Questioni varie in tema di equa riparazione per il mancato rispetto del “termine ragionevole” di durata del processo

28 Luglio 2025

La legge n. 89 del 24 marzo 2001, denominata comunemente legge "Pinto", ha previsto il diritto all'equa riparazione per il mancato rispetto del “termine ragionevole” di durata del processo.

L'organo competente a decidere sulle domande di equo indennizzo per l'eccessiva lungaggine dei processi è la Corte d'appello.

La valutazione del "termine ragionevole" di durata del procedimento, nonché la quantificazione del danno subito spettano all'autorità giudiziaria adita.

L'articolo 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata con la legge 4 agosto 1955 n. 848, stabilisce, tra l'altro, che ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole.

In Italia, la legge costituzionale 23 novembre 1999 n. 2 ha introdotto il secondo comma dell'articolo 111 della Costituzione che prevede il principio del giusto processo, in base al quale ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parità e, in particolare, la legge ne assicura la ragionevole durata.

Il Governo italiano, per porre rimedio al problema dell'eccessiva durata del processo, oltre ad introdurre riforme volte ad accelerare i tempi processuali, ha previsto con la legge n. 89/2001 (c.d. Legge Pinto) un ricorso nazionale per l'accertamento della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo e per la quantificazione del relativo indennizzo, con la finalità di deflazionare il contenzioso innanzi alla Corte di Strasburgo.

Secondo la disciplina fissata dalla legge n. 89/2001, successivamente novellata dal decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla l. 7 agosto 2012, n. 134, e dalla legge 28 dicembre 2015n. 208 (legge di stabilità 2016), la competenza a decidere sui ricorsi in materia di equo indennizzo per chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per il mancato rispetto della ragionevole durata del processo, spetta alla Corte di appello del distretto in cui ha sede il giudice innanzi al quale si è svolto il primo grado del giudizio presupposto.

Equa riparazione: inquadramento

La legge n. 89 del 24 marzo 2001, denominata comunemente legge "Pinto", ha previsto il diritto all'equa riparazione per il mancato rispetto del “termine ragionevole” di durata del processo.

L'organo competente a decidere sulle domande di equo indennizzo per l'eccessiva lungaggine dei processi è la Corte d'appello.
La valutazione del "termine ragionevole" di durata del procedimento, nonché la quantificazione del danno subito spettano all'autorità giudiziaria adita.

L'articolo 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata con la legge 4 agosto 1955 n. 848, stabilisce, tra l'altro, che ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole.

In Italia, la legge costituzionale 23 novembre 1999 n. 2 ha introdotto il secondo comma dell'articolo 111 della Costituzione che prevede il principio del giusto processo, in base al quale ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parità e, in particolare, la legge ne assicura la ragionevole durata.

Il Governo italiano, per porre rimedio al problema dell'eccessiva durata del processo, oltre ad introdurre riforme volte ad accelerare i tempi processuali, ha previsto con la legge n. 89/2001 (c.d. Legge Pinto) un ricorso nazionale per l'accertamento della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo e per la quantificazione del relativo indennizzo, con la finalità di deflazionare il contenzioso innanzi alla Corte di Strasburgo (v., amplius, D. Spera, “Responsabilità civile e danno alla persona”, pagg. 1342 e ss., Giuffrè Francis Lefebvre, 2025).

Il diritto all'equa riparazione spetta a chi ha subito un danno a causa del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'art. 6, par. 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (artt. 6, par. 1, 13, 35 e 41), firmata a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata in Italia dalla legge 4 agosto 1955, n. 848, in quanto parte del procedimento che ha registrato quella violazione. Vi sono state poi modifiche normative alla legislazione nazionale con la legge 7 agosto 2012, n. 134, e la Legge di Stabilità 2016.

Il sistema legislativo nazionale per l'equa riparazione conseguente a irragionevole durata dei processi va interpretato in modo da garantire una tutela effettiva sia al termine di durata ragionevole dei procedimenti (secondo la nozione elaborata dalla Corte di Strasburgo) sia al diritto all'equa riparazione, in caso di sua violazione.

Come noto, il diritto all'equa riparazione di cui alla l. n. 89/2001, art. 2, spetta a tutte le parti del processo, indipendentemente dal fatto che esse siano risultate vittoriose o soccombenti, e dalla consistenza economica o dall'importanza sociale della vicenda, salvo che l'esito del processo presupposto non abbia un riflesso sull'identificazione, o sulla misura, del pregiudizio sofferto dalla parte in conseguenza dell'eccessiva durata della causa, come quando il soccombente abbia promosso una lite temeraria, o abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire l'irragionevole durata di esso, o comunque quando risulti la piena consapevolezza dell'infondatezza delle proprie istanze o della loro inammissibilità, e, di tutte queste situazioni, comportanti abuso del processo e, perciò, costituenti altrettante deroghe alla regola della risarcibilità della sua irragionevole durata, deve dare prova la parte che le eccepisce per negare la sussistenza dell'indicato danno (Cass. n. 7139/2006; Cass. n. 21088/2005; Cass. n. 19204/2005).

Determinazione del tempo ragionevole

Secondo la disciplina fissata dalla legge n. 89/2001, successivamente novellata dal decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla l. 7 agosto 2012, n. 134, e dalla legge 28 dicembre 2015n. 208 (legge di stabilità 2016), la competenza a decidere sui ricorsi in materia di equo indennizzo per chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per il mancato rispetto della ragionevole durata del processo, spetta alla Corte di appello del distretto in cui ha sede il giudice innanzi al quale si è svolto il primo grado del giudizio presupposto.

Il termine di durata ragionevole del processo si considera rispettato, se il processo non eccede la durata di:

a) tre anni in primo grado;

b) due anni in secondo grado;

c) un anno nel giudizio di legittimità;

d) se il procedimento di esecuzione forzata si è concluso in tre anni, e se la procedura concorsuale si è conclusa in sei anni;

e) se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni.

Si è al riguardo precisato che in tema di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo, l'art. 2, comma 2-ter, l. n. 89 del 2001, secondo cui tale termine si considera rispettato se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni, costituisce norma di chiusura che implica una valutazione complessiva del giudizio articolato nei tre gradi, e non opera, perciò, con riguardo ai processi che si esauriscono in unico grado (Cass. n. 29706/2024).

Ai fini del computo della durata, il processo civile si considera iniziato con il deposito del ricorso introduttivo del giudizio ovvero con la notificazione dell'atto di citazione.

Con ordinanza n. 30044 del 21 novembre 2024, la seconda sezione civile della Corte di Cassazione ha affermato che, nel grado di merito, la realizzazione del diritto all'equa riparazione passa per una sequenza procedimentale unitaria, articolata in due fasi (di cognizione e di esecuzione).

Tale struttura, rigida nel suo dover rispettare complessivamente il termine ragionevole di un anno, è connotata invece da flessibilità temporale nel suo snodo di passaggio dalla prima alla seconda fase, poiché non è necessario che la fase esecutiva inizi entro un determinato lasso di tempo (in particolare: di sei mesi) dalla definizione della fase di cognizione. D'altra parte, fa da contrappeso a tale flessibilità la circostanza che il lasso di tempo intercorrente tra la definitività della fase di cognizione e l'inizio della fase esecutiva non è computato nella durata della sequenza cognitivo-esecutiva, poiché non è tempo del processo (così si è assestata la giurisprudenza di legittimità sulla base di Cass., sez. un. 19883/2019; Cass. n. 33764/2022).

La fase esecutiva può essere costituita indifferentemente dall'espropriazione forzata oppure dal giudizio di ottemperanza, ma solo nel primo caso il creditore è tenuto a rispettare il termine dilatorio ex art. 14, d.l. 669/1996 conv. in l. 30/1997, decorrente dalla notifica del titolo esecutivo, prima di dare impulso all'esecuzione (Cass. n. 10182/2022).

Ove la durata di tale sequenza cognitivo-esecutiva ecceda il termine ragionevole di un anno (al netto, come detto, dell'intervallo tra le due fasi) e superi pure il limite minimo di non ragionevole durata indennizzabile (sei mesi), entro il termine di ex art. 4, l. n. 89/2001 (sei mesi, decorrenti dalla definitività della fase esecutiva) si può agire in giudizio per l'equo indennizzo ex l. n. 89/2001 per la non ragionevole durata del processo presupposto ex l n. 89/2001.

Il c.d. spatium adimplendi (concesso alla p.a.) di mesi 6 e giorni 5 non è da detrarre come lasso di durata ragionevole dalla durata del processo presupposto ex l. n. 89/2001 ai fini del computo dell'equo indennizzo. 

Con riferimento alle procedure fallimentari, "il dies ad quem (del termine di ragionevole durata) coincide con il momento in cui si verifica il soddisfacimento integrale del credito ammesso al passivo, oppure, nelle ipotesi di soddisfacimento parziale o di totale inadempimento, quando sia intervenuto il decreto di chiusura del fallimento (...) e tale decreto sia divenuto definitivo" (così in motivazione Cass. n. 950/2011). Principio ulteriormente precisato più di recente: mentre il termine ex art. 4 della l. n. 89/2001 ha natura processuale, viene in rilievo per accertare la tempestività della domanda e decorre dalla data in cui il decreto di chiusura del fallimento non è più reclamabile in appello - ovvero, per le procedure soggette alle disposizioni di cui ai d.lgs. n. 5 del 2006 e n. 169 del 2007, da quello del definitivo rigetto del reclamo, ove esperito - dal momento in cui detto decreto acquista carattere di definitività; la data di integrale soddisfacimento del creditore, avente natura sostanziale, rileva per stabilire la durata della procedura fallimentare e l'entità del danno indennizzabile (Cass. n. 24174/2022; Cass. n. 8055/2019; Cass. n. 1551/2020).

Il processo penale si considera iniziato da quando l'indagato, in seguito a un atto dell'autorità giudiziaria, ha avuto conoscenza del procedimento penale a suo carico. (precedentemente con l'assunzione della qualità di imputato, di parte civile o di responsabile civile, ovvero quando l'indagato ha avuto legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari).

La Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, comma 2-bis, della legge 24 marzo 2001, n. 89, nella parte in cui prevede che il processo penale si considera iniziato con l'assunzione della qualità di imputato, o quando l'indagato ha avuto legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari, anziché quando l'indagato, in seguito a un atto dell'autorità giudiziaria, ha avuto conoscenza del procedimento penale a suo carico (Corte Cost., 23 luglio 2015, n. 184).

Si considera comunque rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni.

La recente novella introdotta dalla legge di stabilità 2016 ha stabilito una serie di rimedi preventivi, che devono essere necessariamente azionati nel corso del giudizio presupposto, volti ad accelerare la trattazione del giudizio in modo da consentire il rispetto dei termini massimi di durata ragionevole. Il mancato esperimento di detti rimedi rende inammissibile la domanda di equa riparazione.

Solo dopo l'esaurimento delle vie di ricorso interne ex lege n. 89/2001 è possibile proporre ricorso dinanzi alla Corte europea dei diritti dell'uomo - per la violazione dell'art. 6 della Convenzione in relazione alla violazione della ragionevole durata del processo - nel termine di quattro mesi decorrenti dalla data della decisione nazionale definitiva (art. 35 della Convenzione).

Il giudice competente a pronunciarsi

L'art. 3 della Legge Pinto, nel testo originario, introduce la competenza del Giudice italiano al fine di instaurare il giudizio per l'equa riparazione e afferma testualmente: “la domanda di equa riparazione si propone dinanzi alla corte di appello del distretto in cui ha sede il giudice competente ai sensi dell'articolo 11 del codice di procedura penale a giudicare nei procedimenti riguardanti i magistrati nel cui distretto è concluso o estinto relativamente ai gradi di merito ovvero pende il procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata”.

Il legislatore ha voluto garantire che il processo per il riconoscimento dell'equo indennizzo fosse condotto da magistrati terzi, indipendenti e imparziali rispetto al processo oggetto della lamentata lungaggine; la conseguenza di tale premura è stata quella di evitare che il giudice competente fosse lo stesso presso cui si assumesse violato il diritto in oggetto. L'articolo predetto stabilisce una competenza inderogabile per materia della Corte di Appello, rinviando però, ai fini della determinazione della competenza per territorio, al criterio stabilito dall'art. 11 c.p.p., attinente ai procedimenti penali riguardanti i magistrati.

L'art. 11 c.p.p., a sua volta, per poter determinare il giudice competente a decidere nei procedimenti in cui è parte un magistrato, e per poter garantire un processo che sia equo ed imparziale, neutrale e affidabile, fa riferimento ad una tabella, introdotta con la Legge n. 420/1998, applicando la quale si potrà rilevare la sede distrettuale della competente Corte di Appello. Con il richiamo contenuto dalle legge Pinto, la stessa tabella si applica anche per il procedimento di equa riparazione, in considerazione dell'importanza, in tale sede, anche dell'eventuale responsabilità del magistrato designato alla trattazione del giudizio presupposto e/o della responsabilità erariale, necessitando di un elevato grado di terzietà e di equidistanza.

Il ricorso, inoltre, deve essere proposto nei confronti del Ministero della Giustizia, se si tratta di procedimenti del giudice ordinario; nel caso di procedimenti militari, si propone nei confronti del Ministero della Difesa; in caso di processo tributario, deve essere proposto nei confronti del Ministero dell'Economia e delle Finanze; in tutti gli altri casi, infine, si propone nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri.

La legge n. 208/2015 ha riformato la Legge Pinto in più punti, compreso la determinazione del giudice competente.

Il nuovo art. 3 della legge stabilisce oggi quanto segue: “la domanda di equa riparazione si propone con ricorso al presidente della corte di appello del distretto in cui ha sede il giudice innanzi al quale si è svolto il primo grado del processo presupposto. Si applica l'articolo 125 del codice di procedura civile.

La differenza rispetto al passato è notevole: eliminato ogni riferimento al criterio tabellare, il ricorso per ottenere l'equo indennizzo in esame attualmente non deve essere più proposto ad un giudice di una differente Corte di Appello, ma al Presidente della Corte di Appello nel cui distretto ha sede il Giudice del processo tacciato di eccessiva durata, con la puntualizzazione però che nel collegio giudicante non può far parte, inevitabilmente, lo stesso Giudice che ha presieduto il giudizio presupposto, oggetto di ricorso. La ragione è indubbia: si rischierebbe un coinvolgimento e un potenziale “influenzamento” del collegio giudicante, venendo meno la garanzia di imparzialità che si rende necessaria in tali casi.

Giudizio di opposizione 

L'opposizione di cui all'art. 5-ter della l. n. 89 del 2001 non introduce un autonomo giudizio di impugnazione del decreto che ha deciso sulla domanda, ma realizza una fase a contraddittorio pieno di un unico procedimento, avente ad oggetto la medesima pretesa fatta valere con il ricorso introduttivo. Nel caso l'opposizione sia accolta deve procedersi ad una liquidazione unitaria, sebbene rispettando le due distinte fasi dei giudizi monitorio e di opposizione: se ne deduce l'inapplicabilità del principio dell'effetto espansivo interno della decisione riformata e del divieto di reformatio in peius (Cass. n. 17602/2024; Cass. n. 11249/2024).

La legittimazione passiva

L'art. 4 della l. n. 260/1958, come interpretato da Cass. SU n. 8516/2012, copre anche l'ipotesi in cui l'errore d'identificazione (della persona alla quale l'atto introduttivo del giudizio è da notificare) riguardi "distinte ed autonome soggettività di diritto pubblico ammesse al patrocinio dell'Avvocatura dello Stato" (nel caso attuale: i due Ministeri della Giustizia e dell'Economia). Peraltro, le Sezioni Unite hanno limitato l'operatività dell'art. 4 L. 260/1958, quanto agli effetti, al solo profilo della rimessione in termini (quindi ai commi terzo e quarto, con esclusione del secondo, che dispone la preclusione dell'eccepibilità dell'errore). Il che significa, con le parole delle Sezioni Unite, che è esclusa "ogni possibilità di 'stabilizzazione' nei confronti del reale destinatario... degli effetti" degli atti giudiziari notificati in precedenza all'altro soggetto.

Di principio si è avvalsa Cass. n. 8049/2019, che si è pronunciata appunto per l'applicazione dell'art. 4 L. 260/1958 in un processo ex L. 89/2001 ove era stato notificato al Ministero dell'Economia il ricorso da notificare invece al Ministero della Giustizia). In sostanza, si è disposto che sia da chiamare in causa il Ministero legittimato, con rimessione in termini. Infatti, per garanzia costituzionale del contraddittorio (art. 24 co. 2 Cost.), la circostanza del patrocinio comune (ad opera dell'Avvocatura dello Stato) con il Ministero già presente in giudizio non può essere di ostacolo al recupero di poteri difensivi in capo all'altro Ministero chiamato in causa solo successivamente.

Cass. n. 33764/2022 ha poi provveduto ad applicare l'art. 4 cit., accogliendo un motivo in cui era stato censurato il difetto di legittimazione passiva del Ministero della giustizia in relazione all'irragionevole durata del giudizio di ottemperanza. Infatti, dal carattere funzionalmente unitario della sequenza cognitivo-esecutiva (che realizza il diritto all'equa riparazione) non deriva che il Ministero della Giustizia si debba fare carico della responsabilità indennitaria per la durata non ragionevole del processo svoltosi dinanzi agli organi della giustizia amministrativa, cosicché è da chiamare in causa il Ministero dell'Economia. Infatti, ove ritenga fondata la domanda in riferimento a ciascuna delle due fasi, il giudice determinerà distintamente l'importo gravante su ciascuna delle due amministrazioni, in relazione all'entità del ritardo imputabile rispettivamente al giudice ordinario e al giudice amministrativo (così, sempre Cass. n. 33764/2022, seguita poi da Cass. n. 21710/2023 e da Cass. n. 17982/2024).

In sostanza, quando il processo ex l. 89/2001 presupposto si è articolato anche in una fase di ottemperanza, devono partecipare al processo entrambi i Ministeri: quello della Giustizia (legittimato passivo per la fase di cognizione) e quello dell'Economia (legittimato passivo per la fase di ottemperanza), pur attraverso la comune difesa ad opera dell'Avvocatura dello Stato.

La compatibilità con le previsioni della Carta Costituzionale

La questione di legittimità costituzionale della l. n. 89/2001 è stata più volte affrontata dalla Cassazione sia riguardo ai limiti edittali dell'indennizzo, sia in relazione al termine ritenuto ragionevole della durata del processo (Cass. n. 25964/2021, secondo cui è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2-bis della l. n. 89/2001, nella parte in cui limita la misura dell'indennizzo in una somma di denaro, non inferiore a 500 euro e non superiore a 1.500 euro, atteso che la derogabilità dei criteri ordinari di liquidazione fissati dalla Corte E.D.U. per l'indennizzo su base annua recepisce le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte medesima nonché della Corte di cassazione; Cass. n. 22772/2014, che ha considerato manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale, per contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art,. 6, par. 1, della CEDU, riguardanti l'art. 2 bis della legge 24 marzo 2001, n. 89, nella parte in cui limita la misura dell'indennizzo in una somma di denaro, non inferiore a 500 euro e non superiore a 1.500 euro, nonché l'art. 2, comma 2 bis, della stessa legge n. 89/2001, nella parte in cui afferma che si considera rispettato il termine ragionevole se il processo non eccede la durata di tre anni in primo grado di due anni in secondo grado, di un anno nel giudizio di legittimità, atteso che la derogabilità dei criteri ordinari di liquidazione, la ragionevolezza del criterio di 500 euro per anno di ritardo e i parametri di durata così stabiliti recepiscono le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte E.D.U. e della Corte di cassazione).

La Corte costituzionale ha utilizzato un obiter - che peraltro deve essere letto nella sua interezza e non parzialmente come prospetta il ricorrente - ("Non è condivisibile neppure il rilievo della indebita omologazione, da parte del modello indennitario delineato dalla normativa in esame, di situazioni diverse. Come, ad esempio, la situazione del lavoratore il quale ottenga una sentenza favorevole in tempi brevi, possibilmente in primo grado, rispetto a quella di chi risulti vittorioso solo a notevole distanza di tempo (magari nei gradi successivi di giudizio). Ovvero del datore di lavoro il quale spontaneamente riammetta in servizio il prestatore nelle more del processo, pagandogli, intanto, il corrispettivo, rispetto ad altro datore che abbia invece "resistito" ad oltranza, evitando di riprendere con sé il lavoratore. È evidente che si tratta di inconvenienti solo eventuali e di mero fatto, che non dipendono da una sperequazione voluta dalla legge, ma da situazioni occasionali e talora patologiche (come l'eccessiva durata dei processi in alcuni uffici giudiziari). Siffatti inconvenienti - secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte - non rilevano ai fini del giudizio di legittimità costituzionale (sentenze n. 298 del 2009, n. 86 del 2008, n. 282 del 2007 e n. 354 del 2006; ordinanze n. 102 del 2011, n. 109 del 2010 e n. 125 del 2008). Sicché, non è certo dalle disposizioni legislative censurate che possono farsi discendere, in via diretta ed immediata, le discriminazioni ipotizzate. Peraltro, presunte disparità di trattamento ricollegabili al momento del riconoscimento in giudizio del diritto del lavoratore illegittimamente assunto a termine devono essere escluse anche per la ragione che il processo è neutro rispetto alla tutela offerta, mentre l'ordinamento predispone particolari rimedi, come quello cautelare, intesi ad evitare che il protrarsi del giudizio vada a scapito delle ragioni del lavoratore (sentenza n. 144 del 1998), nonché gli specifici meccanismi riparatori contro la durata irragionevole delle controversie di cui alla legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell'art. 375 del codice di procedura civile)") per affermare che comunque esiste un rimedio contro l'eccessiva durata del processo allorquando vi siano disparità di trattamento tra lavoratori che si trovino in situazione analoghe. Ma la Corte non entra nel merito di ciò che si intende né per durata ragionevole, né sull'eventuale importo da liquidare in caso di sua violazione, rinviando genericamente al sistema della L. 89 del 2001, posto accanto ai rimedi cautelari, per cui non si può ricavare da questo obiter alcun argomento utile nel caso di specie.

Come chiarito dalla Corte di Strasburgo, gli Stati possono anche scegliere di creare solo un rimedio di tipo indennitario, come ha fatto l'Italia, senza che questo rimedio sia considerato inefficace (Mifsud c. France (déc.) (GC), no 57220/00, CEDH 2002-VIII). La Corte ha già avuto modo di sottolineare nella sentenza Kudla c. Pologne (GC), 30210/96, par. 152, CEDH 2000-XI (parr. 154-155) che, nel rispetto delle prescrizioni della Convenzione, gli Stati contraenti godono di un certo margine di apprezzamento per quanto riguarda il modo in cui garantiscono agli individui il rimedio richiesto dall'art. 13 e adempiono all'obbligo che incombe loro in virtù di tale disposizione della Convenzione.

Il sistema della l. n. 89/2001 è dunque conforme alla giurisprudenza di Strasburgo.

Individuazione della decorrenza del termine di trenta giorni per la notifica del decreto di accoglimento della domanda di equa riparazione

La Corte di cassazione ha precisato che in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo, il termine di trenta giorni per la notifica del decreto di accoglimento della domanda decorre, sebbene l'art. 5, comma 2, della l. n. 89 del 2001, faccia riferimento al deposito, dalla data di comunicazione dello stesso alla parte istante, atteso che il comma 4 della medesima norma ne prevede la comunicazione "altresì" al Procuratore Generale della Corte dei conti ed ai titolari dell'azione disciplinare e tenuto conto del disposto dell'art. 5 nella formulazione originaria, nonché della circostanza che, a differenza di quanto avviene nell'ipotesi di inefficacia ex art. 644 c.p.c., nel caso di tardività della notifica la domanda non è riproponibile ex art. 5, comma 2, della stessa l. n. 89 del 2001 (Cass. n. 26815/2024).

Con la novella del 2012 della l. n. 89/2001, il legislatore ha introdotto un meccanismo simile a quello del procedimento ingiuntivo, eppure allo stesso non identico, facendo espresso richiamo al codice di procedura civile solo nei casi in cui la disciplina dello stesso sia estensibile.

I giudici di legittimità partendo da tale premessa hanno altresì tratto la conclusione secondo cui il rimedio della tempestiva opposizione ai sensi della l. n. 89/2001, di cui all'art. 5 ter, è da ritenersi applicabile anche al fine di far dichiarare la inefficacia del decreto, emesso dal Presidente della Corte d'appello o da un consigliere da lui delegato, nel caso in cui il decreto stesso non venga notificato entro il termine di trenta giorni dal suo deposito ovvero, nel caso in cui il decreto non venga depositato, entro il termine di trenta giorni dal deposito del ricorso, di cui all'art. 3, comma 4, della medesima legge, entro il termine di trenta giorni dalla comunicazione dell'avvenuto deposito dello stesso (Cass. n. 5656/2015).

Pertanto, l'art. 5, sebbene abbia disegnato un meccanismo che per larga parte richiama quello tipico del procedimento ingiuntivo, se ne discosta laddove prevede espressamente che la tardiva notificazione, oltre a determinare l'inefficacia, implica anche l'improponibilità della domanda.

Il mancato riferimento esplicito alla natura perentoria del termine appare altresì superfluo in ragione della espressa previsione di inefficacia del decreto e di conseguente non riproponibilità della domanda che vale ad attribuire in facto il carattere della perentorietà al termine di trenta giorni, proprio in ragione delle gravi conseguenze che scaturiscono dal suo mancato rispetto.

Alla conclusione ora esposta deve poi aggiungersi la considerazione che, come si ricava dalla disciplina del procedimento disegnato dalla l. n. 89/2001, anche allorquando il decreto sia stato emesso per una somma inferiore a quella domandata nel ricorso, il ricorrente è posto davanti ad un'alternativa processuale, potendo provvedere comunque alla notificazione del provvedimento, il che normativamente implica però acquiescenza dell'istante alla pronuncia di rigetto parziale della domanda per la parte non accolta, precludendogli la possibilità di insistere nella sua originaria pretesa, proponendo altresì opposizione a norma della l. n. 89/2001, art. 3 ter, (per una diversa conclusione in relazione al procedimento per decreto ingiuntivo ex art. 633 c.p.c. e ss.: Cass. n. 7003/1993). In alternativa può, come precisa pure la l. n. 89 del 2011, art. 3, comma 6, (se il ricorso è in tutto o in parte respinto la domanda non può essere riproposta, ma la parte può fare opposizione a norma dell'art. 5 ter), proporre opposizione avverso il decreto che abbia parzialmente accolto il ricorso, al fine di ottenere dal collegio della Corte d'Appello il riconoscimento altresì dei capi di domanda non accolti, senza dover in tal caso procedere alla notificazione del ricorso e del decreto, che renderebbe improponibile l'opposizione stessa, e dovendo, piuttosto, depositare l'atto di opposizione nel termine di cui all'art. 5 ter, comma 1.

L'orientamento di legittimità è nel senso che, sebbene la l. n. 89 del 2001, art. 5, comma 2, preveda che il decreto diventa inefficace qualora la notificazione non sia eseguita nel termine di trenta giorni dal deposito in cancelleria del provvedimento, deve ritenersi che tale termine decorra dalla comunicazione del decreto alla parte ricorrente.

A tale conclusione si perviene - sotto il profilo letterale - alla luce di quanto disposto sia dal comma 4 della stessa norma, in base al quale il decreto che accoglie la domanda è altresì comunicato al Procuratore generale della Corte dei conti e ai titolari dell'azione disciplinare, presupponendo che la medesima comunicazione debba farsi anche alla parte, sia dalla sostanziale continuità normativa rispetto al testo precedente del medesimo art. 5, che prima delle modifiche apportate dal d.l. n. 83 del 2012 , disponeva espressamente che il decreto fosse comunicato, oltre che alle parti, alle suddette autorità (Cass. n. 1/2023; Cass. n. 10365/2019; Cass. n. 7185/2017).

L'applicazione della normativa ex lege Pinto affanna quotidianamente il sistema giustizia impegnato ad adottare pronunce aventi ad oggetto chiarimenti di natura sostanziale o processuale. La successione di interventi legislativi volti ad ostacolare l'accesso alla via del ristoro nei confronti dello Stato per le lungaggini dei processi ha prodotto un risultato opposto a quello sperato dal legislatore.

La novella del 2012 ha introdotto una chiara differenza di disciplina tra il procedimento per la riparazione per irragionevole durata del processo e quello monitorio disciplinato dal codice di rito, e soprattutto in ragione della espressa previsione della non riproponibilità della domanda che sia stata accolta con il decreto del quale sia mancata la notifica nel termine di trenta giorni.

Invero, la parte che ha visto accolta la propria domanda deve comunque provvedere alla notifica del decreto nel termine imposto dalla legge, potendo al più valutare, ove l'accoglimento non si stato totale, se proporre opposizione nel termine di cui all'art. 5 ter, ove si ritenga insoddisfatta della prima decisione presa.

Laddove invece ritenga che le proprie richieste siano state integralmente soddisfatte ovvero ove reputi di dovere prestare sostanziale acquiescenza all'accoglimento parziale, e in ogni caso onerata della notifica di ricorso e decreto nel termine di cui all'art. 5, comma 2.

Peraltro, qualora la notifica sia avvenuta oltre il termine, la conseguenza delle impossibilità di una successiva ripresentazione della domanda indennitaria -a seguito della dichiarazione di inefficacia del decreto in quanto tardivamente notificato- esime il giudice dell'opposizione dal dover procedere all'esame del merito nonché esclude che l'opponente debba anche avanzare doglianze nel merito.

Né la evidenziata differenza di disciplina tra il procedimento in esame ed il tradizionale procedimento monitorio può ritenersi idonea a giustificare eventuali dubbi di costituzionalità, posto che alla parte che abbia visto in tutto o solo in parte accolta la domanda di indennizzo, oltre ad essere stata apprestata dall'ordinamento una forma di tutela rappresentata dalla opposizione che consente di sottoporre le proprie richieste alla decisione del collegio, è stato assegnato per la notifica un termine di trena giorni che non si palesa ingiustificatamente restrittiva.

Cass. n. 26815/2024 ha ridotto le eventuali difficoltà che la parte possa incontrare nel rispettare il termine previsto dall'art. 5 l. n. 89/2001, ancorando l'effettiva decorrenza – con evidente sbarramento al riconoscimento dell'indennizzo – alla comunicazione del decreto alla parte interessata.

È decisivo considerare che, in caso di tardività della notificazione, il provvedimento non solo diviene inefficace, ma è preclusa anche la riproposizione della domanda.

La soluzione qui accolta non risponde - dunque - al mero intento di parificare la disciplina della l. n. 89 del 2001, art. 5 a quella del decreto ingiuntivo, ma di porre la parte al riparo da conseguenze pregiudizievoli in dipendenza del mancato compimento di un attività per la quale è previsto un termine perentorio breve e di non onerare la parte stessa di un attività potenzialmente defatigante (ossia di verificare il deposito del provvedimento) o che, comunque, nella specie, mal si concilia con la previsione dell'obbligo di comunicazione ad opera della cancelleria, adempimento che sarebbe inutilmente contemplato ove l'interessato - secondo l'interpretazione restrittiva - fosse tenuto ad autonomamente attivarsi per non incorrere in decadenza.

Tale risultato interpretativo è coerente con gli insegnamenti della giurisprudenza costituzionale, espressasi più volte nel senso che l'esigenza di tutela dei diritti dell'interessato esige che i termini processuali di decadenza decorrano dalla comunicazione dei provvedimenti e non dal deposito se sia imposto un termine oggettivamente esiguo, situazione nella quale non può esigersi un onere eccedente la normale diligenza o comunque ingiustificato (Corte Cost. n. 297/2008 in motivazione; Cass. n. 154/2006, Corte Cost. n. 224/2004).

Equa riparazione e danno non patrimoniale

In tema di equa riparazione ai sensi dell'art. 2 della legge n. 89 del 2001, il danno non patrimoniale è conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Ne consegue che, pur dovendo escludersi la configurabilità di un danno non patrimoniale in re ipsa - ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell'accertamento della violazione - il giudice, una volta accertata e determinata l'entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo secondo le norme della citata legge n. 89 del 2001, deve ritenere sussistente il danno non patrimoniale ogniqualvolta non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente (Cass. n. 9919/2019; Cass. n. 25365/2008; (v., D. Spera, “Responsabilità civile e danno alla persona”, op. cit., pagg. 1355-1358).

Equa riparazione ed accoglimento parziale: le spese

Principio consolidato in giurisprudenza quello secondo cui nel procedimento di equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo, la liquidazione dell'indennizzo in misura inferiore a quella richiesta non integra un'ipotesi di accoglimento parziale della domanda e la conseguente soccombenza reciproca legittimante la compensazione delle spese di lite tra le parti, ciò perché, nelle richieste di somme a titolo di indennizzo, non è possibile predeterminare in anticipo l'ammontare del danno e la parte che agisce sollecita, in realtà, l'esercizio di un potere ufficioso di liquidazione (Cass. n. 16326/2020).

In conclusione

La situazione critica in cui versa la giustizia italiana, tenuta ormai da tempo sotto controllo, e l'ampio spazio riservato al problema italiano, ha, inoltre, condotto gli organi del Consiglio d'Europa a dichiarare espressamente che il fenomeno (ormai patologico) della lentezza della giustizia (civile e amministrativa) in Italia costituisce una prassi ontologicamente incompatibile con la Convenzione, e che, pertanto, si pone in discussione la stessa riconoscibilità nel nostro ordinamento di un vero e proprio Stato di diritto.

Con la legge Pinto i soggetti coinvolti in un processo con durata superiore ad un délai raisonnable possono proporre, mediante ricorso, domanda di accertamento e di condanna al risarcimento del danno, patrimoniale e non patrimoniale, davanti alla Corte d'appello che, entro quattro mesi dal deposito del ricorso stesso, deciderà, applicando la procedura camerale, con decreto immediatamente esecutivo ed impugnabile in Cassazione. La scelta di introdurre nel nostro ordinamento un sistema indennitario interno consente di evitare che i soggetti interessati si rivolgano direttamente alla Corte europea, con conseguente messa in crisi del sistema di protezione dei diritti a livello internazionale.

Peraltro, la finalità della legge 89/2001 di deflazionare il contenzioso dinanzi alla Corte originato dalla lentezza dei processi italiani, si collega col carattere prioritario della tutela nazionale rispetto a quella sopranazionale, così come emerge dal principio di sussidiarietà, efficacemente sancito dall'art. 35 Cedu che, appunto, prevede il previo esaurimento delle vie di ricorso interne quale condizione di ricevibilità del ricorso a Strasburgo. Per questo motivo il sistema di protezione dei diritti a livello europeo può essere attivato solo in seconda battuta, a condizione che la pretesa violazione del diritto sia fatta valere all'interno dell'ordinamento nazionale nelle forme ivi previste e, dunque, la responsabilità internazionale dello Stato sorge nel caso di mancata predisposizione di meccanismi idonei a riparare alla violazione all'interno del proprio ordinamento giuridico.

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