Ma l’indizio non può essere equivoco

11 Settembre 2025

La Corte di cassazione afferma un principio corretto, ma con una motivazione ultronea, per cui la valutazione dei gravi indizi di colpevolezza a fini cautelari, in caso di significato equivoco, non può prescindere dalla regola di giudizio a favore dell'imputato. In realtà è l'indizio stesso che, per essere tale, deve essere univoco e non prestarsi a diverse interpretazioni.

La vicenda

La Corte di cassazione ha affermato che la valutazione dei gravi indizi di colpevolezza a fini cautelari non può prescindere dalla regola di giudizio a favore dell'imputato nel caso di dubbio, in quanto, se due significati possono ugualmente essere attribuiti a un dato probatorio, deve privilegiarsi quello più favorevole all'imputato, che può essere accantonato solo ove risulti inconciliabile con altri univoci elementi di segno opposto (Cass. pen., sez. VI, 22 settembre 2016, n. 44963, Rv. 268128; Cass. pen., sez. I, 17 maggio 2011, n. 19759, Rv. 250243), purché l'ipotesi alternativa sia dotata di razionalità e plausibilità pratica e si tratti di valutazione allo stato degli atti.

La sentenza richiama il precedente delle Cass. pen., sez. un., 22 marzo 2000, n. 11, Audino, Rv. 215828 (e ribadito da successive pronunce tra le quali, da ultimo, Cass. pen., sez. VI, 17 giugno 2019, n. 27866, Rv. 276976; Cass. pen., sez. IV, 29 maggio 2013, n. 26992, Rv. 255460), in tema di misure cautelari personali, allorché sia denunciato, con ricorso per cassazione, vizio di motivazione del provvedimento emesso dal tribunale del riesame in ordine alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza, alla Corte di cassazione spetta il compito di verificare, in relazione alla peculiare natura del giudizio di legittimità e ai limiti che ad esso ineriscono, se il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l'hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario a carico dell'indagato, controllando la congruenza della motivazione riguardante la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l'apprezzamento delle risultanze probatorie.

La Corte premette che la richiesta di riesame ha la specifica funzione, come mezzo di impugnazione, sia pure atipico, di sottoporre a controllo la validità dell'ordinanza cautelare con riguardo ai requisiti formali enumerati nell'art. 292 c.p.p. e ai presupposti ai quali è subordinata la legittimità del provvedimento coercitivo. La sentenza precisa che la motivazione della decisione del tribunale del riesame, dal punto di vista strutturale, deve essere conformata al modello delineato dal citato articolo, ispirato al modulo di cui all'art. 546 c.p.p., con gli adattamenti resi necessari dal particolare contenuto della pronuncia cautelare, non fondata su prove, ma su indizi e tendente all'accertamento non della responsabilità, bensì di una qualificata probabilità di colpevolezza.

In precedenza si era altresì affermato che per gravi indizi di colpevolezza ai sensi dell'art. 273 c.p.p. devono intendersi tutti quegli elementi a carico, di natura logica o rappresentativa che – contenendo “in nuce” tutti o soltanto alcuni degli elementi strutturali della corrispondente prova – non valgono, di per sé, a provare oltre ogni dubbio la responsabilità dell'indagato e tuttavia consentono, per la loro consistenza, di prevedere che, attraverso la futura acquisizione di ulteriori elementi, saranno idonei a dimostrare tale responsabilità, fondando nel frattempo una qualificata probabilità di colpevolezza (Cass. pen., sez. un., 21 aprile 1995, n. 11, Costantino, Rv. 202002; Cass. pen., sez. II, 14 giugno 2013, n. 28865, Rv. 256657).

Secondo la sentenza, ciò non equivale ad affermare che la valutazione dei gravi indizi di colpevolezza a fini cautelari debba prescindere   dalla regola di giudizio a favore dell'imputato nel caso di dubbio, in quanto, se due significati possono ugualmente essere attribuiti a un dato probatorio, deve privilegiarsi quello più favorevole all'imputato, che può essere accantonato solo ove risulti inconciliabile con altri univoci elementi di segno opposto (Cass. pen., sez. VI, 22 settembre 2016, n. 44963, Rv. 268128; Cass. pen., sez. I, 17 maggio 2011, n. 19759, Rv. 250243), purché l'ipotesi alternativa sia dotata di razionalità e plausibilità pratica e si tratti di valutazione allo stato degli atti.

Osservazioni

La sentenza merita condivisione, anche se giunge ad un risultato ermeneutico corretto attraverso una motivazione ultronea. Infatti, è la stessa nozione di indizio che esige che esso sia univoco e non abbia molteplici significati, perché in quest'ultimo caso diventa un elemento equivoco e perde la natura di indizio.

Come è noto, l'art. 192 comma 2 c.p.p. stabilisce che «l'esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti».

La “gravità” attiene alla concludenza del ragionamento giudiziale, che sulla base di una premessa precisa deve approdare ad enunciare un fatto in termini ragionevolmente non controvertibili.

La “precisione” esige che il dato indiziante sia certo, non vago né inequivoco, e non ambiguo nella sua consistenza storica (pertanto è inammissibile l'“indizio mediato”, la cosiddetta praesumptio de praesumpto, cioè una catena di inferenze che derivano l'una dall'altra e che tolgono certezza al dato indiziante).

La “concordanza” esige che il fatto debba essere inferito da una pluralità di dati indizianti tra loro concordanti nel pervenire alla medesima conclusione (Cass. pen., sez. un., 12 luglio 2005, Mannino).

Perciò, corretto il risultato ermeneutico, ultronea la motivazione a sostegno.

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