Codice Penale art. 56 - Delitto tentato.

Geppino Rago

Delitto tentato.

[I]. Chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato [8 4 c.p.p.], se l'azione non si compie o l'evento non si verifica [49 2].

[II]. Il colpevole del delitto tentato è punito: (1) con la reclusione non inferiore a dodici anni, se la pena stabilita è l'ergastolo; e, negli altri casi, con la pena stabilita per il delitto, diminuita da un terzo a due terzi.

[III]. Se il colpevole volontariamente desiste dall'azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso.

[IV]. Se volontariamente impedisce l'evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà [62 n. 6, 289-bis 4, 309 2, 463, 630 4-5, 655 2].

(1) Il testo originario del comma esordiva con: «Il colpevole del delitto tentato è punito: con la reclusione da ventiquattro a trenta anni, se dalla legge è stabilita per il delitto la pena di morte;». Tale norma è da ritenersi abrogata, in quanto per i delitti previsti nel codice penale e in altre leggi diverse da quelle militari di guerra, la pena di morte è stata soppressa e sostituita con l'ergastolo: d.lg.lt. 10 agosto 1944, n. 224 e d.lg. 22 gennaio 1948, n. 21. Per i delitti previsti dalle leggi militari di guerra, la pena di morte è stata abolita e sostituita con quella «massima prevista dal codice penale» (l. 13 ottobre 1994, n. 589). V. ora anche art. 27 4 Cost., come modificato dall'art. 1, l. cost. 2 ottobre 2007, n. 1. V. inoltre la l. 15 ottobre 2008 n. 179, di ratifica del Protocollo n. 13 del 3 maggio 2002 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali, relativo all'abolizione della pena di morte in qualsiasi circostanza.

Inquadramento

L'art. 56 prevede e regola il delitto tentato.

Il comma 1 indica gli elementi in base ai quali un delitto può ritenersi tentato e, quindi, punibile.

Il comma 2, regola il sistema sanzionatorio.

I commi 3 e 4 disciplinano le ipotesi del tutto peculiari della desistenza e del cd recesso attivo.

La punibilità del tentativo, risalente al diritto giustinianeo, si è consolidata nel corso dei secoli finché, con varie modalità, ha trovato ingresso nei codici preunitari, per essere, poi, definitivamente sancita prima con il codice Zanardelli e, poi, con il codice Rocco.

Ratio legis: è discussa tuttora la ragione per cui il tentativo è punibile.

Secondo la tesi dominante (c.d. teoria oggettiva), il tentativo è punibile perché il bene giuridico protetto dalla norma penale, sebbene non completamente leso, subisce pur sempre un'aggressione meritevole, quindi, di essere sanzionata penalmente (Fiandaca-Musco, 2014, 479; Marinucci-Dolcini, 2015, 431; Romano, 587); Cass. I, n. 9284/2014 (in motivazione).

Ad avviso di altri autori (c.d. teoria soggettiva), invece, la ratio legis, andrebbe ravvisata nella pericolosità sociale dell'agente (Manzini, Trattato, II, 472 ss; Scarano, 134).

Infine, secondo la teoria c.d. mista «solo la sintesi fra manifestazione di volontà criminosa e esposizione a pericolo del bene può fornire comprensione ontologica all'istituto, ove entrambi i requisiti si dimostrano elementi sui quali costruire la realtà del delitto tentato. Per l'ordinamento, allora, la punibilità del tentativo deve fondarsi tanto sulla manifestazione della volontà quanto sul pericolo per il bene protetto, senza che si possa prescindere dall'una o dall'altra: in questo modo il delitto tentato, come ogni reato, risulta costituito da un elemento oggettivo e da uno soggettivo, nel quale la pericolosità sociale del reo può venire generalmente alla luce per determinare la eventuale irrogazione della misura di sicurezza, con l'autonoma e ulteriore componente di consentire l'applicazione di quest'ultima anche nei casi in cui — per quanto diversi dal tentativo — nella astratta previsione della legge non è consentita la applicazione della pena» (Montanara § 2; Mantovani, PG 1979, 379; Pagliaro, PG 345; Giacona, 879).

Natura giuridica: il reato tentato, essendo il frutto della combinazione fra l'art. 56 e la singola norma, è un reato autonomo e, quindi, il tentativo non è una circostanza attenuante secondo la concorde opinione sia della dottrina (Fiandaca-Musco, PG, 479; Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 432; Manzini Trattato, II, 475) che della giurisprudenza (ex plurimis Cass. III, n. 8226/1976; Cass. S.U. n. 40985/2018 con nota di Seminara)

Conseguenze pratiche: la circostanza che, non sempre, le singole norme stabiliscono se i vari istituti si applicano anche al tentativo, ha fatto sorgere il problema della loro compatibilità con il reato tentato.

La suddetta questione è stata, normalmente, risolta dalla giurisprudenza, non sulla base di un astratto criterio dogmatico, ma alla stregua di un'analisi concreta della compatibilità del singolo istituto con la struttura del reato tentato: infra.

L'autonomia del reato tentato si riflette anche sulla pena:

se la pena per il delitto è quella dell'ergastolo, al colpevole del delitto tentato, si applica la pena non inferiore a dodici anni (e, quindi, nel massimo, a ventiquattro anni ex art. 23, non essendo stata prevista la pena massima);

negli altri casi, la norma stabilisce che la pena è diminuita da un terzo a due terzi;

La pena minima invalicabile resta comunque quella di giorni quindici ex art. 23 (Cass. III, n. 29985/2014).

L'elemento oggettivo

L'art. 56, comma 1 stabilisce che risponde del delitto tentato, colui che compie atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, se l'azione non si compie o l'evento non si verifica.

La norma, quindi, indica due elementi oggettivi: a) l'idoneità degli atti; b) la non equivocità dei medesimi.

Che cosa si debba intendere con le due suddette locuzioni, costituisce il fulcro della problematica del tentativo, proprio perché a seconda di come le si intendano, una determinata condotta risulterà punibile o meno.

Un breve cenno all'origine storica della formulazione dell'art. 56 consente di meglio comprendere la problematica.

L'art. 61 del codice Zanardelli («Colui che, al fine di commettere un delitto, ne comincia con mezzi idonei l'esecuzione, ma per circostanze indipendenti dalla sua volontà non compie tutto ciò che è necessario alla consumazione di esso, è punito [...]») in linea con il codice napoleonico, distingueva fra atti preparatori (non punibili) ed atti esecutivi (punibili).

Sennonché, quando si trattava di distinguere gli uni dagli altri, nonostante le varie teorie proposte, ci si rese conto che, spesso, la suddetta operazione era destinata ad essere inevitabilmente frustrata.

«Di vero, ad una prospettazione iniziale volta a circoscrivere gli atti preparatori nella sfera del soggetto attivo del reato, e quelli esecutivi nell'invasione della sfera del soggetto passivo, o ad un'altra, volta a distinguere la causa inerte da quella in movimento, non si è mancato di obiettare che, rispettivamente, non viene chiarito quando sia invasa la sfera del soggetto passivo, né come prescindere dalla considerazione che ogni reato è, per necessità, in movimento, così che la distinzione operata sarebbe comunque inidonea a separare gli atti preparatori da quelli esecutivi; né a miglior fortuna è approdata la tesi che ha fatto ricorso alla impostazione legale del reato consumato, rendendo esecutivi gli atti tipici della fattispecie di parte speciale che darebbero inizio alla infrazione del precetto penale, poiché, nei reati a forma libera, il tentativo punibile verrebbe a dilatarsi eccessivamente, ricomprendendo anche gli atti preparatori, mentre si restringerebbe oltremodo nei reati a forma vincolata, senza potersi così garantire adeguatamente la società contro il crimine. Per uscire dall'impasse, sul presupposto dichiarato della impossibilità di distinguere fra atti preparatori e atti esecutivi, nell'attuale codice penale è stata soppressa la controversa statuizione normativa, sostituendosi la teoria della esecuzione con quella della idoneità ed univocità degli atti, ritenuta sufficiente a stabilire quando la condotta divenga delittuosa, sul presupposto della univoca direzione dell'atto idoneo a realizzare il delitto perfetto, così da porre al centro della formulazione del tentativo il pericolo di realizzazione del medesimo» (Montanara § 4).

Fu così che il legislatore del 1930, preso atto dell'insufficienza delle varie tecniche escogitate per distinguere la fase preparatoria da quella propriamente esecutiva, ritenne di risolvere il problema introducendo il doppio criterio dell'idoneità e della non univocità degli atti.

Ma, il dibattito non si spense, perché, si ripropose, negli stessi termini.

Segue. L'idoneità degli atti

«L’idoneità è un giudizio prognostico avente ad oggetto una condotta “univoca” e come risultato la probabilità (o meno) di perfezionamento del delitto perseguito dal soggetto» (Palazzo, 2016, 474).

L'idoneità era un criterio che era richiesto anche dall'art. 61 codice Zanardelli: ma, e, qui sta la differenza fondamentale, mentre nel cod. abrogato veniva riferita ai mezzi adoperati, nel cod. del 1930 è riferita agli atti.

La dottrina ha subito notato che la nuova formula, ha ampliato, rispetto al codice Zanardelli, la sfera di punibilità del tentativo: infatti, l'accertamento dell'idoneità degli atti «esclude a priori comportamenti innocui, privi di una significativa (congrua, rilevante) potenzialità di danno per l'interesse protetto. Anziché ai mezzi l'idoneità è riferita agli atti, cioè all'insieme dell'attività svolta dal soggetto realizzando la sua volontà. Rispetto a mezzi, atti è termine più vasto, che allude non soltanto allo strumento impiegato dall'agente, ma più ampiamente ai fattori azione-mezzo-oggetto nella loro presenza e compenetrazione nella situazione contingente: il riferimento introduce pertanto una concretizzazione dell'idoneità che supera la classica contrapposizione fra idoneità assoluta e idoneità relativa, o fra idoneità e insufficienza» (Romano, Commentario, 591).

La nuova locuzione (idoneità degli atti e non dei mezzi) ha dato, però, adito ad una complessa problematica che, in termini, sintetici, può essere riassunta nei seguenti quesiti:

a) quando l'atto deve considerarsi idoneo;

b) in cosa deve consistere l'idoneità;

c) come l'idoneità dev'essere accertata.

Quando l'atto deve considerarsi idoneo.

 Ad avviso di alcuni autori, l'atto è idoneo quando ha un'efficienza causale nella determinazione dell'evento: Manzini, Trattato, II, 490; Morselli § 8; Scarano, 167. In terminis, Cass. VI, n. 27323/2008.

Sennonché la suddetta tesi, è stata superata essendosi osservato che: a) ogni tentativo diverrebbe non punibile mancando, per assioma, l'evento; b) la suddetta tesi, presupponendo, un giudizio ex post, ossia a fatto avvenuto, condurrebbe inevitabilmente a ritenere l'azione sempre inidonea; c) «l'utilizzazione di un concetto di idoneità in chiave causale presupporrebbe che tutti i reati presentino nella loro struttura un vento naturalistico. Ma, così non è nell'ambito di reti di mera condotta: onde, l'idoneità va riferita, se si vuole tenere conto di tutte le tipologie delittuose, alla commissione del delitto che viene di volta in volta in questione»: Fiandaca-Musco, PG, 485; Pagliaro, 353.

Si è, quindi, affermata la tesi secondo la quale l'idoneità del tentativo va accertata secondo un giudizio ex ante, ossia di prognosi postuma, nel senso che, per accertare l'idoneità, il giudice deve porsi nella situazione dell'agente nella fase della realizzazione dell'azione, in base alle condizioni meramente prevedibili nel caso particolare, che non può essere condizionata dagli effetti realmente raggiunti: Cass. II, n. 36311/2019; Cass. I, n. 32851/2013; Cass. II, n. 44148/2014.

In cosa deve consistere l'idoneità

La dottrina, è divisa sul grado dell'idoneità e cioè su quale sia il criterio che si deve seguire per stabilire quando l'atto supera la soglia dell'idoneità e, quindi, quando diventa punibile.

Sul punto, sono state proposte varie teorie che, però, sostanzialmente, possono essere ridotte a due grandi filoni: la teoria possibilistica e quella probabilistica.

I sostenitori della teoria possibilistica ritengono che l'idoneità dev'essere intesa come mera possibilità di verificarsi dell'evento (Pagliaro, PG, 353).

Al che si è replicato nei seguenti termini: «effettivamente, questa impostazione ha il pregio di offrire una nozione di facile praticabilità e poco discrezione. Infatti, se è assai arduo pervenire a stimare addirittura impossibile la realizzazione di un risultato, il concetto di possibilità, proprio per la sua estrema ampiezza concettuale, darebbe luogo a un giudizio altamente tassativo, dovendo di regola il giudice pronunziarsi per l'idoneità degli atti. Tuttavia, questi vantaggi hanno un prezzo assai elevato: quello di ridurre a un flatus vocis la verifica dell'idoneità, che non giocherebbe alcun ruolo ai fini della determinazione degli atti dell'iter criminis che rientrano nella sfera di libertà del cittadino» (Giacona, 884).

La maggioranza della dottrina, si è, quindi, orientata a ritenere più fondata la tesi probabilistica, nel senso che l'atto deve ritenersi idoneo «tutte le volte che il piano del reo, al momento in cui fu intrapreso, presentava delle probabilità di successo»: Antolisei, PG 1975, 396; Fiandaca-Musco, PG, 487; Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 441, Giacona, 884; Montanara, § 6; Palazzo , 2016, 475, secondo i quali, per accertare la probabilità del verificarsi di un evento, il giudice dovrà fare ricorso alle leggi scientifiche note al momento dell'accertamento (ad es. sarà la balistica a dire se l’esplosione di quel colpo d’arma da fuoco presentava la probabilità di colpire il bersaglio), tenendo conto anche di speciali conoscenze scientifiche di cui al momento dell'azione, disponesse il singolo agente, nonché alle massime di esperienza (ad es. l’esperienza dice che è probabile che chi ha sequestrato la propria vittima per sottoporla a violenza sessuale non desisterà di fronte alla resistenza e alle implorazioni della stessa).

Accertamento dell'idoneità

 A questo punto, però, si è posto un ulteriore problema: se l'idoneità va accertata ex ante (con prognosi postuma) sulla base di un giudizio di probabilità, di quali circostanze si deve tener conto? Di tutte quelle esistenti al momento dell'azione, anche se non conosciute né conoscibili dall'agente (cd criterio dell'inidoneità assoluta o a base totale: sulla base di tale criterio, « dovrebbe giudicarsi inidoneo il colpo di pistola o l'azione furtiva compiute rispettivamente nei confronti di chi indossava il giubbotto protettivo anche se assolutamente invisibile o di chi aveva dimenticato di prendere il portafogli »: Palazzo, 2016, 475) o solo di quelle « normalmente conoscibili da un ipotetico osservatore dei fatti fornito di medie conoscenze, eventualmente arricchite da quelle maggiori dell'agente concreto » (cd. criterio dell'inidoneità relativa o a base relativa: «dunque, per esempio, non si terrà conto dell'assenza del portafogli nella borsetta di un'elegante signora, non essendo ragionevole supporre ciò; così come si terrà invece conto dell'invisibile giubbotto qualora l'agente fosse a conoscenza della sua esistenza»: Palazzo, op. loc. cit.) (Giacona, 887).

Parte della dottrina (Pagliaro, PG, 353 ss.; Romano, Commentario, 591; palazzo, 2016, 474) e, comunque la giurisprudenza (Cass. VI, n. 23706/2004; Cass. II, n. 28213/2010; Cass. II, n. 46776/2012; Cass. II, n. 44148/2014; Cass. V, n. 7341/2015), accolgono tesi dell'inidoneità relativa (o concreta:), al contrario di altra parte della dottrina (Fiandaca-Musco, PG, 486; Giacona, 888; Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 442, secondo i quali, la suddetta conclusione è imposta dal principio di offensività che vincola l'interprete nella ricostruzione delle norme).

 Va osservato che accogliere l'una o l'altra tesi ha notevoli conseguenze pratiche nelle seguenti fattispecie:

— nelle classiche ipotesi in cui il reato non può essere consumato perché manca l'oggetto del reato e cioè quando sia inesistente "in rerum natura" o si tratti di inesistenza originaria ed assoluta, non anche quando l'oggetto sia mancante in via temporanea o per cause accidentali:

Cass. I, n. 12407/2020: ha ritenuto sussistente il tentativo di lesioni aggravate nei confronti di un imputato il quale, dopo un litigio con la persona offesa, armato di una katana, si era recato presso il pronto soccorso alla ricerca della persona offesa, al momento assente;

Cass. II, n. 50733/2019 : in una fattispecie in cui l'imputato aveva usato violenza finalizzata ad ottenere la rinuncia alla gestione di un fondo per ottenere un'indennità di esproprio in realtà non conseguibile, ha ritenuto insussistente il reato di tentata estorsione riqualificando il fatto come violenza privata;

Cass. II, n. 3189/2009 , ha ritenuto sussistente la tentata rapina in una fattispecie in cui la borsa della vittima non conteneva denaro: conformi, Cass. III, n. 16499/2019; Cass. II, n. 51514/2013 (con nota di Guidi), in una fattispecie in cui nel registratore di cassa non vi era denaro;

Cass. II, n. 8026/2014; Cass. III, n. 26505/2015 hanno ritenuto sussistente il tentativo di importazione di sostanze stupefacenti, nonostante il mancato reperimento di queste ultime, in virtù sia degli accordi presi per la fornitura di un grande quantitativo di droga, sia dell'invio, da parte degli acquirenti, di una « garanzia umana » richiesta dai fornitori, sia della predisposizione delle operazioni di sdoganamento;

— nell'ipotesi in cui l'azione sia inidonea, e cioè quando, in base al criterio di accertamento della prognosi postuma, sia assolutamente inidonea, nel senso che la condotta dell'agente deve essere priva di astratta determinabilità causale nella produzione dell'evento, per inefficienza strutturale o strumentale del mezzo usato, indipendentemente da cause estranee o estrinseche, ancorché riferibili all'agente.

Cass. I, n. 870/2020, ha ritenuto il tentato omicidio nella condotta dell'imputato che, nel corso di una rapina, dopo aver sottratto una pistola alla persona offesa, aveva premuto più volte il grilletto senza riuscire a far fuoco per l'inserimento del dispositivo di sicurezza manuale dell'arma;

in tema di predisposizione un servizio di appostamento della Polizia, si ritiene la configurabilità del tentativo: ex plurimis: Cass. S.U.n. 19/1999; Cass. II, n. 12075/2019; Cass. II, n. 27601/2009; Cass. fer., n. 32522/2010; Cass. II, n. 1619/2013);

Cass. IV, n. 16474/2008 ; Cass. VI, n. 39216/2013, per l'attività dell'agente provocatore, hanno ritenuto la sussistenza del tentativo, e non del reato impossibile, quando l'inidoneità dell'azione sia determinata dall'incidenza di un fattore esterno;

Cass. II, n. 40624/2012 , in una fattispecie relativa all'avvenuta falsificazione di un biglietto “gratta e vinci” con successiva presentazione dello stesso all'Autorità competente ad erogare il premio.

Va osservato che, ove dovesse propendersi per la tesi dell'inidoneità assoluta, i suddetti comportamenti sarebbero sanzionati solo con una misura di sicurezza, ex art. 49 c.p., al cui commento, comunque, si rinvia.

Segue. L'univocità degli atti

Il criterio dell'univocità fu introdotto, per la prima volta, dal legislatore del 1930, nonostante fosse stato un criterio molto controverso sotto il regime del previgente codice: infatti, benché il codice Zanardelli non lo prevedesse fra i requisiti del tentativo, si discuteva se l'univocità potesse essere un criterio utile per stabilire se una determinata condotta potesse essere ritenuta tentativo punibile o meno.

Si era, infatti, osservato che, facendo leva sul suddetto criterio si finiva, inevitabilmente, per entrare nell'ambito delle intenzioni dell'agente, anticipando, così, la soglia di punibilità del tentativo: infatti, avendo la nozione confini molto labili, la medesima si prestava ad essere facilmente manipolabile in senso accusatorio proprio perché si trattava di interpretare la volontà dell'agente e capire quando una determinata condotta fosse diretta in modo non equivoco al compimento di un determinato delitto. Fu proprio per questo motivo che il criterio dell'univocità finì per essere abbandonato sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza sotto il vigore del codice Zanardelli.

Introdotto a chiare lettere nel codice del 1930, secondo alcuni autori, l'obiettivo del legislatore era stato proprio quello di anticipare la soglia di punibilità della condotta dell'agente: «ad una attenta analisi appare insomma plausibile che la novazione non sia stata meramente formale, e che una effettiva estensione ed anticipazione della punibilità, in funzione di un più efficiente rigore repressivo, siano state programmate dal legislatore dell'epoca» (Morselli § 11).

Si ripropose, quindi, quello che costituisce il problema principale del tentativo: quand'è che si può ritenere iniziata l'attività punibile?

Per la corretta disamina della problematica, è opportuno, innanzitutto, partire da quelle situazioni che, pacificamente, sono classificabili come ipotesi di reato tentato e, quindi, punibili. « E' sicuramente univoca quella condotta che nei delitti di evento abbia già integralmente esaurito il comportamento tipico dell'agente, senza che tuttavia si sia verificato l'evento: così ad esempio, univoca è la condotta di chi abbia propinato l'intera dose letale di veleno (cd. tentativo compiuto). Come pure sarà univoca, in secondo luogo quella condotta che, pur senza aver esaurito il comportamento tipico, ne abbia tuttavia realizzato almeno una parte: così, ad esempio, nel caso di chi sia già riuscito a "sottrarre" il portafogli dalla tasca della vittima, ma non se ne sia ancora "impossessato" facendolo sparire nelle proprie tasche e poi dile­guandosi. Così come, infine, può essere considerata univoca anche la con­dotta che, pur non realizzando nemmeno una parte del comportamento tipico, sia però immediatamente antecedente a quest'ultimo (c.d. atti pretipici) come, ad esempio, nel caso di chi venga sorpreso nel momento in cui, dopo essere entrato clandestinamente nella villa, stia forzando la cassaforte da svaligiare. Queste due ultime ipotesi, di condotta parzialmente tipica e degli atti pretipici, realizzano il c.d. tentativo incompiuto»: Palazzo, 2016, 474.

 La questione, quindi, si riduce agli atti che stanno a monte degli atti pretipici, ossia agli atti preparatori che, in quanto tali, non sono punibili salvo espressa previsione legislativa come avviene ad es. per la detenzione della carta filigranata ex art. 461.

Ma, nella prassi, non è affatto semplice distinguere fra atti pretipici (punibili) e atti preparatori (non punibili).

Alcuni autori continuano a distinguere gli atti preparatori (non punibili) da quelli esecutivi (punibili): «la validità della formula, comprovata dalla sua resistenza nel tempo, induce a ritenere che ciò si sia verificato solo attraverso un ampliamento della sfera degli atti esecutivi, senza peraltro giungere fino al punto di rendere rilevanti gli atti preparatori. Più precisamente, con la tuttora vigente formula della univocità degli atti, la tradizionale distinzione tra atti preparatori non punibili e atti esecutivi punibili è rimasta in piedi: il mutamento ha inciso soltanto sul significato e sulla portata del termine «esecuzione»; e ciò nel senso che si è inteso estenderne la portata logica, fino a ricomprendere in esso atti sulla cui esatta valenza vigeva fino allora incertezza in dottrina, in modo da renderli individuabili come «esecutivi in senso lato»: Morselli, § 11; Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 435 ss., argomentando dall'art. 115, sostengono che, ai fini del tentativo, sono irrilevanti gli atti preparatori (ossia «gli atti che abbiano un carattere strumentale rispetto alla realizzazione, non ancora iniziata, di una figura di reato») e che «non è particolarmente difficile individuare l'inizio di esecuzione nei reati a forma vincolata: esecutivi sono gli atti che corrispondono allo specifico modello di comportamento descritto dalla norma [...] quanto ai reati a forma libera [...] l'azione tipica s'individua in funzione del mezzo scelto in concreto dall'agente», sicché, ad es., nelle rapina aggravata, si ha tentativo solo quando «si entri nei locali di una banca gridando minacciosamente “questa è una rapina” e spianando le armi contro impiegati e clienti, mentre sono atti preparatori di quella rapina non solo l'acquisto delle armi e lo studio dei luoghi, ma anche l'arrivo dei rapinatori in auto davanti all'ingresso della banca con tutta la necessaria dotazione di armi e travestimenti»; Cingari, 861.

Altra parte della dottrina, preso atto della novità, ha cercato di individuare il campo di applicazione del criterio dell’univocità ritenendolo complementare a quello della idoneità, ed utile alla individuazione dell'attività punibile, proprio perché consente di valutare l'azione così come teleologicamente orientata.

Sono state così prospettate due tesi: una soggettiva (Scarano, 79; Azzali), l’altra oggettiva (Morselli § 12; Antolisei, PG 1975, 392; Fiandaca-Musco, PG, 490; Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 435).

Le suddette tesi, sono state riassunte da un autorevole scrittore (Romano, Commentario, 592) nei seguenti termini: «anche atti remotamente preparatori (la lettura di un testo di chimica per preparare il veleno mortale; l'addestramento all'uso di armi per scegliere quella cui si è più portati, ecc.) sono in questo senso idonei nei confronti del delitto consumato. Per una restrizione sensata degli atti di tentativo punibili occorreva, oltre alla idoneità, una delimitazione ulteriore. Questa delimitazione è data nell'art. 56 dalla direzione non equivoca degli atti, di cui sono possibili due interpretazioni profondamente diverse l'una dall'altra. In una prima versione, la non equivocità starebbe soltanto ad indicare la necessità che risulti certa l'intenzione dell'agente (la quale sarebbe anche desumibile da qualsiasi altro elemento di fatto) e avrebbe così una mera funzione probatorio-processuale (c.d. teoria soggettiva). In una seconda versione il requisito sarebbe strutturale (o di essenza) e fungerebbe da limite (costitutivo) della punibilità: gli atti, oltre che idonei, dovrebbero «per sé soli», per ciò che sono, oggettivamente, rivelare la volontà criminosa dell'agente (c.d. teoria oggettiva). La teoria soggettiva, secondo la quale la direzione non equivoca avrebbe esclusivamente una funzione probatoria, non può essere condivisa: in sede storica va ricordato che l'obiettivo dei compilatori era sì l'abbandono della distinzione fra atti preparatori e atti esecutivi con l'anticipazione della rilevanza degli atti punibili, ma non l'adesione a impostazioni soggettive mediante attribuzione di rilievo a mere intenzioni o a intenzioni attuate a un livello del tutto embrionale; in sede sistematica una norma incriminatrice di tale portata, descritta con un riferimento di tipo processuale, rappresenterebbe una vera e propria anomalia».

L'Autore, ritenendo fondamentalmente corretta la teoria oggettiva, sostiene non essere del tutto accettabile il richiedere che gli atti rivelino per sé soli l'intenzione del soggetto e ritiene egualmente insoddisfacente anche l'ampliamento ottenuto, affermando essere atti diretti modo non equivoco «quelli in grado di rivelare l'intenzione dell'agente non già per sé soli, ma considerati nella loro derivazione dinamica: quando tutta l'azione nel complesso delle circostanze di tempo e di luogo in cui si è svolta stia a segnalare, secondo l'id quod plerumque accidit, l'intenzione medesima»; preferibile sarebbe invece «un'impostazione oggettiva della direzione non equivoca che muova da un lato dall'abbandono dell'attitudine degli atti a rivelare da sé soli l'intenzione dell'agente, dall'altro dalla considerazione che il tentativo, specialmente in una versione dal fondamento oggettivo, si presenta concettualmente come un'attività connotata da una prossimità logico-cronologica alla consumazione del delitto; sganciata dalla prova dell'intenzione, la non equivocità oggettiva, per ragioni attinenti al principio costituzionale di stretta legalità, non può che emergere da uno stretto rapporto con la singola norma incriminatrice che prevede il delitto consumato: diretti in modo non equivoco sono così anzitutto gli atti tipici, cioè corrispondenti alla descrizione legale di una fattispecie di parte speciale; inoltre, proprio per la loro prossimità alla consumazione, devono intendersi come non equivoci anche gli atti in rapporto di stretta anticipazione rispetto a quelli, e a quelli legati da un vincolo naturalistico-teleologico».

L'Autore conclude che è importante notare «che, come l'idoneità degli atti, anche la loro direzione non equivoca non può valutarsi in astratto secondo schemi formali prestabiliti, ma deve giudicarsi in concreto: quando si tratti di atti non strettamente tipici, o meglio, di atti non «decisivi» per la consumazione nei delitti causalmente orientati, non si potrà allora prescindere dal concreto piano dell'agente, cioè dal singolo delitto che l'agente stava commettendo e dalle concrete modalità prescelte per la sua commissione (definibile come teoria materiale-individuale-oggettiva)».

Per completezza, va rammentato che, in realtà, è stata proposta anche una tesi c.d. mista: Mantovani, PG, 383, 387 s.; Pagliaro, 356, Giacona, 880 ss., dopo avere criticato entrambe le tesi (in particolare quella oggettiva perché, tranne che nei casi dei reati a condotta vincolata, lascia del tutto irrisolta la questione dell'inizio della punibilità: «ad es. nel tentativo di omicidio l'inizio di esecuzione sarebbe costituito dall'ultimo atto di puntare l'arma, o dai più remoti atti iniziali che hanno cominciato a “cagionare la morte di un uomo”?») conclude sostenendo che la tesi più in grado di risolvere la problematica è quella mista che considera «punibili come tentativo non soltanto gli atti che abbia creato un pericolo reale (e cioè su base totale), ma anche quelli che, pur non avendolo prodotto, sembravano tuttavia provocarlo secondo il giudizio di un normale osservatore»; e cioè secondo un giudizio probabilistico.

La giurisprudenza più recente e comunque maggioritaria, ha accolto, sostanzialmente proprio quest'ultima tesi, in quanto, ritiene che, per la configurabilità del tentativo, rilevano non solo gli atti esecutivi veri e propri, ma anche quegli atti che, pur classificabili come preparatori, facciano fondatamente ritenere che l'agente, avendo definitivamente approntato il piano criminoso in ogni dettaglio, abbia iniziato ad attuarlo, che l'azione abbia la significativa probabilità di conseguire l'obiettivo programmato e che il delitto sarà commesso, salvo il verificarsi di eventi non prevedibili indipendenti dalla volontà del reo ex plurimis Cass. I, n. 29101/2019; Cass. II, n. 28213/2010; Cass. II, n. 46776/2012; Cass. II, n. 24302/2017); contra:: Cass. I, n. 40058/2008 (con nota critica di Giacona) e Cass. I, n. 9411/2010, secondo le quali, invece, gli atti diretti in modo non equivoco a commettere un reato possono essere esclusivamente gli atti esecutivi, ossia gli atti tipici, corrispondenti, anche solo in minima parte, alla descrizione legale di una fattispecie delittuosa a forma libera o vincolata, in quanto la univocità degli atti indica non un parametro probatorio, ma un criterio di essenza e una caratteristica oggettiva della condotta: di conseguenza, non sono punibili, a titolo di tentativo, i meri atti preparatori.

Segue. Casistica

 

Per le applicazioni dei suddetti principi ai singoli reati di parte speciale, si rinvia al commento dei rispettivi articoli ognuno dei quali presenta spesso problematiche differenti che non rendono possibile in questa sede una trattazione unitaria.

L'elemento soggettivo

È opinione condivisa, sia in dottrina che in giurisprudenza, che «il delitto tentato costituisca un fatto unicamente doloso, non solo perché, ex art. 42 comma 2 c.p. manca ogni espressa previsione del tentativo colposo, ma anche perché l'art. 56 c.p., richiedendo la necessità di atti diretti a commettere un delitto, esige analoga direzione finalistica per il volere dell'atto, laddove infatti tale direzione può verificarsi quando la volontà tende all'evento come fine ultimo o come mezzo necessario al conseguimento del fine, oppure quando vi consenta come conseguenza accessoria connessa necessariamente all'impiego di uno dei mezzi o al verificarsi del fine ultimo»: Montanara § 7; Manzini, Trattato, II, 522; Mantovani, PG 1979, 380; Fiandaca-Musco, PG, 492.

Oggetto del dolo nel tentativo è la realizzazione del corrispondente delitto consumato: sotto il profilo dell'oggetto del dolo, non c'è dunque differenza tra delitto tentato e delitto consumato» (Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 444; Mantovani, PG 1979, 380).

Tuttavia, la differente struttura fra il reato consumato e quello tentato, ha fatto sorgere il problema di verificare se il reato tentato sia compatibile con tutte le forme del dolo, o, se debba essere limitato solo ad alcune sue forme.

Il dolo eventuale

 Il dolo eventuale ricorre quando l'agente si sia chiaramente rappresentata la significativa possibilità di verificazione dell'evento concreto e ciò nonostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l'eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l'evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si verifichi (Cass. S.U., n. 38343/2014).

Si è posto, quindi, il seguente interrogativo: «si immagini che Sempronio, per sfuggire alla cattura, spari alle gambe di un agente di polizia pur rappresentandosi la possibilità ed accettando il rischio di colpirlo mortalmente: potrà Sempronio essere ritenuto responsabile di tentato omicidio o risponderà soltanto di lesione volontaria?» (Fiandaca-Musco, PG, 492).

Una parte della dottrina, facendo leva sulla locuzione “atti diretti in modo non equivoco a commettere un delitto”, sostiene che il tentativo non potrebbe essere commesso con dolo eventuale proprio perché la direzione inequivoca degli atti indica la volontà di commettere il delitto perfetto e non il tentativo: Mantovani, 1979, 380 il quale sostiene che « non è possibile punire il tentativo con dolo eventuale, senza violare il divieto dell'analogia in malam partem »; Pagliaro, PG, 347; De Francesco 2001; Montanara § 7; Fiandaca-Musco, PG, secondo i quali « nel concetto stesso di tentativo è insita una tendenza, una condotta orientata verso uno scopo, e non la mera accettazione del rischio di un evento possibile o probabile [....] la direzione finalistica dell'atto dev'essere certa tanto sul piano materiale che su quello psicologico: tra i due aspetti dev'esservi piena corrispondenza o congruenza. Mentre non può dirsi univoco, né obiettivamente né soggettivamente, un comportamento che l'agente realizzi senza tendere a realizzarlo, ma soltanto accettando il rischio della sua verificazione», con la conseguenza che, nell'esempio ipotizzato Sempronio risponderà solo di lesione dolosa e non di tentato omicidio.

 Nello stesso senso opina la giurisprudenza, secondo la quale deve escludersi la rilevanza del dolo eventuale nel tentativo. Invero, avendo l'ordinamento ricollegato una responsabilità penale al compimento di atti finalizzati alla commissione di un delitto non può estendersi la specifica ed autonoma figura di reato prevista dall'art. 56 fino a ricomprendere in essa atti rispetto ai quali un evento delittuoso si prospetta solo come un accadimento possibile o probabile non preso direttamente in considerazione dall'agente (Cass. I, n. 671/1990; Cass. I, n. 12365/1990; Cass. I, 44995/2007; Cass. I, n. 25114/2010 (con nota di Beltrani); Cass. VI, n. 14342/2012). Infatti, soltanto chi mediti un evento quale esito certo della sua condotta sarà in grado di rappresentarsi gli atti univoci richiesti dalla legge (Cass. I, n. 12513/1987). Peraltro, in dottrina si è osservato che « per quanto attiene alla giurisprudenza, occorre tener presente che l'affermazione di incompatibilità di principio fra tentativo e dolo eventuale è temperata (svuotata?) nelle applicazioni concrete, da una dilatazione della figura del dolo diretto: sarebbe dolo diretto, compatibile con il tentativo, e non dolo eventuale, il dolo di chi abbia agito con la rappresentazione dell'evento come altamente probabile; e le fattispecie concrete in discussione sono state di regola valutate some ipotesi di dolo diretto. Così, un'ipotesi emblematica è quella del lancio di sassi da un cavalcavia verso la sottostante autostrada »: Giacona, 902.

Secondo altri autori e parte della giurisprudenza, invece, «non è esatto basarsi sull'art. 56 e sulla direzione non equivoca degli atti per sostenere che il soggetto deve volere atti diretti in modo non equivoco e che quindi il suo dovrà essere necessariamente, per assumere rilevanza, un dolo intenzionale o diretto. La direzione non equivoca costituisce infatti nulla più che un requisito oggettivo della condotta, inteso a delimitare per l'osservatore esterno (non per l'agente) il rilievo dei comportamenti descritti da singole fattispecie delittuose di parte speciale; non aggiungendo alcunché, l'art. 56, sul terreno dell'elemento soggettivo, sarà sufficiente che l'agente si rappresenti e voglia gli elementi essenziali del fatto nelle diverse forme di rilevanza del dolo. La conclusione è che deve ritenersi possibile un tentativo con dolo eventuale o indiretto »: Romano, Commentario, 588; Morselli § 7; Giacona, 902; Marinucci-Dolcini , Manuale 2015, 444.

In giurisprudenza, si registrano sentenze, peraltro risalenti, che ammettono il dolo eventuale nel tentativo adducendo la seguente motivazione:

— la figura del tentativo, delineata nell'art. 56 c.p., si esteriorizza, rispetto al reato consumato, soltanto in un'entità ridotta perché priva dell'evento o della parte finale dell'Azione. Ne deriva che il dolo eventuale è ipotizzabile in caso di reato tentato (Cass. S.U., n. 6309/1983);

— il dolo eventuale è compatibile con il delitto tentato, atteso che il requisito della non equivocità degli atti rispetto all'evento si riferisce alla struttura obiettiva della condotta criminosa, mentre l'elemento psicologico è unico e identico sia nel delitto tentato sia in quello consumato (Cass. I, 7185/1987; Cass. I, n. 5401/1990).

Il dolo diretto

Si ha dolo diretto quando la volontà non si dirige verso l'evento tipico e tuttavia l'agente si rappresenta come conseguenza certa o altamente probabile della propria condotta un risultato che però non persegue intenzionalmente. Esso si configura tutte le volte in cui l'agente si rappresenta con certezza gli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice e si rende conto che la sua condotta sicuramente la integrerà. Rientra in questa forma di dolo anche il caso in cui l'evento lesivo rappresenta una conseguenza accessoria necessariamente o assai probabilmente connessa alla realizzazione volontaria del fatto principale. Questa figura di dolo è caratterizzata dal ruolo dominante della rappresentazione. In altri termini, il dolo diretto si configura quando l'agente ha compiuto volontariamente una certa azione, rappresentandosene con certezza o con alta probabilità lo sbocco in un fatto di reato, ma la rappresentazione non esercita efficacia determinante sulla volizione della condotta. In breve, si è in presenza di un livello di probabilità del verificarsi dell'evento che tocca una soglia tanto elevata da implicare di regola, la certezza soggettiva che l'evento accadrà: di regola, perché tale certezza deve sussistere effettivamente e va dunque accertata, con la conseguenza che la responsabilità per dolo non potrebbe essere sostenuta, in particolare, ove in chi agisce risultasse il convincimento del non realizzarsi dell'evento rilevante (Cass. S.U., n. 38343/2014, in motivazione).

Sia la dottrina che la giurisprudenza ammettono la compatibilità fra dolo diretto e tentativo.

Mantovani, PG 1979, 380, rileva che, nel caso del dolo diretto «gli atti possono dirsi volontariamente diretti, pur se in via strumentale e mediata, anche alla commissione del delitto. Non risponderà di omicidio tentato chi incendiando un edificio per riscuotere il premio dell'assicurazione accetti la possibilità della morte di quale eventuale passante, che poi non si verifica. Non sembra invece che debba restare impunito se abbia agito sapendo che per raggiungere lo scopo fraudolento, avrebbe dovuto necessariamente fare morire la vecchia paralitica che vi abita, la quale solo miracolosamente viene sottratta alle fiamme»; v. anche Montanara § 7 e Pagliaro, PG, 346.

In giurisprudenza, si è ritenuto che in tema di delitti omicidiari, deve individuarsi il dolo diretto nella condotta dell'agente che, sforzandosi di superare un'alta rete metallica protettiva, lanci un sasso di rilevante massa (circa tre chilogrammi) in corrispondenza della corsia di scorrimento delle macchine su un'autostrada, notoriamente molto trafficata in determinate ore del giorno, da un punto di un cavalcavia da cui non sia possibile vedere le auto che transitano in basso (Cass. I, n. 5436/2005; Cass. I, n. 19897/2003).

Cass. S.U., n. 3571/1996 ha ritenuto la sussistenza del dolo diretto nella condotta di un soggetto, imputato di tentato omicidio, il quale, dopo aver consumato una rapina, aveva esploso alcuni colpi di pistola verso i suoi inseguitori mirando verso il basso e quindi, quasi raggiunto, aveva ancora sparato prendendo di mira il busto dell'inseguitore più vicino, che era riuscito ad evitare il proiettile; Cass. V, n. 23618/2016; Cass. I, n. 43250/2018.

 

Il dolo alternativo

Il dolo alternativo è contraddistinto dal fatto che il soggetto attivo prevede e vuole alternativamente, con scelta sostanzialmente equipollente, l'uno o l'altro evento e risponde per quello effettivamente realizzato: Cass. S.U., n. 3428/1992; Cass. S.U., 38343/2014 ha ribadito che il dolo alternativo si caratterizza per il fatto che i diversi fatti previsti sono incompatibili fra loro, nel senso che la realizzazione dell'uno esclude la realizzazione dell'altro: si spara per ferire od uccidere indifferentemente.

Anche in tale ipotesi, non si dubita che il tentativo sia con esso compatibile, giacché in tale forma di dolo l'agente si rappresenta e vuole indifferentemente l'uno o l'altro dei due eventi casualmente ricollegabili alla sua condotta e alla sua cosciente volontà. Invero, poiché l'art. 43 c.p. afferma che il delitto è doloso allorché l'evento è preveduto e voluto dall'agente come conseguenza della propria azione od omissione, nell'ambito della condotta dolosa rientra non solo l'evento direttamente perseguito, ma anche quello che, senza costituire l'unico obiettivo della condotta, venga dall'agente posto in correlazione causale con la propria azione Cass. I, n. 5342/1993; Cass. V, n. 6168/2005; Cass. I, n. 27620/2007; Cass. I, 11521/2009; Cass. I, 9663/2014.

Il dolo specifico

Il dolo specifico si ha in tutti i casi in cui per la commissione di un reato è richiesto che l'agente lo commetta avendo di mira un determinato risultato ed è individuabile dalle stesse locuzioni adoperate dal legislatore: “al fine di” “allo scopo di”, “per”.

Sul punto, la dottrina più recente (Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 451 ss.), ha distinto fra:

a) reati a dolo specifico nei quali l'evento perseguito dall'agente non è né dannoso né pericoloso per un bene giuridico (furto, rapina, appropriazione indebita ecc.), reati, cioè «nei quali l'agente dev'essere animato da una finalità di profitto, tendendo, cioè a conseguire un risultato, l'arricchimento, che l'ordinamento, di per sé, non ha certo interesse ad impedire»: per tali fattispecie il tentativo è ammissibile essendo sufficiente che l'agente persegua la suddetta finalità, mentre non rileva che gli atti compiuti siano o meno idonei a conseguire quella finalità: e così si risponde del reato di furto di una cosa dalla quale l'agente si ripromette di trarre un profitto anche se, poi, in concreto, non lo consegue;

b) i reati a dolo specifico caratterizzati dal perseguimento di un evento offensivo di beni giuridici protetti dall'ordinamento, nei quali rientrano, ad es. il sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630), la frode in assicurazione (art. 642): in tali ipotesi, il tentativo non sarebbe ammissibile perché la soluzione contraria contrasterebbe con il principio costituzionale di offensività «che reclama per tutti i reati almeno la creazione di un pericolo per il bene giuridico tutelato dalla legge e, quindi, in questo gruppo di reti a dolo specifico, esige l'oggettiva idoneità degli atti compiuti dall'agente a cagionare l'evento dannoso o pericoloso preso di mira». Così, chi inizia a privare taluno della libertà personale, cercando ad esempio di spingerlo dentro un'auto, allo scopo, una volta completato il sequestro, di chiedere il riscatto della vittima, se la vittima riesce a sottrarsi al sequestro, risponderà di tentativo di sequestro di persona (art. 605) e non di tentativo di sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 30)» perché è impossibile ottenere da chicchessia il pagamento di un riscatto.

Compatibilità del tentativo con i vari reati

La particolare struttura del tentativo, rende problematica l'applicabilità del medesimo a tutti i reati: l'art. 56 c.p., infatti, stabilisce solo a quali condizioni il tentativo dev'essere punito, ma, poiché nelle norme che prevedono la punibilità dei singoli reati, non è detto — contrariamente a quanto stabilisce il c.p. tedesco — se quel singolo reato sia punibile anche a titolo di tentativo, l'interprete è costretto, di volta in volta, a stabilire se quel singolo reato ammetta o no il tentativo.

A fini meramente classificatori e, per semplificazione della problematica, si può affermare che: a) vi sono ipotesi in cui è pacifico che il tentativo non è compatibile con alcuni reati; b) al contrario, vi sono altre ipotesi in cui è pacifica la compatibilità; c) infine, vi sono ipotesi controverse.

Reati incompatibili con il tentativo

Il tentativo, secondo la dottrina (Giacona, 903 ss.; Montanara § 10) e la giurisprudenza deve ritenersi incompatibile con:

— le contravvenzioni, in quanto l'art. 56 lo prevede per i soli delitti (Cass. I, n. 6532/1998; Cass. VI, n. 9930/1992; Cass. V. 5548/1992);

— i delitti colposi, in quanto la colpa, presupponendo la mancanza di volontà delittuosa, è ontologicamente incompatibile con la condotta dolosa dell'agente (Cass. I, n. 6532/1998);

— i delitti unisussistenti, ossia quei delitti che si consumano con un solo atto (ad es. diffamazione ex art. 595; uso di un atto falso ex art. 489, comma 1) e che, quindi, poiché si consumano istantaneamente, non attraversano la fase del tentativo (Fiandaca-Musco, PG, 495; Mantovani, PG 1979, 390); Cass. I, n. 6532/1998, secondo la quale è giuridicamente configurabile il tentativo anche per i delitti c.d. «unisussistenti», cioè quelli che unico actu perficiuntur, con la sola avvertenza che non può trattarsi di tentativo «incompiuto», postulando questo l'interruzione dell'attività esecutiva volta alla realizzazione dell'evento, ma deve necessariamente trattarsi di tentativo «compiuto» in cui, nonostante l'esaurimento di detta attività, l'evento non si verifica. È compito del giudice di merito riscontrare la sussistenza o meno, in concreto, di tale ipotesi;

—  i delitti di attentato e quelli cosiddetti a consumazione anticipata (es. artt. 241, 283, 286, 432), perché essi stessi sono, a ben vedere, forme di tentativo (perché prevedono sia l'inizio dell'esecuzione che l'idoneità degli atti), che il legislatore, nella sua insindacabile discrezionalità, ha ritenuto che siano sanzionati come se fossero reati consumati, anticipandone, appunto, la punibilità: Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 450; Fiandaca-Musco, PG, 495; Mantovani, PG 1979, 391; Cass. S.U. n. 1/1970 (fattispecie relativa all'art. 241). Alla stregua del suddetto principio, sono stati ritenuti incompatibili con il tentativo, ad es., i seguenti reati: Art. 280 c.p. (Cass. I, 6532/1998; Cass. I, n. 11344/1993; Cass. VI, n. 28009/2014, Cass. VI, n. 34782/2015); art. 422 c. p. (Cass. II, n. 7835/2019); Art. 493-ter c.p. in quanto reato a consumazione anticipata (Cass. II, n. 7019/2014; Cass. V, n. 17923/2018; Cass. V, n. 5692/2019); Art. 648- bis: (Cass. II, n. 35439/2021; Cass. II, n. 11277/2022; Cass. II, 37559/2019; Cass. II, n. 5505/2014; contra: Cass. I, n. 22437/2022; Cass. II, n. 55416/2018; Cass. II, n. 1960/2015, sul presupposto che non si tratta di un reato a consumazione anticipata contrariamente a quanto ritenuto dall’opposta tesi); Art. 3 l. 9 dicembre 1941, n. 1383, in quanto reato a consumazione anticipata (Cass. I, n. 37820/2019).

— il delitto preterintenzionale perché il suddetto reato non è voluto dall'agente (tant'è che se la vittima sopravvive, il medesimo è punito per i reati di percosse o lesioni) laddove, al contrario, il tentativo presuppone la volontà di un determinato risultato: Fiandaca-Musco, PG, 495; Cass. I, n. 41095/2004 ha stabilito che il delitto preterintenzionale di cui all'art. 584, come quello aggravato dall'evento di cui all'art. 586, è caratterizzato dal verificarsi di un evento non voluto, che comporta un più severo trattamento sanzionatorio; pertanto, esso è incompatibile con il tentativo e con la desistenza volontaria, che presuppongono, invece, un evento voluto, e non verificatosi, per circostanze indipendenti o, nella desistenza, per resipiscenza dell'agente, con la conseguenza che non è possibile configurare un'ipotesi di omicidio preterintenzionale tentato.

Reati compatibili con il tentativo

Si ritengono compatibili con il tentativo:

- i delitti plurisussistenti, ossia quei delitti che vengono realizzati attraverso una pluralità di atti [...] per la precisione, rispetto ai reati di evento, siccome è sempre separabile l'evento dalla condotta è anche sempre configurabile il tentativo compiuto» (Mantovani, 1979, 390). In giurisprudenza, Cass. V, n. 9362/2014 che, in una fattispecie di minaccia in cui la lettera minatoria, contenente un proiettile, era stata intercettata prima di giungere al destinatario, ha affermato il principio generale secondo il quale è configurabile il tentativo quando il reato può essere commesso mediante un processo esecutivo frazionabile; Cass. fer., n. 46290/2013, ha ribadito il principio secondo il quale, relativamente al reato di evento è configurabile la forma del tentativo;

- i delitti aggravati dall'evento «tutte le volte in cui l'evento ulteriore può verificarsi indipendentemente dall'esaurimento della condotta incriminata (ad es. la morte della donna in seguito a tentativo di aborto)»: Fiandaca-Musco, PG, 496; Giacona, 903; Mantovani, PG 1979, 392; contra: Morselli, §15, secondo il quale «il tentativo è configurabile, dato che in essi l'evento aggravatore può verificarsi anche in conseguenza di un'azione non condotta a termine (es. una donna muore di spavento in seguito a un tentativo di aborto non consentito). Non di meno, affinché la punibilità non si risolva in una deprecabile ipotesi di responsabilità obiettiva, occorre che l'evento aggravatore sia dal soggetto previsto e accettato almeno nella forma del dolo eventuale. Trattandosi di una responsabilità necessariamente dolosa, com'è quella a titolo di tentativo, non è infatti sufficiente la mera prevedibilità-evitabilità caratteristica della colpa»;

- i delitti sottoposti a condizione obiettiva di punibilità «quando il verificarsi della condizione non presuppone il perfezionamento della condotta tipica»: Giacona, 903; Fiandaca-Musco, PG, 496; Mantovani, PG 1979, 392, il quale precisa che il tentativo è ammissibile «nei casi in cui la condizione oggettiva di punibilità possa verificarsi anche se il reato non si è perfezionato e pur se la punibilità del tentativo si avrà solo dopo che la condizione è intervenuta. Dichiarato fallito, l'imprenditore che abbia tentato di sottrarre, dipendere i propri beni alla garanzia dei creditori, risponderà di bancarotta tentata. Non sarà punibile, invece, il tentativo di induzione al matrimonio mediante inganno poiché la verificazione della condizione di punibilità dell'annullamento del matrimonio non può sorgere che dopo la consumazione del delitto (Cass. V, n. 865/1967, in tema di bancarotta fraudolenta il tentativo è incompatibile rispetto a fatti anteriori alla dichiarazione di fallimento);

- i reati permanenti «a condizione che la condotta positiva sia frazionabile» (Fiandaca-Musco, PG, 496; in giurisprudenza, Cass. VI, n. 13085/2014, in relazione alle condotte di partecipazione a reato associativo, il tentativo è configurabile soltanto prima che siano realizzate le condizioni per il mantenimento della situazione antigiuridica che caratterizza l'organico inserimento nel sodalizio, avvenuto il quale le condotte di volontario allontanamento dal consesso criminale non possono essere inquadrate come desistenza ex art. 56, comma 3, ma soltanto quali espressioni di ravvedimento post-delittuoso e sintomi di cessazione della permanenza»; Cass. VI, n. 4294/2015 ha escluso la configurabilità del reato di tentata costituzione di associazione di tipo mafioso in quanto non è configurabile il tentativo con riferimento ai delitti di partecipazione, promozione, direzione o organizzazione di un'associazione per delinquere in fase di costituzione, ma non ancora costituita;

- i reati continuati «con riferimento ai singoli delitti uniti dal vincolo della continuazione»: Giacona, 903; Cass. I, n. 6329/1996, in una fattispecie in tema di pluralità di tentativi di omicidio in danno della stessa persona, ha ritenuto che in caso di pluralità di delitti tentati, tutti volti alla produzione del medesimo evento, la configurabilità del vincolo della continuazione non è, in linea di principio, esclusa, dovendosi però verificare, al fine della sua riconoscibilità in concreto, se, indipendentemente dall'essere stati o meno caratterizzati i singoli episodi dalla presenza di dolo diretto o di dolo eventuale, l'agente, nel porre in essere il primo tentativo, si sia o meno rappresentato la possibilità di un suo fallimento ed abbia quindi già programmato, in vista di tale ipotesi, i tentativi successivi; Cass. II, n. 755/2014, Cass. II, n. 41167/2013; Cass. VI, n. 2070/1995;

- i reati complessi: sul punto, si rinvia al commento dell’art. 84.

Ipotesi controverse

È dibattuta l'applicabilità del tentativo alla tipologia dei reati di seguito indicati.

Per quanto riguarda i reati omissivi, la dottrina suole distinguere fra reati omissivi propri ed impropri.

Quanto ai reati omissivi impropri (in cui l'evento si verifica per la condotta omissiva dell'agente che aveva l'obbligo di impedire l'evento: ad es. il pompiere che omette di spegnere l'incendio), la dottrina è sostanzialmente propensa ad ammettere il tentativo (Giacona, 903; Fiandaca-Musco, PG, 664; Antolisei, PG 1975, 408; Mantovani, PG 1979, 393; Marinucci-Dolcini, Manuale 446): si è, infatti, rilevato che, con l'omissione impropria « l'agente pone un ostacolo allo sviluppo della concatenazione causale suscitata da forze esterne e tendente alla produzione di un evento mediante una condotta attiva [....] In questa prospettiva, allora, l'omissione impropria si avvicina sensibilmente al reato commissivo » (Montanara,§ 10): « si pensi ad una ragazza madre che decide di sopprimere un neonato omettendo si nutrirlo; ma l'intento non si realizza grazie all'intervento soccorritore di una vicina di casa »: Fiandaca-Musco, PG, 664; Romano, Commentario, 598 ss., precisa che, in relazione al momento a cominciare dal quale tale omissione diventano punibili, è rilevante accertare « un mancato comportamento attivo “decisivo” per (cercare di attuare) l'impedimento dell'evento, o comunque in rapporto di stretta anticipazione con quello. Importante sarà il grado di prossimità dell'evento: se questo è del tutto imminente, già il mancato compimento del primo atto idoneo a scongiurarlo costituisce (oggettivamente) tentativo; se, invece, non vi è ancora pericolo acuto, l'inerzia che non aumenti il pericolo e non peggiori la probabilità di salvaguardia del bene tutelato non è ancora rilevante, a meno che non vi sia già un positivo atto di abbandono del bene stesso al suo destino ».

 Quanto ai reati omissivi propri (che si configurano in tutti i casi in cui l'agente non compie l'azione prevista da una determinata norma: si tratta, quindi, di casi tipicizzati con i quali il legislatore ha inteso sanzionare il mancato adempimento, da parte dell'agente, di una determinata condotta: es. omissione di atti di ufficio; art. 361; art. 593), la tesi tradizionale è propensa a ritenere la non compatibilità dei medesimi con il tentativo « perché se il termine utile per compiere l'azione prescritta non è scaduto, il non averla realizzata non implica ancora violazione dell'obbligo, mentre, se il termine è scaduto, il reato è già perfetto » Antolisei, PG 1975, 408; Montanara, § 10; Manzini, Trattato, II, 521.

 In giurisprudenza, secondo Cass. III, n. 12248/2014(con nota di Consorti), in relazione al reato di cui all'art. 10-ter d.lgs. n. 74/2000 non è configurabile il tentativo, poiché, avuto riguardo alla parte di condotta omissiva penalmente rilevante, o è scaduto il termine stabilito dalla legge (attualmente il 27 dicembre dell'anno successivo a quello per il quale é stata presentata la dichiarazione annuale), di modo che il reato è già consumato, oppure il predetto termine non è ancora decorso, ed allora il soggetto obbligato può ancora adempiere »; Cass. II, n. 9551/2007 secondo la quale il reato di astensione dagli incanti, previsto dall'art. 354 c.p., in quanto strutturato come reato omissivo proprio, non consente la configurabilità del tentativo: infatti, sino a quando la gara non si tiene, resta incerto se il soggetto si asterrà o meno e nessuna attività punibile può essere addebita all'agente; mentre, nel momento in cui la gara si tiene e il soggetto si astiene dal parteciparvi, il reato risulterà consumato; Cass. VI, n. 705/2000; Cass. VI, n. 6199/1985, ad avviso della quale, pur escludendo in linea di massima l'ammissibilità del tentativo nel reato di astensione dagli incanti, poiché fino all'ultimo resta incerto se il comportamento omissivo si verifichi oppure no, ha ritenuto ammissibile la configurabilità del reato tentato allorché quella incertezza sia, in fatto, da escludere; Cass. III, n. 568/2006 secondo la quale «il reato di cui all'art. 1158 cod. nav., omissione di assistenza a navi o persone in pericolo, ha natura di reato di pericolo, che si consuma con il fatto stesso dell'omissione di assistenza o del tentativo di salvataggio, giustificato dal dovere di adempimento delle funzioni di cosiddetta solidarietà marittima».

Ad avviso della dottrina più recente, invece, il tentativo è configurabile «tutte le volte che il soggetto obbligato non si sia limitato a non agire, ma abbia posto in essere atti positivi diretti in modo non equivoco a violare il comando. Come esempio si può immaginare il comportamento di chi si trovi dinanzi ad un ferito e, invece, di prestargli soccorso caricandolo nella sua automobile, ingrani la marcia e si allontani »: Giacona, 905; Fiandaca-Musco, PG, 665; Mantovani, PG 1979, 393; Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 447, assumono una posizione più cauta, ritenendo che «uno spazio — per la verità, assai ridotto — per la configurabilità del tentativo può individuarsi in ipotesi in cui il soggetto non sfrutti il primo momento utile per adempiere all'obbligo di agire (ad es., si trovi di fronte ad un ferito e, invece di prestargli soccorso caricandolo sulla sua automobile, ingrani la marcia e si allontani di qualche metro: il tentativo di omissione di soccorso, a questo punto, è integrato), ma conservi una chance ulteriore per adempiere a quell'obbligo (il soccorso al ferito è ancora tempestivo se l'automobilista, dopo essersi allontanato di pochi metri, torna indietro e carica il ferito sulla sua macchina alla volta dell'ospedale). Se l'automobilista sfrutta questa chance e lo fa per una libera scelta, rimarrà integrato un fatto antigiuridico e colpevole di tentativo, ma il soggetto non sarà punibile per aver volontariamente desistito dal portare a compimento l'omissione; risponderà invece di tentativo di omissione di soccorso se la desistenza è stata frutto di una coazione esterna (una terza persona, avvedutasi dell'accaduto, ha fermato l'automobilista, costringendolo con minacce a prestare soccorso al ferito) ».

  Quanto ai reati di pericolo, è ben noto che si suole distinguere fra reati di pericolo concreto (cioè quei reati in cui il pericolo costituisce un elemento della fattispecie incriminatrice: ad es. artt. 422,423, comma 2, 432) e reati di pericolo astratto (in cui è il fatto tipico previsto dal legislatore che delinea una situazione di pericolo che il giudice limitarsi a verificare senza alcun accertamento in concreto della messa in pericolo del bene tutelato: ad es. artt. 423, comma 1, 437 c.p.; art. 186 C.d.S. dove è punito chi guidi in stato di ebbrezza a prescindere dal fatto se abbia messo o meno in pericolo l'altrui incolumità), anche se la dottrina più recente ha messo in discussione la rigidità del suddetto criterio (padovani, 2017, 169; brunelli, 2019, 95).

In dottrina, si registrano i seguenti orientamenti.

Una tesi affermativa che fa leva sul dato naturalistico secondo il quale sarebbero ammissibili atti diretti in modo non equivoco a causare il pericolo, proprio perché la messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma, è pur sempre preceduta da un'attività prodromica: Antolisei, PG 1975, 408; Pagliaro, PG, 359,  in relazione all'art. 432, adduce il seguente esempio: «se alcuno spinge verso una pubblica via un masso, che soltanto sulla via costituirebbe tale pericolo, viene fermato nelle immediate vicinanze, il pericolo da lui creato non è sufficiente ad adempiere la fattispecie del delitto consumato, ma è bastevole per adempiere la fattispecie del delitto tentato corrispondente»; Romano, Commentario, 599; Morselli § 15.

Una tesi negativa, secondo la quale il tentativo non sarebbe configurabile perché, ove lo si ammettesse, si finirebbe con il sanzionare il tentativo del tentativo con una inammissibile arretramento della soglia di punibilità in violazione del principio di offensività: Montanara § 10, osserva che « o il pericolo richiesto dalla norma è stato creato dall'agente — e allora costui ha realizzato un reato consumato — ovvero ciò non è avvenuto — e in tal caso gli atti compiuti non possono costituire tentativo, perché privi dei requisiti di idoneità ed univocità. Ciò è chiarissimo nei reati di pericolo di azione (ad esempio, art. 432), ove il comportamento di chi è colto presso la pubblica via, mentre sta spingendovi sopra un masso, costituisce reato perfetto e non tentato, poiché la legge, nella previsione della norma, mostra di richiedere la minaccia per la sicurezza dei trasporti, e non la sua effettiva lesione, per cui la graduabilità del pericolo non si compie fra ipotesi tentata e consumata, ma solo in relazione al fatto tipico descritto dalla norma, che, appunto, esige una valutazione circa la idoneità e la univocità del pericolo medesimo per la sussistenza della tipicità della incriminazione, configurabile, perciò, come mera ipotesi consumata. Ma con altrettanta chiarezza è possibile ragionare in ordine ai reati di pericolo di evento (ad esempio la minaccia), nei quali, cioè, il pericolo costituisce l'evento stesso del reato o un attributo di esso; in tali ipotesi, infatti, il pericolo coincide con il verificarsi dell'evento del reato, e solo in relazione a questo può essere valutato, con la conseguenza che, o il pericolo si è prodotto unitamente all'evento — e perciò il delitto è consumato — ovvero esso non si è verificato, con conseguente esclusione della tipicità del fatto per carenza del necessario elemento dell'offensività »; Fiandaca-Musco, PG, 495; Mantovani, PG 1979, 390; marinucci-dolcini, Manuale, 2015, 438).

Una tesi intermedia, secondo la quale «se si tratta di pericolo concreto, sembra in effetti difficile concepire la punibilità del tentativo che, essendo fondato sul pericolo, comporterebbe la rilevanza del “pericolo di un pericolo” (e cioè, in pratica, di un “non pericolo”) rispetto all'offesa (così ad es. nell'art. 432/1). Se si tratta di pericolo presunto, il tentativo pare invece senz'altro ammissibile in linea di principio, sia perché la situazione di rischio ipotizzata dalla legge racchiude spesso, in sé, elementi di danno, anche se valutati prospetticamente in riferimento al pericolo di sviluppi ulteriori (così ad es. nell'art. 423, comma 1), sia perché nulla esclude che l'interesse ad impedire tale situazione si spinga sino al compimento di atti univocamente idonei a produrla (così ad es. nell'art. 439, comma 1»: Padovani,  324.

 In giurisprudenza, si registrano molte decisioni che non è agevole ridurre ad un comun denominatore come si può notare dalle sentenze di seguito riportate.

Art. 270-quater: «Il delitto di arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale, previsto dall'art. 270-quater, può configurarsi in forma tentata, non costituendo ostacolo all'applicazione della generale previsione di cui all'art. 56 la sua natura di reato di pericolo»: Cass. I, 40699/2015;

Art. 377 : Cass. S.U., n. 37503/2002 , ha ritenuto che nel delitto di subornazione non è configurabile il tentativo;

Art. 377-bis : in relazione al reato di induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all'autorità giudiziaria, sul presupposto che il suddetto reato sia un reato di evento, ha stabilito che è configurabile la forma del tentativo a condizione che il destinatario della condotta abbia già assunto la qualifica di chiamato a rendere dichiarazioni: Cass. VI, n. 991/2019; Cass. VI, n. 16369/2012; Cass. F., n. 46290/2013; Cass. VI, n. 48748/2011; Cass. 45626/2010 (con nota di Pinelli);

Art. 414 : «il reato di istigazione a delinquere non è configurabile nella forma del tentativo, sicché non è ammesso il sequestro delle cose che si assumano riferibili ad una condotta che non realizzi la consumazione di detto reato»; Cass. I, 24050/2012; Cass. I, 6004/1996;

Art 439: in relazione al delitto di avvelenamento di acque o di sostanze alimentari (avente natura di reato di pericolo presunto) è stata ritenuta ammissibile la configurabilità della ipotesi tentata occorrendo dare la dimostrazione non solo della univocità della azione ma anche della oggettiva idoneità degli atti a determinare l'avvelenamento delle acque destinate alla alimentazione: Cass. VI, n. 23465/2005; Cass. IV, n. 25547/2018;

Art. 453 : relativamente al reato di spendita di moneta falsa, ammettono il tentativo: Cass. V, n. 35774/2011(fattispecie relativa alla condotta di chi riproduca immagini corrispondenti a quelle di banconote su fogli formato 4, senza provvedere al taglio di ciascuno dei predetti fogli, in quanto la consumazione è realizzata solo quando la bancarotta sia integralmente riprodotta e sia pronta per l'immissione in circolazione); Cass. V, n. 11157/2006 (in una fattispecie consistita nell'aver sorpreso l'imputato sorpreso nella imminenza di procedere alla stampa delle immagini dei valori bollati contenute in un "hard disk"); contra: Cass. V, n. 8605/1982, ha sostenuto che essendo il suddetto reato, un reato di pericolo (e non di danno), non è configurabile né il tentativo né la desistenza volontaria;

Art. 479 : la fattispecie del comportamento del pubblico ufficiale che firmi in bianco un'attestazione, delegando altri al riempimento del relativo modulo, qualora siffatto riempimento non abbia avuto luogo, è stata qualificata come tentativo di falsità ideologica: Cass. VI, n. 4169/1995 che, ha anche affermato il principio secondo il quale «sono configurabili atti idonei e diretti in modo non equivoco a cagionare un pericolo che invece non sorge»;

art. 580 : Cass. V., n. 57503/2017, ha escluso la configurabilità del tentativo di istigazione al suicidio nel caso di invio di messaggi telefonici ad un minore nell'ambito del gioco noto come "Blue Whale Challenge", pur se contenenti l'invito a compiere atti potenzialmente pregiudizievoli, in quanto «non è configurabile il tentativo con riguardo al reato di cui all'art. 580, nell'ipotesi in cui all'istigazione non segua un suicidio consumato o tentato con lesioni gravi o gravissime»;.

Frode sportiva (art. 1, comma 1, l. 13 dicembre 1989, n. 401): Cass. III, n. 12562/2010, lo ha qualificato come reato di pericolo rilevando (in motivazione) che «è irrilevante l'accettazione della promessa o offerta da parte del destinatario, in quanto quest'ultima, a differenza di quanto previsto per le fattispecie di corruzione, non modifica il titolo del reato, ma costituisce a sua volta un'autonoma condotta criminosa. Si tratta, pertanto, di reati di pericolo per i quali non è ipotizzatale la fase del tentativo, essendo anticipata la soglia di punibilità al mero compimento di un'attività finalizzata ad alterare lo svolgimento della competizione»;

A rtt. 416 - 416-bis : in giurisprudenza, l a tesi prevalente tende a negare la configurabilità del tentativo in quanto «l'associazione per delinquere è un reato di pericolo, che è già perfetto non appena si è creato il vincolo associativo e si è concordato il piano organizzativo per l'attuazione del programma delinquenziale, del tutto indipendentemente dalla concreta esecuzione dei singoli delitti. come tale, detta figura criminosa non consente — come, d'altronde, tutti i reati di pericolo — l'ipotizzabilità del tentativo. invero, gli eventuali atti, diretti alla formazione di una associazione per delinquere, o sono meramente preparatori e non interessano la sfera giuridico-penale, ovvero hanno il carattere della idoneità ed inequivocità e determinano la consumazione del delitto, perché, dal loro venire ad esistenza, è già compromesso l'ordinato svolgimento della vita sociale e si è, quindi, attuata la minaccia all'ordine pubblico»: Cass. I, 130/1990; Cass. VI, 4294/2015 ha escluso la configurabilità del reato di tentata costituzione di associazione di tipo mafioso in quanto « non è configurabile il tentativo con riferimento ai delitti di partecipazione, promozione, direzione o organizzazione di un'associazione per delinquere in fase di costituzione, ma non ancora costituita».

Tuttavia, altre decisioni, hanno assunto una posizione più articolata.

Cass. I, 6067/1988 (con nota di Zannotti) ha specificato che il tentativo di partecipazione ad una associazione per delinquere è ipotizzabile solo in relazione ad una struttura associativa già esistente perché, essendo il requisito centrale della condotta punibile ancorato all'attualità del contributo alla vita dell'associazione, partecipante a questa può considerarsi solo chi si attivi materialmente e consapevolmente per perpetuare l'esistenza di una struttura già costituita in precedenza e per favorirne il conseguimento dei fini.

Cass. VI, n. 13085/2014 che, relativamente ad un'associazione ex art. 74 d.P.R. n. 390/1990, ha affermato che in relazione alle condotte di partecipazione a reato associativo, il tentativo è configurabile soltanto prima che siano realizzate le condizioni per il mantenimento della situazione antigiuridica che caratterizza l'organico inserimento nel sodalizio, avvenuto il quale le condotte di volontario allontanamento dal consesso criminale non possono essere inquadrate come desistenza ex art. 56, comma 3,  ma soltanto quali espressioni di ravvedimento post-delittuoso e sintomi di cessazione della permanenza».

In dottrina, alcuni autori ammettono la configurabilità tentativo: « inteso come compimento di un'attività che realizzi in parte una fattispecie di delitto consumato [che] ricorrerà nell'ipotesi che taluno compia un atto di associazione proponendosi, senza conseguirlo, il fine di assumere la qualità di membro di un'associazione [...] sempre che il compimento dell'atto determini il pericolo che l'agente assuma quella qualità, e quindi partecipi all'associazione » (Boscarelli 1958, 871); altri autori, ammettono la possibilità che il tentativo sia configurabile rispetto alle condotte di promozione e costituzione dell'associazione (De Francesco 1987, 297 ss.); altri ancora negano la possibilità di configurare, quanto all'associazione di stampo mafioso, il tentativo: « Infatti, se tre o più persone compiono atti diretti in modo non equivoco a darsi una struttura associativa basata su intimidazione diffusa, assoggettamento e omertà, ed in vista dei fini indicati dall'art. 416-bis, i casi sono due: o gli atti sono idonei a realizzare una siffatta struttura organizzativa, ed allora l'associazione deve ritenersi costituita non appena sia insorta una apprezzabile « forza di intimidazione del vincolo associativo », o gli atti non sono idonei, ed allora si esula anche dalla previsione di cui all'art. 56; tertium non datur, salva l'eventuale configurabilità di una normale associazione per delinquere. Inoltre, gli atti concreti di minaccia e violenza posti in essere da una associazione per delinquere (che tuttavia non sia ancora riuscita a dotarsi della carica intimidatoria autonoma) ben difficilmente potranno essere considerati atti diretti in modo non equivoco alla formazione di un apparato strutturale di tipo mafioso, dal momento che essi presenteranno pur sempre un loro fine più diretto e contingente: in altri termini, idoneità e direzione inequivoca degli atti potranno essere valutate solo a posteriori, e in senso positivo, esclusivamente nel caso in cui il loro risultato sia effettivamente la produzione dell'apparato strutturale in questione » (Turone, 130).

Quanto al reato aberrante si rinvia al commento dell'art. 82, segnalando, peraltro, Cass. I, n. 175/1996 secondo la quale « la disposizione dell'art. 83, comma 2, secondo la quale “se il colpevole ha cagionato, altresì, l'evento voluto, si applicano le regole sul concorso dei reati”, non trova applicazione qualora l'evento voluto sia configurabile come delitto tentato ».

Quanto ai reati abituali: secondo la tesi affermativa «non può escludersi il tentativo che è configurabile allorché il soggetto ponga in essere, senza successo, atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere quei fatti che, da soli o aggiungendosi ai precedenti, avrebbero integrato la serie minima richiesta per l'esistenza del reato abituale. Così nel caso del Lenone che richiede alle innumerevoli protette il versamento dei loro proventi, mediante lettere che vengono intercettate»: Mantovani, PG 1979, 392, 451; Pagliaro, PG, 360).

Ad avviso dei sostenitori della tesi negativa, invece, il tentativo non è ammissibile « dal momento che le singole azioni non assumono rilevanza penale autonoma » (Fiandaca-Musco, PG, 496; Giacona, 904, che, però l'ammette per i reati eventualmente abituali: es. esercizio abusivo di una professione, in cui il reato si perfeziona anche con una sola condotta, ma la sua reiterazione rileva ai fini della commisurazione della pena; l'ingiuria che può consistere in una sola espressione offensiva ma anche in più di esse: il reato si consuma con una sola espressione offensiva, ma se sono di più, il reato è sempre unico, se ne tiene conto ai fini della pena).

Di recente, sulla problematica in esame, si è pronunciata anche la giurisprudenza, la quale, in relazione al reato di atti persecutori (cd. stalking) di cui all'art. 612-bis c.p. ha ritenuto l'ammissibilità del tentativo: Cass. V, n. 1943/2021 (con nota di Filindeu).

La Corte, dopo aver premesso che il suddetto reato va qualificato con un reato abituale improprio di danno - in quanto, a differenza dei reati abituali propri, è un reato per la cui sussistenza è richiesta, come elemento costitutivo, la reiterazione di fatti, ciascuno dei quali, isolatamente considerato, costituisce un reato diverso da quello risultante dalla sua reiterazione – ha osservato che lo stalking è caratterizzato dal fatto che le singole molestie e minacce poste in essere dall'agente sono unificate per l'evento che producono quale conseguenza della condotta unitaria costituita dalle diverse azioni causalmente orientate. La Corte, ha, quindi, concluso, rilevando che se «i singoli atti dell'agente, proprio in ragione della loro reiterazione (che "li cementa"), sono unificati sub specie iuris - e dunque rilevano come un unico reato - come un'unica condotta persecutoria, causalmente volta nel suo complesso alla determinazione di uno degli eventi tipici, siano essi di danno (quale l'alterazione delle proprie abitudini di vita o il perdurante e grave stato di ansia o di paura) o di pericolo (vale a dire, il fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva; cfr. per tutte Cass V, n. 16977/2020) [….] ne discende che, secondo la regola generale propria dei reati di evento, è (logicamente e giuridicamente) possibile che alla commissione della condotta medesima, in particolare di atti idonei diretti in modo non equivoco a cagionare uno degli eventi de quibus (exart. 56 c.p.), non segua l'effettiva causazione di alcuno di essi. E, in tali casi, il fatto sarà punibile quale delitto tentato».

Il tentativo e le circostanze

Al fine di comprendere la problematica del rapporto fra tentativo e circostanze, occorre distinguere fra le seguenti ipotesi:

1) Circostanze speciali: a tale proposito, si ritiene che «ormai pacificamente risolto in senso affermativo è il quesito se siano applicabili al tentativo le circostanze speciali, cioè quelle previste in rapporto ad uno o più reati (cfr. ad es. l'art. 614, comma 4, che prevede l'uso della violenza o l'essere palesemente armati quali circostanze speciali della violazione di domicilio). La questione può porsi perché le circostanze speciali sono di regola previste in rapporto alle singole fattispecie incriminatrici, mentre il tentativo costituisce una fattispecie ulteriore e diversa rispetto a quella del reato perfetto previsto dalla singola norma incriminatrice. Ma, è chiaro che, quando ad esempio l'art. 614, comma 4  riferisce la violenza o l'essere armati al “fatto” della violazione di domicilio, intende alludere al “tipo categoriale” di quel reato, presente nel nostro ordinamento tanto nella forma perfetta che tentata»: palazzo, 2016, 477; ex plurimis, Cass. II, n. 33482/2019, in relazione all'aggravante delle più persone riunite di cui all'art. 628, comma 3 n. 1;

2) Tentativo circostanziato di delitto: si verte nella suddetta ipotesi quando «le circostanze sono state interamente realizzate, perché riguardano elementi preesistenti o concomitanti alla esecuzione del reato (es.: art. 61, nn. 1, 5, 6, 9, 10, 11; art. 62, nn. 1, 2, 3). Qui l'aumento o la diminuzione di pena relativi alle circostanze vanno effettuati sulla pena-base stabilita per il tentativo»: (Morselli § 14; Montanara § 9; Mantovani, PG 1979, 394; Giacona, 905 ss.; Fiandaca-Musco, PG, 496 ss.). Quindi, anche in tale ipotesi, è pacifica l'applicabilità sia delle circostanze effettivamente realizzate ad un delitto tentato (ad es. i motivi abietti o futili): palazzo, 2016, 478.

 In giurisprudenza, Cass. I, n. 43663/2007, in ordine alla configurabilità per il delitto tentato della circostanza aggravante speciale di cui all'art. 7 d.l. n. 152/1991 (ora 416-bis.1 c.p.); Cass. V, nn. 7433/2011 e 19615/2011 hanno ritenuto la configurabilità dell'aggravante di cui all'art. 61, comma 1, n. 5, per il tentato furto).

E' sorta controversia, invece, in ordine all'ammissibilità del tentativo per i reati aggravati dall'art. 71 d.lgs n. 159/2011 (già art. 7 l. n. 575/1965).

Secondo una prima tesi, la suddetta aggravante «è applicabile soltanto in caso di consumazione dei reati indicati nell'art. 7 cit, senza possibilità di estensione ai delitti meramente tentati, poiché il delitto tentato costituisce figura autonoma, a sè stante, caratterizzata da una propria oggettività e da una propria struttura», in quanto «in conformità ai principi di tassatività e tipicità (che non consentono all'interprete di estendere le limitazioni dell'operatività di discipline peggiorative a fattispecie delittuose non espressamente contemplate, poiché in tal modo egli attenterebbe "alla sovrana autonomia del legislatore"), deve necessariamente ritenersi che, nel caso in cui determinati effetti giuridici peggiorativi siano dalla legge ricollegati alla commissione di reati specificamente indicati mediante l'elencazione degli articoli che li prevedono, senza ulteriori precisazioni, deve intendersi che essi si producano esclusivamente alle ipotesi consumate e non già tentate»: Cass. II, n. 6337/2015; Cass. II, n. 36162/2014; Cass. I, n. 41524/2018.

Ad avviso di altra tesi, invece, la soluzione dev'essere ricercata alla stregua della ratio legis. Nel caso di specie, l'inasprimento di pena previsto dall'aggravante in questione «trova la sua ragione giustificativa nell'avvertita necessità di contrastare in maniera più decisa ed efficace, stante la loro maggiore pericolosità e determinazione criminosa, il comportamento di coloro che, colpiti da un provvedimento di applicazione della misura di prevenzione, non indugiano a commettere reati di particolare natura. Siffatta carica di disvalore è riscontrabile, indiscutibilmente, anche nel tentativo di tali delitti, tenuto conto del fatto che consumazione e tentativo riflettono rispettivamente la lesione effettiva e la lesione potenziale dello stesso bene oggetto di tutela, onde la "ratio" della norma induce a ritenere che l'aggravante riguardi anche il tentativo, restando in tal modo salvaguardato il principio di legalità penale»: Cass. II, n. 22039/2019; Cass. II, n. 1009/2022; Cass. VI, n. 36640/2014. Indubbiamente, quest'ultima soluzione appare più convincente ove si consideri che l'aggravante in questione rientra, senza alcun dubbio, nella categoria del tentativo circostanziato di delitto che, come si è visto, ammette il tentativo.

3)Tentativo di delitto circostanziato : si rientra, invece, nell'ipotesi del tentativo di delitto circostanziato «allorquando le circostanze non sono state realizzate perché attinenti a una fase successiva, ma rientrano pur tuttavia nella previsione-volizione dell'agente (es.: artt. 61, n. 7, 62, n. 4)» (Morselli § 14) nel senso che se il delitto si fosse consumato esse si sarebbero realizzate: ad es. omicidio tentato accompagnato da atti diretti a seviziare (Fiandaca-Musco, PG, 497; Palazzo, 2016, 478).

Quest'ultima ipotesi è, invece, controversa.

Ad avviso di una parte della dottrina, le suddette circostanze sarebbero incompatibili con il tentativo perché, essendo previste per il reato consumato, ove si applicassero anche al reato tentato si violerebbe il principio di legalità. Infatti, poiché, ex art. 59 c.p., le circostanze sono attribuite solo se si verificano, non potrebbero essere valutate a carico dell'agente, pur non essendosi concretizzate e, quindi, sulla sola base della volontà del disegno criminoso (Fiandaca-Musco, PG, 497; Romano, Commentario, 600).

Ad opposta conclusione giunge, invece, altra parte della dottrina secondo la quali l'art. 56, con il termine «delitto», si riferirebbe indifferentemente al reato semplice o circostanziato (Mantovani, PG 1979, 395; Morselli, § 14, secondo il quale la precedente opinione «è però conseguenza della tralatizia concezione del diritto penale dell'evento, che oggi tende, da più parti ad essere respinta a favore della più moderna concezione personalistica dell'illecito»): quindi, secondo la suddetta tesi, anche nell'ipotesi in esame, l'aumento o la diminuzione di pena relativi alle circostanze vanno effettuati sulla pena-base stabilita per il tentativo.

La giurisprudenza, assume una posizione che può definirsi come pragmatica nel senso che «l'estensione al tentativo delle circostanze previste per il corrispondente delitto consumato comporta un problema di semplice compatibilità logico-giuridica, che va verificata in concreto tenuto conto della tipologia dell'aggravante contestata. Così, mentre in alcuni casi è ontologicamente necessario che si sia realizzato l'evento che ne costituisce l'oggetto ovvero che si siano perfezionati i relativi presupposti costitutivi nel frammento di condotta posta in essere dall'agente, in altri non occorre che ciò si verifichi»: Cass. V, n. 16313/2006; Cass. V, n. 40826/2017.

Ed è proprio alla stregua di tale principio che si registra la seguente casistica.

Cass. V, n. 22568/2012 , in un tentato furto di un'autovettura su cui erano rimasti segni di effrazione, ha ritenuto sussistente l'aggravante della violenza sulle cose prevista dall'art. 625 n. 2 c.p. anche qualora la cosa sia semplicemente danneggiata ancorché non privata della sua funzionalità;

Cass. IV, n. 31973/2009 -  Cass. II, n. 12851/2018 hanno ritenuto la circostanza aggravante della destrezza (art. 625 n. 4) compatibile con il furto tentato.

Cass. V, n. 24386/2011 ha ritenuto integrato il tentato furto aggravato ai sensi dell'art. 625 n. 6 (fatto commesso sul bagaglio dei viaggiatori), nella condotta di colui che tenti di impossessarsi della borsetta portata a bordo della propria autovettura dalla persona offesa, considerato che quest'ultima si qualifica viaggiatore, ancorché utilizzi per gli spostamenti il proprio veicolo e che anche, in tal caso, l'attenzione alle implicazioni del viaggio allenta il controllo sul proprio bagaglio che può ben consistere in una borsa che contenga documenti o valori;

Cass. III, n. 44416/2011 , ribadendo Cass. III, n. 34128/2006, ha ritenuto che ai fini della configurabilità della circostanza attenuante del fatto di minore gravità (art. 609-bis  comma 3) nel tentativo di violenza sessuale non si deve tenere conto dell'azione effettivamente compiuta dall'agente, ma di quella che lo stesso aveva intenzione di porre in essere e che non è stata realizzata per cause indipendenti dalla sua volontà.

Cass. II, 10907/1980 ha ritenuto l'aggravante del numero delle persone (art. 112 n. 1) compatibile con la figura del tentativo di estorsione, ove la minaccia sia esercitata a mezzo di lettera, oppure per telefono, perché la pluralità di persone acquista giuridica rilevanza già nella fase della concertazione del delitto;

Cass. I, n. 9284/2014 , ha ritenuto applicabile al reato tentato le circostanze aggravanti previste nei delitti di omicidio volontario ex art. 577 comma 1 n. 3, e di lesione personale ex art. 585 comma 1, in considerazione dei concreti dati fattuali della fattispecie (assalto a furgoni blindati);

Cass. V, n. 16313/2006 ha negato la configurabilità dell'aggravante della violenza sulle cose (art. 614 comma 4), in relazione al delitto di tentata violazione di domicilio, essendo stato accertato che l'imputato, pur colpendo con calci e pugni la porta d'ingresso di una abitazione, non l'aveva danneggiata;

Cass. IV, n. 2631/2007 ha ritenuto configurabile, in materia di delitti concernenti gli stupefacenti, l'aggravante di cui all'art. 80 d.P.R. n. 309/1990 allorché vi sia prova che, se l'operazione illecita di traffico di droga fosse riuscita, essa avrebbe riguardato un quantitativo ingente di sostanza.

Per la compatibilità del tentativo con le varie ipotesi degli artt. 61-62 c.p., si rinvia al commento dei suddetti articoli.

Desistenza

Il comma 3 dell'art. 56 dispone che «se il colpevole volontariamente desiste dall'azione soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso».

Controversa è la ratio legis, essendo stata individuata ora nella teoria del cd. “ponte d'oro” ossia nell'esigenza di incentivare l'abbandono del progetto criminoso (Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 403; Mantovani, 1979, 398; Antolisei, 1975, 406), ora nel criterio «della prevenzione generale e della prevenzione speciale: chi ritorna sui suoi passi, da un lato, non rappresenta un esempio pericoloso per gli altri, e, dall'altro, mostra di non possedere una volontà criminosa di tale intensità da giustificare il ricorso ad una pena rieducativa» (Fiandaca-Musco, PG, 499), ora nel criterio retributivo ossia «nella ricompensa che viene offerta all'agente in considerazione di una condotta che procede nella direzione di un libero e volontario ritorno al diritto» (Romano, Commentario, 604).

Cass. VI, n. 40678/2011 (in motivazione), ha ritenuto che la desistenza « è un istituto che trova giustificazione in ragioni di politica criminale: il legislatore, pur a fronte di atti già compiuti e volti alla consumazione di un determinato delitto, ha ritenuto opportuno privilegiare il momento di utile volontario ripensamento prima del definitivo compimento dell'azione che mette in moto l'autonomo sviluppo causale che conduce all'evento, sui presupposti della ridotta volontà criminale dimostrata da chi volontariamente desista e dell'attenzione alla tutela dell'effettivo interesse delle vittime».

Quanto, invece, alla natura giuridica, «accanto a chi vi ravvisa addirittura un elemento strutturale negativo della fattispecie di tentativo, in dottrina e in giurisprudenza sono state sostenute le teorie della nullità secondo cui, nell'ipotesi di desistenza, verrebbe a mancare la stessa volontà colpevole del soggetto agente, la teoria dell'annullamento, secondo cui la desistenza importerebbe l'annullamento della volontà colpevole, la teoria della condizione risolutiva, la teoria dell'esimente, la teoria della causa di non punibilità sopravvenuta, la teoria della causa di esclusione della colpevolezza o della capacità a delinquere, la teoria della circostanza personale di esclusione della pena o di non punibilità in senso stretto ed infine la teoria per cui la desistenza sarebbe una vera e propria causa di estinzione del reato» (Maddalena, 752): la teoria più accreditata, peraltro, è quella che ravvisa nella desistenza una causa di non punibilità (Pagliaro, PG, 363; Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 447; Romano, Commentario, 612).

La desistenza produce un duplice effetto:

a) il tentativo del reato programmato non è punibile;

b) sono punibili (con pena ridotta da un terzo alla metà) solo quegli atti commessi durante il tentativo del reato programmato sempre che i medesimi integrino gli estremi di un reato compiuto (delitto o contravvenzione): ad es. la desistenza dal furto dopo lo scasso lascia intatta la punibilità per danneggiamento; la desistenza dall'omicidio con l'arma non elimina la eventuale responsabilità per minaccia o lesioni personali o per il porto d'armi abusivo (Romano, Commentario, 612).

L'elemento oggettivo

Sotto il profilo oggettivo, la desistenza, si ha quando l'agente si arresta prima della consumazione del reato programmato e, quindi, quando sia già stato integrato il tentativo di quel reato: in dottrina, infatti, la desistenza viene anche definita come “tentativo incompiuto”: ad es. il ladro, dopo avere aperto la porta con la chiave falsa, abbandona l'operazione e si allontana (Antolisei, PG 1975, 404).

Nei reati commissivi (come, appunto, il furto nell'esempio appena citato), «la condotta s'identifica con il non completare l'azione esecutiva iniziata, ma non ancora portata a compimento [...] Nei reati omissivi, propri o impropri, desistere significa compiere l'azione doverosa inizialmente omessa, quando vi sia ancora la possibilità di un adempimento tempestivo. Ad. es. in un reato omissivo proprio come l'omissione di soccorso (art. 593), è il caso dell'automobilista che, dopo essersi allontanato di pochi metri dalla persona ferita bisognosa di soccorso, torna indietro e la carica sulla sua macchia alla volta dell'ospedale. Con l'allontanamento è integrato il tentativo di omissione di soccorso e l'adempimento successivo dell'obbligo di soccorso costituisce desistenza dal tentativo. Ancora, per fare un esempio in tema di reato omissivo improprio, si avrà desistenza dal tentativo di omicidio nel caso dell'infermiera che, con l'intento di lasciar morire il paziente, fa decorrere l'ora fissata dal medico senza somministrare il farmaco, ma pochi minuti dopo provvede alla somministrazione. L'iniziale mancata somministrazione integra gli estremi di un tentativo di omicidio, mentre la successiva condotta costituisce desistenza» (Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 448).

Va, peraltro rammentato che, non è affatto pacifico, quanto ai reati omissivi propri, l'ammissibilità del tentativo (supra): quindi, l'ammissibilità della desistenza, dipende dalla tesi che si accoglie. Ad. es., in contrario, è stato sostenuto, proprio in relazione ai reati omissivi propri che «ci riesce assolutamente inimmaginabile una pronuncia di assoluzione per desistenza da un tentato reato omissivo proprio (si pensi ad esempio ad un tentativo di omessa denuncia dei redditi), in ipotesi in cui poi, nei termini, venga tenuto il comportamento la cui omissione sarebbe stata oggetto di tentativo» (Maddalena, 755, nt. 23).

L'elemento soggettivo

La desistenza, secondo quanto stabilisce espressamente l'art. 56 comma 3 c.p., dev'essere volontaria: il che non significa che dev'essere spontanea (come, invece, prevede l'attenuante di cui all'art. 62 n 6) né che deve derivare da un momento di resipiscenza o da motivi etici o morali dai quali l'agente sia stato sopraffatto nel corso dell'esecuzione del reato programmato, potendo derivare anche da un calcolo utilitaristico, quale l'opportunità di attendere una occasione più propizia (situazione questa che non va però confusa con quella di chi, nell'iter criminoso, introduce momenti di sosta nell'attività esecutiva, perché, in ipotesi del genere, si tratta evidentemente di fenomeni del tutto diversi da quello del volontario abbandono dell'impresa criminosa (Maddalena, 756; Antolisei, PG 1975, 405; Mantovani, 1979, 398; Pagliaro, PG, 363; Fiandaca-Musco, PG, 500).

 In altri termini, «la desistenza è volontaria quando si possa dire che l'agente ha ragionato in questi termini: “potrei continuare ma non voglio”; inversamente, la desistenza non è volontaria quando l'agente ha detto a sé stesso “vorrei continuare ma non posso”.

La volontarietà della desistenza presuppone dunque la soggettiva convinzione dell'agente di poter completare l'attività esecutiva iniziata» (Marinucci-Dolcini, Manuale 2015,, 448).

È stato, peraltro, precisato che «la volontarietà non va, però, neppure intesa nel senso opposto di una qualsiasi possibilità di scelta, perché, come tale, verrebbe meno solo quando esiste l'impossibilità di portare a termine l'impresa criminosa come nel caso dell'invincibile resistenza della vittima o della cassaforte. Bensì nel senso di possibilità di scelta ragionevole, onde la volontarietà viene meno allorché la continuazione dell'impresa, pur se materialmente possibile, presenta svantaggi o rischi tali da non potersi attendere da persona ragionevole. Non può perciò considerarsi volontaria la desistenza di chi interrompe l'azione per l'avvicinarsi di persone o l'abbaiare dei cani, il pericolo di sorpresa in flagranza da parte della polizia, per la constata presenza di testimoni, per la constatata insufficienza dei mezzi disponibili»: Mantovani, PG 1979, 398).

Altri autori, invece, preferiscono far capo, per la soluzione della questione, “all'attività di concretizzazione della prassi” (Fiandaca-Musco, PG, 500), essendosi rilevato che appare «necessario operare, caso per caso, una valutazione riferita alla concretezza della situazione in cui si è trovato l'autore del tentativo per verificare la ragionevolezza o meno, secondo l'ordinario modo di vedere, della scelta nell'uno o nell'altro senso: alla stregua di tale criterio dovrà pertanto ritenersi volontaria la desistenza ogni qual volta vi sia stata una ragionevole possibilità di scelta tra due condotte (prosecuzione o interruzione della condotta criminosa) egualmente possibili. In tale valutazione, è tuttavia indispensabile verificare anche lo stato delle conoscenze e delle rappresentazioni del soggetto agente al momento della «desistenza» e ciò proprio perché per verificare la sussistenza del requisito della «volontarietà» non si può prescindere dalle cognizioni e rappresentazioni (errate o meno) del colpevole al momento della interruzione della condotta [...]»: Maddalena, 756.

La giurisprudenza, concorda con la dottrina sulla volontarietà della desistenza: ex plurimis, Cass. I, n. 8864/1989; Cass. I, n. 11865/2009; Cass. II, n. 18385/2013; Cass. II, n. 7036/2014; Cass. III, n. 17518/2019, essendo stato, peraltro, precisato che « «la legge non prende in considerazione le intime ragioni che inducono l'agente a desistere dall'azione criminosa, ma richiede invece, con la previsione del requisito della volontarietà, che la desistenza non sia riconducibile a cause esterne che rendano impossibile, o gravemente rischiosa, la prosecuzione dell'azione. Insomma, seppur non spontanea, tale prosecuzione non deve essere impedita da fattori esterni che renderebbero estremamente improbabile il successo dell'azione medesima; la scelta deve quindi essere operata in una situazione di libertà interiore, indipendente dalla presenza di fattori esterni idonei a menomare la libera determinazione dell'agente» (Cass. V, n. 6759/2014).

Proprio alla stregua dei suddetti principi,  si è ad es., così deciso:

- Cass. II, n. 51514/2013, ha ritenuto il tentativo di rapina (e non quello di desistenza) in un caso in cui l'imputato, dopo essere entrato in un esercizio commerciale con il volto travisato e con un grosso coltello da cucina in mano, intimando ai gestori di consegnargli quanto incassato, si era allontanato avendo verificato che nel registratore di cassa non vi era denaro;

- Cass. II, n. 18385/2013 ha ritenuto il tentativo di rapina (e non quello di desistenza) nella classica fattispecie in cui l'interruzione dell'attività delittuosa era da ricollegarsi all'intervento dei carabinieri;

- Cass. II, n. 51420/2014 ha ritenuto il tentativo di violenza sessuale nella condotta del soggetto che, dopo aver percosso, tentato di immobilizzare e spogliare la propria convivente, l'aveva poi costretta ad uscire dall'abitazione quando questa aveva minacciato di urlare ed attirare l'attenzione dei vicini;

- Cass. II, n. 7036/2014, ha ritenuto il tentativo di estorsione nella condotta dell'imputato, che si rivolgeva ai Carabinieri consentendo il ritrovamento del veicolo, oggetto del reato, solo dopo aver raggiunto la consapevolezza di non riuscire ad ottenere il pagamento della somma richiesta alla persona offesa, dell'esistenza di indagini già in corso, nel cui ambito temeva di essere già stato identificato e prossimo ad un possibile arresto;

- Cass. IV, n. 32145/2010 ha escluso la desistenza in una fattispecie in cui l'agente non aveva proseguito nell'azione criminosa perché il luogo era sorvegliato da telecamere, sicché l'azione sarebbe divenuta troppo rischiosa.

Il concorso di persone

In via generale e preliminare, va rammentato che:

- il concorso di persone, nella specie in un tentativo di furto, si configura, oltre che nei confronti di quanti hanno preso parte alla fase di esecuzione, nei confronti di coloro che hanno partecipato ad attività preparatorie di sopralluogo, perché anche da costoro è provenuto un apporto per il raggiungimento di un unico risultato, costituito dalla commissione del reato avuto di mira (Cass. II, n. 23395/2011);

- in tema di concorso nel delitto tentato, non è punibile l'attività preparatoria compiuta da alcuni dei concorrenti qualora la successiva fase esecutiva, essenziale per la configurazione del reato, non sia stata realizzata e neppure concordata con il partecipe necessario (Cass. VI, n. 18239/2013, in una fattispecie di favoreggiamento personale, in cui il programma criminoso concordato da alcuni concorrenti non era stato portato a conoscenza dell'indagato che, rendendo all'Autorità Giudiziaria dichiarazioni in favore di altro indagato, avrebbe dovuto assumere la funzione di concorrente necessario della condotta).

In caso di concorso nel reato, si è posto il problema del se e in che termini possa applicarsi l'istituto in esame nell'ipotesi in cui uno dei correi abbia desistito.

Le ipotesi più semplici: come si è rilevato, in dottrina (Maddalena, 757), le ipotesi più semplici da risolvere sono quelle in cui: a) «chi desiste ha il compito di porre in essere l'azione tipica: la sua desistenza comporta evidentemente la sua non punibilità, che non si estende ai complici»; b) «il desistente, oltre ad abbandonare personalmente la condotta criminosa, impedisce anche la prosecuzione della stessa da parte dei complici; nessun dubbio può esservi sulla sua non punibilità, mentre, per quanto riguarda i correi, bisognerà distinguere a seconda che essi abbiano a loro volta volontariamente desistito (a seguito di sollecitazione da parte del primo desistente o di propria autonoma determinazione) o viceversa abbiano interrotto l'attività esecutiva solo perché impeditine nella prosecuzione dalla desistenza del correo: nella prima ipotesi anche i correi beneficeranno della non punibilità sancita dal comma 3 dell'art. 56, non già per un effetto estensivo della desistenza del complice, ma per personale volontaria desistenza; nel secondo caso dovranno rispondere del tentativo commesso».

In terminis Cass. I, n. 35778/2013, secondo la quale «si configura nei confronti del mandante di un omicidio l'ipotesi prevista dall'art. 115 nel caso in cui l'esecutore materiale desista dall'azione senza porre in essere alcuna attività penalmente rilevante».

Le ipotesi controverse: l'ipotesi più controversa si verifica, invece, quando, pur a fronte della desistenza da parte di uno dei correi, gli altri riescano a portare a compimento l'azione delittuosa programmata sia pure come semplice tentativo: in questo caso, il desistente, risponde o no del reato commesso dai correi?

Una parte della giurisprudenza sostiene sosteneva che, in caso di concorso di persone nel reato, l'istituto della desistenza volontaria non può essere invocato dal compartecipe qualora quest'ultimo non sia riuscito a impedire l'azione dei correi: Cass. II, n. 7436/1987; Cass. II, n. 3654/1986; Cass. III, n. 1094/1984.

Tuttavia, la giurisprudenza più recente ritiene «che il semplice abbandono o l'interruzione dell'azione criminosa, non basta perché si abbia desistenza, occorrendo un quid pluris. Detto quid pluris, tuttavia, non consiste nella necessità che il partecipe interrompa l'azione collettiva — come pur ritenuto da una concezione che sfocia in una interpretazione riduttiva del dettato normativo, in contrasto con la lettera dello stesso e la «ratio» dell'istituto (che tende a stimolare ed a favorire l'abbandono o il recesso dall'azione criminosa, da chiunque o comunque intrapresa) — dovendosi invece ritenere che il concorrente, per beneficiare della causa di non punibilità prevista dall'art. 56, comma 3, c.p., oltre ad abbandonare l'azione criminosa, debba altresì annullare il contributo dato alla realizzazione collettiva, in modo che esso non possa essere più efficace per la prosecuzione del reato, ed eliminare le conseguenze della sua azione che fino a quel momento si sono prodotte»: in altri termini, il desistente deve, quanto meno, eliminare le conseguenze del suo apporto causale, rendendolo estraneo ed irrilevante rispetto al reato commesso dagli altri: Cass. I, n. 7513/1991; Cass. I, n. 8980/1997; Cass. VI, n. 6619/1999; Cass. VI, n. 27323/2008; Cass. I, n. 9775/2008; Cass. II, n. 48128/2013; Cass. I, n. 9284/2014.

In ogni caso, è stato ritenuto che la desistenza di uno dei concorrenti, perché si riverberi favorevolmente sulla posizione degli altri compartecipi, deve instaurare un processo causale che arresti l'azione di questi ultimi e impedisca comunque l'evento: Cass. II, n. 2250/2019; Cass. V, n. 33100/2018.

A tale soluzione è pervenuta anche parte della dottrina: Fiandaca-Musco, PG, 552; Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 474; Maddalena, 758, il quale rileva che «la questione va allora impostata esclusivamente sotto il profilo del contributo causale effettivamente offerto dal concorrente che «desiste» dalla realizzazione del reato; perché può ben darsi che il comportamento di desistenza si estrinsechi in una condotta antitetica a quella già posta in essere e tale da vanificare il precedente contributo in modo che lo stesso non possa più ritenersi influente sulla realizzazione del reato: ne consegue logicamente l'impunità del desistente non per un'applicazione dell'art. 56 comma 3 c.p. ma perché manca il suo apporto causale alla commissione del delitto. Si affaccia ad esempio il caso del soggetto che, in vista di una rapina programmata assieme ad altri, ha il compito di procurare i mezzi (autovettura, armi, ecc.) da utilizzare nella commissione del reato; e si supponga che, dopo aver fornito tali mezzi agli esecutori materiali della rapina, egli manifesti il suo dissenso e ritiri la sua adesione al progetto criminoso rinunciando a qualsiasi utilità che ne possa derivare. Se, ciò nonostante, la rapina avviene, non vi è ragione per rinunciare alla punizione anche del «desistente»: perché in concreto la consumazione del reato vi è stata e vi è stato pure il suo contributo causale. Se viceversa, nello stesso esempio, il soggetto che recede, oltre a manifestare il proprio successivo dissenso, ritira anche i mezzi precedentemente forniti, e ciò nonostante i suoi complici commettono egualmente la rapina, procurandosi altri mezzi, è evidente che non si può più ricollegare l'avvenuta esecuzione del reato alla sua condotta; di conseguenza egli non sarà punibile per la rapina, non tanto per intervenuta desistenza ma perché tra le cause del delitto quale in concreto è stato commesso non può più inserirsi la sua precedente condotta divenuta successivamente del tutto ininfluente [...] Ulteriore corollario di siffatta impostazione è che il soggetto che ritiri la sua adesione al progetto criminoso senza però riuscire ad annullare il proprio contributo causale al verificarsi dell'azione tipica (di un reato tentato o consumato) e che tuttavia riesca poi ad impedire l'evento, non potrà beneficiare della non punibilità (perché il suo contributo causale alla verificazione del delitto tentato vi è pur sempre stato) ma potrà ottenere la riduzione di pena prevista dal comma 4 dell'art. 56».

In chiusura, è opportuno rilevare che la desistenza volontaria, essendo una causa personale attinente — ove ne sussistano i presupposti — all'esclusione della pena ex art. 56 comma 3 c.p., non si comunica, ex art. 118 c.p. ai concorrenti: sul punto, si rinvia al commento della suddetta norma.

Il recesso attivo

L'art. 56 comma 4 c.p. dispone che se il colpevole «volontariamente impedisce l'evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà».

Elementi comuni: questo istituto, variamente denominato ora come pentimento operoso, ora come ravvedimento attuoso ora come recesso attivo, ha in comune — mutatis mutandis — con la precedente ipotesi del ravvedimento di cui al terzo comma i seguenti punti: la ratio legis e l'elemento soggettivo.

Differisce, invece, profondamente:

a) quanto alla natura giuridica, essendo pacifico (Pagliaro, PG 364; Maddalena, 762; Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 449) che costituisce una circostanza attenuante soggettiva concernente i rapporti fra colpevole ed offeso, come tale soggetta al giudizio di bilanciamento di cui all'art. 69.

b) differisce, ancora, sotto il profilo dell'elemento oggettivo (condotta): infatti, a differenza della desistenza (che viene anche definita come “tentativo incompiuto”) in cui l'agente interrompe l'azione criminosa, «il recesso attivo si verifica allorché il colpevole ha condotto a termine l'attività esecutiva e, desiderando, per riflessioni o fatti sopravvenuti, evitare il verificarsi dell'evento, agisce per impedirlo, come nel caso di colui che, dopo avere gettato un individuo nel fiume, lo salvi, oppure, avendo propinato del veleno ad una persona, le somministri un antidoto e riesca così ad evitarne la morte»: Antolisei, PG 1975, 404; Pagliaro, PG 362; Mantovani, PG 1979, 397; si parla, infatti, per contrapposizione alla desistenza, di “tentativo compiuto” proprio perché l'agente, con la sua condotta, impedisce che il tentativo del reato programmato (del quale, quindi, risponde) giunga alla sua conclusione perfezionandosi: questa sua condotta è “premiata” dal legislatore con una diminuzione della pena prevista per il tentativo, da un terzo alla metà.

Per aversi recesso occorre, quindi, che «in ogni caso il soggetto si attivi per interrompere il processo causale, già posto in moto dalla condotta e che, altrimenti, sfocerebbe verosimilmente nell'evento. Ciò vale sia per i reati commissivi sia per i reati omissivi impropri» (Mantovani, PG 1979, 397), il che porta ad escludere, per incompatibilità logica-giuridica, la configurabilità del recesso attivo per i reati omissivi propri, o per i reati istantanei (ad es. calunnia: in giurisprudenza, Cass. VI, n. 10896/1995).

La differenza fra la desistenza di cui al terzo comma ed il recesso di cui al quarto comma dell'art. 56 c.p., è, quindi, la seguente: «la desistenza volontaria si differenzia dal recesso attivo in quanto la prima interviene quando s'interrompe l'attività esecutiva, mentre il secondo è ravvisabile quando l'attività esecutiva è compiutamente esaurita e manca solo che l'evento si realizzi»: ex plurimis Cass. I, n. 6141/1979; Cass. II, n. 8031/1992; Cass. II, n. 2772/2009; Cass. I, 43036/2012.

Ipotesi controverse: sennonché, dalla dottrina, sono state messe in evidenza ipotesi controverse che hanno messo in crisi la suddetta tradizionale distinzione.

La prima situazione di cui si discute si ha nell'ipotesi in cui «l'agente, non essendo riuscito nel suo intento con un primo atto, abbia comunque la possibilità o di compiere subito un altro o più altri atti del medesimo tipo, oppure di passare ad atti di tipo diverso che lo porterebbero però al medesimo risultato voluto: anche qui si tratta di vedere a quali condizioni possa dirsi presente già un tentativo fallito, con esclusione di desistenza volontaria e recesso attivo, oppure se e quando possa essere ancora rilevante la volontaria mancata prosecuzione dell'azione» (Romano, Commentario, 606).

Sul punto, una parte della dottrina e, comunque della giurisprudenza, ha osservato che «non si può parlare di desistenza nei casi in cui l'agente ha già posto in essere l'azione tipica, ma si astiene dal ripeterla, come nell'esempio di chi, dopo avere sparato un primo colpo e potendo esplodere gli altri, vi rinuncia. Col primo colpo ha già compiutamente realizzato l'azione tipica da cui perciò non può più desistere. Può soltanto astenersi dal compiere nuove azioni tipiche. Affermare il contrario è confondere tra azione tipica e azione naturalistica»: Mantovani, 1979, 397.

In terminis: Cass. I, n. 30336/2013; Cass. I, n. 11746/2012.

Contra, Romano, Commentario, 608, secondo il quale, invece, «la differenza tra desistenza volontaria e recesso attivo deve cogliersi nel fatto che la prima è un abbandono dell'azione quando ancora l'agente ne domina in modo diretto e immediato il divenire, il secondo invece è dato da un intervento successivo, quando tale dominio è ormai cessato».

La dottrina, poi, prendendo lo spunto da casi giurisprudenziali risolti in modo contrastante (ora come desistenza, ora come recesso: Fiandaca-Musco, PG, 501), ha evidenziato ipotesi in cui il criterio dell'esaurimento dell'azione esecutiva non è sufficiente a delineare il confine fra la desistenza ed il recesso come nel (risalente) caso (giurisprudenziale) «di una donna che, dopo essersi fatta inserire a fini abortivi una cannula in vagina, la estragga volontariamente dopo un certo lasso di tempo, comunque sufficiente ad evitare che l'aborto si verifichi».

In tale caso, qual è il momento entro il quale può ancora intervenire la desistenza? L'estrazione della cannula comporta un'interruzione dell'azione esecutiva (quindi desistenza), o l'estrazione della cannula esaurisce l'attività di esecuzione del reato (quindi, recesso attivo)?

In tale fattispecie, mentre alcuni autori (Fiandaca-Musco, PG, 502) ritengono che, per evitare decisioni artificiose «sarebbe, in realtà, necessario che fosse il legislatore a riformare l'intera disciplina del recesso», altro autore (Romano, 609), ribadendo la propria tesi (supra), ha sostenuto che la soluzione va ricercata nel fatto che l'essenza della desistenza volontaria non consiste nell'incompiutezza del tentativo (da intendersi quando vi sono atti ancora da compiere per la consumazione) ma nell'interruzione «di atti che l'agente controlla nell'ambito di una sostanziale continuità temporale; e parallelamente, nel recesso attivo è essenziale non la compiutezza del tentativo (ameno se s'intende quest'ultima come presente quando tutto sia stato fatto all'agente), ma una discontinuità o distacco o rottura temporale rispetto all'azione intrapresa».

In tale ultimo senso sembra orientata Cass. VI, n. 40678/2011 secondo la quale (in motivazione) «ciò che rileva per configurare la desistenza volontaria nei casi in cui già la parte di condotta compiuta presenterebbe i requisiti per la configurabilità degli elementi costitutivi del delitto tentato è che — in termini di sostanziale continuità temporale — l'autore inverta con modalità inequivoche la situazione, di cui ha ancora la piena disponibilità, il pieno dominio, sicché quella situazione già concretizzatasi e penalmente rilevante non sia, per sé, inevitabilmente suscettibile di muovere autonomamente verso la piena consumazione del delitto».

Quanto, infine, alla differenza fra recesso attivo e ravvedimento attivo di cui all'art. 62 n. 6 c.p., la dottrina (Antolisei, PG 1975, 407; Pagliaro, PG 364) e la giurisprudenza ritengono che «lo schema dell'impedimento volontario dell'evento (cosiddetto recesso attivo) si differenzia da quello dell'attenuante di cui all'art. 62 n. 6 (attivo ravvedimento): ed invero nel primo caso, ad attività criminosa compiuta, e mentre è in svolgimento l'ormai autonomo processo naturale (che è in rapporto necessario di causa ed effetto tra una determinata condotta ed un determinato effetto cui la prima mette capo), l'agente si riattiva, interrompendo tale processo, così da impedire il verificarsi dell'evento; nel secondo caso, invece, a reato consumato, e quindi ad evento già verificatosi, interviene il ravvedimento dell'agente che spontaneamente ed efficacemente si adopera per attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato: il chiaro discrimine tra le due ipotesi è ravvisabile pertanto nella avvenuta oppure no verificazione dell'evento normativo»: Cass. I, n. 7033/1996; Cass. I, n. 40936/2009.

Per concludere, è, opportuno, ricordare che, nell'ipotesi del concorso di persone, l'attenuante del recesso attivo, secondo una parte della dottrina, si applica, ex art. 118 c.p. (in quanto circostanza favorevole non in esso disciplinata) «a tutti i concorrenti, anche a chi non ha dato un volontario contributo all'impedimento dell'evento» (Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 473; Romano-Grasso, Commentario, II, 259): si rinvia, comunque, per maggiori approfondimenti, al commento del suddetto articolo.

Casi speciali di ravvedimento, che si discostano in parte dalla normativa di cui all'art. 56 comma 4, sono disciplinati dagli artt. 289-bis comma 4, 308 comma 2, 309 comma 2, 371 comma 2, 376,385 comma 4, 386 comma 4 n. 2, 387 comma 2, 390 comma 2, 391 commi 1-2, 398 comma 2 n. 1 e 2, 463, 574 comma 3, 596, 630 comma 4 e 5, 641 comma 2, 655 comma 3 c.p., nonché dagli artt. 4 e 5 l. 6 febbraio 1980, n. 15, dell'art. 3 comma 2 l. 26 novembre 1985, n. 718  (v. ora art. 289-ter).

Il trattamento sanzionatorio

Avendo il tentativo natura di reato autonomo, per esso sono dettate regole che si discostano da quelle del reato consumato.

Prescrizione

Per espressa disposizione dell'art. 158, il termine decorre «dal giorno in cui è cessata l'attività del colpevole»; sul punto, Cass. II, n. 16609/2011 ha precisato che, «ai fini della decorrenza del termine di prescrizione del delitto tentato ha rilievo non il giorno in cui la condotta illecita viene scoperta o comunque il reato non può essere più consumato per cause indipendenti dalla volontà dell'agente, bensì il giorno in cui il reo ha compiuto l'ultimo atto integrante la fattispecie tentata».

Causa di non punibilità ex art. 649

Sulla problematica, si rinvia al commento dell’art. 649.

Pene accessorie

In relazione alle pene accessorie è opportuno distinguere fra:

a) pene accessorie che conseguono, per espressa disposizione legislativa, alla specie o quantità della pena principale inflitta (artt. 29, 31, 32, 32-bis, 34 comma 2, 36): in tali casi, poiché la legge ricollega la sanzione accessoria alla specie o alla quantità della pena (senza, quindi, distinguere fra i vari reati), è indiscusso che, se la pena inflitta per il reato tentato rientri in uno dei suddetti parametri, la pena accessoria va applicata: fra gli altri, Cerquetti, 835;

b) pene accessorie che la legge stabilisce per determinate fattispecie di reato (ad es. artt. 609 nonies, 515): in tali ipotesi, è discusso se e in che termini le pene accessorie — previste dalla legge per un determinato reato (consumato), si applichino anche alla corrispondente ipotesi di reato tentato.

Secondo una parte della dottrina «il modello tentato costituisce un titolo autonomo di reato, sicché l'estensione al tentativo della pena accessoria prevista per il delitto tout court (consumato) pare porsi in contrasto con il principio di legalità, quale frutto di una sostanziale applicazione analogica in malam partem della previsione normativa della pena accessoria medesima. Il fatto che non manchino ipotesi in cui il legislatore ha statuito espressamente, in relazione a determinate pene accessorie, che queste si applicano anche in caso di condanna per la corrispondente fattispecie tentata del delitto (es. art. 6 l. 20 febbraio 1958, n. 75, in tema di sfruttamento della prostituzione: cd. legge Merlin) sembra rafforzare, e non già smentire, le perplessità appena evidenziate»: Veneziani, 145; Boscarelli, 151.

Altra parte della dottrina, ribatte osservando che, in tal modo si accentuerebbe eccessivamente l'autonomia del tentativo non valorizzando «invece a sufficienza il fatto invece che in tali ipotesi la pena accessoria è legata o al tipo di bene giuridico in gioco o alle modalità di esecuzione del delitto (es. art. 518 o art. 317-bis) ciò che si presenta identico nella consumazione come nel tentativo» (Romano, 604; Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 630, secondo i quali «come è stato osservato da un maestro del diritto penale — Cesare Pedrazzi “il delitto tentato non costituisce un tipo a sé, ma un modo di essere, una particolare forma di manifestazione delle figure primarie... Le forme di manifestazione restano nell'ambito della figura primaria: è sempre la figura primaria che, in una forma o nell'altra, si realizza. Perciò, quando la legge menziona una figura criminosa, non dobbiamo in linea di principio ritenere esclusa la forma tentata, salvo quando ragioni particolari convincano del contrario”. A favore della tesi che estende al tentativo l'applicabilità delle pene accessorie, parlano anche considerazioni relative alle finalità politico-criminali di tali pene, nonché all'identità del bene offeso, sia che il delitto giunga a consumazione, sia che si arresti allo stadio del tentativo»; Cerquetti, 835.

La giurisprudenza, è consolidata nel ritenere applicabile le pene accessorie anche al reato tentato:

- secondo Cass. VI, 8148/1992, la pena accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici prevista dall'art. 317-bis per il delitto di peculato e per quello di concussione, trova applicazione anche per il delitto di tentata concussione. Infatti, pur costituendo il reato tentato una figura criminosa autonoma, non può ritenersi che in ogni caso, quando la legge si limita a fare riferimento alla ipotesi tipica, debba ritenersi esclusa quella tentata, dovendosi invece avere riguardo alla materia cui la legge si riferisce ed alla sua «ratio» onde stabilire se sia compresa o meno l'ipotesi del tentativo. Nel caso della pena accessoria specificamente prevista dall'art. 317-bis cod. pen., costituente una eccezione rispetto alla regola generale dovuta al particolare rigore con cui il legislatore ha considerato e sanzionato i delitti commessi dal pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, non sarebbe logico escludere dalla suddetta sanzione accessoria le ipotesi caratterizzate dal solo tentativo che, ancorché meritevoli di una pena principale meno grave, per il generale principio posto dall'art. 56, comunque — per ovvie ragioni di opportunità — postulano l'interdizione dai pubblici uffici del colpevole; Cass. VI, n. 9204/2005;

- Cass. I, n. 34368/2009 ; Cass. I, n. 12295/2020: «la sanzione accessoria della rimozione del grado prevista obbligatoriamente in caso di condanna per il delitto di furto militare dall'art. 230, comma 3, c.p.mil.p. trova applicazione anche in caso di tentativo, essendo identiche, in tale ipotesi, le esigenze tutelate dalla norma sanzionatoria»;

- Cass. III, n. 2196/1996 «la condanna per il delitto di frode in commercio importa la pena accessoria della pubblicazione della sentenza e dell'interdizione da una professione o arte, in applicazione degli artt. 30, 31 e 518.

. Tali pene vanno inflitte anche con riferimento all’ipotesi del tentativo, poiché le predette norme non differenziano quest’ultimo dal reato consumato»; Cass. III, n. 6885/2009;

Cass. III, n. 52637/2017: «Le sanzioni accessorie previste dall'articolo 609-nonies , a seguito di condanna per delitti contro la libertà personale di natura sessuale trovano applicazione anche in caso di tentativo, essendo identiche, in tale ipotesi, le esigenze tutelate dalla norma sanzionatoria»;

Cass. III, n. 24190/2005, «La pubblicazione della sentenza di condanna per il reato di cui all'art. 515 (frode nell'esercizio del commercio), prevista dall'art. 518, va disposta anche con riferimento all'ipotesi del tentativo, atteso che la disposizione de qua, come quella di cui all'art. 36, non differenzia quest'ultimo dal reato consumato».

Misura di sicurezza detentiva prevista dall'art. 538 c.p.

Per il reato di sfruttamento della prostituzione, la giurisprudenza ritiene che non sia applicabile al corrispondente reato tentato in quanto, considerata l'autonomia del medesimo rispetto al delitto consumato, si violerebbe il principio della tassatività della norma penale che prevede la suddetta misura di sicurezza solo per il reato consumato (Cass. III, n. 6218/1984; Cass. III, n. 8226/1976).

Amnistia ed indulto

Il principio generale che è stato costantemente affermato in giurisprudenza è quello secondo il quale «le esclusioni oggettive in tema di amnistia ed indulto, previste per i reati elencati nei provvedimenti di clemenza, devono intendersi riferite alle sole ipotesi di reato consumato quando solo queste siano indicate, essendo vietata la estensione al tentativo che costituisce una figura criminosa autonoma a sé stante, caratterizzata da una propria oggettività e da una propria struttura» (Cass.S.U.n. 3/1980; Cass. II, n. 11073/1981; Cass. II, n. 1043/1985; Cass. I, n. 2727/1991; Cass. I, n. 3493/1993).

È stato, quindi, ritenuto, in applicazione del suddetto principio, che, in tema di tentata concussione, nel caso in cui l'esclusione dall'indulto sia prevista solo per il reato consumato, rientra nel beneficio il reato contestato e ritenuto nella forma del tentativo, costituendo questo un reato autonomo rispetto a quello consumato (Cass. I, n. 2727/1991).

Secondo Cass. VII, n. 2907/2015, la non applicabilità dell'indulto elargito con l. n. 241/2006 alle pene inflitte per reati in relazione ai quali ricorre la circostanza aggravante di cui all'art. 7 d.l. n. 152/1991, convertito nella l. n. 203/1991 (agevolazione o metodo mafioso) opera anche per i delitti tentati, atteso che l'art. 1 comma 2, lett. d), della l. 241/2006 fa generico riferimento ai «reati per i quali ricorre la circostanza aggravante di cui all'art. 7», senza ulteriori specificazioni»; Cass. I, n. 35502/2014.

Per Cass. I, n. 299/2009, la esclusione dell'applicabilità dell'indulto prevista dall'art. 1, comma secondo, lett. b) l. 31 luglio 2006, n. 241, per determinate ipotesi aggravate di delitti riguardanti la produzione, il traffico e la detenzione illeciti di sostanze stupefacenti, deve ritenersi riferita esclusivamente ai reati consumati e non opera con riferimento ai corrispondenti delitti tentati»; Cass. I, n. 8316/2010.

Determinazione della pena

Il disposto dell'art. 56 comma 2 («il colpevole del delitto tentato è punito [...] con la pena stabilita per il delitto, diminuita da un terzo a due terzi») pone due problemi.

1) Il calcolo della pena: il tentativo, com'è ben noto, è un reato autonomo e, quindi, ha una sua autonoma pena che va determinata diminuendo la pena stabilita per il reato consumato, da un terzo a due terzi. Ciò in concreto significa che la diminuzione di un terzo va applicata sul massimo della pena edittale prevista per il reato consumato, mentre la diminuzione di due terzi va applicata sul minimo della pena edittale previsto per il reato consumato: ad es. se per un reato consumato la legge stabilisce una pena da tre anni a nove anni, la pena per il tentativo sarà da un anno (anni tre meno due terzi) a sei anni (anni nove meno un terzo) (in terminis, Cass. VI, n. 12378/1989; romano,  Commentario, 602), salva la possibilità per il giudice di ridurre la suddetta pena massima fino a due terzi e cioè ad anni tre (Manzini, Trattato, 2, 528).

Peraltro, la giurisprudenza ha stabilito che « il giudice, nella determinazione della pena nel reato tentato può procedere ad una differenziata diminuzione di pena per la sanzione pecuniaria e per quella detentiva, attesa la particolare funzione retributiva e sanzionatoria di ciascuna di esse, salvo l'obbligo della motivazione» (Cass. fer., n. 32158/2012). In ordine alla pena detentiva, è opportuno precisare che anche al tentativo si applica la regola generale di cui all'art. 23 c.p. Di conseguenza:

a) Ai fini della determinazione della pena massima per il delitto tentato - per il quale l'art. 56, comma secondo, c.p. stabilisce soltanto la sanzione minima di dodici anni di reclusione qualora per il reato consumato sia prevista la pena dell'ergastolo - si ha riguardo al principio generale, per cui in ogni caso di determinazione della sola pena minima, la pena massima irrogabile è quella stabilita dall'art. 23 c.p., e cioè nel caso di reclusione, quella di ventiquattro anni: Cass. V, n. 4892/2011; Cass. I, n. 30340/2017(in motivazione);

b) Il limite minimo assoluto di giorni quindici, stabilito dall'art. 23 cod. pen. per la pena detentiva concernente i delitti puniti con la reclusione, è invalicabile anche in relazione ai delitti tentati: Cass. III, n. 29985/2014;

2)   La modalità per la determinazione della pena:

Secondo il c.d. metodo bifasico, il giudice dovrebbe prima individuare la pena che avrebbe inflitto per il reato consumato; poi, su questa pena, dovrebbe applicare la diminuzione: Boscarelli, 151;

Secondo, invece, il c.d. metodo diretto, la pena prevista dall'art. 56 comma 2 è la pena edittale che si determina sulla pena prevista per ciascun reato fra un minimo (pena base diminuita di un terzo) ed un massimo (pena base diminuita di due terzi): di conseguenza, il giudice deve applicare la pena all'interno dei suddetti parametri: Marinucci-Dolcini, Manuale 2015, 432; Romano, Commentario, 603. ; in terminis , Cass. I, n. 7557/2021, secondo la quale: «Ai fini della determinazione della pena per il delitto tentato aggravato, occorre: a) individuare preliminarmente la cornice edittale relativa alla fattispecie consumata, tenendo conto di tutte le circostanze aggravanti ritenute nella fattispecie concreta;  b) determinare, in relazione a questa, la cornice edittale del delitto circostanziato tentato applicando l'art. 56 c.p.;  c) commisurare, entro tale ultima cornice edittale, la pena da irrogare in concreto, specificando la pena base e gli aumenti applicati per ciascuna circostanza aggravante»:

Secondo la giurisprudenza, la determinazione della pena nel caso di delitto tentato può essere indifferentemente effettuata con l'uno o l'altro metodo, ferma la necessità del contenimento della riduzione della pena edittale prevista per il reato consumato da uno a due terzi e l'obbligo di motivazione per dare conto della scelta operata: ex plurimis   Cass. V, n. 40020/2019; Cass. Cass. V, n. 3526/2013; Cass. V, n. 39475/2013 (con nota di Basile).

In altri termini, ai fini della determinazione della pena, il principio generale da tener presente è che anche per il tentativo valgono tutte le regole vigenti in ordine alla determinazione della pena (vedi, in particolare, infra artt. 63 ss). Di conseguenza, il giudice prima di applicare la diminuzione per il tentativo, deve stabilire se e quali circostanze siano applicabili al caso concreto.

All'esito del predetto procedimento, deve applicare la diminuzione della pena per il tentativo potendo seguire due modalità: a) il metodo bifasico, che implica la determinazione della pena in concreto del reato come se fosse consumato (quindi, anche con i relativi aumenti o diminuzioni per le circostanze), sulla quale, poi, applicherà, alla fine, la diminuzione per il tentativo; b) il metodo diretto, che, invece, comporta l'individuazione del reato base astratto la cui forbice edittale sarà subito rideterminata in astratto applicando la diminuzione prevista dalla legge (da un terzo a due terzi): sul risultato così ottenuto, provvederà poi a determinare la pena in concreto applicando anche le (eventuali) circostanze.

Ad esempio, ove concorrano circostanze aggravanti (anche speciali) e circostanze attenuanti, se il giudizio di bilanciamento si conclude con la prevalenza delle aggravanti (ove siano contestate e ritenute più aggravanti speciali vale la regola dell'art. 63, comma 4, c.p.), la pena base è quella che in concreto il giudice avrebbe inflitto per il reato consumato semplice, aumentata dalla (o dalle) aggravante, pena in concreto finale che il giudice deve infine diminuire da un terzo a due terzi (metodo bifasico); ove, invece, si voglia seguire il metodo diretto, la pena base astratta del reato consumato semplice dev'essere diminuita da un terzo a due terzi; una volta determinata la pena astratta del reato tentato, il giudice, determinerà la pena base in concreto alla stregua della nuova forbice edittale, pena che aumenterà della (o dalle) aggravante.

Nell'ipotesi del tentativo di un reato punibile con l'ergastolo, le regole sono, in linea generale, identiche. Sul punto, peraltro, è stato chiarito che:

«Per effetto dell'estensione del giudizio di comparazione tra circostanze eterogenee anche all'ipotesi in cui sia stabilita una pena di specie diversa o una pena determinata in modo indipendente da quella prevista per la fattispecie semplice, anche nel caso in cui la pena prevista per il reato consumato aggravato sia di specie diversa, o sia determinata in modo autonomo rispetto a quella stabilita per la fattispecie semplice, e nel corrispondente reato tentato concorrano, con una o più circostanze aggravanti ad effetto speciale, una o più circostanze attenuanti il giudice è tenuto a compiere il giudizio di comparazione tra tutte le circostanze concorrenti, con la conseguenza che la pena per il reato tentato può essere determinata, in conformità ai criteri fissati dal secondo comma dell'art. 56 c.p., con riferimento alla pena prevista per il reato consumato aggravato soltanto se il detto giudizio si concluda nel senso della prevalenza delle circostanze aggravanti su quelle attenuanti, mentre, nelle altre ipotesi, la pena deve essere determinata, in conformità agli stessi criteri, con riferimento alla pena prevista per il reato consumato semplice, sulla quale, ove sia ritenuta la prevalenza delle circostanze attenuanti sulle aggravanti, vanno applicate altresì le corrispondenti riduzioni. (fattispecie concernente il delitto di tentato omicidio aggravato dalla premeditazione e dalla futilità dei motivi con il riconoscimento della sussistenza delle circostanze attenuanti generiche dichiarate equivalenti alle circostanze aggravanti contestate. Il giudice del merito aveva ritenuto che il minimo legale della pena per tale reato fosse di anni 8 di reclusione, partendo dalla pena di dodici anni quale minimo, ex art. 56, per il tentato omicidio pluriaggravato, dato che per il reato consumato è prevista la pena dell'ergastolo, ed operando la riduzione di un terzo per le circostanze attenuanti generiche. La Cassazione ha chiarito che il minimo legale per tale reato è di anni 7 di reclusione, dovendo partirsi, in conseguenza del giudizio di equivalenza tra le circostanze di segno opposto, da 21 anni, quale minimo della pena per il delitto di omicidio volontario semplice, e dovendo operarsi, ex art. 56, la diminuzione massima dei due terzi di tale pena»: Cass. I, n. 1450/1987;

«Per determinare la forbice edittale del reato consumato in presenza di più circostanze aggravanti, di cui talune involgenti la pena dell'ergastolo ed altre che hanno effetto speciale, individuata la pena massima stabilita per il reato circostanziato consumato e operata su di essa la riduzione del tentativo non è possibile operare ulteriori aumenti di pena. (Nella specie, la Suprema Corte ha rideterminato la pena per il delitto tentato punito con l'ergastolo, eliminando l'aumento effettuato per la recidiva e modificando il trattamento finale, quantificato dalla Corte d'appello in anni quattro di reclusione, in anni otto e mesi due di reclusione)»: Cass. I, n. 30340/2017.

È stato, poi precisato che:

— in tema di procedimenti speciali, il giudice ha l'obbligo di rigettare la richiesta di patteggiamento mancante del computo della diminuzione «fino a un terzo» della pena, in quanto tale diminuzione, configurandosi come effetto tipico del rito, è prevista dalla legge come obbligatoria e non facoltativa. (In motivazione la Corte ha ulteriormente precisato che la mancata diminuzione non può essere «compensata» applicando nell'estensione massima una diminuente diversa, quale la riduzione per un'attenuante o per il tentativo): Cass. III, n. 9888/2009.

Misure alternative alla detenzione

Il divieto di concessione di misure alternative alla detenzione e di benefici penitenziari, imposto dall'art. 4-bis l. n. 354/1975 per la commissione di taluni gravi delitti ivi previsti, opera esclusivamente per i reati consumati e non per le corrispondenti fattispecie commesse nella forma tentata, per il carattere autonomo del tentativo e per la natura eccezionale della norma che deroga al principio generale di accesso ai benefici penitenziari»: Cass. I, n. 15755/2014 ha annullato il provvedimento con cui era stata dichiarata inammissibile l'istanza di affidamento in prova ex art. 94 d.P.R. n. 309 del 1990 sul presupposto che la pena in espiazione comprendeva anche il reato di rapina tentata.

Il divieto di concessione di misure alternative alla detenzione stabilito dall'art. 4-bis, comma 1, l. 26 luglio 1975, n. 354 (cosiddetto ordinamento penitenziario) sussiste anche per i delitti tentati «commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni in esso previste», in quanto anche quelli rimasti allo stadio del tentativo punibile sono tecnicamente dei «delitti», a differenza di quanto si verifica nel caso dei delitti individuati con l'espressa indicazione delle norme incriminatrici, per i quali il citato divieto non opera in caso di semplice tentativo»: Cass. I, n. 23505/2004.

Il divieto di concessione delle misure alternative alla detenzione, salvo il caso che il detenuto collabori con la giustizia, opera per i delitti — nel caso di specie, delitto di estorsione — aggravati dal fine di agevolazione dell'attività di un'associazione di tipo mafioso, seppure commessi nella forma del tentativo» Cass. I. 8707/2012.

Profili processuali

La peculiare natura del reato tentato incide anche su istituti strettamente processuali.

Competenza

La competenza per territorio, spetta al «giudice del luogo in cui è stato compiuto l'ultimo atto diretto a commettere il delitto»: art. 8 comma 4 c.p.p.

Cass. II, n. 23931/2023 , in ordine all'interpretazione di “ultimo atto”, ha ritenuto che «In tema di competenza per territorio in ipotesi di delitto tentato, “I'ultimo atto diretto a commettere il delitto” cui fa riferimento I'art. 8, comma 4, cod.proc.pen. per individuare il luogo del giudice competente, va inteso nella sua dimensione naturalistica e in quanto finalisticamente orientato alla perpetrazione del reato in relazione al quale la condotta non si è compiuta o I'evento non si è verificato, restando indifferente che esso sia astrattamente riconducibile ad altra autonoma figura di reato. (Fattispecie in tema di tentativo di rapina in cui I'ultimo atto diretto alla sua commissione configurava il reato di porto in luogo pubblico di arma comune da sparo)».

In tema di tentata truffa (nella specie: aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche), nel caso in cui l'ultimo atto di esecuzione del delitto consista nella spedizione di un messaggio o documento qualsiasi, il luogo in relazione al quale si radica la competenza per territorio è quello in cui il soggetto passivo sarebbe rimasto indotto in errore, qualora l'evento consumativo si fosse verificato, e quindi il luogo di ricezione di quanto gli è stato spedito» (Cass. II, n. 39151/2011).

La competenza territoriale a conoscere di un reato a consumazione prolungata in cui concorrano più soggetti, tutti residenti in luoghi diversi, non può essere determinata secondo la regola prioritaria di cui all'art. 8 comma 1 c.p.p., né secondo quella suppletiva di cui al successivo art. 9 comma 1, ma va stabilita facendo ricorso al criterio residuale del luogo di prima iscrizione della notitia criminis (Cass. II, n. 11922/2013, in una fattispecie in tema di tentativo di estorsione estrinsecantesi in reiterate richieste di somme di danaro).

In tema di reati contro la prostituzione minorile, ove il tentativo di indurre un minore a prostituirsi sia commesso mediante conversazioni telefoniche, la competenza per territorio spetta al giudice del luogo ove si trovava il minore all'atto di ricevere le telefonate e non a quello del luogo da cui le stesse provengono, ciò in quanto l'attività persuasiva diretta a vincere la resistenza della vittima si realizza nel momento in cui il minore ha ricevuto le telefonate e nel luogo in cui si trovava al momento della ricezione (Cass. III, n. 42371/2007).

La competenza per materia, si determina avendo riguardo alla pena «stabilita dalla legge per ciascun reato tentato»: art. 4 comma 1 c.p.p., fatta eccezione per le ipotesi previste all'art. 5 c.p.p. (per le quali è competente la Corte di assise), e quelle previste dall'art. 33-bis c.p.p. (per le quali è competente il Tribunale in composizione collegiale).

Le regole appena illustrate riguardano la competenza relativa a procedimenti che hanno per oggetto un solo reato tentato. Infatti, in caso di connessione fra il reato tentato ed altri reati (consumati), scattano le diverse regole della competenza per connessione, ex artt. 12 ss.  c.p.p.

A tal proposito, infatti, Cass. II, n. 23931/2023, ha stabilito che, In caso di tentativo di reato continuato composto da un reato istantaneo (ad es. rapina) e da un reato permanente (ad es. porto d’armi), ai fini dell’individuazione del giudice competente territorialmente, va preso in considerazione l'ultimo "atto" naturalisticamente inteso e diretto a commettere il delitto più grave (quindi, nell’esempio ipotizzato, il tentativo di rapina), ex combinato disposto degli artt. 8, comma 4, 12 lett. b) e 16, comma 1, c.p.p., e non, ex art 8, comma 3 c.p.p., quello meno grave (nell’esempio: porto d’armi) avente natura permanente.

Procedibilità

In relazione ai reati procedibili d'ufficio, è stata enunciata la seguente regola: «ai fini del regime di procedibilità in ordine ai reati, il legislatore di norma fa sempre riferimento al reato consumato, senza mai prendere in considerazione il tentativo, che pure costituisce una figura autonoma di reato rispetto a quello consumato. Ne consegue che, salva espressa previsione contraria, il reato per il quale è prevista la procedibilità d'ufficio nella forma consumata rimane ugualmente procedibile d'ufficio se realizzato nella forma tentata» (Cass. II, n. 9130/1996, in relazione ad un reato di tentata truffa aggravata).

Per i reati procedibili a querela (nella specie, lesioni), si registra il seguente contrasto: «si deve tenere conto della eventuale già intervenuta realizzazione di quelle specifiche circostanze e dell'evento che si sarebbe prevedibilmente verificato ove fosse andato a termine l'azione dell'autore, con riferimento al caso concreto, cioè considerando non solo la condotta del medesimo autore ma anche i mezzi impiegati ed ogni altra circostanza di tempo, di luogo e di persona che avrebbero potuto concretamente, secondo il criterio dell'id quod plerumque accidit, avere una incidenza sulla misura o sulla specie dell'evento. Pertanto, nel delitto di lesioni volontarie, che è perseguibile a querela di parte ove il termine di guarigione non superi i venti giorni ed ove non ricorrano le circostanze indicate nell'art. 582 capoverso, la procedibilità del tentativo rimane condizionata alla proposizione della querela della persona offesa solo se, con giudizio fondato sulle prevedibili conseguenze, in concreto valutate, e tenuto conto dei mezzi adoperati nonché di ogni altra utile circostanza, sia da ritenere che ove fosse stato raggiunto l'effetto mirato dell'agente, ne sarebbero conseguite lesioni di durata non superiore a venti giorni e sempreché non sia stata realizzata alcuna delle circostanze aggravanti previste dal citato capoverso dell'art. 582, ove un concreto prognostico superi i 20 giorni, il delitto tentato è perseguibile di ufficio. Nei casi incerti, il principio per cui in dubio pro reo rende il tentativo di lesioni, delle quali non è possibile ipotizzare in concreto prognosi sui termini di guarigione, reato procedibile a querela» (Cass. I, n. 10258/1988; contra: Cass. I, n. 2932/1981 secondo la quale, invece, nel reato di tentate lesioni si procede sempre d'ufficio non essendo possibile effettuare indagini per accertare se la malattia conseguente alle lesioni, che sarebbero state cagionate ove il delitto fosse stato consumato, avrebbe avuto durata tale da rendere il reato procedibile solo a querela).

Misure cautelari personali e reali

Arresto obbligatorio in flagranza: è previsto dall'art. 380 c.p.p. per i delitti non colposi, consumati o tentati, per i quali «la legge stabilisce la pena dell'ergastolo o della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni e nel massimo a venti anni».

Arresto facoltativo in flagranza: la normativa è prevista nell'art. 381 c.p.p.

Il comma 1 stabilisce che l'arresto in flagranza è consentito per i delitti non colposi, consumati o tentati, per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a tre anni.

Il comma 1, invece, stabilisce che l'arresto in flagranza è consentito per una serie di delitti tassativamente elencati.

In relazione a tale ultima ipotesi, si è ritenuto che:

- in ragione del rinvio all'art. 278 c.p.p. contenuto nell'art. 379 c.p.p., ai fini dell'applicazione delle norme sull'arresto in flagranza, si deve avere riguardo alla pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato. Ne consegue, in ragione dell'autonomia del reato tentato, che non è consentito l'arresto in flagranza per delitti tentati per i quali, in applicazione dell'art. 56 cod. proc., non risulti comminata una pena superiore nel massimo a tre anni di reclusione» (Cass. V, n. 696/2000);

- stante l'autonomia del delitto tentato rispetto a quello consumato, ove determinati effetti giuridici siano dalla legge ricollegati alla commissione di reati specificamente indicati mediante l'elencazione degli articoli che li prevedono, senza ulteriori precisazioni, deve intendersi che essi si producano esclusivamente alle ipotesi consumate e non già tentate; ne deriva, in tema di arresto facoltativo in flagranza, che l'applicazione della misura da parte della polizia giudiziaria in ordine ai reati indicati dal secondo comma dell'art. 381 c.p.p. non è consentita nelle ipotesi di tentativo, considerato che la norma espressamente si riferisce, elencandoli per articolo, ai “seguenti delitti”, diversamente dal primo comma ove la legge testualmente menziona i “delitti non colposi consumati o tentati” in ordine ai quali è autorizzata la cautela (Cass. II, n. 7441/1998; Cass. II, n. 45511/2005).

In materia di custodia cautelare, si registrano le seguenti decisioni:

- ai fini dell'individuazione dei termini di durata massima, si applicano i criteri dettati dall'art. 278 c.p.p. per la determinazione della pena. Nel caso di tentativo di reato con circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato o ad effetto speciale, per il computo dei termini indicati dall'art. 303 stesso codice deve dapprima individuarsi la pena massima stabilita per il reato circostanziato consumato, per poi operare su di essa la riduzione minima indicata dall'art. 56 c.p. (Cass. I, n. 4298/1998; Cass. II,n. 7995/2010);

- la durata massima della custodia nella fase delle indagini preliminari è aumentata, ai sensi dell'art. 303, comma 1 lett. a) n. 2 e 3, c.p.p., da sei mesi ad un anno per i delitti consumati indicati nell'art. 407, comma 2 lett. a) n. 7 bis, c.p.p., ma rimane ferma a mesi sei per gli stessi delitti ove integrati a livello di tentativo, ostandovi il principio di tassatività ed atteso che ove il legislatore ha voluto ricomprendervi i delitti tentati, come nel n. 2 della stessa lett. a) del comma secondo del citato art. 407, ciò è avvenuto espressamente»: Cass. III, n. 25458/2004;

- il termine di un anno, previsto per la fase delle indagini preliminari e dell'udienza preliminare dagli artt. 303, primo 1, lett. a), n. 3, c.p.p., e 407, secondo 2, lett. a), n. 3, dello stesso codice, qualora si proceda per i delitti commessi per agevolare l'attività delle associazioni di stampo mafioso, o comunque avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis c.p., si applica anche ai delitti tentati, sempre che la legge ne preveda la punizione con la reclusione superiore nel massimo a sei anni (Cass. II, n. 21394/2015);

- la disposizione speciale contenuta nell'art. 308, comma 2-bis, c.p.p., secondo cui le stesse perdono efficacia decorsi sei mesi dall'inizio della loro esecuzione, si applica ai soli delitti contro la P.A. ivi indicati, e non anche alle corrispondenti fattispecie tentate, in quanto il comma secondo bis non contiene alcun riferimento a queste ultime, e, quindi, per le stesse opera la regola generale prevista dal comma secondo del medesimo articolo, che fissa il più breve termine di due mesi (Cass. VI, n. 11748/2013);

La presunzione di esclusiva adeguatezza della custodia carceraria, ex art. 275, comma 3, c.p.p.: Cass. III, n. 7057/2019, ha ritenuto che la suddetta norma «in quanto produttiva di effetti giuridici sfavorevoli, deve intendersi riferita alle sole ipotesi di reato consumato previste dalla stessa norma e non può essere estesa alle corrispondenti fattispecie commesse nella forma tentata, attesa la natura autonoma del tentativo»;

Cass. I, 15809/2011 ; Cass. I, n. 9109/2010, hanno ritenuto che, in tema di misure cautelari personali, vale anche nei confronti del soggetto tossicodipendente che intenda sottoporsi ad un programma di recupero terapeutico previsto dall'art. 89 d.P.R. n. 309/1990, e che sia imputato del delitto di tentativo di estorsione aggravato dall'uso del cosiddetto metodo mafioso, ai sensi dell'art. 7 l. n. 203/1991, ove si accerti che questa modalità di commissione del fatto sia rivelatrice dell'attualità di collegamento con la criminalità organizzata, perché anche la forma tentata di tali delitti deve ritenersi compresa nel regime di favore previsto dall'art. 89 d.P.R. n. 309/1990;

La confisca prevista dall'art. 12-sexies d.l. 8 giugno 1992 n. 306, conv., con modif., in l. 8 luglio 1992, n. 356 (ora art. 240-bis), può essere disposta per uno dei reati-presupposto anche nella forma del tentativo, purché aggravato dall'art. 7 d.l.n. 152/1991, convertito dalla l. n. 203/1991 (ora 416-bis.1): è quanto hanno deciso Cass. S.U.n. 40985/2018 risolvendo un contrasto insorto all'interno delle sezioni semplici.

Correlazione tra accusa e sentenza

Il problema della violazione dell'art. 521 c.p.p., si pone, quando l'imputato è tratto a giudizio per il reato tentato e viene condannato per il reato consumato.

In tale casi, la giurisprudenza, applica il principio generale secondo il quale «in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione» (Cass.  S.U., 36551/2010).

Alla stregua di tale principio, normalmente, è rigettata l'eccezione di violazione dell'art. 521 c.p.p., proprio perché si tratta — ove l'imputato sia stato in condizione di difendersi su tutti gli elementi oggetto dell'addebito — alla fin fine, di una semplice riqualificazione del fatto.

Cass. III, n. 11659/2015 , (in una fattispecie in cui l'imputato, nella doccia della casa circondariale in cui era ristretto, aveva afferrato con forza un altro detenuto strofinando il proprio pene contro le natiche di quest'ultimo, invitandolo altresì a masturbarlo), ha ritenuto che non viola il principio di correlazione tra l'imputazione contestata e la sentenza la decisione di condanna per il reato di violenza sessuale consumata a fronte della contestazione di violenza tentata, quando non vi è modifica del fatto penalmente rilevante indicato in contestazione e l'imputato è stato in condizione di difendersi su tutti gli elementi oggetto dell'addebito, trattandosi in tal caso solo di una riqualificazione giuridica dello stesso fatto;

Cass. V, n. 44862/2014, ha ritenuto che non viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza la decisione di condanna per il reato di furto consumato a fronte della contestazione di furto tentato, quando non vi è modifica del fatto penalmente rilevante indicato in contestazione e l'imputato è stato in condizione di difendersi su tutti gli elementi oggetto dell'addebito, trattandosi in tal caso solo di una riqualificazione giuridica dello stesso fatto;

Cass. III, n. 42503/2010 : non viola il principio di correlazione con l'imputazione la condanna in ordine al reato di detenzione per il commercio o somministrazione di alimenti in cattivo stato di conservazione (art. 5, comma 1, lett. b), l. n. 283/1962), a fronte della contestazione di tentativo di frode in commercio;

Cass. VI, n. 29533/2013 (in una fattispecie in cui il tribunale aveva condannato in relazione al reato di cui all'art. 392 c.p., così riqualificando il fatto inizialmente contestato ai sensi dell'art. 393 c.p., mentre la sentenza di secondo grado aveva ritenuto il tentativo di quest'ultimo reato), ha ritenuto che non viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza la condanna, in grado di appello, per il tentativo di un delitto inizialmente contestato in forma consumata all'imputato, in parziale riforma della sentenza di primo grado che aveva attribuito al fatto una diversa qualificazione giuridica;

Cass. II. n. 16821/2019 : «non costituisce contestazione di un fatto "diverso", bensì di un fatto "nuovo" per il quale non è ammessa la modifica dell'imputazione a norma dell'art. 516 cod. proc. pen., la trasformazione dell'originaria imputazione di circonvenzione di incapaci in quella di tentata estorsione, attesa la diversità radicale della condotta nelle due fattispecie delittuose»;

Cass. II. n. 16827/2019 «Non viola il principio di correlazione tra l'imputazione contestata e la sentenza la decisione di condanna per il reato di truffa consumata a fronte della contestazione di truffa tentata, quando non vi è modifica del fatto penalmente rilevante indicato in contestazione e l'imputato è stato in condizione di difendersi su tutti gli elementi oggetto dell'addebito, trattandosi in tal caso solo di una riqualificazione giuridica dello stesso fatto»;

Cass. II, n. 38821/2019 : «Viola il principio del giusto processo, sotto il profilo del diritto alla difesa e al contraddittorio, ex artt. 111 Cost. e 6CEDU, la riqualificazione, all'esito del giudizio abbreviato incondizionato, dell'originaria imputazione di reato tentato in consumato se essa non sia stata, in concreto, prevedibile per l'imputato. Il vizio in questione non è emendabile attraverso la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale in appello».

Per il grado di appello, peraltro, è opportuno osservare che si applica il principio secondo il quale il divieto di reformatio in peius della sentenza impugnata dall'imputato non riguarda solo l'entità complessiva della pena, ma tutti gli elementi autonomi che concorrono alla sua determinazione, per cui il giudice di appello [...], non può fissare la pena base in misura superiore rispetto a quella determinata in primo grado (Cass. S.U.n. 40910/2005 ). Il che comporta che se l'imputato, in primo grado, è stato condannato per il reato tentato ma il giudice di appello ritiene che sia consumato, in assenza di un appello anche del Pubblico Ministero, può riqualificare il fatto come reato consumato ma non può aumentare la pena. Invece, « in caso di riforma in appello della sentenza di primo grado, qualora sia ritenuto integrato il delitto tentato e non consumato, il giudice dell'impugnazione non è tenuto ad operare la diminuzione sulla pena stabilita dal primo giudice per la corrispondente ipotesi di delitto consumato, dovendo, invece, determinare la pena “ex novo” nell'ambito della diversa e minore forbice edittale prevista per il reato tentato, ferma la necessità di applicare comunque una riduzione rispetto alla pena originaria »: Cass. VI, n. 27942/2016.

Mandato di arresto europeo

Il motivo di rifiuto della consegna previsto dall'art. 18, comma 2, lett. p), l. n. 69/2005, sussiste quando una parte della condotta, anche minima e consistente in frammenti privi dei requisiti di idoneità e inequivocità richiesti per il tentativo, purché preordinata al raggiungimento dell'obiettivo criminoso, si sia verificata in territorio italiano (Cass. VI, n. 13455/2014, ha ritenuto sussistente il motivo di rifiuto con riferimento a reato inerente al traffico internazionale di stupefacenti effettuato fuori del territorio italiano, ma in relazione al quale la pianificazione dell'attività illecita e il procacciamento del mezzo adoperato per il trasporto della sostanza erano avvenuti in Italia; Cass. VI, n. 17704/2014; Cass. VI, n. 2959/2020).

Deve escludersi la sussumibilità dell'omicidio tentato nelle fattispecie di consegna obbligatoria di cui all'art. 8 l. n. 69/2005, non essendovi espressa previsione dei reati ivi enunciati anche nella forma del tentativo (Cass. VI, n. 15631/2010).

Bibliografia

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