Il riconoscimento della cittadinanza iure sanguinis e lo “spartiacque” segnato dalla Corte Costituzionale
23 Settembre 2025
Massima Sono inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 4 del codice civile del 1865, in riferimento all'art. 1 comma 2 Cost., all'art. 3 Cost. (quest'ultimo sotto il duplice profilo sia della irragionevolezza e non proporzionalità sia della irragionevole disparità di trattamento), nonché all'art. 117, primo comma, Cost. (relativamente agli obblighi internazionali e ai vincoli derivanti dall'appartenenza dell'Italia all'Unione europea, questi ultimi con riguardo all'art. 9 del Trattato sull'Unione europea e all'art. 20 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea). Parimenti, sono inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, lettera a, della legge 5 febbraio 1992, n. 91, in riferimento agli artt. 1, comma 2, e 3 Cost. (quest'ultimo sotto il profilo della irragionevolezza e non proporzionalità), nonché all'art. 117, primo comma, Cost. (in relazione agli obblighi internazionali e ai vincoli derivanti dall'appartenenza dell'Italia all'Unione europea, questi ultimi con riguardo all'art. 9 TUE e all'art. 20 TFUE). Infine sono non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, lettera a, della legge n. 91 del 1992, sollevate, in riferimento all'art. 3 Cost., sotto il profilo della irragionevole disparità di trattamento. Il caso La vicenda trae origine dalle più o meno note ordinanze con cui i Tribunali di Bologna, di Roma, di Milano e di Firenze hanno sollevato le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, lettera a, della legge 5 febbraio 1992, n. 91 (nonché dell'art. 4 del Codice Civile del 1865), nella parte in cui, stabilendo che «è cittadino per nascita … il figlio di padre o di madre cittadini», non prevede alcun limite all'acquisizione della cittadinanza iure sanguinis, con il rischio di determinare, tra l'altro, una inammissibile alterazione della stessa nozione di popolo su cui si fonda l'ordinamento costituzionale. Al momento della pubblicazione delle predette ordinanze (evidentemente antecedente alla entrata in vigore del d.l. 28 marzo 2025, n. 36, così come convertito con modificazioni dalla l. 23 maggio 2025, n. 74), infatti, il legame di sangue con l'ascendente era valorizzato senza limiti dall'art. 1, l. n. 91/1992, onde la preoccupazione sulla capacità delle regole e del «sistema» di reggere alle smisurate richieste di riconoscimento della cittadinanza provenienti da discendenti di soggetti emigrati, nel corso del XIX secolo, soprattutto in Argentina, Brasile e Venezuela; richiedenti (ammontanti a decine di milioni di persone e che potrebbero perfino superare il numero dei cittadini che risiedono in Italia) che, non di rado, appaiono totalmente privi di collegamento effettivo con la comunità nazionale. In concorrente prospettiva – oltre ai contingenti profili burocratici (quali l'ordinata funzionalità degli uffici consolari all'estero, dei comuni e degli uffici giudiziari) –, inoltre, si sottolineava come la situazione risulterebbe aggravata tanto dall'avvento delle tecnologie (che agevolerebbero la ricostruzione della propria linea di discendenza) quanto da esigenze di sicurezza nazionale e dal carattere attrattivo della cittadinanza italiana (tenuto conto delle gravi crisi economiche che hanno interessato i Paesi verso i quali si era prevalentemente rivolto il fenomeno migratorio), posto che la cittadinanza italiana offrirebbe la possibilità di trasferirsi in qualunque Paese dell'Unione europea e di evitare il visto d'ingresso negli Stati Uniti d'America. La questione I quesiti su cui occorre interrogarsi sono allora i seguenti: le norme che prevedono il riconoscimento dello status civitatis ai discendenti (nati all'estero, ivi residenti e con la cittadinanza di un altro Stato) di cittadini (o cittadine) italiani sono conformi a Costituzione? Inoltre, nella elaborazione della disciplina relativa alla attribuzione della cittadinanza, di quale margine di discrezionalità gode il legislatore? Ed in che termini la scelta può essere sottoposta al vaglio del giudice delle leggi? Più in generale, però, la Corte Costituzionale si pone una domanda complessa e di fondamentale lacerazione, destinata (verosimilmente) a fungere da «spartiacque» tra il passato ed il futuro: quale idea di cittadinanza si rinviene nella Costituzione Repubblicana? Ebbene, per rispondere all'interrogativo il Collegio, con sobrietà di tono e di parola sembrerebbe finire per affrontare (evitando, del tutto correttamente e coerentemente, indebite interferenze con il potere legislativo) il vero punto critico emerso nel recente dibattito in materia: l'appartenenza al nucleo familiare giustifica ancora l'appartenenza alla comunità statale? Ed a tal fine, è sufficiente il fatto della discendenza o possono essere introdotti (da parte del legislatore) ulteriori elementi di collegamento con la comunità nazionale (quali, per esempio, il legame culturale, linguistico o di territorio)? E, così, l'attenta ricostruzione operata nonché l'esposizione piana e lineare della Corte intercettano – ancora una volta, senza interferenza alcuna (ed in particolare, senza rimettere innanzi a sé stessa ulteriori e spinose questioni di legittimità costituzionale – il «diritto vivente» e la recente Novella recante «Disposizioni urgenti in materia di cittadinanza» (vale a dire il d.l. 28 marzo 2025, n. 36, così come convertito con modificazioni dalla L. 23 maggio 2025, n. 74) offrendo spunti e soluzioni alternative. Le soluzioni giuridiche Accingendosi all'esame delle questioni, occorre preliminarmente fare i conti con le quattro ordinanze di remissione, le quali, affrontando unitariamente il problema dell'acquisto della cittadinanza iure sanguinis, avendo ad oggetto medesime o analoghe norme, ed essendo fondate su censure e su parametri in larga misura coincidenti, consentono un esame unitario della fattispecie. In particolare, ed in estrema sintesi, a fronte di quanti sostenevano che la normativa censurata costituisce il criterio di attribuzione della cittadinanza che trova applicazione da centosessant'anni in Italia (e che, quindi, il suo operare non accompagnato da ulteriori presupposti sarebbe il riflesso della scelta politica effettuata dal legislatore di mantenere un legame con gli emigranti italiani e con i loro discendenti) altri vi hanno individuato una violazione dell'art. 1, comma 2, Cost.; così opinando, si determinerebbe uno «status puramente astratto, afferente ad una sfera meramente individuale», privo della sua «dimensione comunitaria e pubblicistica oltre che di sostanzialità ed effettività» (Trib. Roma, 21 marzo 2025, n. 65) e si arriverebbe ad includere nel concetto di popolo (al quale appartiene la sovranità) «soggetti di fatto totalmente estranei alla comunità nazionale» (Trib. Milano, 3 marzo 2025, n. 66). In tale ottica, è del tutto evidente come il riconoscimento della cittadinanza a favore di chi sia solamente discendente di un cittadino italiano, senza avere altri legami con l'ordinamento interno, possa determinare una profonda alterazione della nozione di popolo, incidendo sullo stesso esercizio della sovranità popolare e, in ultima analisi, sul funzionamento della democrazia. Inoltre, si ipotizzava una violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione sia agli «obblighi internazionali» sia ai «vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario», questi ultimi con riguardo all'art. 9 TUE e all'art. 20 TFUE, che, pur riservando la materia de qua alla disciplina degli Stati, imporrebbero comunque a questi ultimi di rispettare il principio di effettività del vincolo di cittadinanza. Al riguardo, tuttavia, si è obiettato come non sia stato affatto dimostrato che il supposto principio si declini nel senso di impedire in radice agli Stati di prevedere l'acquisizione della cittadinanza per discendenza, anche se il diritto europeo sembrerebbe a ben vedere presupporre, ai fini della libera circolazione dei cittadini europei, «un legame territoriale fra il cittadino e il Paese comunitario di origine» (Trib. Milano, 3 marzo 2025, n. 66). Infine, si è provato ad individuare una violazione dell'art. 3 Cost., confidando di poter trovare una similitudine fra la situazione di chi (avente cittadinanza di altro Stato) discenda da un genitore o da un nonno che era cittadino italiano ma poi è rimasto privo della cittadinanza (art. 4, l. n. 91/1992) e colui che discenda da un remoto avo che non ha mai accertato, rivendicato, esercitato o posseduto lo status civitatis. In buona sostanza, nel tessuto normativo (così come disegnato prima dell'intervento di quella che è stata definita una vera e propria « rivoluzione copernicana », determinata dall'entrata in vigore, il 29 marzo 2025, delle «disposizioni urgenti in materia di cittadinanza»: cfr. A. Lestini, G. Spadaro, Rivoluzione copernicana in materia di cittadinanza iure sanguinis? Lettura a caldo d.l. 28 marzo 2025, n. 36, in Ius Famiglie, 2025) e, ancor prima, sociale di riferimento – entrambi sicuramente più complessi ed articolati rispetto a quelli che si sono provati a descrivere, e che ben emergono dalla lettura dei principali passaggi e snodi argomentativi della pronuncia in epigrafe (che, peraltro, evidenzia l'assoluta novità della questione trattata) – si rinviene, dunque, il principio della « automatica correlazione fra status civitatis e status filiationis » (Corte Cost., 31 luglio 2025, n. 142). Ciò posto, la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibili e non fondate le questioni di legittimità, almeno nei termini in cui sono state proposte. Eppure, nella pronuncia, nonostante il dispositivo ed i facili entusiasmi dei più, sembrerebbe annidarsi un valore che si pone in perfetta continuità con la recente modifica normativa (operata dalla ridetta Novella) e che dovrà ulteriormente confrontarsi e resistere all'altrettanto recente questione di legittimità sollevata dal Tribunale di Torino (Trib. Torino, 25 giugno 2025). Uno dei modi in cui il discorso può essere impostato è, allora, quello che prova ad illustrare – in termini certamente non diffusi e prendendo le mosse, quindi, da una breve disamina della ricostruzione del fenomeno considerato – l'ambito di applicazione (ed i limiti) della originaria normativa in materia di cittadinanza alla luce della riforma. Fino alla introduzione dell'art. 3 bis, l. n. 91/1992 (L. Dell'Osta, G. Spadaro, A. Lestini, Cittadinanza, in Ius Famiglie, 2024; G. Spadaro, G. Gallo, Sulla legittimità costituzionale della cittadinanza italiana iure sanguinis, in Ius Famiglie, 2024) il diritto vivente ha sottolineato che lo status civitatis fondato sul vincolo di filiazione ha natura permanente, è imprescrittibile ed è giustiziabile in ogni tempo in base alla semplice prova della fattispecie acquisitiva integrata dalla nascita da cittadino italiano, donde la prova è nella linea di trasmissione; ne seguiva, quindi, che il soggetto che rivendicava la cittadinanza aveva il solo onere di dimostrare di essere discendente di un cittadino italiano, incombendo sulla controparte, che ne avesse fatto eccezione, la prova dell'evento interruttivo della predetta linea di trasmissione (Cass., Sez. Un., 24 agosto 2022, n. 25317 e n. 25318; G. Bonato, Grande naturalizzazione brasiliana e cittadinanza italiana, in Judicium, 2021). La Suprema Corte a Sezioni Unite, in particolare, ebbe a sottolineare come l'unica prova che – a legislazione invariata – deve essere fornita ai fini dell'accertamento dello status di cittadino fosse quella della discendenza diretta. Si sa, però (ed è sempre bene ricordarlo), come nel mondo del diritto basta «un tratto di penna del legislatore e intere biblioteche vanno al macero» (Julius Von Kirchmann). Il predetto art. 3 bis, l. n. 91/1992, in deroga alle disposizioni vigenti (ed in ragione della straordinaria necessità ed urgenza di introdurre limitazioni nella trasmissione automatica della cittadinanza italiana a persone nate e residenti all'estero, condizionandola a chiari indici della sussistenza di vincoli effettivi con la Repubblica), ha infatti sancito che è considerato non avere mai acquistato la cittadinanza italiana chi è nato all'estero anche prima della data di entrata in vigore del presente articolo ed è in possesso di altra cittadinanza. E, tuttavia, la norma – che, in ogni caso scongiura il fenomeno della apolidia e determina il mantenimento della cittadinanza italiana e, conseguentemente, europea in capo alle persone nate e residenti all'estero alle quali lo stato di cittadini è già stato validamente riconosciuto – fa salve, alternativamente, alcune ipotesi. In estrema sintesi, e per quanto di interesse, lo stato di cittadino dell'interessato è in primo luogo riconosciuto o è accertato giudizialmente, nel rispetto della normativa applicabile al 27 marzo 2025, a seguito di domanda, corredata della necessaria documentazione, presentata all'ufficio consolare o al sindaco competenti (anche nel giorno indicato da appuntamento comunicato all'interessato dall'ufficio competente) ovvero al Tribunale competente non oltre le 23:59, ora di Roma, della medesima data. Inoltre è fatta salva l'ipotesi in cui un ascendente di primo o di secondo grado possiede, o possedeva al momento della morte, esclusivamente la cittadinanza italiana, nonché quella in cui un genitore o adottante è stato residente in Italia per almeno due anni continuativi successivamente all'acquisto della cittadinanza italiana e prima della data di nascita o di adozione del figlio. Ecco che, modificato in tal modo il sistema normativo, è del tutto evidente lo «spartiacque» (fissato alle 23:59, ora di Roma del 27 marzo 2025) che separa la persistente applicabilità della pregressa disciplina dall'operatività delle nuove condizioni richieste per l'acquisizione della cittadinanza iure sanguinis. La logica conseguenza è che la nuova disciplina, non si riverbera sulla rilevanza delle questioni esaminate dalla Corte, in quanto le controversie oggetto dei giudizi principali sono state introdotte prima di tale data; e che, del pari, non ricorrono le condizioni in presenza delle quali questa Corte può rimettere dinanzi a sé stessa questioni di legittimità costituzionale poiché la nuova disciplina non deve essere applicata nel giudizio costituzionale a quo, né sussiste un «rapporto di presupposizione» fra la stessa e quella dedotta dal giudice (tale per cui l'intervento solo su quest'ultima non consentirebbe comunque di rimuovere il vulnus) né tantomeno si rinvengono i «presupposti della particolare urgenza» o «l'esigenza di evitare che la Corte sia tenuta ad applicare leggi incostituzionali» (Corte Cost., 31 luglio 2025, n. 142). Nel “salvare” la precedente disciplina – l'unica oggetto del giudizio di costituzionalità – la sentenza ha peraltro avuto cura di precisare da un lato che la Corte «anche quando si pronuncia per la non fondatezza di una questione, non accerta la conformità a Costituzione della norma censurata, ma si limita a escludere la sussistenza dello specifico vulnus lamentato»; e dall'altro lato che, nella disciplina dell'attribuzione della cittadinanza, il legislatore gode di ampia discrezionalità ma le relative norme (non diversamente da altre discipline connotate da elevata discrezionalità), «non si sottraggono per questo al giudizio di costituzionalità, in quanto devono pur sempre essere compiute secondo canoni di non manifesta irragionevolezza e di proporzionalità rispetto alle finalità perseguite» (Corte Cost., 30 gennaio 2025, n. 25). La Corte Costituzionale, a questo punto, si spinge però oltre, affrontando una serie di profili che assumono rilevanza anche al di là dello specifico caso considerato. Non si limita ad affermare che spetta «al legislatore, che vanta un margine di discrezionalità particolarmente ampio, individuare i presupposti per l'acquisizione dello status» e che «resta ferma la possibilità per il legislatore di declinare in concreto anche i contenuti della cittadinanza, alla luce dei principi costituzionali»; e non aggiunge semplicemente che è compito della Corte accertare – al metro della non manifesta irragionevolezza e sproporzione – che le norme che regolano l'acquisizione dello status civitatis non facciano ricorso a criteri del tutto estranei ai principi costituzionali (Corte Cost., 31 luglio 2025, n. 142), ma sembrerebbe individuare i molteplici tratti che connotano la cittadinanza. Fondamentale si presenta il seguente snodo argomentativo (Corte Cost., 31 luglio 2025, n. 142): «la Costituzione richiama l'idea di cittadinanza quale appartenenza a una comunità che ha comuni radici culturali e linguistiche, ma, al contempo, disegna una comunità aperta al pluralismo e che tutela le minoranze. Infine, le norme costituzionali evocano una correlazione fra cittadinanza e territorio dello Stato, in quanto luogo che riflette un comune humus culturale e la condivisione dei principi costituzionali»; il passaggio, quantomeno, appare decisivo perché v'è da credere che i richiedenti la cittadinanza sono soggetti prevalentemente legati ad altri Stati da vincoli profondi di cultura, identità e fedeltà. Sembrerebbe di capire che un conto è il pluralismo, altro la possibilità di riconoscere come cittadini quegli individui per cui è ormai reciso il legame con lo Stato. La cittadinanza, quale status «rappresentativo di una relazione di appartenenza all'ente» (G. Guzzetta, F.S. Marini, Diritto pubblico italiano ed europeo, Torino, 2011, p. 35), consiste, del resto, proprio nel legame, in cui si compenetra «il regolamento giuridico di tutte le manifestazioni della vita sociale privata e pubblica dell'uomo» (C. Iannaccone, Considerazioni e limiti del diritto fondamentale dell'uomo alla cittadinanza, in Studi in memoria di Giovan Battista Funaioli, Milano, 1961, p. 658), tra gli appartenenti al popolo e lo Stato. Ed ancora, la cittadinanza viene associata «primariamente alla partecipazione politica e ai diritti politici» in quanto la Costituzione «riferisce ai cittadini la titolarità di diritti e di doveri (fra i quali il dovere di difesa della Patria; quello di concorrere alle spese pubbliche e il dovere di fedeltà)» (Corte Cost., 31 luglio 2025, n. 142). Ulteriori spunti provengono, poi, dai vincoli imposti dall'Unione europea i quali richiedono che la cittadinanza europea (caratterizzata dalla garanzia ai cittadini e ai loro familiari della libera circolazione, della libera prestazione dei servizi e della libertà di stabilimento interne, dalla facoltà di godere dei diritti politici e dal diritto alla tutela delle autorità diplomatiche e consolari degli altri Stati membri, alle stesse condizioni dei cittadini di questi ultimi) si fondi sui valori comuni contenuti nell'articolo 2 TUE e sulla fiducia reciproca che gli Stati membri si accordano quanto al fatto che nessuno di essi eserciti tale competenza in un modo che sia manifestamente incompatibile con la natura stessa della cittadinanza dell'Unione. La Corte, beninteso, per dichiarare inammissibili le questioni riconosce l'ampia discrezionalità del legislatore (trattandosi, appunto, di «scelte intrise di discrezionalità») nonché le «rilevanti implicazioni» e le «incisive ricadute a livello di sistema», onde l'intervento richiesto sarebbe manipolativo ed «oltremodo complesso che potrebbe attingere a un ventaglio quanto mai ampio di opzioni», stante la molteplicità e genericità delle variabili su cui si fondano i dubbi di legittimità costituzionale sollevati e, correlativamente, la varietà di scelte discrezionali che dovrebbero essere effettuate (Corte Cost., 31 luglio 2025, n. 142). I giudici rimettenti, invero, non hanno contestato, in generale, l'idoneità del vincolo di filiazione a giustificare, alla luce dei principi costituzionali, l'acquisizione della cittadinanza; in particolare, «le censure non pongono in discussione l'idea secondo cui, in generale, l'appartenenza a una comunità familiare, che è parte della comunità statale, possa implicare l'appartenenza anche a quest'ultima», bensì che sia sufficiente la sola discendenza in mancanza di ulteriori elementi di collegamento con l'ordinamento giuridico italiano (Corte Cost., 31 luglio 2025, n. 142). Da quest'ultimo punto di vista, si stabilisce che i criteri di collegamento con l'ordinamento giuridico non potrebbero che essere rimessi alla discrezionalità del legislatore e, la principale alternativa resterebbe quella di «valorizzare il legame culturale e linguistico con la comunità statale» (tenendo conto della condizione dei cittadini residenti all'estero) ovvero «prediligere un collegamento con il territorio» (Corte Cost., 31 luglio 2025, n. 142). A ben vedere, però, il legame con il territorio, è stato considerato dal legislatore proprio laddove ha previsto una distinzione di presupposti per il riconoscimento della cittadinanza in ragione del fatto che la nascita sia avvenuta in Italia o all'estero (art. 3 bis, l. n. 91/1992). Il vero problema, però, resta sicuramente anche un altro. Quello di valutare e verificare, su di un piano più generale ed alla luce dello «spartiacque» di cui discorre la Consulta, se – posto che lo stato di figlio «costituisce il titolo acquisitivo dello status civitatis» – «l'appartenenza al nucleo familiare continui a svolgere la sua funzione giustificativa di una appartenenza anche alla comunità statale» (Corte Cost., 31 luglio 2025, n. 142), rilevando a tal fine la preferenza accordata, dai vari ordinamenti, al criterio dello ius sanguinis e dello ius soli. Anche qui, a prima lettura sembrerebbe potersi sostenere che l'art. 3 bis l. n. 91/1992, giunge «nei fatti ad una peculiare commistione tra ius sanguinis e ius soli, quest'ultimo criterio andando a mitigare la portata della trasmissione per discendenza» (G. Bonato, Il decreto-legge n. 36 del 28 marzo 2025: la “Grande Perdita” della cittadinanza italiana, in Iudicium, 2025), così chiarendosi che il principio di discendenza non è fine a sé stesso, ma diretto ad assicurare la continuità della comunità nazionale. Da ultimo, preme sottolineare come, oltre alle declaratorie di inammissibilità, la Corte abbia dichiarato non fondate le questioni con cui veniva lamentata una irragionevole disparità di trattamento fra la disciplina oggetto del giudizio e altri meccanismi di acquisizione della cittadinanza (quale l'acquisto della cittadinanza per matrimonio), difettando la «sostanziale identità di situazioni» che deve, invece, sussistere per poter accertare tale vizio di incostituzionalità. Osservazioni Sono forse l’assenza di buon senso da parte di tutti (perché ad una Pubblica Amministrazione e ad una macchina della giustizia non sempre efficiente, si affianca, a quanto è dato apprendere, il mercimonio degli status), probabilmente l’avvento delle nuove tecnologie, unitamente alla (inammissibile) idea di un «acquisto di convenienza egoistica della cittadinanza di altro Stato» da parte dell’individuo al fine di «procurarsi così ambiente più conveniente alle sue ambizioni o alla sua avidità di guadagno» (C. Iannaccone, Considerazioni e limiti del diritto fondamentale dell’uomo alla cittadinanza, cit., pp. 660 ss.), che hanno reso necessarie soluzioni del tipo di quelle in discussione. Il criterio dello ius sanguinis, risalente al Code Napoléon («Tout enfant né d’un Français en pays étranger, est Français») e basato sulla discendenza diretta, è in definitiva (ed almeno nella sua assolutezza) destinato al superamento e la pronuncia in commento sembrerebbe orientarsi proprio in tale direzione. Altri, all’opposto, preferiranno sostenere come la Corte abbia voluto (implicitamente) segnalare un’estraneità dei criteri adottati dal legislatore della riforma rispetto ai parametri costituzionali. La verità è che, nelle pagine della sentenza, ciascuno individuerà e troverà i propri concetti, istituiti e le idee più care (ovvero ve le adagerà senza accorgersene per poi riscoprirle, sostituendo al mondo reale le proprie aspettative e la soluzione prescelta). Piace pensare, dunque, che sul tema si confronteranno (proprio come avvenuto nel secolo scorso quando, seppure con diversità di tono ed eleganza, si discuteva animatamente della eternità e immutabilità del negozio giuridico, senza che il dibattito possa dirsi ancora concluso: cfr. E. Gabrielli, Il negozio giuridico nel tempo presente, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1/2025) scuole di pensiero e membri di studi legali, al pari di coloro che, a vario titolo, cercheranno di sostenere – in vista del futuro giudizio di costituzionalità relativo all’art. 3 bis, l. n. 91/1992 – l’una o l’altra interpretazione. Per il momento, però, l’interprete, con questa conclusione, ha esaurito il suo compito, perché solo la luce della Corte Costituzionale, che nella vicenda in oggetto ha brevemente illuminato il fenomeno, potrà consentire di mettere (definitivamente) ordine nelle incontrollate ed incontrollabili digressioni sistematiche che si affastellano in questa materia. |