Licenziamenti illegittimi nelle piccole aziende: incostituzionale il tetto di sei mensilità per il risarcimento
04 Settembre 2025
Massima Va dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 9, comma 1, d.lgs. 4 marzo 2015, n.23 limitatamente alle parole «e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità». Il caso Il Tribunale di Livorno, con ordinanza del 2 dicembre 2024, solleva q.l.c. dell'art. 9, comma 1, d. lgs. n.23/2015: nella parte in cui esso stabilisce – dimezzandoli rispetto alle grandi aziende e ponendo in ogni caso il limite massimo sei mensilità - i criteri di determinazione delle indennità risarcitorie nell'ipotesi di licenziamenti illegittimi adottati da datori di lavoro che non raggiungono i requisiti dimensionali di cui all'art. 18, ottavo e nono comma, della legge n.300/1970. La questione di costituzionalità, ritiene il giudice rimettente, rileva per la decisione del caso concreto sottoposto al suo giudizio; i cui tratti essenziali possono così riassumersi:
a sostegno dell'assunto, lo stesso datore di lavoro produce certificato camerale che attesta l'assunzione nel tempo alle proprie dipendenze, al massimo, di quattordici lavoratori. La questione Può il legislatore determinare le tutele dal licenziamento illegittimo imponendo un limite massimo, fisso ed insuperabile, all’ammontare delle indennità risarcitorie? Le soluzioni giuridiche Come noto, nel nostro ordinamento la disciplina sui licenziamenti risulta tanto affastellata e confusa da meritarsi appieno l'appellativo di giungla normativa. Il regime delle relative tutele non fa eccezione, anzi contribuisce da par suo al caos imperante in materia. La situazione è tale che gli operatori del diritto, confrontandosi sul tema con i diversi interlocutori, soprattutto se stranieri, hanno enorme difficoltà nel descrivere in termini chiari e completi il quadro normativo di riferimento del settore. Nel cimento, ci si vede costretti a caratterizzare con innumerevoli distinzioni, specificazioni e riserve ogni giudizio prognostico sull'esito delle controversie connesse ad un licenziamento. Tentando comunque di rappresentare, perlomeno per sommi capi, il sistema, che sistema non è, di protezione dei lavoratori dai licenziamenti illegittimi, in primo luogo va ricordato che quello attualmente previsto dal nostro ordinamento si diversifica, principalmente, in base a cinque elementi variabili:
Concentrando, per dovere di sintesi, il nostro discorso ai soli licenziamenti individuali, ingiustificati o comunque affetti da vizi formali o procedurali che intervengano nei confronti dei dipendenti, non dirigenti, del settore privato con contratto a tempo indeterminato, vanno esaminate le ultime due tra le discriminanti menzionate che, in sede applicativa, danno luogo ad altrettante distinte ipotesi:
Proprio sulla legittimità di tale disposizione legislativa, si pronuncia la Corte Costituzionale con la sentenza n.118 del 21 luglio 2025. Come sopra accennato, nel caso specifico il giudice a quo (Trib. Livorno) dubita della costituzionalità del predetto art. 9, comma 1, laddove esso prevede che, nel caso di licenziamenti illegittimi intimati da datori di lavoro che non raggiungano i requisiti dimensionali sopra descritti, l'ammontare delle indennità risarcitorie stabilite dagli artt. 3, comma 1, 4, comma 1, e 6, comma 1, d. lgs. n.23/2015sia dimezzato e non possa comunque superare il limite massimo di sei mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio. Il rimettente, infatti, ritiene che tale disposizione finisca per configurare una misura non idonea a garantire il necessario equilibrio tra la possibilità di prevedere una tutela di tipo soltanto risarcitorio-monetario e la necessità che tale indennizzo risulti adeguato a riparare il pregiudizio sofferto nel caso concreto, così mantenendo un ruolo deterrente. In particolare, l'esiguità dell'intervallo tra l'importo minimo e quello massimo dell'indennità, da un lato, e il solo richiamo al criterio anacronistico del numero dei dipendenti, dall'altro, configurerebbero una normativa primaria costituzionalmente illegittima perché in contrasto con gli artt. 3, primo e secondo comma; 4, primo comma; 35, primo comma; 41, secondo comma e 117, primo comma della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 24 della Carta sociale europea (CSE), ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 9/2/1999, n.30. Allo scopo, il Tribunale sottolinea come la Consulta, già in precedenza, con la sentenza n. 183/ 2022 avesse accertato la sussistenza di tale vizio, pur dichiarando l'inammissibilità delle questioni allora sollevate dal Tribunale di Roma in considerazione del rischio di uno sconfinamento nella sfera riservata alla discrezionalità del legislatore. A tal riguardo, ricordiamo, la Corte in quel precedente, a sua volta precorso dalla sentenza n. 150 del 2020, aveva sottolineato che la materia, frutto di interventi normativi stratificati, non poteva che essere rivista in termini complessivi che investissero sia i criteri distintivi tra i regimi applicabili ai diversi datori di lavoro sia la funzione dissuasiva dei rimedi previsti per le disparate fattispecie. Tuttavia, il giudice delle leggi non si era nell'occasione sottratto dal segnalare al legislatore che “un ulteriore protrarsi dell'inerzia legislativa non sarebbe tollerabile e la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente, nonostante le difficoltà qui descritte”. E, rimarca ancora il giudice a quo, tale orizzonte temporale (protrattosi "per ben più di due anni”; divenuti tre al momento della decisione della Corte) si è già esaurito, “di talché l'urgenza di provvedere risulta francamente non procrastinabile”. A fronte di tale vibrato appello, questa volta il Giudice delle leggi si dice pronto ad intervenire. In via preliminare, lo fa riconducendo ad un'unica questione le censure formulate nell'ordinanza di rimessione: l'irragionevole limitazione della tutela indennitaria - prevista per i licenziamenti illegittimi intimati dai datori di lavoro “sottosoglia” - lesiva del diritto del lavoratore a un indennizzo adeguato a difenderne dignità e libertà. Svolte sul punto le necessarie considerazioni in diritto, la Consulta giunge quindi a concludere che la questione prospettata risulta fondata. Però, limitatamente alla previsione, contenuta nella norma censurata, in base alla quale l'ammontare delle indennità risarcitorie di cui agli artt. 3, comma 1, 4, comma 1 e 6, comma 1, «non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità» dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio. Il ragionamento seguito dalla Corte per addivenire a tale conclusione si sviluppa, dapprima, ripercorrendo i momenti salienti del regime normativo di tutela contro i licenziamenti illegittimi: lo Statuto dei lavoratori del 1970, la legge n.92/2012 (c.d. Legge Fornero) e, infine, il d. lgs. n.23/2015. Dette leggi, secondo la Consulta, hanno condotto ad un modello di tutela imperniato sulla progressiva estensione della tutela indennitario-monetaria a scapito di quella reintegratoria. Il limite che la giurisprudenza costituzionale ha ritenuto di fissare rispetto alla produzione legislativa medesima (non valutata, evidentemente, in maniera particolarmente positiva dallo stesso Giudice delle leggi) è comunque quello per cui, pur nel riconoscimento dell'ampia discrezionalità spettante al legislatore, la predeterminazione dell'indennità risarcitoria deve tendere, con ragionevole approssimazione, a rispecchiare la specificità del caso concreto e, quindi, la vasta gamma di variabili che vedono direttamente implicata la persona del lavoratore. In una vicenda che coinvolge la persona del lavoratore nel momento traumatico della sua espulsione dal lavoro, sottolinea la Corte, la tutela risarcitoria deve essere configurata in modo tale da consentire al giudice di modularla alla luce di una molteplicità di fattori (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell'impresa, anzianità di servizio del prestatore di lavoro, comportamento e condizioni delle parti) al fine di soddisfare l'esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore, imposta dal principio di eguaglianza. Nella sentenza, a questo proposito, si richiamano espressamente le precedenti pronunce della Corte cost. n.194/2018 e Corte cost. n. 150/2020. Ciò premesso in linea generale, a giudizio della Corte tali indicazioni inerenti alla ragionevolezza e adeguatezza della tutela indennitaria si impongono anche per i licenziamenti intimati dai datori di lavoro di più piccole dimensioni, come già sottolineato dallo stesso collegio con la sentenza Corte cost. n. 183/2022, i cui precetti e moniti sono stati del resto apertis verbis richiamati nell'ordinanza di rimessione. Dalla sostanza di tale precedente sua pronuncia la Corte non intende ora discostarsi. In particolare, le censurate previsioni di cui al d.lgs. n.23/2015, art. 9, per il caso in cui il datore di lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali sopra più volte ricordati, paiono effettivamente costituire unvulnus ai parametri costituzionali dettati dagli art. 3, comma primo; 35, comma primo e 117 Cost., quest'ultimo in relazione all'art.24 CSE. Tale vulnus, tuttavia, secondo la Corte non si ravvisa nella previsione del dimezzamento degli importi delle indennità previste dal medesimo decreto legislativo (artt.3, comma 1; 4, comma 1; 6, comma 1). Esse, infatti, risultano modulabili all'interno di una forbice, diversamente individuata in relazione a ciascun tipo di vizio, ma sempre sufficientemente ampia e flessibile, perché compresa fra un minimo e un massimo tra i quali c'è un ampio divario. Così delineato, quindi, il meccanismo del dimezzamento è comunque tale da non impedire al giudice di tener conto della specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un'efficace deterrenza. Quel che confligge con i principi costituzionali dando luogo a una tutela monetaria incompatibile con la necessaria personalizzazione del danno subito dal lavoratore, si afferma a chiare lettere nella sentenza, è piuttosto l'imposizione di un tetto stabilito in sei mensilità di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto e insuperabile anche in presenza di licenziamenti viziati dalle più gravi forme di illegittimità, che comprime eccessivamente l'ammontare dell'indennità. Secondo la Corte, la previsione di un limite massimo, fisso e inderogabile, a prescindere dalla gravità del vizio del licenziamento e sommato al dimezzamento degli importi già previsti per i datori di lavoro di maggiori dimensioni, determina una fascia risarcitoria talmente ristretta da precludere al giudice la possibilità di applicare i criteri di personalizzazione, adeguatezza e congruità del risarcimento, privando il rimedio della sua funzione deterrente nei confronti del datore di lavoro. Il ristoro previsto per il lavoratore può essere delimitato, ma non sacrificato neppure in nome dell'esigenza di prevedibilità e di contenimento dei costi, al cospetto di un licenziamento illegittimo che l'ordinamento, anche nel peculiare contesto delle piccole realtà organizzative, qualifica comunque come illecito, conclude la Consulta richiamando in proposito la precedente propria sentenza n. 150 del 2020. La sentenza, quale chiosa finale, invia ancora una volta un esplicito invito al legislatore, circoscrivendolo però all'aggiornamento dei criteri di selezione dei “piccoli” datori di lavoro. Rimane fermo l'auspicio, si dice, che il legislatore intervenga sul profilo inciso dalla pronuncia nel rispetto del principio secondo cui il criterio del numero dei dipendenti non può costituire l'esclusivo indice rilevatore della forza economica del datore di lavoro e, quindi, la sostenibilità dei costi connessi ai licenziamenti illegittimi, dovendosi considerare anche altri fattori altrettanto significativi, quali possono essere il fatturato o il totale di bilancio. Osservazioni La pronuncia della Corte Costituzionale ha destato parecchio clamore. La stessa è oltretutto intervenuta a poche settimane di distanza dal referendum abrogativo - dall'esito nullo, per mancato raggiungimento del quorum costituzionale - indetto nei giorni 8 e 9 giugno 2025, tra i cui quesiti (quesito n.2) vi era quello avente ad oggetto la norma “gemella” (art.8 legge 604/1966) tuttora in vigore per i lavoratori “vecchi” assunti, norma anch'essa impositiva, salve marginali deroghe, del tetto di 6 mensilità risarcitorie per i licenziamenti illegittimi che intervengano presso i datori di lavoro sottosoglia. E, al riguardo, sorge spontaneo interrogarsi sul perché in tanti anni di ininterrotta vigenza del sopra descritto doppio regime sanzionatorio, introdotto nel 1970 con l'affiancamento dello Statuto dei lavoratori alla legge n. 604/1966, la stessa Corte non abbia nelle sue precedenti decisioni sull'art. 8 della legge medesima avvertito la necessità, oggi invece messa in risalto con riferimento al (nuovo) art. 9 del d.lgs. n.23/2015, di rimediare al vulnus ai parametri costituzionali conseguente all'applicazione dell'identico forfait risarcitorio. In tale prospettiva, può non apparire casuale il fatto che nella sentenza in commento, con buona pace dell'art. 3 Cost., non è presente alcun accenno ai - tantissimi - rapporti di lavoro in corso instaurati prima del 7 marzo 2015 ed ancor oggi sottoposti alla disciplina, altrettanto speciale, prevista dal legislatore negli anni 1966 e 1970. Inoltre, va evidenziato come tale pronuncia continui la lunga serie di interventi della Consulta sulle più recenti disposizioni di legge emanate in materia di licenziamento e rimedi. Nel solo periodo dal settembre 2018 ad oggi, infatti, includendo nell'elenco la sentenza qui analizzata si possono annoverare addirittura 12 decisioni della Corte Costituzionale (nel dettaglio: Corte cost. n. 194/2018; Corte cost. n. 150/2020; Corte cost. n.254/2020; n.59/2021; Corte cost. n. 125/2022; Corte cost. n.183/2022; Corte cost. n. 7/2024; Corte cost. n. 22/2024; Corte cost. n.44/2024; Corte cost. n.128/2024; Corte cost. n.129/2024; Corte cost. n.118/2025) che di fatto hanno riscritto tanto la riforma dell'art.18 dello Statuto, disposta nel 2012 con la Legge Fornero (quattro pronunce), quanto il successivo D. Lgs. n.23/2015sul contratto a tutele crescenti (otto pronunce). Tale percorso giurisprudenziale, pertanto, ha ridisegnato nel suo insieme l'impianto normativo che disciplina i licenziamenti ed rispettivi meccanismi di tutela. Nel ricordare ciò, non si vuole certo disconoscere il dovere istituzionale della Corte di salvaguardare i fondamentali principi costituzionali ponendo rimedio agli errori del legislatore, bensì sottolineare la frequenza e l'inevitabile incoerenza sistematica di tali separati interventi modificativi e, conseguentemente, l'aumento della già enorme incertezza interpretativa di cui abbiamo sopra parlato. Sull'argomento, con particolare riferimento alle specifiche conseguenze applicative della sentenza n.118/2025, va considerato che l'emendato art. 9 d.lgs. n.23/2015 rinvia all'art. 3 del Decreto medesimo per la determinazione dei criteri risarcitori; il quale però, a sua volta, era stato già dichiarato incostituzionale con la sentenza n.194/2018 nella parte in cui al medesimo scopo fissava un automatismo basato sull'anzianità di servizio, ripristinando in tal modo l'ampia discrezionalità del giudice in proposito. In definitiva, sulla base di quanto disposto con la pronuncia esaminata (mancata rimozione del dimezzamento dell'ammontare delle indennità, rimozione invece del tetto di sei mensilità) l'unica certezza è che d'ora innanzi la misura massima dell'indennizzo a carico dei piccoli datori di lavoro sarà di 18 mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR (risultato ottenuto dividendo per metà il limite massimo di 36 mensilità fissato per le grandi imprese dall'art. 3, comma 1, d.lgs. n.23/2015). Un'ultima considerazione. Al lettore attento non sarà sfuggito che nel giudizio principale avanti il Tribunale di Livorno, stando almeno alla ricostruzione in fatto operata in sentenza dal giudice costituzionale, l'ambito normativo di riferimento (quello tipico delle imprese “sottosoglia”) è stato individuato mediante la produzione in giudizio da parte del datore di lavoro convenuto - costituitosi tardivamente - di un certificato camerale che indicava nel numero di 14 i lavoratori alle proprie dipendenze. La lavoratrice, nel proprio ricorso, aveva per contro sostenuto che lo stesso datore di lavoro era in realtà una società di capitali sottoposta al regime risarcitorio delle cc.dd. imprese di grandi dimensioni. A fronte di tale condizione processuale, il giudice a quo ha motivato la propria ordinanza di rimessione alla Corte affermando, in punto di rilevanza della q.l.c., “di non poter definire il giudizio pendente dinanzi a sé indipendentemente dalla risoluzione delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, sollevate nei termini sopra indicati [...] dato che è provato che la società datrice di lavoro non ha mai avuto più di 14 dipendenti” (ricostruzione in fatto, punto 1.2.1, sent. Corte cost n.118/2025). L‘assunto del giudice rimettente risulta erroneo. Invero, se, come almeno si evince dalla lettura della sentenza costituzionale, il convenuto e deducente datore di lavoro si è costituito nel giudizio principale tardivamente e quindi in violazione dell'art.416 c.p.c., allo stesso, che non risulta essere stato rimesso in termini dal Tribunale, era in quel processo precluso indicare a sostegno della propria tesi (cioè dell'insussistenza nei suoi confronti del requisito dimensionale fissato dall'art. 18 St. lav) mezzi di prova, ivi compreso il deposito di documenti. E, ricordiamo, in subiecta materia è invece onere del datore stesso fornire prova dell'insussistenza del requisito dimensionale in questione (cfr., per tutte, Cass. n.38029/2022; Cass. n. 13689/2025). Ciò significa che, nel caso concreto – ai sensi dell'art. 23, comma 2, legge n.87/1953– il giudizio principale ben poteva essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale prospettata, decidendosi la causa sulla base della regola formale di giudizio fondata sul principio di soccombenza della parte che non ha fornito la prova dei fatti allegati ex art. 2697 c.c. A fronte di ciò, la Consulta non ha ritenuto di dichiarare la (manifesta) inammissibilità della questione sollevata per difetto di rilevanza, pronuncia che avrebbe precluso l'esame di merito dei dubbi di costituzionalità, limitandosi a riportare – senza alcuna valutazione o commento – la motivazione (erronea) espressa in punto dal giudice rimettente. La cosa sorprende non poco l'interprete che, a dire il vero , ha visto nel tempo la Corte Costituzionale misurarsi costantemente con la nozione di rilevanza, uno dei due fondamentali requisiti di ammissibilità, oltre alla manifesta infondatezza, di ogni questione incidentale di legittimità costituzionale. Purtuttavia, la decisione ora assunta può ritenersi non in contrasto con la giurisprudenza della Corte medesima, secondo la quale “il requisito della rilevanza, proprio del giudizio incidentale di costituzionalità, opera soltanto nei confronti del giudice a quo ai fini della prospettabilità della questione, ma non anche nei confronti della Corte ad quem al fine della decisione sulla medesima. In questa chiave, si spiega come mai, di norma, la Corte costituzionale svolga un controllo di mera plausibilità sulla motivazione contenuta, in punto di rilevanza, nell'ordinanza di rimessione” (sic Corte cost. sent. n.10/2015). Non senza peraltro notare che, in questo caso, nella sentenza della Corte non vi è traccia neppure del menzionato «controllo di mera plausibilità» sulla motivazione espressa in punto di rilevanza dal Tribunale rimettente. |