Fallimento dell’impresa in concordato senza previa risoluzione: un problema ancora aperto

05 Maggio 2017

Intervengo su questa problematica perché reputo che essa sia ancora del tutto aperta al dibattito e all'approfondimento, benchè negli ultimi tre anni sia emerso un orientamento maggiormente orientato a ritenere possibile – ahimè, senza alcun limite discretivo - che venga dichiarato il fallimento di un'impresa assoggettata a concordato preventivo omologato, senza la previa risoluzione di quest'ultimo.

Intervengo su questa problematica perché reputo che essa sia ancora del tutto aperta al dibattito e all'approfondimento, benchè negli ultimi tre anni sia emerso un orientamento maggiormente orientato a ritenere possibile – ahimè, senza alcun limite discretivo - che venga dichiarato il fallimento di un'impresa assoggettata a concordato preventivo omologato, senza la previa risoluzione di quest'ultimo.

A mio parere si tratta di un'artificiosa forzatura, quanto meno laddove mira ad estendere illimitatamente quella che mi pare l'unica concreta possibilità di dichiarare il fallimento, senza previa risoluzione, in presenza di un concordato preventivo omologato: quando cioè il concordato omologato sia di tipo promissorio ovvero in garanzia (o comunque declinato su tale falsariga, con o senza continuità aziendale) e l'insolvenza sia sopravvenuta con riferimento a nuove obbligazioni “non concorsuali”.

Al di fuori di tale fattispecie, infatti, e quindi, in ultima analisi, quando il concordato – secondo il modello di gran lunga più diffuso - sia conformato come cessione integrale dei beni, reputo fallace l'idea che possa pervenirsi ad una dichiarazione di fallimento senza prima risolvere il concordato.

La contraria opinione ha tratto linfa soprattutto da una pronuncia della Consulta (Corte cost. 2 aprile 2004, n. 106), che, però, è il caso di puntualizzarlo, avendo dichiarato la mera infondatezza della questione di costituzionalità sottopostale, ha espresso in merito alla questione qui in esame una mera interpretazione, che, per quanto autorevole, non può produrre alcun effetto vincolante, al pari di quella che esprima qualunque altro giudice. Fondare pertanto sull'opinione della Corte, in tal caso, la soluzione della questione qui in esame, non è e non sarebbe di per sé risolutivo.

A parte ciò, mi pare anche che sia davvero poco resistente alla critica l'unico spunto argomentativo che la Consulta ha utilizzato nella suddetta pronuncia, laddove ha affermato che la tesi «secondo la quale l'assenza della risoluzione del concordato impedirebbe non soltanto tale dichiarazione di fallimento “in consecuzione”, ma anche una autonoma dichiarazione di fallimento (…) non è affatto imposta dalla legge (e, tanto meno, dal “diritto vivente”), bensì è frutto di una interpretazione che privilegia un - rispettabile ma opinabile - profilo sistematico, secondo il quale il concordato (se non risolto o annullato) cancellerebbe definitivamente “quella” insolvenza in ragione della quale fu ammesso e omologato e, pertanto, impedirebbe di attribuire successivamente rilevanza, ai fini di cui all'art. 5 l.fall., ai debiti esistenti al momento dell'apertura della procedura».

Con tale argomento la Consulta non ha evidentemente dimostrato proprio nulla, essendosi limitata ad una mera notazione di carattere negativo (cioè: la tesi che considera necessaria la previa risoluzione sarebbe un'opinione rispettabile – bontà sua! - , ma non sarebbe imposta necessariamente dal tenore della legge fallimentare), senza affatto proporre, in positivo, un argomento interpretativo alternativo idoneo a sorreggere l'opposta opinione, laddove invece sarebbe stato essenziale ed imprescindibile addurre un tale argomento dinanzi ad un'interpretazione sistematica generalmente accolta e che la stessa legge fallimentare impone chiaramente di seguire, quantomeno alla luce della “ratio” trasparente che ha caratterizzato su tale punto la riforma fallimentare, nella specie con riferimento alle modifiche apportate all'art. 186 dall'art. 17 D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169.

In quel frangente, infatti, il legislatore reputò opportuno modificare la ante-vigente disposizione che considerava possibile anche l'iniziativa del commissario giudiziale ai fini della risoluzione del concordato (oltre che la conseguente declaratoria automatica ex officio del fallimento), circoscrivendo la legittimazione ai soli creditori (ed eliminando il fallimento d'ufficio).

È del tutto evidente che, in tal modo, il legislatore intendesse rendere più difficile sia risolvere il concordato che pronunciare il fallimento, dando maggiore stabilità alla soluzione concordataria della crisi.

Non a caso ciò è proprio quello che si è poi verificato in concreto, poiché davvero pochi creditori si sono mostrati disponibili ad affrontare le spese legali aggiuntive necessarie per promuovere un procedimento di risoluzione del concordato nella prospettiva di ricevere, magari, anche meno (di quello che avrebbero potuto ricevere nel concordato) all'esito di un'alternativa e successiva procedura fallimentare. È inoltre evidente che, per il legislatore, in difetto di risoluzione, sarebbe per ciò stesso mancata anche la possibilità di pervenire ad un fallimento (d'ufficio o su istanza di parte).

Dolersi allora del fatto che oggi ci si trovi sempre più frequentemente dinanzi a concordati omologati che non riescono ad essere eseguiti dal debitore o dal liquidatore giudiziale e che tuttavia non possono essere risolti perché manca l'iniziativa dei creditori, è comprensibile, ma ha tuttavia poco pregio giuridico, volta che tale effetto è di fatto corrispondente proprio a quello perseguito dal legislatore, e quindi solo con una riforma normativa di segno contrario potrebbe trovare (opposta) soluzione.

Né mi pare opportuno e giustificabile forzare la “ratio” normativa, oltre che l'impianto sistematico che su di essa fa perno, proponendo la soluzione qui avversata.

In ultima analisi, tale soluzione valorizza, da un lato, il fatto che l'art. 186 l.fall. non menzioni più il fallimento come conseguenza della dichiarazione di risoluzione del concordato preventivo omologato e, dall'altro, il fatto che l'inadempimento agli obblighi concordatari possa, almeno da un certo punto di vista, qualificarsi a sua volta “sub specie” di insolvenza (v. ad es. Galletti, Fallimento del debitore concordatario in assenza o nell'impossibilità di pronunziare la risoluzione del concordato, in questo portale, 29 Luglio 2015; nonché Rasile, Concordato preventivo inadempiuto ma non risolto e successivo fallimento, in questo portale; per la giurisprudenza cfr. Trib. Napoli Nord 13 aprile 2016, Trib. Venezia 6 novembre 2015 e Trib. Modena 1 agosto 2016, in questo portale; nonché da ultimo Trib. Torino 26 luglio 2016 e Trib. Venezia 29 ottobre 2015, commentate da Platania, La dichiarazione di fallimento senza preventiva risoluzione del concordato, in questo portale).

Sennonché il fatto che sia stata eliminata dal legislatore la possibilità di dichiarare il fallimento d'ufficio in via automatica e consequenziale alla risoluzione del concordato non mi pare che possa giocare alcun ruolo sulla questione in esame, se non – tutt'al più – in senso opposto a quello voluto: giacchè dimostra semmai quanto andavo poc'anzi ricordando circa il fatto che il legislatore abbia solo voluto dare più stabilità al concordato, e null'altro.

Quanto poi all'idea che l'inadempimento agli obblighi concordatari possa “ex se” qualificarsi a sua volta come insolvenza e per tale via legittimare i creditori concorsuali a chiedere il fallimento, mi pare che essa sia semplicemente in aperta e frontale contraddizione con la “ratio” e con la lettera normativa.

Con la “ratio”, perché, come già detto, il legislatore ha semmai voluto dare più stabilità al concordato circoscrivendo la legittimazione a chiedere la risoluzione ai soli creditori concorsuali, e non il contrario; e il medesimo legislatore sarebbe stato semplicemente folle a consentire loro al tempo stesso di richiedere addirittura “breviter” il fallimento senza passare per la previa risoluzione.

Ma anche con la lettera, poiché l'inadempimento agli obblighi concordatari è sanzionabile, a tenore della legge fallimentare (e solo se si tratti di inadempimento di non modesta importanza), solo con la risoluzione, e non con altri mezzi, tanto meno con il fallimento (sì che non puà certo meravigliare che l'una sia stata prevista espressamente come mezzo necessario a tal fine, mentre dell'altro non vi sia invece menzione alcuna), e ciò per la semplice ragione che solo la risoluzione può eliminare – “erga omnes - l'esito esdebitatorio e novativo dell'accordo omologato, che è servito proprio e specificamente (con efficacia a sua volta “erga omnes”) a rimuovere l'anteriore situazione di crisi-insolvenza.

Sarebbe quindi a dir poco contraddittorio che potesse pervenirsi a sanzionare l'inadempimento agli obblighi concordatari in ragione di una presunta insolvenza che proprio il concordato ha inteso rimuovere, e ciò pur quando i creditori, omettendo di chiedere la risoluzione, abbiano mostrato di non voler sanzionare affatto quell'inadempimento.

In tal senso emerge anche la contraddittorietà della sopra richiamata pronuncia della Consulta (ma al tempo stesso anche delle tesi su di essa basate) laddove ha affermato che «la lettera delle norme sospettate di incostituzionalità è inequivoca nel sancire, da un lato, che “il concordato omologato è obbligatorio per tutti i creditori anteriori al decreto di apertura della procedura di concordato” (art. 184 l.fall.) e, dall'altro lato, che tale obbligatorietà può venire meno solo a seguito della risoluzione o dell'annullamento».

Se, infatti, l'obbligatorietà può venire meno solo a seguito della risoluzione o dell'annullamento, mi pare per ciò stesso dimostrato che allo stesso effetto non possa pervenirsi con una declaratoria di fallimento.

Vero è che solo prima del decreto correttivo del 2007 era previsto dall'art. 186 l.fall. che «con la sentenza che risolve o annulla il concordato il tribunale dichiara il fallimento», ma il venir meno di tale previsione non può certo recidere il legame di antecedenza logico-giuridica tra risoluzione e fallimento, ma solo quella consequenzialità necessaria che prima traeva causa dalla dichiarabilità d'ufficio del fallimento (sì che ora, in difetto di quella consequenzialità necessaria, per pervenire al fallimento è solo richiesto, una volta risolto il concordato, che vi sia l'istanza di un creditore legittimato o la richiesta del PM).

Mi pare poi che considerare possibile addivenire al fallimento senza previa risoluzione del concordato quando si tratti di concordati con integrale cessione dei beni, ipotizzando in tal caso che costituisca insolvenza la situazione di inadempimento (già attuale o prevedibile) agli obblighi concordatari, sia non solo in contraddizione con quanto dicevo poc'anzi circa la possibilità prevista dalla legge di sanzionare l'inadempimento, in caso di concordato omologato, solo con la risoluzione, ma anche con la ovvia e duplice considerazione che, da un lato, non può esservi affatto una nuova insolvenza con riferimento alle medesime obbligazioni concorsuali, nemmeno con riferimento alla restante parte falcidiata di esse, quando non vi sia stata prosecuzione dell'impresa e gli unici beni da liquidare e con i quali soddisfare le obbligazioni concorsuali siano quelli già interamente ceduti; e, dall'altro, che non avrebbe del resto alcuna utilità aprire una liquidazione fallimentare avente ad oggetto gli stessi beni già assoggettati a liquidazione concordataria, implicando, una tale soluzione, solo un aumento dei costi processuali e quindi solo una minore – non già una maggiore – soddisfazione dei creditori.

Sul piano sistematico non può poi sottacersi l'asimmetria che si verrebbe a creare considerando possibile per il concordato preventivo ciò che non sarebbe comunque possibile per il concordato fallimentare, pur in presenza di discipline analoghe.

Infatti gli artt. 137 e 186 l.fall. indicano unitariamente lo strumento utilizzabile, in un caso per la riapertura del fallimento (in caso di concordato fallimentare) e, nell'altro, per la dichiarazione di fallimento (in caso di concordato preventivo), ossia la tempestiva pronuncia di risoluzione.

Sarebbe dunque illogico ipotizzare che un fallimento possa riaprirsi, dopo l'omologa del concordato fallimentare, solo previa risoluzione di quest'ultimo (né francamente è dato ipotizzare alcuna soluzione diversa) e invece considerare possibile dichiarare il fallimento pur dinanzi ad un perdurante concordato preventivo omologato, ancora in fase di esecuzione perché non risolto.

È chiaro invece che ben può ipotizzarsi una nuova e sopravvenuta insolvenza, come tale sanzionabile con una dichiarazione autonoma di fallimento, (solo) nel caso in cui si tratti di concordato per garanzia o promissorio, e l'impresa abbia proseguito la sua attività dando origine a nuove obbligazioni che poi non sia in grado di assolvere.

È l'inadempimento a queste ultime a dimostrare e a far emergere infatti la nuova e sopravvenuta situazione di insolvenza, valevole però, beninteso, solo nei confronti dei nuovi creditori (essendo invece irrilevante per i “vecchi”), sì che sanzionare questa con una dichiarazione di fallimento “ex novo”, questa volta (e solo questa volta) è possibile (senza previa risoluzione del concordato), proprio in quanto esse non rientrano nel perimetro della obbligazioni concorsuali cui si estende l'obbligatorietà dell'omologa ex art. 184 l.fall.

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