Codice Civile art. 2103 - Prestazione del lavoro (1).

Paolo Sordi

Prestazione del lavoro (1).

[I]. Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all'inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.

[II]. In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale.

[III]. Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall'assolvimento dell'obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell'atto di assegnazione delle nuove mansioni.

[IV]. Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale, possono essere previste dai contratti collettivi.

[V]. Nelle ipotesi di cui al secondo e al quarto comma, il mutamento di mansioni è comunicato per iscritto, a pena di nullità, e il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa.

[VI]. Nelle sedi di cui all'articolo 2113, quarto comma, o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell'interesse del lavoratore alla conservazione dell'occupazione, all'acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro.

[VII]. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta e l'assegnazione diviene definitiva, salvo diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi.

[VIII]. Il lavoratore non può essere trasferito da un'unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.

[IX]. Salvo che ricorrano le condizioni di cui al secondo e al quarto comma e fermo quanto disposto al sesto comma, ogni patto contrario é nullo.

(1) Articolo così sostituito dall'art. 3 d.lg. 15 giugno 2015 n. 81. Il testo recitava: «Mansioni del lavoratore. [I] Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta, e l'assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. [II] Ogni patto contrario è nullo». Precedentemente l'articolo era già stato sostituito dall'art. 13 l. 20 maggio 1970, n. 300. Il testo originario recitava: «Prestazione del lavoro. [I]. Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per cui è stato assunto. Tuttavia, se non è convenuto diversamente, l'imprenditore può in relazione alle esigenze dell'impresa, adibire il prestatore di lavoro ad una mansione diversa, purché essa non importi una diminuzione nella retribuzione o un mutamento sostanziale nella posizione di lui. [II]. Nel caso previsto dal comma precedente, il prestatore di lavoro ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta, se a lui più vantaggioso».

Inquadramento

La norma in esame disciplina il potere del datore di lavoro di modificare, da un lato, le mansioni del lavoratore oltre l'ambito convenuto (c.d. jus variandi) e, dall'altro, il luogo di esecuzione delle prestazioni lavorative (trasferimento).

Si tratta di prerogative — riflesso del potere direttivo dell'imprenditore rispetto al quale il dipendente versa in situazione di soggezione — la cui ratio è comunemente rinvenuta nelle mutevoli esigenze dell'organizzazione del lavoro e l'art. 2103 interviene a definirne i limiti e le condizioni di esercizio con una disciplina in larga misura inderogabile.

Con riferimento alla parte concernente le mansioni, la norma ha subito una radicale modifica ad opera dell'art. 3 d.lgs. n. 81/2015, intervento normativo che rende problematico il ricorso ad impostazioni dottrinali e orientamenti giurisprudenziali adottati con riferimento al precedente testo della norma, a sua volta introdotto dall'art. 13 l. n. 300/1970, in sostituzione dell'originaria disposizione del codice civile del 1942.

La nuova disciplina si applica, secondo la dottrina (Brollo, 238), anche ai rapporti di lavoro in corso alla data della sua entrata in vigore (25 giugno 2015).

La giurisprudenza di merito è invece divisa circa la sua applicabilità agli atti di modifica delle mansioni adottati dal datore di lavoro prima di quella data e spieganti i loro effetti anche successivamente (in senso affermativo, Trib. Roma, 30 settembre 2015, Riv. it. dir. lav., 2015, II, 1044; in senso contrario, Trib. Ravenna, 30 settembre 2015, Arg. dir. lav., 2016, II, 111).

Mansioni e contratto di lavoro

Per mansioni si intende il tipo di attività che costituisce oggetto dell'obbligazione di lavoro, i compiti cui il lavoratore è obbligato.

L'art. 2103 esprime il principio di contrattualità delle mansioni (sul quale v. Giugni, 552), disponendo, in apertura, che «Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è assunto» (in dottrina, Gramano, 533). In virtù dell'art. 96 disp. att., poi, il datore di lavoro è tenuto a far conoscere al lavoratore la categoria e la qualifica che gli sono assegnate in relazione alle mansioni per le quali è stato assunto.

La giurisprudenza è ferma nel ritenere che, per ragioni di efficienza e di economia del lavoro e di sicurezza, il lavoratore sia tenuto a svolgere anche mansioni accessorie rispetto a quelle proprie della qualifica di appartenenza, pur se inferiori a queste ultime (Cass. n. 17774/2006; Cass. n. 11045/2004).

L’illegittimo demansionamento costituisce una forma di illecito permanente (Cass. n. 31558/2022), idoneo a ledere la personalità del lavoratore, con conseguente danno all’immagine e alla vita professionale (Cass. n. 31182/2021; Cass. n. 3474/2015) e ciò anche nel caso in cui il demansionamento si protragga solo per un breve periodo (Cass. n. 8709/2016). In senso diverso Cass.  n. 5237/2012, secondo cui, in caso di accertato demansionamento professionale, la risarcibilità del danno all'immagine derivato al lavoratore a cagione del comportamento del datore di lavoro presuppone che la lesione dell'interesse sia grave, nel senso che l'offesa superi una soglia minima di tollerabilità, e che il danno non sia futile. 

L'assegnazione a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria di inquadramento

L'attuale comma 1 dell'art. 2103 dispone che il lavoratore possa essere adibito anche «a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte». Scompare dunque, nell'odierna versione della norma, la necessità della equivalenza con le mansioni «ultime effettivamente svolte» che, secondo il testo previgente, condizionava l'esercizio del c.d. jus variandi orizzontale e che aveva dato luogo ad una elaborazione giurisprudenziale i cui termini essenziali possono essere riassunti nel principio secondo cui l'equivalenza tra le nuove mansioni e quelle precedenti deve essere intesa non solo nel senso di pari valore professionale delle mansioni, considerate nella loro oggettività (nel senso di loro riconducibilità al medesimo livello di inquadramento), ma anche come attitudine delle nuove mansioni a consentire la piena utilizzazione o, addirittura, l'arricchimento del patrimonio professionale dal lavoratore acquisito nella pregressa fase del rapporto (v., tra le tante, Cass. n. 1916/2015; Cass. n. 4989/2014; Cass. S.U., n. 25033/2006).

Secondo la dottrina, scomparso dal testo il parametro di giudizio dell'equivalenza, in caso di mutamento in fatto delle mansioni espletate, l'unico sindacato consentito è quello di verificare se i nuovi compiti siano riconducibili al livello di inquadramento formalmente attribuito al medesimo; in caso di esito positivo di tale verifica, nessun'altra comparazione è consentita, in particolare con le mansioni in precedenza espletate dal dipendente e con la professionalità che dall'esercizio di esse ne è derivato (Piccinini, 23; Pileggi, 73; Zoli, 2015, 340; Pisani, 41; Amendola, 496; Gramano, 533; prospetta invece la possibilità di interpretare la “riconducibilità” allo stesso livello e categoria legale di inquadramento come variante semantica dell'equivalenza intesa in senso dinamico, cioè come possibile sviluppo, anche attraverso un percorso formativo, della professionalità già acquisita dal lavoratore, Ferrante, 38).

Anche la giurisprudenza di merito si è già espressa in tal senso (Trib. Roma, 30 settembre 2015, Riv. it. dir. lav., 2015, II, 1044).

Il riferimento al livello e alla categoria legale «di inquadramento» non implica, secondo parte della dottrina, alcun particolare problema con riferimento ai limiti dell'efficacia soggettiva dei contratti collettivi nel caso in cui al rapporto di lavoro non sia applicabile alcun contratto collettivo, poiché l'art. 2103 semplicemente rinvia agli esiti della negoziazione collettiva al fine di dare contenuto al precetto da esso espresso e quindi essi vincolano il giudizio sulla legittimità dell'assegnazione delle nuove mansioni anche se le parti del rapporto non siano iscritte alle associazioni stipulanti (Zoli, 2015, 341). Secondo altra parte della dottrina, invece, il datore di lavoro che non applichi il contratto collettivo non potrà usufruire della mobilità prevista dal nuovo comma 1 dell'art. 2103 (Pisani, 39).

Quanto al caso in cui la declaratoria professionale contenuta nel contratto collettivo non contempli espressamente le mansioni assegnate al lavoratore, la dottrina ha affermato che tale lacuna non può essere colmata facendo riferimento al vecchio parametro dell'equivalenza come interpretato in precedenza, bensì al dato dell'affinità o corrispondenza oggettiva, quale determinato dalle parti sociali, che prescinde dal maturato personale del singolo lavoratore (Zoli, 2015, 340); possibilista nel senso di una interpretazione estensiva delle qualifiche previste dal contratto collettivo, Pisani, 38).

La norma non enuncia espressamente il diritto del lavoratore a conservare il trattamento retributivo in godimento prima dell'assegnazione delle nuove mansioni, ma la dottrina riconosce che, essendo una simile garanzia prevista in caso di assegnazione a mansioni inferiori (comma 5: v., infra), dovrebbe logicamente applicarsi anche in caso di mobilità orizzontale (Amendola, 510, n. 62; secondo Zoli, 2015, 342, in questo caso la garanzia dell'irriducibilità della retribuzione opererebbe solamente con riferimento alla retribuzione tabellare ed alle voci direttamente connesse al livello di inquadramento, non anche agli «elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa», come sancito dal comma 5 in caso di adibizioni a mansioni inferiori).

L'assegnazione unilaterale a mansioni inferiori

A norma del comma 3 dell'art. 2103, il lavoratore può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale, in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla sua posizione.  Il comma 4 consente alla contrattazione collettiva di prevedere ulteriori ipotesi di assegnazione a mansioni del livello inferiore, sempre nel rispetto della categoria legale di inquadramento.

La dottrina sottolinea come l'esercizio dello jus variandi del datore definito dalla disposizione in esame sia circondato da una serie di limiti: a) le nuove mansioni debbono comunque rientrare nella medesima categoria legale di cui all'art. 2095 (Amendola, 509; Zoli, 2015, 343); b) esse debbono appartenere al livello immediatamente inferiore a quello ricoperto dal lavoratore(Amendola, 509; Zoli, 2015, 343; Gramano, 541); c) il mutamento di mansioni deve essere comunicato per iscritto a pena di nullità (è incerto, invece, se la comunicazione debba essere accompagnata dalla motivazione che giustifichi l'assegnazione a mansioni inferiori: in senso negativo Amendola, 509; nel senso che un simile onere potrebbe essere desunto dalle clausole di buona fede e correttezza, Zoli, 2015, 344); d) il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione degli «elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa» (secondo la dottrina, si tratterebbe delle maggiorazioni connesse alle condizioni di tempo e di luogo in cui le mansioni di provenienza venivano svolte: Zoli, 2015, 344) ; sul principio dell'irriducibilità della retribuzione nella precedente versione dell'art. 2103, v. Cass. n. 29247/2017

Un ulteriore limite è stato individuato da quella dottrina che configura il demansionamento come extrema ratio, nel senso che esso non sarà possibile laddove sia concretamente possibile per il datore di lavoro adibire il prestatore a mansioni ricomprese nello stesso livello di inquadramento (Gramano, 544).

Infine, secondo parte della dottrina, la conservazione, da parte del lavoratore, del livello di inquadramento, costituisce il presupposto per sostenere l'esistenza di un diritto alla rassegnazione alle mansioni proprie di quel livello, nel caso in cui si liberi in azienda una posizione ad esse corrispondente (Zoli, 2015, 345). 

Gli accordi individuali in deroga

Il comma 6 dell'art. 2103 consente la stipula, nelle sedi protette di cui all'art. 2113, comma 4, e avanti le commissioni di certificazione, di accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione nell'interesse del lavoratore alla conservazione dell'occupazione, all'acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita.

La dottrina ha evidenziato come i patti in questione non abbiano natura transattiva, considerato che il lavoratore non dispone di diritti già maturati, bensì costituiscano accordi che introducono una nuova regolamentazione del rapporto di lavoro in chiave peggiorativa per il futuro (Zoli, 2015, 349). Essi, infatti, producono modificazioni definitive che non incontrano limiti né relativamente al livello di inquadramento ed alla relativa retribuzione, né con riferimento alla categoria legale (Zoli, 2015, 348).

Secondo parte della dottrina, gli accordi in questione sono sottoposti al rischio di una successiva richiesta di annullamento ex art. 1429 con riferimento alla effettiva ricorrenza degli interessi del lavoratore tipizzati dalla disposizione in oggetto (Ferrante, 43; invece, nel senso della non sindacabilità in giudizio della veridicità delle ragioni addotte a fondamento dell'accordo di dequalificazione, a meno che non emerga un vero e proprio vizio del consenso o che sia fornita la prova della palese pretestuosità dell'interesse addotto, Zoli, 2015, 350).

Secondo un'altra impostazione, i vincoli di scopo previsti dalla disposizione costituiscono presupposti, tra loro alternativi, di validità del patto che quindi sarebbe nullo, ai sensi del comma 9 dell'art. 2103, se concluso per il perseguimento di interessi diversi da quelli espressamente previsti (Gramano, 548).

La dottrina (Brollo, 242) sottolinea come tali ipotesi di accordi di demansionamento si aggiungano a quelle già previste dall'ordinamento per tutelare il bene primario della salute della lavoratrice madre (art. 7, comma 5, d.lgs. n. 151/2001), del lavoratore invalido, inabile o disabile (artt. 1, comma 7, 4, comma 4, e 10, comma 3, l. n. 68/1999), inidoneo a mansione specifica o esposto ad agente chimico/fisico/biologico (artt. 42, comma 1, e 228, comma 5, d.lgs. n. 81/2008) ovvero per tutelare l'occupazione nell'ambito dei procedimenti di licenziamento collettivo (art. 4, comma 11, l. n. 223/1991).

La stessa dottrina esclude che le nuove previsioni in materia dell'art. 2103 possano far ritenere implicitamente abrogato l'art. 8 d.l. n. 138/2011, nella parte in cui consente alla contrattazione di prossimità di intervenire in materia di mansioni (Brollo, 244).

L'obbligo formativo

A norma del comma 3 dell'art. 2103, il mutamento di mansioni deve essere accompagnato, ove necessario, dall'assolvimento dell'obbligo formativo. Ciò tanto nel caso di mobilità orizzontale, quanto in quello di adibizione a mansioni inferiori (Ferrante, 37).

La disposizione aggiunge però che il mancato adempimento di tale obbligo non determina la nullità dell'atto di assegnazione delle nuove mansioni. Al riguardo la dottrina precisa che le conseguenze della violazione della prescrizione saranno, da un lato, risarcitorie (del danno da mancata formazione: Amendola, 514; Gramano, 553), dall'altro di assoluzione del lavoratore da eventuali carenze sul piano della diligenza professionale, non potendo a lui imputarsi una prestazione non conforme allo standard almeno fin quando il processo formativo non sia giunto a compimento (Amendola, 514; Ferrante, 46; Gramano, 555). Si ipotizza, poi, la possibilità per il lavoratore di rifiutarsi, nell'esercizio di una facoltà di autotutela, di svolgere mansioni per le quali non ha la necessaria capacità (Amendola, 514; secondo Zoli, 2015, 347, il lavoratore sarebbe legittimato a sollevare l'eccezione di inadempimento e addirittura dimettersi adducendo una giusta causa; conforme, sul punto, Gramano, 553). Infine, parte della dottrina ritiene esercitabile dal lavoratore un'azione di adempimento, anche in via d'urgenza, al fine di prevenire eventuali conseguenze per lui pregiudizievoli (Zoli, 2015, 347).

L'assegnazione a mansioni superiori

Il comma 7 dell'art. 2103 dispone che, in caso di assegnazione di mansioni superiori, il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta e che l'assegnazione diviene definitiva dopo il periodo fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi.

La contrattazione collettiva, dunque, è libera di determinare (in melius o in peius rispetto al semestre indicato in via residuale dalla norma) il periodo minimo di adibizione continuativa a mansioni superiori decorso il quale il dipendente consegue il diritto alla promozione automatica (Amendola, 514). La dottrina sostiene la persistente vigenza delle previsioni dei contratti collettivi stipulati prima della novella del 2015 che ripetevano la formula propria del precedente testo dell'art. 2103, sia quanto a durata minima dell'adibizione a mansioni superiori, sia quanto ai periodi utili ai fini della maturazione del diritto alla promozione automatica (Ferrante, 45).

Alla stregua del precedente testo dell'art. 2103, il lasso temporale per conseguire il diritto all'inquadramento superiore era prima computabile tutte le volte in cui l'espletamento di mansioni superiori non avesse avuto luogo “per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto”; ora invece si estende la preclusione dei periodi non utili ai fini della promozione automatica a tutte le ipotesi in cui l'assegnazione non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio. Secondo la dottrina, ciò significa che la sostituzione di un dipendente in servizio, qualsiasi sia la ragione dell'assenza, esclude la computabilità del relativo periodo di svolgimento di mansioni superiori ai fini della stabilizzazione dell'inquadramento superiore (Amendola, 515); quindi rilevano anche assenze che non presuppongano la sospensione del rapporto, come quelle per ferie, permessi, partecipazione a corsi di formazione o missioni (Piccinini, 30; Zoli, 2015, 351).

La norma prevede espressamente che il lavoratore possa esprimere una volontà contraria all'assegnazione definitiva alle mansioni superiori. In proposito parte della dottrina ha preso posizione nel senso che una simile manifestazione di volontà può essere validamente espressa solamente successivamente al conseguimento del diritto alla promozione automatica, con conseguente nullità degli accordi nei quali il lavoratore acconsenta a rinunciare all'effetto legale della promozione con riferimento ad ipotesi di adibizione a mansioni superiori non ancora verificatesi o rispetto alle quali non sia ancora compiuto il termine decorso il quale il lavoratore acquisisca il diritto alla promozione automatica (Gramano, 551; contra, Zoli, 2015, 353, per il quale la manifestazione di volontà del lavorato potrebbe validamente intervenire sia prima, sia durante, sia al termine dell'assegnazione).

La dottrina riconosce che la disposizione in oggetto impone di concludere nel senso che ormai quello alla promozione è un diritto disponibile (Piccinini, 36; Zoli, 2015, 352) e lamenta che nessuna garanzia è prevista dalla norma a sostegno della sincerità del rifiuto espresso dalla dipendente (Piccinini, 36; Zoli, 2015, 352).

Il trasferimento

Per trasferimento deve intendersi lo spostamento stabile del lavoratore da un'unità produttiva ad un'altra (definizione del tutto pacifica; tra le tante, in giurisprudenza, v. Cass. 12097/2010);  che presuppone un’opzione per il datore di lavoro, onde non è configurabile trasferimento nel caso in cui la sede aziendale divenga unica a seguito della soppressione di quella dove operava il lavoratore (Cass. n. 24112/2017). Esso si distingue, pertanto, dalla trasferta, la quale si caratterizza per la temporaneità dello spostamento (in giurisprudenza: Cass. n. 24658/2008), e dal distacco, che invece si configura quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di altro soggetto per l'esecuzione di una determinata attività lavorativa (art. 30 d.lgs. n. 276/2003).

Il trasferimento da un'unità produttiva ad un'altra è consentito solamente per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Peraltro, l'ordinamento contempla ulteriori limiti a tale potere, come nel caso dell'art. 22 l. n. 300/1970, in caso di trasferimento del sindacalista interno, o dell'art. 33, comma 5, l. n. 104/1992, per il trasferimento del lavoratore portatore di handicap o che assista un congiunto portatore di handicap.

Per unità produttiva la giurisprudenza intende ogni articolazione autonoma dell'azienda, avente, sotto il profilo funzionale e finalistico, idoneità ad esplicare, in tutto o in parte, l'attività dell'impresa medesima, della quale costituisca una componente organizzativa, connotata da indipendenza tecnica ed amministrativa tali che in essa si possa concludere una frazione dell'attività produttiva aziendale (Cass. n. 20600/2014; Cass. n. 7196/1996), anche se lo spostamento avvenga in un ambito geografico ristretto, eventualmente all'interno del territorio dello stesso comune (Cass. n. 11660/2003). Una unità produttiva può essere composta da stabilimenti o uffici dislocati in zone diverse dello stesso comune (Cass. n. 6117/2005), tuttavia la stessa giurisprudenza mostra di ritenere configurabile la fattispecie regolata dall'art. 2103 anche quando lo spostamento venga attuato nell'ambito della medesima unità produttiva se questa comprenda uffici notevolmente distanti tra loro (Cass. n. 12097/2010). Per il caso particolare dei piazzisti, si ritiene che l’unità produttiva vada individuata in relazione all’itinerario da compiere o alla zona assegnata (Cass. n. 20520/2019).

La giurisprudenza ha sovente affermato che, ai fini dell'efficacia del provvedimento di trasferimento del lavoratore, non è necessario che vengano enunciate contestualmente le ragioni del trasferimento stesso, atteso che l'art. 2103, nella parte in cui dispone che le ragioni tecniche, organizzative e produttive del provvedimento siano comprovate, richiede soltanto che tali ragioni, ove contestate, risultino effettive e di esse il datore di lavoro fornisca la prova, aggiungendo che l'onere dell'indicazione delle ragioni del trasferimento, che, in caso di mancato adempimento, determina l'inefficacia sopravvenuta del provvedimento, sorge a carico del datore di lavoro soltanto nel caso in cui il lavoratore ne faccia richiesta (Cass. n. 9290/2004; Cass. n. 8268/2004; Cass. S.U., n. 4572/1986). Quest’ultima affermazione sembra in via di superamento, perché nelle successive pronunce (Cass. n. 807/2017; Cass. n. 11984/2010) è stato negato che il datore di lavoro avrebbe l'onere di rispondere al lavoratore che richieda l'esternazione dei motivi del trasferimento.

Ad avviso della giurisprudenza, le ragioni tecniche, organizzative e produttive sussistono quando il mutamento della sede sia determinato dalla soppressione del posto di lavoro e delle relative mansioni (anche a seguito di una ristrutturazione) e dalla ricostituzione degli stessi presso la sede di destinazione (Cass. n. 3827/2000; Cass. n. 9086/1996), oppure caso di incompatibilità ambientale, quando questa sia fonte di disorganizzazione o disfunzione aziendale (Cass. n. 4265/2007).

La giurisprudenza ammette la legittimità anche di clausole contrattuali che prevedano il trasferimento per mancanze allorché il comportamento del medesimo lavoratore abbia prodotto conseguenze oggettive, o almeno valutabili in base ad un criterio oggettivo, che possano assumere rilievo come fattispecie giustificatrice di un trasferimento secondo i criteri al riguardo dettati dall'art. 2103 (Cass. n. 5087/2003; Cass. n. 6383/1998).

La nullità dei patti contrari

Il comma 9 dell'art. 2103 dispone che, salvo che ricorrano le condizioni del comma 2 e 4 e fermo restando quanto previsto dal comma 6, ogni patto contrario è nullo.

Il fatto che il comma 1 dell'art. 2103 legittima l'assegnazione a mansioni non equivalenti nell'ambito del livello di inquadramento, che il comma 3 prevede l'obbligo formativo il cui inadempimento tuttavia non rende nulla l'assegnazione a mansioni inferiori e che il comma 5, sull'assegnazione a mansioni superiori, fa salva la “diversa volontà del lavoratore”, ha indotto parte della dottrina a concludere nel senso dell'irrilevanza della previsione dell'ultimo comma dell'art. 2103 quanto alla fattispecie del mutamento di mansioni, conservando esso rilevanza per il solo trasferimento (Pileggi, 77).

Bibliografia

Amendola, La disciplina delle mansioni nel d.lgs. n. 81 del 2015, in Dir. lav. merc. 2015489; Angiello, La retribuzione, Milano, 1990, 2003; Brollo, Lo jus variandi, in Carinci (a cura di), Jobs Act: un primo bilancio, Modena, 2016, 226; Carinci-De Luca Tamajo-Tosi-Treu, Diritto del lavoro. Il rapporto di lavoro subordinato, Torino, 2011; Cester-Mattarolo, Diligenza e obbedienza del prestatore di lavoro, Milano, 2007; Cester, Rinunzie e transazioni, in Enc. dir., XL, Milano, 1989, 984; Dell'Olio, Sospensione del rapporto di lavoro, in Dig. comm., XV, 1988, 22; Dell'Olio, Cottimo, in Nss. dig. it., App., II, Torino, 1981, 897; Del Punta, La riforma dell'orario di lavoro, in Dir. prat. lav. 2003, n. 22, inserto; Del Punta, La sospensione del rapporto di lavoro, Milano, 1992; De Luca Tamajo, La norma inderogabile nel diritto del lavoro, Napoli, 1979; Ferrante, Nuova disciplina delle mansioni del lavoratore (art. 3, d. lgs. n. 81/2015), in Magnani-Pandolfo-Varesi, I contratti di lavoro, Torino, 2016, 31; Ferraro, Rinunzie e transazioni del lavoratore, in Enc. giur., Roma, 1991; Fiorillo, La tutela del lavoratore in caso di licenziamento per giusta causa e giustificato motivo, in Fiorillo-Perulli (a cura di), Contratto a tutele crescenti e Naspi, Torino, 2015, 103; Fontana, Sanzioni disciplinari, in Enc. dir., XLI, 1989, 328; Ghera, Diritto del lavoro, Bari, 2006; Giugni, Mansioni e qualifica, in Enc. dir., XXV, Milano, 1975, 546; Giugni, Organizzazione dell'impresa ed evoluzione dei rapporti giuridici. La retribuzione a cottimo, in Riv. dir. lav., 1968, I, 3; Gramano, La riforma della disciplina del jus variandi, in Zilio Grandi-Biasi (a cura di), Commentario breve alla riforma “Jobs Act”, Padova, 2016, 517; Grandi, Rapporto di lavoro, in Enc. dir., XXXVIII, Milano, 1987, 313; Grandi, Le modificazioni del rapporto di lavoro, Milano, 1972; Ichino, Malattia del lavoratore subordinato, in Enc. giur., Roma, 1990; Ichino-Valente, L'orario di lavoro e i riposi, Milano, 2012; Liso, La mobilità dei lavoratori in azienda: il quadro legale, Milano, 1982; Magnani, Disposizione dei diritti, in Dig. comm., V, Torino, 1990, 51; Magrini, La sostituzione soggettiva nel rapporto di lavoro, Milano, 1980; Magrini, Lavoro (contratto individuale), in Enc. dir., XXIII, Milano, 1973, 369; Marazza-Garofalo, Insolvenza del datore di lavoro e tutele del lavoratore, Torino, 2015; Montuschi, Potere disciplinare e rapporto di lavoro, Milano, 1973; Mortillaro, Retribuzione. I) Rapporto di lavoro privato, in Enc. giur., XXVII, Roma, 1991; Pandolfo, La malattia nel rapporto di lavoro, Milano, 1991; Pera, Diritto del lavoro, Padova, 1984; Pera, Le rinunce e le transazioni del lavoratore, Milano, 1990; Perone, Retribuzione, in Enc. dir., XL, Milano, 1989, 34; Persiani, Contratto di lavoro e organizzazione, Padova, 1963; Piccinini, Mansioni e autonomia negoziale, in Piccinini-Pileggi-Sordi (a cura di), La nuova disciplina delle mansioni dopo il Jobs Act, Roma, 2016, 7; Pileggi, L'assegnazione a mansioni inferiori, in Piccinini-Pileggi-Sordi (a cura di), La nuova disciplina delle mansioni dopo il Jobs Act, Roma, 2016, 61; Pisani, La nuova disciplina del mutamento delle mansioni, Torino, 2015; Prosperetti, Le rinunzie e le transazioni del lavoratore, Milano, 1955; Putaturo Donati, Flessibilità oraria e lavoro subordinato, Torino, 2005; Rabaglietti, Cottimo, in Enc. dir., XI, 1962, 270; Romei, Il rapporto di lavoro nel trasferimento d'azienda, Milano, 1993; Rusciano, Sospensione del rapporto di lavoro, in Enc. giur., 1990; Santoro-Passarelli, Nozioni di diritto del lavoro, Napoli, 1983; F. Santoro-Passarelli, Sull'invalidità delle rinunzie e transazioni del prestatore di lavoro, in Giur. compl. cass. civ. 1948, II, 53; Scognamiglio, Il cosiddetto principio di parità di trattamento tra i lavoratori al vaglio delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in Mass. giur. lav. 1993, 582; Sordi, Il nuovo art. 18 della legge n. 300 del 1970, in Di Paola (a cura di), La riforma del lavoro, Milano, 2012, 251; Treu, Onerosità e corrispettività nel rapporto di lavoro, Milano, 1968; Tullini, Lavoro a cottimo e principio di corrispettività, in Riv. it. dir. lav. 1994, II, 697; Vardaro-Gaeta, Sanzioni disciplinari. I) Rapporto di lavoro privato, in Enc. giur., Roma, 1990; Viscomi, Diligenza e prestazione di lavoro, Torino, 1997; Zoli, La disciplina delle mansioni, in Fiorillo-Perulli (a cura di), Tipologie contrattuali e disciplina delle mansioni, Torino, 2015, 333; Zoli, Retribuzione (impiego privato), in Dig. comm., XII, Torino, 1996, 418.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario