapposizione tra i due rapporti di lavoro, ritenendo che quello con il primo datore si fosse concluso prima dell'inizio del nuovo impiego e che quindi i due rapporti di lavoro si fossero avvicendati, rilevando che l'inefficacia per carenza di forma del recesso sarebbe circoscritta alla sola fattispecie delle dimissioni. Con ciò il giudice di secondo grado ha escluso la necessità della forma scritta per la risoluzione consensuale. La lavoratrice ha proposto ricorso in Cassazione, denunciando, tra l'altro, la violazione dell'art. 4, commi 17-22, Legge n. 92/2012, sostenendo che la risoluzione consensuale avrebbe dovuto essere sospensivamente condizionata alla procedura di convalida ivi prevista, a pena di inefficacia. La questione La questione principale sottoposta alla Corte di Cassazione riguarda l'interpretazione e l'applicazione della disciplina della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, in particolare se la volontà delle parti manifestata per facta concludentia sia sufficiente per la cessazione del rapporto, o se le forme e procedure introdotte per garantire l'autenticità del consenso del lavoratore, in particolare l'art. 4, commi 17-22, Legge n. 92/2012, costituiscano una condizione di efficacia tale da rendere inoperante l'accordo in loro assenza. Si tratta, in sostanza, di definire il rapporto tra il principio di libertà delle forme (per il perfezionamento) e i vincoli formali (per l'efficacia) nella risoluzione consensuale. Le soluzioni giuridiche È anzitutto utile ricordare la disciplina di cui all'art., co. 17-22 della l. 92/2012: norme introdotte con la c.d. riforma Fornero, la cui disciplina prevede la sospensione dell'efficacia dell'accordo di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro fino alla sua “convalida presso la Direzione territoriale del lavoro o il Centro per l'impiego territorialmente competenti, ovvero presso le sedi individuate dai contratti collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale” (Cfr. art. 4, comma 17, l. 92/2012). Oppure, in alternativa, attraverso la “sottoscrizione di apposita dichiarazione della lavoratrice o del lavoratore apposta in calce alla ricevuta di trasmissione della comunicazione di cessazione del rapporto di lavoro di cui all'articolo 21 della legge 29 aprile 1949, n. 264, e successive modificazioni” (Cfr. art. 4, comma 18, l. 92/2012 cit.). Per inciso, si precisa che le disposizioni citate sono state abrogate dall'art. 26, comma 8, d.lgs. 14 settembre 2015, n. 151, a decorrere dal 12 marzo 2016. La normativa attuale prevede che le dimissioni e le risoluzioni consensuali siano rese, a pena di inefficacia, esclusivamente con modalità telematiche su appositi moduli forniti dal Ministero del Lavoro. I moduli devono essere trasmessi al datore di lavoro e all'Ispettorato territoriale del lavoro competente (d.lgs. n. 151/2015, art. 26). La ratio della norma è di accertare la effettiva e genuina volontà del lavoratore a risolvere il rapporto di lavoro, arginando eventuali abusi e pressioni del datore di lavoro. All'atto pratico, la risoluzione consensuale deve quindi essere trasmessa telematicamente dal lavoratore (anche tramite intermediari) mediante il dedicato canale telematico predisposto dal Ministero del lavoro. Si tratta dunque di un procedimento ulteriore e successivo alla stipulazione dell'eventuale accordo di risoluzione consensuale: l'adempimento è infatti causa sospensiva dell'efficacia e non elemento di validità dell'accordo alla sua radice. Infatti, l'art. 1372 c.c. stabilisce l'importanza del mutuo consenso per lo scioglimento del contratto, senza prescrivere una specifica forma: pertanto, come anche più volte deciso dalla Cassazione (ex multis e su tutte: Cass. S.U. n. 21691/2006), il mutuo consenso circa lo scioglimento del rapporto di lavoro può essere desumibile da comportamenti concludenti – salva espressa forma scritta ad substantiam. Come ha poi ulteriormente precisato la Cassazione nella sentenza in commento: «il principio generale di libertà di forma degli atti negoziali previsto dall'art. 1325, primo comma, n. 4 c.c. (secondo cui la forma è requisito essenziale dell'atto soltanto quando la legge lo richieda a pena di nullità) consente, invero, ai privati di usare i mezzi che essi ritengano congrui allo scopo di rendere manifesto il loro comportamento (entro il limite di adeguatezza del mezzo prescelto al fine da raggiungere)» (cit. C. Cass. 2146/2025). La questione giuridica, pertanto, non verte sull'invalidità formale del recesso consensuale, ma sulla sua efficacia. È essenziale – a costo di risultare pedanti – rimarcare che validità ed efficacia sono due concetti giuridici ben distinti. Infatti, la validità sostanziale e formale comporta il perfezionamento del negozio giuridico; al perfezionamento segue l'efficacia, ossia il potere di creare effetti giuridici. Orbene, normalmente l'atto perfezionato è consequenzialmente efficace, salvo la presenza di condizioni sospensive dell'efficacia. È proprio questo il corretto inquadramento giuridico della fattispecie. Infatti, il citato art. 4, commi 17 – 22 l. 92/2012 non ha introdotto una forma per la validità del recesso consensuale, ma per la sua efficacia: «in particolare il legislatore ha espressamente previsto che l'efficacia delle dimissioni della lavoratrice o del lavoratore e della risoluzione consensuale del rapporto sia sospensivamente condizionata alla sottoscrizione di apposita dichiarazione in calce alla comunicazione di cessazione del rapporto di lavoro del datore di lavoro […]. [I]l chiaro tenore dei commi precedenti [dal 17 al 22 n.d.r.] consente di ritenere che la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro (conclusa dalle parti in modo espresso o per facta concludentia) che sia priva dei momenti di conferma descritti dalla disposizione normativa determina una inefficacia provvisoria che sospende gli effetti propri del contratto estintivo.». Appare utile soffermarsi, infine, sul ruolo e i limiti della prova presuntiva. La prova della volontà concorde delle parti di sciogliere il rapporto può essere fornita anche mediante presunzioni semplici. Tuttavia, la valutazione di tali elementi indiziari deve essere globale, non parcellizzata, e il ragionamento presuntivo deve essere logicamente motivato. Nonostante la prova presuntiva possa attestare il perfezionamento dell'accordo, essa non può supplire al difetto della forma richiesta per l'efficacia. Il sindacato della Cassazione sull'accertamento del giudice di merito è limitato ai vizi logici e giuridici della motivazione. Pertanto, nel caso specifico, la Cassazione ha riconosciuto che la risoluzione consensuale, pur potendo essere perfezionata per facta concludentia, restava sospesa nella sua efficacia a causa della mancata conferma formale richiesta dalla normativa. Osservazioni Ben ragiona la Corte di cassazione sul piano di puro diritto e giustamente rileva la natura di causa sospensiva dell'efficacia della procedura telematica prevista da legge. L'occasione induce tuttavia ad alcune riflessioni sulla natura e reale efficacia di tale previsione di legge. Come visto la ratio della procedura telematica è quella di assicurare la genuinità e consapevolezza del consenso del lavoratore nella cessazione del rapporto, prevenendo fenomeni di dimissioni o risoluzioni indotte con pressioni o raggiri da parte del datore di lavoro. La procedura garantisce che la scelta di lasciare il lavoro sia libera e volontaria, con la possibilità di avvalersi anche di soggetti terzi abilitati per la trasmissione dei moduli. Tuttavia, il rischio è che tale procedura resti di fatto una tutela di carta pesta aggiungendo solo puro formalismo. Infatti, la trasmissione telematica non implica automaticamente una verifica sostanziale della libertà e consapevolezza del lavoratore da parte del ministero: un lavoratore ben potrebbe essere indotto da circostanze sfavorevoli senza che il sistema telematico possa realmente rilevare tali condizionamenti. Infatti, diversamente dalle sedi protette, la procedura telematica non prevede un colloquio con soggetti terzi imparziali (come ispettori del lavoro o rappresentanti sindacali) che possano meglio verificare la situazione. Minor valore ha l'osservazione, talvolta sollevata, che non tutti i lavoratori hanno dimestichezza con gli strumenti informatici o accesso a internet e che quindi la delega a intermediari, possa ridurre la percezione di controllo e consapevolezza dell'atto. Infatti, è onere dell'intermediario informare adeguatamente il lavoratore. È pur vero, d'altro canto, che l'intermediario sovente si limita a eseguire l'adempimento burocratico, senza necessariamente garantire adeguata informazione o verifica della reale volontà del lavoratore (sebbene non sia quest'ultimo un precipuo compito dell'intermediario). Tanto rilevato, la procedura introdotta dalla legge Fornero non fa altro che tradurre l'intento di tutela del lavoratore in un mero e meccanico adempimento burocratico, aumentando magari il contenzioso ma non per i motivi corretti: mancata pedissequa adesione al formalismo burocratico piuttosto che reale difesa del lavoratore a fronte di situazioni ingiuste. Il tema delle dimissioni non dichiarative è stato affrontato anche dalla giurisprudenza di merito. Merita conto segnalare un'interessante sentenza del Tribunale di Udine (Trib. Udine, sent. 27 maggio 2022, n. 20) la quale era incentrata anch'essa - come fulcro della discussione - sulla risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso o fatti concludenti in caso di assenza prolungata e ingiustificata del lavoratore. L'art. 26 (dimissioni telematiche) del d.lgs. n. 151/2015 era già in vigore. Nel caso specifico, la ricorrente si era assentata volontariamente dal lavoro per oltre sei mesi senza giustificazioni e senza rispondere alle comunicazioni del datore di lavoro. Il giudice aveva dovuto valutare se il comportamento della lavoratrice denotasse una chiara volontà di porre fine al rapporto di lavoro. Il semplice decorso del tempo, di per sé, non è sufficiente. Occorrono ulteriori circostanze fattuali che, nel loro complesso, indichino inequivocabilmente la volontà del lavoratore di risolvere il rapporto. Nel caso esaminato, il datore di lavoro aveva inviato due lettere alla lavoratrice: la prima contestava l'assenza ingiustificata, la seconda ribadiva l'assenza e considerava il rapporto "risolto in via di fatto", invitando la lavoratrice a presentare le dimissioni telematiche. Inoltre, la lavoratrice, durante un interrogatorio libero, ha espresso disinteresse per la ripresa dell'attività ("non mi interessava più nulla", "facessero quello che volevano"), confermando la sua intenzione di non tornare al lavoro. Anche il datore di lavoro ha mostrato disinteresse alla prosecuzione del rapporto, non versando più la retribuzione e, a distanza di tempo, invitando la lavoratrice a dimettersi. Questi elementi combinati hanno portato il giudice a ritenere che la lavoratrice avesse voluto porre fine al rapporto di lavoro. Il giudice ripercorreva la normativa in materia di dimissioni, richiamando gli artt. 2118 e 2119 del codice civile sulla libera recedibilità del lavoratore, la Legge n. 188/2007 che ha introdotto l'obbligo della forma scritta a pena di nullità, e la Legge n. 92/2012 che ha apportato correttivi per le assenze prolungate. Infine, il d.lgs. n. 151/2015, art. 26, ha stabilito che le dimissioni e la risoluzione consensuale devono essere effettuate con modalità esclusivamente telematiche a pena di inefficacia. Tuttavia, il Tribunale di Udine aveva interpretato la procedura formale in modo non univoco, ritenendo che essa non precludesse altre modalità estintive del rapporto di lavoro. L'applicazione dell'art. 26 del d.lgs. 151/2015 viene ristretta ai casi in cui la volontà del lavoratore si manifesta in modo istantaneo, con l'obiettivo di prevenire abusi come le "dimissioni in bianco". Ne rimangono esclusi i casi in cui la volontà risolutiva si è sostanziata in un contegno protrattosi nel tempo e palesatosi in una serie di comportamenti, anche omissivi, idonei ad assicurare la genuinità della volontà del lavoratore. Infine, va evidenziato che recentemente il Legislatore ha introdotto la disciplina delle dimissioni per fatti concludenti con l'articolo 19 della Legge 13 dicembre 2024 n. 203, che ha aggiunto il comma 7-bis all'articolo 26 del d.lgs. 151/2015. Le dimissioni per fatti concludenti, disciplinate dalla recente normativa entrata in vigore dal 12 gennaio 2025, rappresentano una procedura automatica di risoluzione del rapporto di lavoro subordinato quando un lavoratore si assenti ingiustificatamente dal lavoro per oltre 15 giorni di calendario (o un termine superiore previsto dal CCNL applicato), senza attivare la procedura telematica di dimissioni. Il datore di lavoro può, in tale caso, considerare il lavoratore dimissionario, attivando una procedura di comunicazione e verifica con l'Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL). Questa disciplina, pur offrendo strumenti per tutelare l'organizzazione aziendale e garantire la certezza dei rapporti, presenta numerose criticità applicative e rischi sia per il lavoratore che per il datore di lavoro. Come spesso accade, anche la nuova normativa presenta delle criticità interpretative: a) Ambiguità nella definizione dei termini e nella decorrenza Il termine di 15 giorni di assenza ingiustificata rappresenta un limite minimo inderogabile, ma la sua applicazione può generare incertezze in presenza di diversi CCNL o di situazioni di fatto non chiare. b) Possibili abusi, fraintendimenti e oneri probatori Il meccanismo può essere soggetto ad abusi da parte del datore di lavoro che, in presenza di assenze non tempestivamente giustificate o per difficoltà di comunicazione, può attivare la procedura senza un reale intento dimissionario da parte del lavoratore. c) Complessità e lunghezza della verifica INL L'INL ha 30 giorni dalla comunicazione per verificare la veridicità dell'assenza; in caso di ritardi, incertezza o mancata risposta, si rischia di lasciare le parti in una situazione di sospensione, con effetti negativi sia sull'organizzazione aziendale che sulle prospettive del lavoratore. d) Garanzie procedurali e possibilità di ricostituzione del rapporto La procedura prevede garanzie per il lavoratore in caso di forza maggiore o impossibilità di comunicazione, con la possibilità di ricostituzione del rapporto e inefficacia della risoluzione, ma la prova di tali situazioni ricade interamente sul lavoratore. e) Il limite legale di 15 giorni di assenza ingiustificata dovrebbe avere natura residuale e operare solo in mancanza di previsioni nel CCNL, ma possono sorgere conflitti interpretativi. f) Se il CCNL prevede un termine inferiore a 15 giorni, si applica comunque il termine legale, creando potenziali discrepanze tra quanto previsto contrattualmente e quanto stabilito dalla legge (Contra, Tribunale Trento Sezione L Civile Sentenza 5 giugno 2025 n. 87, ove, in un obiter dictum, afferma che “in ordine ai presupposti di applicazione dell'art. 19 l. 203/2024 assumerebbe una tale connotazione, qualora, si ritenesse, come fa la società convenuta, che condotte di assenza ingiustificata tenute in data anteriore alla sua entrata in vigore e, quindi, aventi a quell'epoca soltanto valenza disciplinare, rilevino al fine di perfezionare la fattispecie (assenza ingiustificata oltre il termine previsto dal CCNL o, in mancanza, superiore a 15 giorni) a cui quella norma attribuisce, quale proprio effetto giuridico, la portata di dimissioni per facta concludentia in via presuntiva relativa ex lege”. |