Codice Civile art. 1223 - Risarcimento del danno. [ 2056 ]

Cesare Trapuzzano
aggiornato da Rossella Pezzella

Risarcimento del danno. [2056]

[I]. Il risarcimento del danno per l'inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore [1174] come il mancato guadagno [2056 2], in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta [40, 41 c.p.].

Inquadramento

La norma disciplina i profili relativi al risarcimento del danno da inadempimento o ritardo, sia in ordine alle voci di danno riconoscibili, sia con riguardo al nesso causale che deve ricorrere tra inadempimento e conseguenze dannose. La previsione è espressamente richiamata dall'art. 2056, unitamente alle previsioni degli artt. 1226 e 1227, anche per l'illecito aquiliano. Di contro, non è evocato l'art. 1225, sicché nella responsabilità da inadempimento il risarcimento è limitato ai danni prevedibili al tempo in cui è sorta l'obbligazione, salvo che l'inadempimento sia dipeso da dolo del debitore (Bianca, in Comm. S.B., 1988, 255). In realtà tale delimitazione opera anche nella responsabilità extracontrattuale, atteso che la regolarità causale del danno, intesa come normale idoneità a produrlo, esclude la riparabilità del danno imprevedibile (Bianca, in Comm. S.B., 1988, 374). Secondo altra elaborazione tale esclusione opera in base ai parametri della prevedibilità ed evitabilità che connotano la colpa del fatto illecito. La dottrina prevalente nega che per l'illecito contrattuale sia ammissibile il risarcimento in forma specifica, poiché la sua concretizzazione si identifica con la domanda di adempimento, qualora ancora possibile. In via potenziale tale forma di risarcimento è stata al più ipotizzata per i danni scaturiti dalla violazione degli obblighi contrattuali di protezione ( contra Bianca, in Comm. S.B., 1988, 378). L'obbligo di risarcimento del danno costituisce un debito di valore.

Secondo la giurisprudenza il risarcimento del danno in forma specifica, in base al principio generale fissato dall'art. 2058, è applicabile anche alle obbligazioni contrattuali, costituendo rimedio alternativo al risarcimento per equivalente pecuniario (Cass. n. 15726/2010; Cass. 14599/2004; Cass. n. 6856/1988; Cass. n. 3739/1984), con particolare riguardo alla responsabilità professionale del notaio per mancata verifica delle iscrizioni ipotecarie relative all'immobile compravenduto (Cass. n. 14813/2006; Cass. n. 6/1994).

Il nesso causale

I danni devono essere conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento; tuttavia può essere risarcito anche il danno mediato e indiretto quando risulti che esso è effetto normale dell'inadempimento secondo il principio di regolarità causale (Visintini, L'inadempimento delle obbligazioni, Torino, 1984, 203). Il nesso causale tra inadempimento e danno deve essere valutato secondo il criterio della normale idoneità del fatto a produrre quel danno (Trimarchi, 32) o in base alla specifica relazione causale del fatto con il danno. Sicché sono riparabili anche i danni eccezionali e anormali poiché l'ordinamento prevede che tutti i danni siano risarciti, limitando il risarcimento ai danni prevedibili esclusivamente nel caso di inadempimento colposo (Bianca, in Comm. S.B., 1988, 255). Ne consegue che non sono risarcibili i soli pregiudizi che, pur essendo in relazione di normale causalità con il fatto, sono espressione di rischi generici (teoria della causalità specifica) mentre sono riparabili i nocumenti mediati sul piano dell'esperienza comune che siano però qualificabili sul piano normativo come conseguenze immediate e dirette del fatto. In ogni caso il creditore non può ottenere attraverso il risarcimento vantaggi superiori a quelli in cui consisteva la sua situazione precedente all'inadempimento né sono risarcibili i danni ai quali il danneggiato sarebbe stato comunque esposto (Trimarchi, 2). Pertanto, occorre tenere conto anche delle cause ipotetiche, ossia di quelle serie eziologiche non imputabili al debitore, che comunque avrebbero determinato la perdita che in concreto è stata cagionata da tale soggetto (Bianca, in Comm. S.B., 1988, 256). 

In tema di risarcimento del danno, il rapporto tra comportamento ed evento e tra questo e il danno muta a seconda che il danno sia un elemento della fattispecie o un suo effetto, e debbono conseguentemente distinguersi il nesso che deve sussistere tra comportamento ed evento (causalità materiale), affinché possa configurarsi a monte una responsabilità — come avviene in materia di illecito extracontrattuale e di responsabilità contrattuale per inadempimenti che non comportano uno spostamento patrimoniale —, e il nesso che, collegando l'evento al danno, consente l'imputazione delle singole conseguenze dannose (causalità giuridica) ed ha la funzione di delimitare a valle i confini della responsabilità; così, mentre l'accertamento della responsabilità è improntato alla ricerca del nesso di causalità, quello dell'estensione della responsabilità si fonda su un giudizio in termini ipotetici, coincidendo il danno risarcibile con la perdita e il mancato guadagno che siano conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento, delimitati in base al giudizio ipotetico sulla differenza tra situazione dannosa e situazione quale sarebbe stata se il fatto dannoso non si fosse verificato (Cass. n. 33537/2022;Cass. n. 11629/1999). La limitazione del rapporto causale fra inadempimento e danno alle sole conseguenze immediate e dirette è fondata sulla necessità di contenere l'estensione temporale e spaziale degli effetti degli eventi illeciti ed è orientata, perciò, ad escludere dalla connessione giuridicamente rilevante ogni conseguenza dell'inadempimento che non sia propriamente diretta ed immediata (Cass. n. 9374/2006). Anche la giurisprudenza condivide l'assunto secondo cui il nesso di causalità va inteso in modo da ricomprendere nel risarcimento anche i danni indiretti e mediati che si presentino come effetto normale secondo il principio della regolarità causale, con la conseguenza che, ai fini del sorgere dell'obbligazione di risarcimento, il rapporto fra illecito ed evento può anche non essere diretto ed immediato se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, sempre che, nel momento in cui si produce l'evento causante, le conseguenze dannose di esso non appaiano del tutto inverosimili (Cass. n. 15274/2006; Cass. n. 16163/2001), in base alla combinazione della teoria della condicio sine qua non con la teoria della causalità adeguata (Cass. n. 5913/2000). La valutazione sulle conseguenze normali del fatto deve essere condotta in base ad un giudizio di probabile verificazione rapportato all'apprezzamento dell'uomo di ordinaria diligenza; alla regola secondo cui in presenza di un evento dannoso tutti gli antecedenti senza i quali esso non si sarebbe verificato debbono essere considerati come sue cause (abbiano essi agito in via diretta e prossima ovvero in via indiretta e remota) fa eccezione il principio di causalità efficiente, in base al quale la causa prossima sufficiente da sola a produrre l'evento esclude il nesso eziologico fra questo e le altre cause antecedenti (Cass. n. 2009/1997). Al fine di escludere il nesso causale tra inadempimento e danno non è sufficiente la dimostrazione che il danno si sarebbe potuto ugualmente verificare, ma è necessaria la prova che il danno si sarebbe effettivamente verificato anche senza inadempimento (Cass. n. 3609/1984).

Il danno emergente

In esito all'inadempimento del debitore, il risarcimento deve porre il creditore nella stessa situazione in cui si sarebbe trovato se l'inadempimento non vi fosse stato (Visintini, L'inadempimento delle obbligazioni 1984, 196). Pertanto, deve comprendere tutti i nocumenti subiti, senza però eccedere da essi facendo ottenere al creditore indebiti vantaggi a fronte della situazione che si sarebbe cristallizzata con l'adempimento. Il danno riparabile può essere patrimoniale o non patrimoniale. Le voci risarcibili previste sono rappresentate dalle perdite patite, ossia dal danno emergente, e dal mancato guadagno, ossia dal lucro cessante. Il danno emergente è materializzato dal valore della prestazione rimasta ineseguita, con riguardo al suo prezzo corrente (di borsa, di mercato o eventualmente di imperio) o dal confronto con i prezzi usuali dei beni aventi medesime caratteristiche o, ancora, dalla capitalizzazione dei frutti. Qualora vi sia ritardo, invece, il danno emergente si consacra nei frutti percepibili e nelle spese utili sostenute dal danneggiato per la rimozione dei danni (Bianca, in Comm. S.B., 1988, 262).

L'obbligo di risarcimento del danno da fatto illecito, contrattuale o extracontrattuale, ha per oggetto l'integrale reintegrazione del patrimonio del danneggiato e pertanto nella domanda di risarcimento del danno deve ritenersi implicitamente inclusa la richiesta di compenso per il pregiudizio subito dal creditore a causa del ritardato conseguimento dell'equivalente monetario del danno, non incorrendo nel vizio di ultrapetizione il giudice che, in mancanza di espressa domanda, liquidi il conseguente danno da lucro cessante (Cass. n. 25775/2013; Cass. n. 13666/2003). La misura del danno non deve essere necessariamente contenuta nei limiti di valore del bene danneggiato ma deve avere per oggetto l'intero pregiudizio subito dal soggetto danneggiato, essendo il risarcimento diretto alla completa restitutio in integrum — per equivalente o in forma specifica, quest'ultima esperibile anche in materia contrattuale — del patrimonio leso (Cass. n. 15726/2010). La locuzione perdita subita non può essere considerata indicativa dei soli esborsi monetari o di diminuzioni patrimoniali già materialmente intervenuti, bensì include anche l'obbligazione di effettuare l'esborso, in quanto il vinculum iuris, nel quale l'obbligazione stessa si sostanzia, costituisce già una posta passiva del patrimonio del danneggiato, consistente nell'insieme dei rapporti giuridici, con diretta rilevanza economica, di cui una persona è titolare (Cass. n. 4718/2016; Cass. n. 22826/2010).

Il danno da occupazione illegittima di un immobile non può ritenersi in re ipsa, atteso che tale concetto giunge ad identificare il danno con l'evento dannoso e a configurare un vero e proprio danno punitivo (Cass. n. 14268/2021 ; Cass. n. 11203/2019 ; Cass. n. 13071/2018; contra Cass. n. 20823/2015). 

Il contrasto è stato composto nel senso che, in tema di risarcimento del danno da occupazione senza titolo di un bene immobile da parte di un terzo, il proprietario è tenuto ad allegare, quanto al danno emergente, la concreta possibilità di godimento perduta e, quanto al lucro cessante, lo specifico pregiudizio subito (sotto il profilo della perdita di occasioni di vendere o locare il bene a un prezzo o a un canone superiore a quello di mercato), di cui, a fronte della specifica contestazione del convenuto, è chiamato a fornire la prova anche mediante presunzioni o il richiamo alle nozioni di fatto rientranti nella comune esperienza; poiché l'onere di contestazione, la cui inosservanza rende il fatto pacifico e non bisognoso di prova, sussiste soltanto per i fatti noti, l'onere probatorio sorge comunque per i fatti ignoti al danneggiante, ma il criterio di normalità che generalmente presiede, salvo casi specifici, alle ipotesi di mancato esercizio del diritto di godimento, comporta che l'evenienza di tali fatti sia tendenzialmente più ricorrente nelle ipotesi di mancato guadagno (Cass. S.U., n. 33645/2022).

Il danno patrimoniale subìto dal titolare del bene abusivamente occupato — della cui prova egli è sempre onerato — dipende dall'atteggiarsi del suo godimento nel momento in cui si verifica l'occupazione, giacché solo se esista un godimento diretto o indiretto si concretizza un danno emergente da rapportare alle utilità che egli avrebbe potuto acquisire dal bene se non occupato, mentre, in caso contrario, sarà al più ipotizzabile un lucro cessante, da identificare nell'impossibilità di realizzare la modalità di godimento diretto che era stata programmata prima dell'occupazione, ovvero una modalità di godimento indiretto che si sia presentata medio tempore e resa, del pari, impossibile dall'occupazione (Cass. n. 15757/2015).; la relativa liquidazione può avvenire sulla base di presunzioni semplici con riferimento al danno figurativo, quale il valore locativo del bene usurpato (Cass. n. 16670/2016).

Allo stesso modo nella vendita di immobili destinati ad abitazione, il venditore-costruttore ha l'obbligo non solo di trasferire all'acquirente un fabbricato conforme all'atto amministrativo di assenso della costruzione e, dunque, idoneo ad ottenere l'agibilità prevista, ma anche di consegnargli il relativo certificato, curandone la richiesta e sostenendo le spese necessarie al rilascio. L'inadempimento di questa obbligazione è ex se foriero di danno emergente, perché costringe l'acquirente a provvedere in proprio, ovvero a ritenere l'immobile tal quale, cioè con un valore di scambio inferiore a quello che esso diversamente avrebbe, a prescindere dalla circostanza che il bene sia alienato o comunque destinato all'alienazione a terzi (Cass. n. 23157/2013).Il danno da deprezzamento di una cosa è configurabile anche quando questa rimanga in proprietà ed in godimento del medesimo soggetto, costituendo il deterioramento della consistenza fisica o giuridica del bene un danno emergente, poiché la diminuzione di valore venale che esso comporta non può non rappresentare un decremento patrimoniale, a prescindere dalla sua diretta ed immediata monetizzazione (Cass. n. 16585/2019).

Secondo la S.C. il danno da "fermo tecnico" di veicolo incidentato non è " in re ipsa ", ma dev'essere provato. A tal fine, è sufficiente la dimostrazione della spesa sostenuta per il noleggio, essendo presumibile la sussistenza del nesso causale tra il fermo e il noleggio ( Cass. n. 7358/2023; Cass. n. 27389/2022 , in  Danno resp ., 2022, 6, 710, con nota di Caringella Antonio). Nella stessa prospettiva, si è evidenziato che il pregiudizio alla reputazione commerciale derivante da attività di concorrenza sleale va allegato e dimostrato da parte del danneggiato, non potendosi ritenere il danno “in re ipsa” (Cass. n. 21586/2023). E ancora, in tema di responsabilità civile da circolazione stradale, si è affermato che le spese per consulenza medico-legale stragiudiziale di parte ex art. 148 c.d.a. hanno natura di danno emergente che, se allegato e provato, deve essere risarcito ai sensi dell'art. 1223 c.c. Tali spese possono ritenersi giustificate in funzione dell'esercizio stragiudiziale del diritto al risarcimento, secondo una valutazione ex ante, rapportata alla presumibile esperienza e/o conoscenza tecnica e legale del danneggiato e non a quella qualificata del professionista, che tenga conto della particolarità del caso concreto (Cass. n. 37477/2022). 

Allo stesso modo, le spese di assistenza stragiudiziale hanno natura di danno emergente, consistente nel costo sostenuto per l'attività svolta da un legale nella fase pre-contenziosa (Cass. n. 15265/2023).

Il lucro cessante

Il lucro cessante si determina in base alla differenza tra il prezzo stabilito e il valore del bene al momento della restituzione della somma versata ovvero al momento della liquidazione del danno ovvero al momento dell'inadempimento. Ai fini della delimitazione di tale voce di danno occorre altresì tenere conto dell'incidenza economica positiva che la mancata realizzazione dello scambio può avere prodotto nel patrimonio del danneggiato e, quindi, dell'utilizzazione che questi abbia fatto del prezzo non versato alla controparte inadempiente. Secondo l'impostazione prevalente, il lucro cessante deve essere quantificato in ragione di una valutazione equitativa anche in materia contrattuale (Bianca, in Comm. S.B., 1988, 398). La quantificazione di tale voce costituisce giudizio di fatto non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato. Dal lucro cessante si distingue il danno da perdita di chance, la cui ristorabilità non è pacifica o comunque è soggetta a restrizioni.

Il lucro cessante, concretandosi nell'accrescimento patrimoniale in concreto ed effettivo pregiudicato o impedito dall'inadempimento della obbligazione contrattuale, presuppone almeno la prova, sia pure indiziaria, dell'utilità patrimoniale che, secondo un rigoroso giudizio di probabilità (e non di mera possibilità) il creditore avrebbe conseguito se l'obbligazione fosse stata adempiuta e deve essere, perciò, escluso per quei mancati guadagni che sono meramente ipotetici perché dipendenti da condizioni incerte, quali quelle legate ad un improbabile fatto del terzo (Cass. n. 7647/1994). Per converso il danno da lucro cessante deve essere risarcito non solo in caso di assoluta certezza, ma anche quando, sulla base della proiezione di situazioni già esistenti, possa ritenersi che il danno si produrrà in futuro secondo una ragionevole e fondata previsione (Cass. n. 1908/1991; Cass. n. 5045/1990). Nella liquidazione del danno da lucro cessante per ritardato pagamento dei debiti di valore, il riconoscimento di interessi costituisce una mera modalità liquidatoria, cui il giudice può far ricorso con il limite costituito dall'impossibilità di calcolare gli interessi sulle somme integralmente rivalutate dalla data dell'illecito. Non è invece inibito al giudice di riconoscere interessi, anche al tasso legale, su somme progressivamente rivalutate; ovvero sulla somma integralmente rivalutata, ma da epoca intermedia; ovvero di non riconoscere affatto interessi, in relazione a parametri di valutazione costituiti dal tasso medio di svalutazione monetaria e dalla redditività media del denaro nel periodo considerato (Cass. n. 10565/2002). Al fine della liquidazione del danno patrimoniale da perdita di chance la concreta ed effettiva occasione perduta di conseguire un determinato bene non è una mera aspettativa di fatto, ma un'entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di valutazione autonoma, che deve tenere conto della proiezione sulla sfera patrimoniale del soggetto (Cass. n. 18207/2014).    

La riconducibilità del danno-evento al concetto di chance postula una incertezza del risultato sperato, e non già il mancato risultato stesso, in presenza del quale non è lecito discorrere di una chance perduta, ma di un altro e diverso danno.La perdita della possibilità del risultato sperato è ristorabile allorché sia rinvenibile un nesso eziologico con la condotta lesiva, sempre che essa sia seria, consistente e apprezzabile(Cass. n. 24050/2023; Cass. n. 5641/2018). 

In tema di risarcimento del danno alla persona, il danno patrimoniale è risarcibile solo se sia riscontrabile l'eliminazione o la riduzione della capacità del danneggiato di produrre reddito mentre il danno da lesione della cenestesi lavorativa, che consiste nella maggiore usura, fatica e difficoltà incontrate nello svolgimento dell'attività lavorativa, non incidente neanche sotto il profilo delle opportunità sul reddito della persona offesa (perdita di chance), si risolve in una compromissione biologica dell'essenza dell'individuo e va liquidato onnicomprensivamente come danno alla salute, potendo il giudice, che abbia adottato per la liquidazione il criterio equitativo del valore differenziato del punto di invalidità, anche ricorrere ad un appesantimento del valore monetario di ciascun punto mentre non è consentito il ricorso al parametro del reddito percepito dal soggetto leso (Cass. n. 20312/2015).

Il modello patrimonialistico mal si concilia con la perdita della possibilità di conseguire un risultato migliore sul piano non patrimoniale; la chance patrimoniale, infatti, presenta i connotati dell'interesse pretensivo, cioè postula la preesistenza di un quid su cui sia andata ad incidere sfavorevolmente la condotta colpevole del danneggiante, impedendone la possibile evoluzione migliorativa, mentre la chance non pretensiva, pur essendo anch'essa rappresentata, sul piano funzionale, dalla possibilità di conseguire un risultato migliorativo della situazione preesistente (segnatamente nel sistema della responsabilità sanitaria), è morfologicamente diversa dalla prima, in quanto si innesta su una preesistente situazione sfavorevole (cioè patologica), rispetto alla quale non può in alcun modo rinvenirsi un quid inteso come preesistenza positiva. Di ciò dovrà tenersi conto in fase di liquidazione (Cass. n. 28993/2019;  Cass. n. 12906/2020 ; Cass. n. 5641/2018).  La domanda tesa al risarcimento del danno da perdita di “chance”, in quanto domanda ontologicamente diversa da quella di risarcimento del danno da mancato raggiungimento del risultato sperato, non è proponibile per la prima volta in appello (Cass. n. 25886/2022).

Il danno futuro

La proiezione nel futuro del danno non ne esclude la riparabilità in base ad una valutazione equitativa (Bianca, in Comm. S.B., 1988, 397) purché il danno futuro sia certo nella sua esistenza e nel rapporto causale con la fonte. In ogni caso la quantificazione del danno futuro deve essere effettuata tenendo in considerazione il vantaggio di cui gode il beneficiario per il fatto di ricevere in via anticipata quanto spetta per un pregiudizio ancora non attuale.

Il risarcimento del danno futuro, sia in termini di danno emergente che di lucro cessante, non può compiersi in base ai medesimi criteri di certezza che presiedono alla liquidazione del danno già completamente verificatosi nel momento del giudizio e deve avvenire secondo un criterio di rilevante probabilità; a tal fine il rischio concreto di pregiudizio è configurabile come danno futuro ogni volta che l'effettiva diminuzione patrimoniale appaia come il naturale sviluppo di fatti concretamente accertati ed inequivocamente sintomatici di quella probabilità secondo un criterio di normalità fondato sulle circostanze del caso concreto (Cass. n. 10072/2010). In tema di risarcimento del danno, quale conseguenza del fatto illecito altrui, è necessaria la dimostrazione, da parte del danneggiato, non solo della potenziale lesività del fatto altrui, ma che tale fatto è stato causa di un danno concreto. Pertanto per la risarcibilità del danno futuro è necessario un elevato grado di probabilità che esso si verifichi in base ad un criterio di regolarità (id quod plerumque accidit); ne consegue che per ottenere il riconoscimento del diritto risarcitorio corrispondente al lucro cessante futuro, non è sufficiente la prova dei postumi permanenti derivati dalle lesioni subite dal danneggiato ma occorre che egli provi che dalle stesse è derivata la riduzione della capacità lavorativa specifica, non originandosi dall'invalidità personale permanente automaticamente la presunzione di danno da lucro cessante futuro (Cass. n. 15676/2005). In questo caso, l'ampiezza della retribuzione media dell'attività lavorativa precedentemente svolta, che costituisce la base di calcolo per la determinazione del danno futuro da perdita della capacita lavorativa, deve essere tale da comprendere non solo la componente fissa della retribuzione, ma anche tutti i relativi accessori e i probabili aumenti retributivi (Cass. n. 1607/2024). Nel caso di liquidazione del danno futuro per spese di cura, il giudice deve considerare la prognosi di durata della vita dello specifico soggetto danneggiato e non può assumere a riferimento la speranza di vita media nazionale, salvo il caso in cui la predetta prognosi individuale non sia possibile (Cass. n. 13727/2022).

La compensazione del lucro con il danno

L'individuazione del danno-interesse da riparare è stata per lungo tempo basata sulla teoria della differenza tra l'ammontare ipotetico che il patrimonio del danneggiato avrebbe raggiunto qualora non vi fosse stato l'inadempimento e il suo effettivo ammontare. Per l'effetto si è ritenuto che ai fini del conteggio si deve tenere conto anche degli eventuali vantaggi causalmente imputabili all'illecito, secondo il brocardo compensatio lucri cum damno, vantaggi che devono essere detratti dall'importo del danno ristorabile (Bianca, in Comm. S.B., 1988, 376). La teoria differenziale è stata tuttavia criticata dalla dottrina più recente sotto più aspetti: poiché il conteggio globale del patrimonio risulta in realtà dall'individuazione di una pluralità di poste riparabili, poiché essa appare inadeguata ai fini del riconoscimento della riparazione in forma specifica, non coprendo alcune fattispecie, tra cui quella della vanificazione di una spesa già sostenuta dal danneggiato.

La “compensatio” opera nell’ambito della struttura dell’illecito contrattuale ed extracontrattuale, sotto il profilo della causalità giuridica, come strumento di selezione delle conseguenze dannose dell’illecito (Cass. n. 21123/2023). L'effetto della compensatio lucri cum damno, che si riconnette al criterio di determinazione del risarcimento del danno ai sensi dell'art. 1223, si verifica esclusivamente allorché il vantaggio ed il danno siano entrambi conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento, quali suoi effetti contrapposti, e non quando il fatto generatore del pregiudizio patrimoniale subito dal creditore sia diverso da quello che invece gli abbia procurato un vantaggio (Cass. n. 5841/2018 ; Cass. n. 12248/2013; Cass. S.U., n. 28056/2008). Sicché i principio della compensatio trova applicazione quando il danno ed il vantaggio siano conseguenza immediata e diretta dello stesso fatto, il quale abbia in sé l'idoneità a produrre ambedue gli effetti e non quando il vantaggio sia un effetto indiretto e riflesso dell'adempimento dell'obbligazione risarcitoria da parte del debitore (Cass. n. 4237/1997). La circostanza che, in conseguenza del fatto lesivo, la vittima abbia ottenuto l'attribuzione di uno specifico trattamento pensionistico, può costituire oggetto di una specifica eccezione il cui fatto costitutivo deve essere dedotto e dimostrato dal responsabile del danno, fermo restando l'obbligo del danneggiato, ove il fatto risulti accertato, di replicare attestando l'entità del trattamento in ipotesi insufficiente a compensare il suddetto danno (Cass. n. 25222/2011).

Successivamente si è sostenuto che vantaggi e svantaggi derivanti da una medesima condotta possono compensarsi anche se alla produzione di essi abbiano concorso, insieme alla condotta umana, altri atti o fatti, ovvero direttamente una previsione di legge (Cass. n. 13537/2014, in Foro it. 2014, 9, I, 2489, con nota di Pardolesi). In applicazione di tali principi, dal risarcimento del danno patrimoniale patito dal familiare di persona deceduta per colpa altrui non deve essere detratto il valore capitale della pensione di reversibilità accordata dall'Inps al familiare superstite in conseguenza della morte del congiunto, trattandosi di una forma di tutela previdenziale connessa ad un peculiare fondamento solidaristico e non geneticamente connotata dalla finalità di rimuovere le conseguenze prodottesi nel patrimonio del danneggiato per effetto dell'illecito del terzo (Cass. S .U.. n. 12564/2018). Per converso, il danno da fatto illecito deve essere liquidato sottraendo dall'ammontare del danno risarcibile l'importo dell'indennità che il danneggiato-assicurato abbia riscosso in conseguenza di quel fatto, in quanto detta indennità è erogata in funzione di risarcimento del pregiudizio subito dall'assicurato in conseguenza del verificarsi dell'evento dannoso ed essa soddisfa, neutralizzandola in tutto o in parte, la medesima perdita al cui integrale ristoro mira la disciplina della responsabilità risarcitoria del terzo autore del fatto illecito (Cass. S.U., n. 12565/2018). Ad ogni modo, il vantaggio conseguito dal danneggiato deve rientrare nella serie causale dell'illecito, da ricostruirsi secondo un criterio adeguato di causalità, dovendosene quindi escludere l'applicazione allorché il vantaggio si presenti come il frutto di scelte autonome e del sacrificio del danneggiato, o come l'effetto di un evento che si sarebbe in ogni caso prodotto, indipendentemente dal momento in cui si è verificato l'illecito, o comunque nell'ipotesi in cui il beneficio trovi altrove la sua fonte e nell'illecito solo un coefficiente causale (Cass. n. 16702/2020).

Così in caso di sinistro che comporti la perdita totale o parziale, temporanea o definitiva, della capacità lavorativa, il danneggiato non può cumulare la prestazione previdenziale che abbia eventualmente percepito (a titolo di indennità di malattia o di pensione di invalidità) con l'integrale risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante, essendo entrambe le poste finalizzate al ristoro della lesione del medesimo bene della vita, vale a dire la capacità di produrre reddito (Cass. 18050/2019).

Ed ancora, l'importo della rendita per inabilità permanente erogata dall'Inail a seguito di infortunio in itinere occorso al lavoratore va detratto dall'ammontare del risarcimento dovuto al danneggiato, allo stesso titolo, da parte del terzo responsabile del fatto illecito (Cass. n. 4734/2019 ; Cass. n. 2550/2019; Cass. S.U., n. 12566/2018). Infine, dall'ammontare del danno subito da un neonato in fattispecie di colpa medica, e consistente nelle spese da sostenere vita natural durante per l'assistenza personale, deve sottrarsi il valore capitalizzato della indennità di accompagnamento che la vittima abbia comunque ottenuto dall'ente pubblico, in conseguenza di quel fatto, essendo tale indennità rivolta a fronteggiare ed a compensare direttamente il medesimo pregiudizio patrimoniale causato dall'illecito, consistente nella necessità di dover retribuire un collaboratore o assistente per le esigenze della vita quotidiana del minore reso disabile per negligenza al parto (Cass. S.U., n. 12567/2018).

Bibliografia

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