Codice Penale art. 646 - Appropriazione indebita.

Roberto Carrelli Palombi di Montrone

Appropriazione indebita.

[I]. Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile [6242; 8123 c.c.] altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso, è punito, a querela della persona offesa [120], con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da euro 1.000 a euro 3.000 [3812i, 3, 4 c.p.p.; 1144-1146 c. nav.] 12.

[II]. Se il fatto è commesso su cose possedute a titolo di deposito necessario, la pena è aumentata [64]3.

 

competenza: Trib. monocratico

arresto: facoltativo

fermo: non consentito

custodia cautelare in carcere: consentita (v. 3915 c.p.p.)

altre misure cautelari personali: consentite (v. 3915 c.p.p.)

procedibilità: a querela di parte, ma v. art. 649-bis 

[1] L'art. 1, comma 1, lett. u) l. 9 gennaio 2019, n. 3in vigore dal 31 gennaio 2019, ha sostituito le parole seguenti: «con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da euro 1.000 a euro 3.000» alle parole: «con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a euro 1.032».

[2] La Corte costituzionale, con la sentenza n. 46 del 22 marzo 2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del presente comma, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera u), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), nella parte in cui prevede la pena della reclusione «da due a cinque anni» anziché «fino a cinque anni».

[3] Seguiva un terzo comma soppresso dall’art. 10, comma 1, d.lgs. 10 aprile 2018, n. 36. Il testo era il seguente: « Si procede d’ufficio [1144-1146 c. nav.], se ricorre la circostanza indicata nel capoverso precedente o taluna delle circostanze indicate nel numero 11 dell’articolo 61[649; 3812, 3, 4 c.p.p.] ».

Inquadramento

L'art. 646, nel prevedere il delitto di “appropriazione indebita” sanziona la condotta di colui che, per procurare ad altri un ingiusto profitto, si appropria del denaro o della cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso. Il delitto è inserito nel titolo XIII del libro secondo del codice penale, relativi ai delitti contro il patrimonio, ed in particolare nel capo II avente ad oggetto i delitti contro il patrimonio mediante frode.

Il bene giuridico protetto è il diritto di proprietà in tutte quelle ipotesi in cui esso sia disgiunto dal possesso sulla cosa, sanzionandosi la condotta del soggetto che venga di fatto ad esercitare un potere di signoria sulla cosa altrui appropriandosi dei poteri spettanti al proprietario (Antolisei, PS 1999, 279). Si è parlato al riguardo di proprietà in senso penalistico, intendendosi in essa compreso qualsiasi diritto, reale o personale, sulla cosa, come, ad esempio, il diritto dell'usufruttuario, o del locatario. Inoltre, in un'ottica di superamento dei limiti imposti dalla nozione civilistica di proprietà, si è voluto individuare il bene giuridico protetto dalla norma “nell'interesse di un soggetto diverso dall'autore del fatto al rispetto dell'originario vincolo di destinazione della cosa”.

In tal senso anche la giurisprudenza ha individuato la ratio della norma nella volontà del legislatore di sanzionare penalmente il fatto di chi, avendo l'autonoma disponibilità della res, dia alla stessa una destinazione incompatibile con il titolo e le ragioni che giustificano il possesso della stessa, anche nel caso in cui si tratti di una somma di denaro (Cass. V, n. 46474/2014).

Modifiche introdotte dalla legge n. 3/2019

In data 18 dicembre 2018 il Parlamento ha approvato definitivamente il disegno di legge n. C 1189-B (l. 9 gennaio 2019, n. 3, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 13 del 16 gennaio 2019 ) recante “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”. Per quel che qui rileva con l'art. 1 comma 1 lett. u) l. n. 3/2019 si interviene sul trattamento sanzionatorio previsto per il reato di cui all'art. 646, introducendosi la sanzione della reclusione da due a cinque e della multa da euro 1.000 ad euro 3000 in luogo di quella originariamente prevista della reclusione fino a tre anni e della multa fino ad euro 1032.

Soggetti

Soggetto attivo

Trattandosi di reato comune, soggetto attivo dello stesso può essere qualsiasi soggetto che si trovi in quel particolare rapporto di signoria rispetto alla cosa altrui. Al suddetto rapporto di signoria sulla cosa corrisponde la nozione penalistica di possesso, che non corrisponde esattamente all'analoga categoria elaborata nell'ambito del diritto civile.

Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che la nozione penalistica di possesso differisca dal concetto civilistico di potere di fatto sulla cosa corrispondente al diritto di proprietà. Si è parlato al riguardo di un “ potere sulla cosa che si esercita al di fuori della diretta vigilanza di una persona che abbia sulla cosa medesima un potere giuridico maggiore” (Antolisei, PS 1999, 323), enucleandosi, in questo modo, il concetto di disponibilità autonoma; più precisamente si è affermato che il possesso in diritto penale va identificato in “un potere di custodia, di uso o di disposizione, che si svolge in modo autonomo, al di fuori della sfera di custodia e di attività del proprietario o di altro avente diritto, con l'obbligo di restituire la cosa o di darle la destinazione stabilita” (Petrocelli, 233).

La giurisprudenza ha, al riguardo, parlato di detenzione qualificata consistente nell'esercizio sulla cosa di un potere di fatto autonomo, al di fuori della sfera di vigilanza e di custodia del titolare (Cass. II, n. 13347/2011). Segnatamente si è ritenuto che, ai fini della configurabilità del delitto di appropriazione indebita, la nozione di possesso non va individuata facendo riferimento alle regole proprie del diritto civile, bensì in via autonoma, avendo riguardo ad un concetto più ampio che include ogni detenzione del bene, a qualsiasi titolo, tale da consentire una signoria immediata sulla cosa al di fuori della diretta sorveglianza e disponibilità della stessa da parte del proprietario o di altri che vi abbiano un maggiore potere giuridico. Nella nozione penalistica di possesso rientrano, poi, vari tipi di detenzione, sempre che si tratti di detenzione nomine proprio e non nomine alieno, come avviene quando si tratti di persone che abbiano la disponibilità della cosa appartenente ad altri in virtù del rapporto di dipendenza che le lega al titolare del diritto.

Invece, le situazioni di mera detenzione nelle quali la cosa rimane nella sfera di disponibilità di un altro soggetto non rientrano nella nozione penalistica di possesso finora delineata; pertanto il soggetto che si appropri della cosa da lui precariamente detenuta senza averne la piena e diretta disponibilità commette il delitto di furto e non quello di appropriazione indebita. Non possono quindi farsi rientrare, ai fini della configurazione del reato, nella nozione penalistica di possesso quelle situazioni di mera detenzione nelle quali la cosa rimane nell'ambito della sfera di sorveglianza e custodia di un altro soggetto, che rappresenta il reale possessore della stessa. Così ad esempio colui che detenga materialmente una cosa per ragioni di custodia, senza poterne disporre in alcun modo, rappresenta un mero detentore rispetto al soggetto che ha la disponibilità della cosa stessa e che la possiede per mezzo del custode; a ciò consegue che la condotta di impossessamento della cosa posta in essere da quest'ultimo ai danni del primo integra il delitto di furto e non l'appropriazione indebita. Difatti un affidamento della cosa per breve tempo a persona incaricata di custodirla nel luogo ove la cosa si trovi non toglie al proprietario l'esercizio effettivo del suo potere di signoria sulla cosa stessa, la quale permane nella sua sfera di attività patrimoniale.

Così nella casistica riguardante i dipendenti di istituti bancari, si è ritenuto integrato il delitto di furto, e non quello di appropriazione indebita, nella condotta del soggetto che si appropri di titoli di clienti, in relazione ai quali gli era stata attribuita una detenzione materiale o meramente precaria finalizzata soltanto all'esecuzione di determinate operazioni. Nella stessa linea si è affermato che il cassiere di un'agenzia bancaria non ha la disponibilità neanche provvisoria della provvista dei conti correnti dei clienti dell'istituto, precisandosi che lo stesso nel momento in cui effettua il pagamento di assegni, non esercita un libero atto di disponibilità, ma si limita a compere una mera attività di esecuzione di precise disposizioni del correntista, il quale rimane in ogni momento possessore e dominus della gestione del conto; a ciò consegue che risponde del delitto di furto e non del delitto di appropriazione indebita il cassiere che, con movimentazioni fittizie, effettui spostamenti o prelievi dai conti correnti dei clienti, sottraendo denaro alla disponibilità di costoro, nonché quello che, dopo avere richiesto alla sede centrale fondi maggiori di quelli necessari, gonfiando il fabbisogno giornaliero, si impossessi del denaro contante che transiti nella cassa per fare fronte alle esigenze correnti, posto che egli di tali somme ha la mera, momentanea detenzione senza alcun autonomo potere di disposizione (Cass. IV, n. 1798/1996). Ed analogamente è stato ravvisato il delitto di furto aggravato e non quello di appropriazione indebita nella condotta del dipendente di banca che si impossessi, mediante movimentazioni effettuate con i terminali dell'ufficio, di somme di denaro di clienti depositate in conti correnti (Cass. VI, n. 32543/2007).

Viceversa si è ravvisato il delitto di appropriazione indebita aggravato ai sensi dell'art. 61 n. 11, e non quello di furto, nella condotta del dipendente di una banca che si impossessi dei beni contenuti in una cassetta di sicurezza, avendone ottenuto dal cliente la chiave, in quanto detta traditio, a meno che non sia diversamente convenuto, riveste il significato di autorizzazione ad aprire la cassetta e, salvo prova contraria, a disporre, beninteso nell'interesse del titolare, del suo contenuto, di guisa che l'agente ha il possesso della cassetta e dei beni in essa custoditi (Cass. sez. II, n. 44942/2011).

Si è ritenuto, poi, che integra il reato di appropriazione indebita la condotta del trustee che destina i beni conferiti in trust a finalità proprie o comunque diverse da quelle per realizzare le quali il negozio fiduciario è stato istituito, in quanto l'intestazione formale del diritto di proprietà al “trustee” ha solo la valenza di una proprietà temporale, che non consente di disporre dei beni in misura piena ed esclusiva (Cass. II, n. 50672/2014).

In tema di concorso di persone nel reato, la Cassazione, riprendendo precedenti pronunce in tema di bancarotta fraudolenta (Cass. V, n. 44826/2014) ed in tema di reati tributari (Cass. II, n. 8632/2020), ha ritenuto che anche con riguardo a fattispecie di appropriazioni indebite commesse ai danni di una banca da parte dell’amministratore di fatto unitamente a funzionari dell’istituto, sussiste il concorso punibile dell’amministratore di diritto che si sia prestato all’apertura di numerosissimi conti correnti intestati alla società sui quali poi pervenivano i fondi sottratti all’istituto di credito; specificamente la condotta punibile dell’amministratore di diritto è stata individuata nell’avere omesso dolosamente qualsiasi controllo sull’utilizzo di quei conti permettendone l’utilizzo a fini delittuosi (Cass. II, n. 30304/2021).

Soggetto passivo

Con riguardo all'individuazione del soggetto passivo del reato legittimato a proporre la querela, la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che tale è il soggetto nei confronti del quale ed in danno del quale sia intervenuta l'interversione del titolo del possesso del denaro o delle cose mobili altrui. Così in una fattispecie concreta in cui il debitore aveva consegnato un titolo di credito a persona diversa dal creditore, non autorizzata a riscuoterlo in nome e per conto di questo, in caso di appropriazione della somma contenuta nel titolo, la persona offesa non è da identificarsi nell'originario destinatario del titolo, ma nel soggetto che lo aveva emesso (Cass. II, n. 45993/2007).

Ed ancora, ai fini dell'individuazione del soggetto legittimato a proporre la querela non occorre l'accertamento della potestà dominicale sulle cose di cui si denuncia l'altrui impossessamento, essendo sufficiente la deduzione di un diritto di godimento. In questa direzione il locatore di un immobile, eseguita la sentenza di sfratto per morosità, è stato considerato legittimato a proporre la querela nei confronti del conduttore per appropriazione indebita della mobilia di arredo (Cass. II, n. 26805/2009). Così anche si è ritenuta la legittimazione a proporre la querela da parte del titolare dell'esercizio dell'autonoleggio, non proprietario delle autovetture, per l'omessa restituzione dell'automobile noleggiata. In sostanza si deve ritenere che il diritto di querela per il reato di appropriazione indebita spetti anche al soggetto che, pur se diverso dal proprietario, detenendo legittimamente ed autonomamente la cosa, ne abbia fatto consegna a colui che se ne sia appropriato illegittimamente (Cass. II, n. 26805/2009). Il principio è stato ribadito affermandosi che il diritto di querela per il reato di appropriazione indebita spetta anche al soggetto, diverso dal proprietario, che, detenendo legittimamente ed autonomamente la cosa, ne abbia fatto consegna a colui che se ne sia appropriato illegittimamente. E nel caso di specie si trattava dell'appropriazione indebita di un'autovettura in leasing e la  querela era stata ritenuta legittimamente sporta dalla società concedente (Cass. II, n. 20776/2016 e recentemente Cass. II, n. 8659/2023).

Con riferimento poi al reato di appropriazione indebita posto in essere dal legale rappresentante ai danni della società da lui stessa rappresentata, la legittimazione a proporre la querela spetta al singolo socio, che assume la posizione, non solo di danneggiato dal reato, ma anche di persona offesa titolare del bene giuridico costituito dall'integrità del patrimonio sociale (Cass. II, n. 11970/2020). Il principio è stato riaffermato (Cass. II, n. 30304/2021) precisandosi che le infedeltà patrimoniali degli amministratori non possono escludere la rilevanza penale della condotta posta in essere in danno dell’ente aggredendo il bene giuridico costituito dall’integrità del patrimonio sociale; in tale direzione si è ancora affermato che l’eventuale coincidenza fra organi che hanno deliberato affidamenti illeciti e titolari del potere rappresentativo non esclude l’illiceità delle condotte, in quanto, in tali ipotesi, la persona giuridica vede aggredito il proprio patrimonio attraverso attività infedeli e dolose poste in essere dai propri rappresentanti, i quali, violando il dovere di agire nell’interesse dell’ente, ne diminuiscono concretamente le consistenze patrimoniali.

Elemento materiale

La condotta materiale del reato viene individuata nell'appropriarsi del denaro o della cosa mobile altrui, invertendo il possesso, così come sopra definito, in proprietà. Non sono previste particolari modalità di commissione della condotta criminosa, che, quindi, potrà assumere forma omissiva o commissiva, né è richiesto, ai fini dell'integrazione del reato, la realizzazione di un evento di danno patrimoniale.

La dottrina ha precisato, al riguardo, la necessita di “un risultato irreversibile” che viene inteso come l'instaurazione di un rapporto animo domino, idoneo ad attestare in modo univoco l'avvenuta interversione del possesso (Pedrazzi, 833). Si è fatto riferimento anche a “qualsiasi forma di illegittimo comportamento uti dominus in relazione alla res”, ritenendosi rilevanti e meritevoli di tutela penale, nell'ambito della norma in esame, quelle situazioni oggettive che vengono ad incidere in modo negativo sulla consistenza economica della res ( Regina, 2).

Deve escludersi rilevanza penale alla c.d. appropriazione d'uso, sempreché la condotta  di appropriazione non venga ad incidere in modo significativo sul valore economico del bene. Viene esclusa, quindi, la rilevanza penale della cosiddetta appropriazione d'uso consistente nell'uso indebito della cosa oltre i limiti segnati dal titolo del possesso, con limite di quelle condotte alle quali consegue un logorio della cosa influente sul valore economico della stessa, essendo, invece, prevista solo l'ipotesi del furto d'uso (art. 626 c.p.).

A questo riguardo l'elaborazione giurisprudenziale è pervenuta a definire meglio la condotta di appropriazione, nel senso di ritenere che in essa sia compresa, non solo la condotta di annessione della cosa mobile al proprio patrimonio, ma anche tutti quegli usi arbitrari ai quali consegue una dismissione irreversibile del bene. Ed in tale direzione si è affermato che il reato sussiste anche nel caso del mero uso indebito della res, quando esso sia avvenuto eccedendo completamente i limiti in virtù del quale l'agente deteneva in custodia la cosa, di modo che l'atto compiuto comporti un impossessamento, sia pure temporaneo, del bene; nella fattispecie concreta si trattava della condotta di un gommista che, avendo ricevuto in custodia un'autovettura Ferrari per la sostituzione dei pneumatici, la aveva in più occasioni usata per fini personali, fino provocare un incidente stradale che aveva danneggiato gravemente l'autovettura (Cass. II, n. 47665/2009). Ugualmente il reato di appropriazione indebita sussiste nel caso in cui un soggetto utilizzi un assegno da altri firmato in bianco per scopi diversi rispetto a quelli concordati, come quando venga posto all'incasso un assegno ricevuto in garanzia con conseguente appropriazione della somma riscossa, in violazione del precedente accordo che il prenditore aveva concluso con l'emittente (Cass. II, n. 5643/2014).

Anche l'omessa restituzione del bene al legittimo proprietario può integrare il delitto di appropriazione indebita allorquando sia accompagnata da un comportamento uti dominus da parte dell'agente rispetto alla cosa.

Integra ancora l'elemento materiale del reato l'omessa restituzione del bene al legittimo proprietario, se dal comportamento tenuto dal detentore si rilevi, per le modalità del rapporto con la cosa, un'oggettiva interversione del possesso (Cass. II, n. 15788/2016). Deve però tenersi conto che, ai fini della configurazione del reato, non basta la scadenza del termine civilistico che imponga la restituzione della cosa, ma occorrono ulteriori circostanze di fatto che rivelino il carattere intenzionale dell'omessa restituzione (Cass. II, n. 29451/2013); così nella fattispecie concreta relativa all'appropriazione della documentazione relativa al condominio posta in essere da parte del soggetto che ne era stato amministratore, il reato è stato considerato perfezionato, non al momento della revoca dell'amministratore e della nomina del successore, ma nel momento successivo in cui l'agente, volontariamente negando la restituzione della contabilità detenuta, si era comportato uti dominus rispetto alla res. Ed ancora si è precisato che l'omessa restituzione della cosa alla controparte che ne ha fatto richiesta in pendenza di un rapporto contrattuale non integra, di per sé, il reato di cui all'art. 646 c.p., in quanto non modifica il rapporto fra il detentore ed il bene attraverso un comportamento oggettivo di disposizione uti dominus e l'intenzione soggettiva di intercessione del possesso, ma si riflette in un inadempimento di esclusiva rilevanza civilistica (Cass. II, n. 12077/2015).

E con specifico riferimento ai casi di vendita di una cosa con pagamento rateale e con riserva di proprietà è richiesto che il compratore abbia compiuto sulla cosa atti in contrasto con il diritto del titolare o si sia comportato in modo tale da fare presumere che abbia voluto tenere la cosa come propria. Ciò perché nella vendita con riserva di proprietà il trasferimento della proprietà è subordinato alla condizione sospensiva del pagamento del prezzo e fino a quando non si verifica tale condizione, il compratore ha soltanto il possesso delle cose acquistate e non potrà disporne uti dominus, senza un'illecita inversione del titolo del possesso, che, appunto, rappresenta la consumazione del delitto di appropriazione indebita. A ciò consegue che il reato è integrato se il compratore, prima del pagamento integrale del prezzo, alieni la cosa acquistata. (Cass. II, n. 40674/2009). A quanto detto consegue l'irrilevanza penale di una mera ritenzione precaria attuata a scopo di garanzia di un preteso diritto di credito, alla quale non si accompagni il disconoscimento del diritto del proprietario sulla cosa, che rimane disposizione del proprietario, sia pure sotto la condizione che lo stesso adempie all'obbligazione alla quale lo si ritiene obbligato.

Con riferimento a beni detenuti in forza di un contratto di leasing, la Cassazione ha costantemente affermato che il mero inadempimento dei canoni, cui consegue la risoluzione di diritto del contratto, non integra, di per sé, il reato di cui all'art. 646, che, invece, si perfeziona solo nel momento in cui il detentore manifesta la sua volontà di detenere il bene uti dominus, non restituendo, senza alcuna giustificazione, il bene che gli viene richiesto e sul quale non ha più alcun diritto (Cass. II, n. 25282/2016; Cass. II n. 25288/2016).

Ed in proposito risulta estremamente rilevante la precisazione che la conoscenza della volontà del creditore, ove sia stata affidata ad una comunicazione inviata a mezzo posta, può dirsi realizzata sempreché vi sia la prova della materiale ricezione del plico in cui sia contenuta la richiesta di restituzione del bene; con l’ulteriore specificazione che l'omessa consegna del plico postale, pur se avvenuta per il mancato ritiro della corrispondenza giacente presso l'ufficio postale da parte del destinatario, non può integrare la prova richiesta, in quanto il debitore non è a conoscenza dell'intimazione rivolta dal creditore alla consegna del bene; ciò a maggior ragione nell’ipotesi in cui la richiesta di restituzione provenga da un soggetto diverso dall'originario concedente del bene in leasing, per essere stato da quest’ultimo ceduto il credito al primo (Cass. II, n. 34911/2023)

In linea con una datata decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. S.U. , n. 9863/1989), si è ritenuto configurabile il reato di appropriazione indebita nel caso in cui il dipendente di un istituto bancario, assumendo arbitrariamente i poteri dell'organo di amministrazione competente ad autorizzare il superamento dei limiti del fido o della provvista del conto corrente di corrispondenza, abbia concesso un fido ad un cliente violando, in collusione con lo stesso, le norme sugli affidamenti stabiliti dagli istituti in modo da realizzare sostanzialmente un'arbitraria disposizione di beni della banca a profitto di terzi (Cass. II, n. 3332/2012).

L'oggetto della condotta del reato può consistere nel denaro o in altra cosa mobile altrui, dovendosi, al riguardo, precisare che tale è qualsiasi entità di cui sia possibile la fisica detenzione, sottrazione, impossessamento od appropriazione e che sia in grado di spostarsi autonomamente ovvero di essere trasportata da un luogo ad un altro, compresa quella che, pur non mobile originariamente, sia resa tale mediante l'avulsione o l'enucleazione dal complesso immobiliare di cui faceva parte (Cass. II, n. 20647/2010). Deve però, a questo riguardo, precisarsi che il delitto non viene considerato integrato dalla condotta del promittente venditore che, a seguito della risoluzione del contratto preliminare per l'acquisto di un immobile, non restituisca al promissario acquirente la somma ricevuta a titolo di acconto sul prezzo pattuito (Cass. II, n. 18815/2017); la Cassazione ha, in proposito, precisato che la somma di denaro era entrata a far parte definitivamente del patrimonio dell'accipiens, senza alcun vincolo di impiego, con la conseguenza che, nel caso in cui il contratto venga meno tra le parti, matura solo un obbligo di restituzione che, ive non adempiuto, integra esclusivamente un inadempimento di natura civilistica.  Il principio è stato quindi riaffermato riconoscendosi che non integra il delitto di appropriazione indebita, ma, eventualmente, solo un inadempimento civilistico, la condotta dell'agente che si rifiuti di restituire il denaro per il quale, al momento della consegna, non sia stata pattuita, con il proprietario del medesimo, una destinazione specifica, in quanto il bene, entrando a fare parte del patrimonio dell'accipens, diventa di sua proprietà (Cass. II,n. 23783/2021). 

Con specifico riferimento al denaro, nonostante la sua ontologica fungibilità, il legislatore ha ritenuto di precisare che esso può costituire oggetto di appropriazione indebita allorquando sia stato affidato ad altri in relazione ad un uso predeterminato o ad una specifica indicazione posta nell'interesse del proprietario.

In tal senso si è precisato che, ai fini della configurabilità del delitto, qualora oggetto della condotta sia il denaro, è necessario che l'agente violi, attraverso l'utilizzo personale o altro tipo di distrazione non autorizzata, la specifica destinazione di scopo che esso può avere, non essendo sufficiente il solo mancato versamento del denaro a chi è in astratto legittimato a riceverlo (Cass. II. n. 50672/2017).

Deve, al riguardo, precisarsi che il deposito di una somma di denaro, quando non si tratti di deposito in banca, in relazione alla quale ipotesi vige l'art. 1834 c.c., non implica la facoltà d'uso, se non viene provato dal depositario che tale facoltà era stata espressamente convenuta; a ciò consegue che, in mancanza di una tale pattuizione espressa, il divieto di impiego della somma data in deposito è implicito, scaturendo dalla legge, venendosi a configurare, non già un deposito irregolare, ma un deposito regolare, nel quale non vi è il passaggio di proprietà al depositario, con conseguente configurabilità, del reato di cui all'art. 646 c.p.

La Cassazione ha avuto modo di precisare che le nozioni di appartenenza, possesso, appropriazione, disponibilità e simili devono essere verificate alla luce della struttura delle singole fattispecie incriminatrici, senza la necessità di dovere ricorrere alle corrispondenti categorie normative di tipo civilistico; a quanto detto consegue che, avendo il legislatore espressamente previsto il denaro come possibile oggetto del delitto di appropriazione indebita, qualsiasi condotta che comporti una destinazione del denaro diversa da quella che costituiva il titolo del possesso vale ad integrare l'interversione nel possesso (Cass. II, n. 31983/2015).

La più recente elaborazione giurisprudenziale ha ritenuto integrato il delitto di esame nella condotta del socio che, una volta iscritti gli utili al bilancio e questo sia stato approvato, prelevi, appropriandosene, le somme spettanti, sulla base del rapporto societario, ad altro socio sia esso di diritto o di fatto (Cass. II, n. 5362/2015).

Nel concetto di “cosa mobile altrui” rientra anche la cosa comune, che può essere oggetto di appropriazione indebita da parte del comproprietario, del socio, del coerede che ne abbia il possesso e si renda responsabile di una condotta incompatibile con l'uso a cui la cosa è stata concordemente destinata. Non sussiste, invece, il reato di appropriazione indebita, qualora oggetto materiale della condotta illecita sia un bene immateriale, atteso che quest'ultimo non rientra nella nozione penalistica di cosa mobile; nel caso di specie si trattava dell'appropriazione di disegni e progetti industriali coperti da segreto in relazione ai quali la Corte ha ritenuto sussistere il reato solo con riguardo ai documenti che li rappresentavano (Cass. II, n. 20647/2010); invece nell'ipotesi di appropriazione di documentazione industriale e commerciale si e ritenuto ravvisabile il reato di cui all'art. 646 laddove sussista una rilevanza economica della suddetta documentazione, sia pure rappresentativa di un'idea immateriale (Cass. III, n. 8011/2012). E così si è ritenuto costituire un bene immateriale, che non rientra nel concetto di cosa mobile e che quindi non può formare oggetto di appropriazione indebita, le quote di una società, di cui l'intestatario fiduciario si sia appropriato, non avendo ottemperato all'obbligo di restituirle alla scadenza convenuta al fiduciante (Cass. II, n. 36592/2007). Analogamente si è ritenuto insussistente il delitto di appropriazione indebita in una fattispecie concreta di mancata restituzione di warrenty bond, di cui si era acquisita la disponibilità a titolo di garanzia della corretta esecuzione di un contratto, in ordine al quale vi sia stata contestazione tra le parti, disconoscendosi nei supporti cartacei rappresentativi della garanzia l'elemento dell'altruità della cosa mobile; ciò in quanto il possesso del warrenty bond non condizionava il diritto alla riscossione della somma garantita (Cass. VI, n. 46062/2014). La soluzione al caso di specie ora citato era imposta dalla natura del warrenty bond, per come disciplinati dalla prassi commerciale, cioè un contratto di garanzia, solitamente funzionale alla corretta esecuzione di un appalto, che, a differenza della fideiussione, rimane autonomo rispetto al rapporto sottostante e di cui era carente il presupposto tipico dell'appropriazione indebita costituito dall'altruità del bene.

Viceversa il reato è stato ravvisato nella condotta di colui che, accedendo abusivamente in un sistema informatico, si procuri i dati bancari di una società riproducendoli su un supporto cartaceo, in quanto se il dato bancario costituisce bene immateriale insuscettibile di detenzione fisica, l'entità materiale su cui tali dati sono trasfusi ed incorporati attraverso la stampa del contenuto del sito di home banking acquisisce il valore di questi, assumendo la natura di documento originale e non di mera copia (Cass. V, n. 47105/2014).

Pure è stata ravvisata la sussistenza del reato nella fattispecie di sottrazione definitiva di "dati informatici" o "file" mediante copiatura da un "personal computer" aziendale, affidato all'agente per motivi di lavoro e restituito con "hard disk" "formattato", in quanto si è ritenuto che  i "dati informatici", per fisicità strutturale, possibilità di misurarne le dimensioni e trasferibilità da un luogo all'altro, sono qualificabili come cose mobili ai sensi della legge penale (Cass. II, n. 11959/2019).

Si è ritenuto che non integra il reato di appropriazione indebita la condotta dell'amministratore di una società che dispone in bilancio accantonamenti a titolo di compenso, non ancora determinato, per l'attività svolta in tale qualità, in quanto l'atto compiuto non è volto al conseguimento di un ingiusto profitto o di un vantaggio che si ponga come danno patrimoniale cagionato alla società, bensì ad assicurare il soddisfacimento di un diritto soggettivo perfetto (Cass. II n. 36030/2014).

Tempo addietro, con un decisione isolata (Cass. II, n. 5136/1997), è stata riconosciuta la sussistenza del delitto di appropriazione indebita nel fatto di un amministratore di una società che, costituendo riserve di denaro extrabilancio, con gestione occulta, le distragga in favore di terzi per scopi illeciti ed estranei all'oggetto sociale ed alle finalità aziendali, così procurando ad essi un ingiusto profitto; si trattava, appunto della condotta di un amministratore di una società di capitali, il quale, omettendo l'annotazione, la fatturazione o l'iscrizione a bilancio di una quota dei ricavi dell'impresa, aveva creato riserve occulte utilizzate per pagare, tra l'altro, politici ed amministratori che gestivano appalti pubblici ed ufficiali della Guardia di Finanza corrotti o concussori, sicché la destinazione finale delle medesime riserve appariva tale da realizzare l'ingiusto profitto altrui. Pressoché nello stesso periodo però la giurisprudenza aveva la necessità di precisare che la creazione di riserve occulte e l'utilizzazione extrabilancio di fondi sociali non sono di per se sufficienti ad integrare il delitto di appropriazione indebita; specificamente si è ritenuto di dovere escludere la possibilità di qualificare come distrattiva o appropriativa un'erogazione di denaro che, pur compiuta in violazione delle norme organizzative della società, risponda ad un interesse riconducibile anche indirettamente all'oggetto sociale. Difatti, sulla base dell'argomentare della Cassazione, per aversi appropriazione occorre una condotta che non risulti giustificata o giustificabile come pertinente all'azione o all'interesse della società, in quanto può accadere che una persona giuridica, attraverso i suoi organi, persegua i propri scopi con mezzi illeciti, senza che ciò comporti l'interruzione del rapporto organico. A ciò è conseguita l'affermazione che né il versamento di fondi extrabilancio su conti non formalmente riconducibili alla società né la destinazione di tali fondi al perseguimento con mezzi illeciti degli interessi sociali integrano gli estremi dell'appropriazione indebita, fermo restando che il gestore occulto di tali riserve deve ritenersi gravato da un rigoroso onere di provarne l'effettiva destinazione allo scopo predetto (Cass. V, n. 1245/1998). Il principio è stato ribadito nel senso che non integra il delitto in esame il compimento, da parte dell'amministratore di una società di capitali, di atti di disposizione patrimoniale comunque idonei a soddisfare, anche indirettamente, l'interesse sociale e non un interesse esclusivamente personale del disponente, dovendo escludersi, in tal caso, la divaricazione assoluta fra il titolo del possesso e l'atto di disposizione della res idoneo ad integrare la condotta appropriativa e dovendo altresì ritenersi incompatibile il perseguimento di un  interesse societario, in via diretta o anche solo putativa, con il dolo specifico del delitto in questione (Cass. V, n. 4942/2021).

Viceversa Integra il reato di appropriazione indebita, ai sensi dell'art. 40 comma 2 c.p., la condotta dell'amministratore di società di capitali che non abbia impedito la distrazione di somme del patrimonio sociale a favore di terzi che non risultino titolari di diritti di credito ovvero che non abbiano effettuato alcuna prestazione a vantaggio della società (Cass. II, n. 49489/2017).

Il reato è stato ravvisato nella condotta del mandatario che, violando le disposizione impartitegli dal mandante, si appropri del denaro ricevuto utilizzandolo per fini propri e, quindi, per scopi diversi ed estranei agli interessi del mandante (Cass. II, n. 46256/2013).

Ed in proposito la Cassazione ha, recentemente, precisato che il riferimento al concetto civilistico di altruità non può trovare applicazione in ambito penalistico per determinare la materialità del delitto di appropriazione indebita e ciò anche nelle ipotesi in cui oggetto della interversio possessionis sia un bene fungibile come il denaro; ha poi aggiunto che la regola civilistica dell'acquisizione per confusione del denaro e delle cose fungibili nel patrimonio di colui che le riceve non opera ai fini della medesima nozione di altruità della cosa accolta dall'art. 646. A ciò consegue che nell'ipotesi di mandato a vendere, commette il reato di appropriazione indebita aggravata ex art. 61 comma 1 n. 11 c.p., il mandatario che, avendo ricevuto da terzi una somma di denaro quale corrispettivo della vendita di beni ricevuti in conto vendita, per destinarla, mediante consegna o altrimenti impiegarla per conto del mandante, se ne appropri, dandole destinazione diversa ed incompatibile con quella dovuta (Cass. II, n. 17693/2018).

Ed ancora integra il reato il rifiuto del professionista di restituire al cliente la documentazione ricevuta, in quanto costituisce un comportamento che eccede i limiti del titolo del possesso (Cass. II, n. 26820/2008), così come il comportamento del soggetto che, nell'ambito della stipula di un contratto di locazione, dopo avere ricevuto il documento già sottoscritto dalla controparte, comunichi informalmente di non volere procedere alla sua sottoscrizione e ne rifiuti la restituzione, attuando così un comportamento eccedente i limiti dei titolo che legittimano il possesso dell'atto (Cass. II, n. 20652/2014). E sempre con riferimento ai rapporti fra il professionista ed il cliente, la consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione esclude che possa integrare il delitto di appropriazione indebita la condotta della parte vincitrice di una causa civile che trattenga la somma liquidata in proprio favore dal giudice civile a titolo di refusione delle spese legali, rifiutando di consegnarla al proprio avvocato che la reclami come propria (Cass. II, n. 20606/2015).

Elemento psicologico

L'elemento soggettivo del reato è costituito, sulla base della costante giurisprudenza della Corte di Cassazione, dal dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di appropriarsi del denaro o della cosa mobile altrui, posseduta a qualsiasi titolo, nella consapevolezza di agire senza diritto e con la finalità specifica di trarre, per se o per altri, una qualsiasi illegittima utilità (Cass., n. 27023/2012).

Anche la dottrina ha, al riguardo, precisato che nell'oggetto del dolo rientrano il possesso e l'altruità del denaro e della cosa mobile, l'atto di appropriazione che deve essere cosciente e volontario e l'ingiustizia del profitto. Segnatamente ad un'interpretazione lata che tende a ricomprendere nel concetto di profitto qualsiasi vantaggio che il soggetto agente possa ricavare dalla cosa, ivi compresi anche quelli di carattere morale o sentimentale (Antolisei, 108; Pedrazzi, 845), si contrappone un'opinione più diffusa in base alla quale è necessario che il profitto abbia una natura almeno mediatamente patrimoniale, nel senso che allo stesso debba conseguire necessariamente un'espansione della sfera soggettiva patrimoniale del soggetto agente o del terzo beneficiario del vantaggio (Regina, 4; Pisapia, 802).

Quanto al carattere ingiusto che il profitto deve rivestire, il concetto persegue la finalità di delimitare il campo di applicazione della fattispecie, dalla quale vanno esclusi tutti i casi in cui la pretesa dell'agente è comunque tutelata dall'ordinamento, come perfino nei vantaggi che possono conseguire all'adempimento di un'obbligazione naturale. Così, ad esempio, il reato deve considerarsi escluso, per carenza dell'elemento psicologico, ove l'agente agisca in compensazione sempre che il credito che sia fatto valere sia liquido ed esigibile sulle base di quanto previsto dall'art. 1243 c.c. per la compensazione legale (Cass. II, n. 293/2013). Ed in tale ottica deve affermarsi che il diritto di ritenzione esercitato sul bene altrui può avere efficacia scriminante solo se il credito che si intende tutelare sia liquido ed esigibile (Cass. II, n. 6080/2009). Il reato è, invece, configurabile nella condotta dell'esercente la professione forense, che trattenga somme riscosse in nome e per conto del cliente, anche se egli sia, a sua volta, creditore di quest'ultimo per spese e competenze relative ad incarichi professionali espletati, a meno che non si dimostri non solo l'esistenza del credito, ma anche la sua esigibilità ed il suo preciso ammontare (Cass. II, n. 5499/2013).

Il dolo non è escluso dall'intenzione di restituire la cosa, se già dall'inizio l'agente ha la consapevolezza che l'attuazione dell'intenzione è incerta, perché in questa ipotesi, in cui una delle due alternative è quella di non potere restituire, egli ha la coscienza e quindi la volontà di adoperare la cose come se fosse propria (Pedrazzi, 845).

Consumazione

Il momento di consumazione del reato coincide con quello in cui si verifica l'inversione del possesso in dominio dell'agente, vale a dire con il momento in cui quest'ultimo abbia compiuto un atto di dominio, sia esso di consumazione o di alienazione della cosa, con la volontà espressa o implicita di tenere la cosa come propria; ne consegue che il reato non è escluso dall'intenzione del soggetto attivo di restituire la cosa o di risarcire il danno o dalla possibilità di recupero della stessa.

Con specifico riferimento al caso di noleggio di breve durata la Cassazione ha precisato che, allo scadere del termine si configura un obbligo di restituzione tempestiva che, ove non adempiuto in assenza di giustificazioni, si configura quale "interversio possessionis" ai sensi dell'art. 646 c.p. anche in assenza di una richiesta di restituzione del noleggiatore (Cass. II, 6998/2019).  

Trattasi, appunto, di un reato istantaneo che viene a consumazione nel momento stesso in cui l'agente compie l'atto di disposizione uti dominus con la volontà espressa o implicita di usare la cosa di cui ha il possesso come se fosse propria. In tale senso si è, appunto, affermato che il delitto di appropriazione indebita è un reato istantaneo che si consuma con la prima condotta appropriativa, nel momento in cui l'agente compie un atto di dominio sulla cosa con la volontà espressa o implicita di tenere questa come propria (Cass. II, n. 40870/2017).        

Contestata in dottrina è la possibilità di configurare il tentativo di appropriazione indebita, ritenendosi, da parte di alcuni, la natura di reato insussistente, ammettendosi, invece, da parte di altri, la possibilità di realizzare il reato anche attraverso una pluralità di atti.

Circostanze aggravanti

Nell'art. 646 comma 2 è prevista come circostanza aggravante speciale, che determina oltre all'ordinario aumento di pena, la procedibilità d'ufficio del reato, la commissione dell'appropriazione su cose possedute a titolo di deposito necessario. Trattasi di nozione non contemplata nel codice civile vigente, la cui ricorrenza deve intendersi riferita a situazioni di fatto in virtù delle quali il soggetto passivo è costretto a dare la cosa propria in deposito.

Al comma 3 è previsto poi che il reato sia procedibile d'ufficio anche ove ricorra la circostanza aggravante di cui all'art. 61 n. 11, che prevede le ipotesi di abuso di autorità, di relazioni domestiche, di ufficio, di prestazione d'opera, di coabitazione, di ospitalità.

Segnatamente è stata ravvisata la sussistenza della circostanza aggravante, quanto al concetto di prestazione d'opera, in un rapporto anche di fatto, più ampio del concetto civilistico di locazione d'opera, che sia stato l'occasione e la ragione di quello possessorio (Cass. II n. 24093/2011); in presenza di rapporti giuridici, anche soltanto fondati sulla fiducia, che a qualunque titolo comportino un vero obbligo e non una mera facoltà di facere (Cass. II, n. 6350/2014). Viene ravvisata, quindi, la sussistenza della circostanza aggravante ogni volta che l'agente approfitta della particolare fiducia in lui riposta, attraverso l'affidamento a qualsiasi titolo, di un'attività che lo ponga in condizione di commettere più facilmente il reato, come nel caso dell'appropriazione indebita di un bene noleggiato, in quanto il contratto di noleggio, siccome disciplinato dalla normativa sulla locazione, implica l'obbligazione, caratterizzante e non meramente accessoria o eventuale, di restituire la cosa locata in buono stato di manutenzione (Cass. II, n. 10991/2012).

Viceversa l'aggravante non sussiste nell'ipotesi di appropriazione indebita di un bene detenuto in locazione finanziaria, in quanto il relativo contratto non prevede alcun obbligo di facere; in una tale fattispecie, infatti, l'oggetto del negozio è l'utilizzazione del bene concesso verso un canone e l'obbligo dell'accipiens di conservarlo in buono stato in vista della futura restituzione costituisce una prestazione del tutto accessoria che non può caratterizzare o modificare l'essenza del contratto (Cass. II n. 6947/2010) o come quando, in caso di mandato a vendere una cosa mobile, il mandatario abbia profittato della particolare fiducia in lui riposta dal mandante per appropriarsi con maggiore facilita della cosa a lui affidata (Cass. II, n. 11570/2012).

Analogamente non è configurabile la circostanza aggravante dell'abuso di prestazione d'opera in relazione all'appropriazione indebita di un bene noleggiato, in quanto a tal fine deve sussistere un rapporto negoziale che sia caratterizzato dall'attività prestata da un soggetto a favore dell'altro e in ragione del quale si crei fra le parti un rapporto di fiducia che abbia facilitato la commissione del reato (Cass. II, n. 36113/2017).

In concreto è stata ravvisata la sussistenza della circostanza aggravante di cui all'art. 61 n. 1 nella condotta dell'amministratore, socio unico di una società a responsabilità limitata, che si appropri di denaro della società stessa distraendolo dallo scopo cui è destinato (Cass. II, n. 50087/2013).

Rapporti con altri reati

In tema di distinzione fra furto ed appropriazione indebita si rivela decisiva l'indagine circa il potere di disponibilità sul bene da parte dell'agente. Se questo sussiste, il mancato rispetto dei limiti in ordine all'utilizzabilità del bene integra il reato di appropriazione indebita; in caso contrario, è configurabile il reato di furto.

In una fattispecie concreta è stato ravvisato il reato di furto a carico del dipendente di una società operante nel settore della vigilanza privata e del trasporto di valori che sottragga il denaro a lui affidato esclusivamente per l'espletamento di un'attività di ordine materiale, quale il trasporto, il deposito, la conservazione di tale bene, con le connesse operazioni burocratiche; in queste ipotesi infatti, si è ritenuto che l'agente, non disponendo autonomamente del denaro, nel senso giuridico sopra evidenziato, con la sottrazione di esso se ne impossessa, così realizzando la fattispecie criminosa di cui all'art. 624 c.p. (Cass. IV, n. 10638/2013). Ed ancora si è ritenuto configurato il delitto di furto e non quello di approvazione indebita nella condotta di impossessamento, mediante copia delle chiavi che il responsabile si era illecitamente procurato, di un'autovettura di cui il proprietario aveva rifiutato l'utilizzo, in quanto in una tale fattispecie non è configurabile un potere di fatto sulla cosa autorizzato dal titolare al di fuori della sua sfera di sorveglianza, che costituisce il presupposto del reato di cui all'art. 646 (Cass. V, n. 7304/2014).

Nella stessa linea si è ritenuto integrato il reato in esame e non quello di furto aggravato nella condotta di colui che, legittimato in forza di procura generale o speciale, ad operare sul conto corrente altrui, travalicando i limiti della procura, disponga ultra vires delle somme depositate, ancorchè non soggette a vincoli di destinazione o derivanti dall'espletamento di un mandato (Cass. V, n. 23129/2022). 

Ancora si è affermato che la sottrazione del denaro dai conti correnti dei clienti da parte del dipendente dell’istituto che li ha in deposito integra il delitto di furto e non quello di appropriazione indebita (Cass. II, 4853/1993); nel caso di specie era stata esclusa la sussistenza del possesso in senso penalistico in capo ad un dipendente di un istituto bancario rispetto ai titoli dei clienti di cui lo stesso aveva la materiale detenzione, finalizzata solo a compiere determinate operazioni; così analogamente che il cassiere di una banca non ha la disponibilità neanche provvisoria dei conti correnti dei clienti dell’istituto e pertanto, ove si appropri di somme depositati sugli stessi, commette il delitto di furto e non quello di appropriazione indebita (Cass. IV, n. 1798/1996); sarà configurabile, invece, il delitto di appropriazione indebita ove il cassiere si appropri di denaro versato dal cliente della banca prima che esso venga  accreditato sul conto corrente, trattandosi di denaro del quale, in quel momento, egli aveva la piena disponibilità. Quindi secondo la giurisprudenza per definire la corretta qualificazione giuridica della condotta contestata occorre verificare quali siano in concreto i poteri di gestione del dipendente della banca rispetto al denaro depositato dal cliente e segnatamente stabilire se la detenzione del suddetto denaro avvenga nomine proprio o nomine alieno; in particolare ai fini della configurabilità del delitto di appropriazione indebita occorre che l’agente violi, attraverso l’utilizzo personale, la specifica destinazione di scopo del denaro ad esso impressa dal proprietario al momento della consegna alla banca (Cass. II, n. 24857/2017). Specificamente, nel caso di denaro depositato in banca, può ritenersi sussistente in capo al funzionario che dispone di esso l’interversione del possesso che integra l’appropriazione indebita solo se vi sia una delega del correntista che definisca precisi vincoli alla gestione delle somme depositate e che tali vincoli non siano rispettati; in assenza di una tale delega il funzionario che dispone del denaro depositato sul conto commette il delitto di furto (Cass. II,, n. 2098/2023).

Come anche integra il delitto di furto e non quello di appropriazione indebita - la condotta del dipendente di un vettore che si impossessi della cosa mobile affidatagli per il trasporto, in quanto, pur detenendola materialmente "nomine alieno", non ha alcuna disponibilità autonoma della cosa stessa (Cass. V, n. 31993/2018).

Ancora integra il delitto di furto e non quello di appropriazione indebita la condotta del condomino che, mediante allaccio abusivo a valle del contatore condominiale, si impossessi di energia elettrica destinata all'alimentazione di apparecchi e di impianti di proprietà comune (Cass. V, n. 17773/2022).

In sostanza il delitto di appropriazione indebita presuppone un preesistente possesso della cosa altrui da parte dell'agente, cioè una situazione di fatto che si concretizzi nell'esercizio di un potere autonomo sulla cosa, al di fuori dei poteri di vigilanza e custodia che spettano giuridicamente al proprietario; in presenza invece di un semplice rapporto materiale con la cosa, determinato da un affidamento condizionato e conseguente ad un preciso rapporto di lavoro, soggetto ad una specifica regolamentazione, che non attribuisca all'agente alcuna disponibilità sulla cosa medesima si versa nell'ipotesi di furto e non di appropriazione indebita.

Risponde di appropriazione indebita e non di truffa il direttore di un istituto bancario che, in collusione con un cliente ed omettendo i doverosi controlli interni, metta a disposizione dello stesso somme di denaro, accreditando sul di lui conto o pagando direttamente assegni privi di provvista. Nel caso concreto la suddetta qualificazione giuridica viene fondata sulla qualità rivestita dal direttore che consentiva all'agente di potere contare su un'ampia e materiale disponibilità delle somme depositate in banca, rispetto alle quali lo stesso, con l'attribuzione diretta o l'accreditamento al terzo, si comportava uti dominus (Cass. II, n. 6603/2014). Ed ancora con riguardo ai rapporti con il delitto di truffa, si è ritenuto che integra il reato di appropriazione indebita la condotta dell'assicurato che ometta di comunicare tempestivamente il ritrovamento del veicolo rubato alla Compagnia assicuratrice, che abbia già effettuato la liquidazione del danno in suo favore, considerato che in virtù del contratto di assicurazione quest'ultima acquista la proprietà dell'autoveicolo, con la conseguenza che l'assicurato deve comunicare tempestivamente il ritrovamento dell'autoveicolo e metterlo a disposizione della compagnia assicuratrice, non sussistendo invece alcuna cooperazione artificiosa della vittima né la perdita definitiva del bene da parte della società assicuratrice, necessari per l'integrazione del reato di truffa (Cass. II, n. 8927/2012). 

Più in generale si è stabilito che sussiste il delitto di truffa quando l'artificio e il raggiro risultino necessari alla appropriazione, mentre ricorre il reato di appropriazione indebita quando gli artifizi e raggiri siano posti in essere dopo l'appropriazione del bene a soli fini dissimulatori (Cass. II, n. 51060/2016).

Integra il delitto di appropriazione indebita, e non quello di infedeltà patrimoniale previsto dall'art. 2634 c.c., l'erogazione di denaro compiuta da un amministratore di una società di capitali in violazione delle norme organizzative di questa e per realizzare un interesse esclusivamente personale, in assenza di una preesistente situazione di conflitto d'interesse con l'ente, senza che possa rilevare l'assenza di danno per i soci; nel caso di specie si trattava di somme formalmente appostate in bilancio, riconducibili ad operazioni inesistenti giustificate da false fatturazioni, o comunque provento di evasione fiscale e sottratte alla società senza valida giustificazione economica (Cass. II, n. 3397/2012).

Circa i rapporti con il delitto di truffa, è stata esclusa una violazione del principio di correlazione fra accusa contestata e sentenza nell'ipotesi in cui il giudice di appello aveva ritenuto l'imputato colpevole del delitto di appropriazione indebita, così diversamente qualificata l'originaria imputazione di truffa, non essendo configurabile alcuna violazione del diritto di difesa, in quanto il fatto di appropriazione costituiva una porzione della condotta originariamente contestata (Cass. II, n. 1378/2014).

Integra il delitto di appropriazione indebita, e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, il prelievo da parte dell'amministratore di condominio di somme di denaro depositate sui conti correnti dei singoli condomìni, dei quali egli abbia piena disponibilità per ragioni professionali, con la coscienza e volontà di farle proprie a pretesa compensazione con un credito preesistente non certo, né liquido ed esigibile.

È stato riconosciuta un'ipotesi di concorso formale fra i reati di cui agli artt. 314 e 646, in una fattispecie concreta nell'ambito della quale il responsabile di una Federazione sportiva si era appropriato sia di somme di provenienza privata che di fondi pubblici erogati dal C.O.N.I. per il finanziamento delle attività sportive (Cass. VI, n. 53578/2014).

Integra il delitto di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato ex art. 316-ter , e non quelli di truffa o di appropriazione indebita o di indebita compensazione ex art. 10-quater d.lgs. n. 74/2000, la condotta del datore di lavoro che, esponendo falsamente di aver corrisposto al lavoratore somme a titolo di indennità per malattia, assegni familiari e cassa integrazione guadagni, ottiene dall'I.N.P.S. il conguaglio di tali somme, in realtà non corrisposte, con quelle da lui dovute a titolo di contributi previdenziali e assistenziali, così percependo indebitamente dallo stesso istituto le corrispondenti erogazioni (Cass. II, n. 15989/2016).

Viceversa integra il delitto di appropriazione indebita e non quello di cui all'art.316-ter c.p. l'indebita percezione della pensione di pertinenza di soggetto deceduto, conseguita dal congiunto cointestatario del conto corrente su cui sono confluiti i ratei pensionistici, che abbia omesso di comunicare all'Ente previdenziale il decesso del pensionato (Cass. V, n. 31210/2021).

Il giudizio irrevocabile per il delitto di appropriazione indebita di beni aziendali impedisce, in ragione del divieto di "bis in idem", di giudicare l'imputato per il delitto di bancarotta per distrazione in relazione agli stessi beni, in quanto la dichiarazione di fallimento, che distingue il secondo reato dal primo, costituisce mera condizione obiettiva di punibilità e non è quindi elemento idoneo a differenziare il fatto illecito naturalisticamente inteso (Cass. V. n. 25651/2018).

Integra il reato di appropriazione indebita e non quello di sottrazione di cose comuni la condotta del condomino il quale, mediante allaccio abusivo a valle del contatore condominiale, si impossessa di energia elettrica destinata all'alimentazione di apparecchi ed impianti di proprietà comune (Cass. V. n. 57749/2017).

Casistica

Incasso di un assegno ricevuto come anticipo del corrispettivo della vendita del bene

Non integra il delitto di appropriazione indebita, ma un mero inadempimento di natura civilistica, la condotta di colui che ponga all'incasso un assegno datogli come anticipo del corrispettivo per la vendita di un bene, senza poi procedere alla consegna del bene medesimo all'acquirente (Cass. II, n. 29424/2011).

Negozio fiduciario di trasferimento di titolo; inadempimento del fiduciario di ritrasferimento alla scadenza convenuta

Non integra il delitto di appropriazione indebita la condotta dell'intestatario fiduciario di un titolo che non ottemperi all'obbligo di ritrasferirlo al fiduciante alla scadenza convenuta, in quanto l'intestazione fiduciaria da luogo ad una interposizione reale attraverso la quale l'interposto acquista la proprietà effettiva dei beni e non la mera detenzione, come avviene in ipotesi di intestazione fittizia. Nell'occasione la Cassazione ha precisato che nonostante permanga la possibilità di agire in sede civile per la restituzione dei beni intestati fiduciariamente, nessuna interversione del possesso risulta possibile, per effetto dell'intervenuto trasferimento del diritto di proprietà (Cass. II, n. 265239/2015).

Appropriazione del denaro conferito allo spedizioniere per i diritti doganali

Commette il delitto di appropriazione indebita lo spedizioniere che, ricevuto il denaro dal cliente per il pagamento dei diritti doganali, potendo beneficiare per l'adempimento della dilazione di 180 giorni conseguente al sistema del c.d."differito doganale", previsto per il territorio di Trieste, non provveda al pagamento a causa della sopraggiunta insolvibilità dell'impresa nel cui patrimonio aveva fatto confluire le predette somme (Cass. II, n. 25281/2016).

Circostanza aggravante del deposito necessario

Si applica l'aggravante del deposito necessario ex art. 646 comma 2 in caso di deposito cui taluno è costretto da un evento eccezionale come un incendio, una rovina, un saccheggio, un naufragio o altro avvenimento non prevedibile (Nella specie la Corte ha escluso che possa configurarsi l'aggravante e, quindi, la procedibilità d'ufficio del reato, nell'ipotesi di appropriazione da parte dell'imputato di autovetture custodite nell'autosalone di sua proprietà a seguito dell'arresto del gestore, il quale era stato costretto a riconsegnargli le chiavi, non essendo intercorso fra i due alcun contratto di deposito (Cass. II, n. 9750/2013).

Appropriazione dell’importo corrisposto a titolo di deposito cauzionale

Integra il delitto di appropriazione indebita la condotta del promissario venditore che, in esecuzione di un contratto preliminare di compravendita immobiliare, si impossessa dell'importo corrisposto a titolo di "deposito cauzionale infruttifero" e non come acconto sul prezzo o come caparra confirmatoria (Cass. II, n. 54945/2017).

Appropriazione indebita di recipienti destinati a contenere GPL

La Corte di Cassazione ha ritenuto che la lettura contestuale dell’art. 646 c.p, e della disposizione dell'art.12 d.lgs. n. 128/2006, che prevede l'illecito amministrativo consistente nel riempimento non autorizzato di gas di petrolio liquefatti, da parte del titolare di impianto di imbottigliamento, eseguito utilizzando recipienti di terzi, in possesso dei requisiti di cui agli articoli 8 e 9 dello stesso decreto, fa risaltare con evidenza il difetto di coincidenza strutturale tra le fattispecie, trattandosi di condotte obiettivamente diverse: difatti la norma penale sanziona l'appropriazione del bene - il contenitore, mentre l'altra norma sopra citata prevede l'attività di utilizzazione di specifici beni - mediante l'immissione in contenitori, che ben potrebbero essere legittimamente detenuti, di gas senza che tale specifica attività sia stata autorizzata dal proprietario dei beni; e si è precisato come non possa, nel caso di specie, trovare applicazione il principio di specialità in alcuna delle possibili varianti, "per specificazione" o "per aggiunta" (Cass.  S.U. n. 1963/2011), mancando il nucleo essenziale comune tra le due fattispecie astratte; specificamente l'imbottigliamento del gas propano liquido in bombole di proprietà di terzi non implica, di per sé, l'appropriazione indebita dei contenitori che, al contrario, la norma presuppone esser nella legittima disponibilità del gestore dell'impianto; per altro verso, l'eventuale imbottigliamento concerne un segmento di azione che si pone a valle rispetto alla condotta di appropriazione, senza alcuna interferenza necessaria (Cass. II, n. 27372/2023).

Gestione di negozi altrui senza mandato

La Cassazione ha stabilito che nella gestione di negozi altrui senza mandato, le cose di proprietà del soggetto pur irritualmente rappresentato che pervengono in possesso del gestore in conseguenza dell’attività dallo stesso svolta sono suscettibili di appropriazione indebita da parte di quest’ultimo; nella fattispecie concreta si è ritenuto integrato il reato nella condotta di un soggetto che, spendendo impropriamente la propria qualità di legale rappresentante del sindacato a livello locale, si è ingerito nell’attività di assistenza agli iscritti, pur in assenza di una formale investitura e si è appropriato delle somme costituenti il corrispettivo dell’attività prestata in loro favore non versandole in favore del sindacato  (Cass. II, n. 27370/2024).

Profili processuali

La procedibilità è a querela di parte, salvo che il reato risulti aggravato ai sensi dell'art. 646 comma 2 c.p. o ai sensi dell'art. 61 n. 11 c.p. e ricorrano circostanze aggravanti ad effetto speciale. È punito con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da euro 1.000 a euro 3000 (come modificato dalla l. n. 3/2019). È prevista una circostanza aggravante ordinaria se il fatto è commesso su cose possedute a titolo di deposito necessario.

Il d.lgs. 10 aprile 2018 n. 36, come noto, ha previsto l'estensione della punibilità a querela per alcuni reati e, con particolare riferimento al reato in esame, ha limitato la procedibilità di ufficio alle ipotesi sopra indicate, escludendola per il reato di reato di appropriazione indebita aggravato ai sensi dell'art. 646 comma 2 c.p. o ai sensi dell'art. 61 n. 11 c.p., prevista nel testo originario della norma.

Recentemente le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. S.U., n. 40150/2018), con riguardo all'applicabilità della disciplina intertemporale nei procedimenti i cui ricorsi siano affetti da vizi da cui discenda la declaratoria di inammissibilità, hanno stabilito che  non è necessario dare alla persona offesa l'avviso previsto dall'art. 12 comma 2 d.lgs. n. 36/2018 per l'eventuale esercizio del diritto di querela. Con riferimento alla medesima disciplina transitoria, le Sezioni Unite hanno altresì stabilito che non opera la sospensione del termine di prescrizione durante i novanta giorni decorrenti dall'avviso dato alla persona offesa ai sensi del suddetto art. 12.

Nella suddetta decisione si è altresì stabilito che con la citata disposizione, «è stata predisposta una disciplina transitoria  per regolare le modalità con le quali, in relazione ai reati per i quali è mutato regime di procedibilità, la persona offesa viene messa nelle condizioni di valutare l'opportunità di esercitare nei termini il diritto di formulare l'atto propulsivo»  Pertanto - si è sostenuto - «è al momento dell'entrata in vigore della nuova legge ovvero da quello in cui la persona offesa ha avuto notizia della facoltà di proporre querela che vanno svolte le valutazioni relative alla ritualità della condizione di procedibilità, a nulla rilevando eventuali "difetti" legati a momenti processuali differenti in cui tale condizione non era affatto richiesta. Le sezioni Unite hanno infatti chiarito che si tratta di due segmenti procedimentali diversi rispetto ai quali il regime transitorio determina un'autonoma apertura del termine per proporre l'istanza di punizione in tutti i casi in cui in precedenza la procedibilità era - come nel caso di specie - ex officio. Ciò, in quanto, in caso contrario, si giungerebbe all'irragionevole risultato di consentire la procedibilità ex art. 12 della nuova legge a mere denunzie alle quali è poi seguita una manifestazione di volontà di punizione, escludendola rispetto ad atti, quale quello costituito da una querela tardiva che, in ragione del regime di procedibilità ex officio del tempo del commesso reato, avevano, ai fini della procedibilità, l'identica valenza di notitia criminis. E nella stessa linea si sono espresse le sezioni semplici in ripetute occasioni (Sez. 2, n. 13775/2019; Sez. 2, n. 11970/2020, Sez. 2, n. 29357/2020. Da ultimo la seconda sezione penale della Corte di Cassazione(Cass. sez. II, n. 25341/2021)  ha ribadito i principi sopra riportati affermati dalle sezioni unite così ponendosi in consapevole contrasto con altra decisione della medesima seconda sezione penale (Cass. sez. II, n. 8823/2021). In quest'ultima decisione, appunto, si era affermato che  la disposizione normativa di cui all'art. 12 sopra citato, con il termine "esercitare", non può che riferirsi alla persona offesa che non ha ancora proposto la querela e non alla persona che quel diritto abbia già esercitato (sia pure in maniera non regolare. L'ultima decisione intervenuta sulla questione, quella sopra citata (Cass. II, n. 25341/2021), ha ritenuto che l'interpretazione ora prospettata contrasti con il principio di ragionevolezza richiamato nelle pronunce di segno opposto: la persona offesa che avesse presentato una mera denunzia (o che non l'avesse  presentata affatto, essendosi aliunde appresa la notitia criminis) avrebbe il diritto di essere avvisata della facoltà di proporre querela, mentre quella che avesse proposto tardivamente un atto qualificabile come querela, all'epoca non necessaria, verrebbe sanzionata con una declaratoria d'improcedibilità dell'azione penale.

La Cassazione ha altresì chiarito che l'intervenuto mutamento della condizione di procedibilità del reato, come avvenuto con riguardo alla norma in esame,  non può certo assimilarsi al concetto di "nuova prova" rilevante ex art. 630, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. ai fini di una richiesta di revisione di sentenza la cui irrevocabilità sia intervenuta prima dell'intervenuta modifica normativa (Cass. II, n. 14987/2020).

Bibliografia

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