Il “tetto retributivo” nel pubblico impiego a partire dalla categoria dei magistrati e oltre
03 Settembre 2025
Massima Sebbene la previsione di un “tetto retributivo” per i pubblici dipendenti non contrasti di per sé con la Costituzione, l’art. 13, comma 1, d.l. 24 aprile 2014, n. 66, come convertito, che l’ha fissato nel limite di 240.000,00 euro lordi anziché nel trattamento economico onnicomprensivo spettante al primo presidente della Corte di cassazione è illegittimo. L’incostituzionalità della citata norma, in ragione del carattere generale del “tetto retributivo”, non può che operare in riferimento a tutti i pubblici dipendenti. Il caso Il Consiglio di Stato, sezione quinta, ha sollevato, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 23-ter, comma 1, d.l. 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l'equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, e 13, comma 1, d.l. 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale), convertito, con modificazioni, nella legge 23 giugno 2014, n. 89, nella parte in cui, nel prevedere un tetto massimo alle retribuzioni dei dipendenti statali, includono in detta soglia anche gli emolumenti corrispondenti alle indennità di mandato elettorale spettanti ai componenti togati eletti negli organi di governo autonomo della magistratura ordinaria e in quelli delle magistrature speciali. Il giudice rimettente doveva pronunciarsi sul ricorso in appello presentato da un presidente di sezione del Consiglio di Stato, che ha chiesto la riforma della sentenza emessa in primo grado dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione seconda. Quest'ultima aveva rigettato il ricorso con cui lo stesso magistrato chiedeva di accertare il proprio diritto a percepire il trattamento economico, per l'incarico di componente effettivo del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa (d'ora in avanti CPGA), ricoperto dal 2013 al 2015, senza le decurtazioni stipendiali effettuate a suo danno in base alle norme censurate, dovute al superamento del “tetto retributivo”. La questione La questione in esame concerne la compatibilità delle disposizioni censurate con gli artt. 104, comma 4, e 108, comma 2, Cost. In particolare, le norme suddette sono in contrasto con i principi di autonomia e indipendenza della magistratura, con riferimento alla incidenza che potrebbero avere sulla composizione degli organi di governo autonomo, posti a presidio e a tutela dei richiamati valori costituzionali? Le soluzioni giuridiche Preliminarmente, la Corte afferma che è da ricondurre al campo applicativo delle norme censurate ogni prestazione economica, erogata a carico della finanza pubblica a favore di chi abbia costituito un rapporto di lavoro con una pubblica amministrazione, ivi comprese quelle conseguite a titolo onorifico. Fatta questa premessa, la decisione si articola diversamente per le questioni di legittimità costituzionale sollevate. Per quanto riguarda il contrasto degli artt. 23-ter, d.l. n. 201/2011, e 13, comma 1, d.l. n. 66/2014, come convertiti, in riferimento all'art. 104, comma 4, Cost., la questione si considera non fondata. Non emerge dall'impianto costituzionale alcuna esigenza, né in termini di riserva né in termini di favor, alla stregua della quale i titolari degli uffici direttivi, di primo o di secondo grado, debbano trovare necessaria rappresentanza tra i membri elettivi del CPGA. Il rimettente erra nel ricostruire i profili di rappresentanza delle “categorie”, entro le quali si scompongono al loro interno le magistrature, che assumono rilevanza in questo caso. Per quanto concerne, invece, la questione di legittimità costituzionale delle norme censurate in riferimento all'art. 108, comma 2, Cost. e al principio di indipendenza della magistratura, di cui agli artt. 101, comma 2, e 104, comma 1, Cost., la Corte sottolinea anzitutto che la retribuzione dei magistrati è composta dal trattamento retributivo, fissato su base tabellare in ragione dell'anzianità di servizio, e dalle diverse indennità di funzione, incluse quelle percepite dai magistrati che sono eletti o che partecipano di diritto ai cosiddetti organi di governo autonomo. La Corte evidenzia, anche alla luce del diritto comparato e del diritto eurounitario, che il profilo economico difficilmente potrebbe essere considerato avulso, sullo stesso piano normativo, da una congrua ed effettiva garanzia della posizione di indipendenza tout court. Di peculiare rilievo è una recente pronuncia della Corte di giustizia dell'Unione europea (sentenza 25 febbraio 2025, in cause riunite C-146/23 e C-374/23, Sad Rejonowy w Bialymstoku) nella quale si è specificato che sono possibili deroghe in peius del trattamento retributivo dei magistrati, purché la deroga sia «necessaria e strettamente proporzionata al conseguimento [dell'obiettivo di interesse generale], il che presuppone che essa rimanga eccezionale e temporanea». Già in precedenza la Corte costituzionale italiana, nell'escludere l'illegittimità costituzionale dell'estensione al personale di magistratura di misure generali di riduzione della spesa pubblica, aveva tuttavia specificato che «[a]llorquando la gravità della situazione economica e la previsione del suo superamento non prima dell'arco di tempo considerato impongano un intervento sugli adeguamenti stipendiali, anche in un contesto di generale raffreddamento delle dinamiche retributive del pubblico impiego, tale intervento non potrebbe sospendere le garanzie stipendiali oltre il periodo reso necessario dalle esigenze di riequilibrio di bilancio» (sentenza n. 223 del 2012). Il “tetto retributivo”, ridefinito dall'art. 13, comma 1, d.l. n. 66/2014, come convertito, ha determinato, dunque, una riduzione del trattamento economico di alcuni magistrati e, con il trascorrere del tempo e a distanza di oltre un decennio, ha perso definitivamente il requisito della temporaneità. L'art. 23-ter, d.l. n. 201/2011 aveva ancorato il limite massimo retributivo a un importo parametrato alla retribuzione del primo presidente della Corte di cassazione. Si era così salvaguardato il «nesso tra retribuzione e quantità e qualità del lavoro», «anche con riguardo alle prestazioni più elevate» (sentenza n. 27 del 2022). Tale previsione, pur rendendo certo il parametro di riferimento del cosiddetto “tetto retributivo”, non ne quantificava dunque in maniera rigida la soglia. In seguito, il censurato art. 13, comma 1, del d.l. n. 66/2014 ha stabilito che, a decorrere dal 1° maggio 2014, «il limite massimo retributivo riferito al primo presidente della Corte di cassazione […] è fissato in euro 240.000,00 annui». In definitiva, secondo la sentenza in commento, la disposizione censurata ha decurtato il livello retributivo del primo presidente, come di altri magistrati, con la conseguenza, quanto a tutto il personale di magistratura, che è venuta meno la garanzia (fatta salva, invece, dall'art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011, come convertito) in ordine alla preservazione del trattamento economico assicurato dalla legge sia nella sua base sia quanto agli adeguamenti automatici costituzionalmente necessari per proteggerne il potere di acquisto (Corte cost. sent. n. 223/2012 e Corte cost. n. 238/1990). La Corte rileva, infine, che i risparmi non si possono più considerare adeguati e proporzionati, in una logica di ragionevole bilanciamento, in relazione ai principi costituzionali che vengono sacrificati e considerato che la riduzione del tetto e il mancato adeguamento al tasso di inflazione hanno comportato dopo il 2014 un sacrificio ancora più elevato di tali principi. Osservazioni La pronuncia solleva perplessità nella misura in cui porta alle estreme conseguenze, ossia l’applicabilità delle conclusioni a tutte le categorie di dipendenti pubblici, un ragionamento tutto interno alle peculiarità della categoria dei magistrati. Pare, infatti, non adeguatamente affrontata la questione posta in luce dalla difesa erariale: le norme censurate, puntuali nell'individuare i destinatari e gli emolumenti da considerare ai fini del computo del massimale retributivo, non determinano distinzioni in base alla tipologia dell'incarico ricoperto, ma rispondono alla generale esigenza di razionalizzare e contenere la spesa pubblica; non si tratta, infatti, di previsioni limite o eccezionali rispetto ai regimi più favorevoli riconnessi a funzioni particolari, quanto piuttosto di regole generali che governano il trattamento economico di tutte le categorie di dipendenti pubblici, indipendentemente dal fatto che questi ricoprano ulteriori cariche che contemplino indennità, gettoni o emolumenti. A voler temperare la suddetta osservazione c’è da sottolineare che la Corte sul punto, nelle battute finali della sentenza, si premura di osservare che quanto deciso «non osta a un successivo intervento del legislatore, che si confronti con le attuali criticità, emerse con il passare del tempo, del limite massimo retributivo, al fine di adottare, nella sua discrezionalità, anche «soluzioni diverse» conseguenti «ad una valutazione ponderata degli effetti di lungo periodo» della disposizione censurata, «in un quadro di politiche economiche e sociali in perenne evoluzione» (Corte cost., sent. n. 27/2022), se del caso individuando percorsi alternativi per conseguire risparmi di spesa nel comparto del pubblico impiego, ad esempio differenziando il tetto per categorie o incrementando il Fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato attraverso limiti ai compensi ai pubblici dipendenti provenienti da incarichi privati». Un altro aspetto meritevole di essere evidenziato concerne il fatto che la Corte costituzionale non ha ritenuto opportuno porre l’attenzione, neppure incidenter tantum, su una questione altrettanto delicata e centrale dal punto di vista della conformità costituzionale delle norme censurate, ossia l’impatto dei tetti massimi alla retribuzione sulla libertà sindacale. |