Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 47 - Alimenti al fallito e alla famiglia.Alimenti al fallito e alla famiglia.
Se al fallito vengono a mancare i mezzi di sussistenza, il giudice delegato, sentiti il curatore ed il comitato dei creditori, può concedergli un sussidio a titolo di alimenti per lui e per la famiglia 1. La casa di proprietà del fallito, nei limiti in cui è necessaria all'abitazione di lui e della sua famiglia, non può essere distratta da tale uso fino alla liquidazione delle attività. [1] Comma modificato dall'articolo 44 del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5. InquadramentoL'articolo in commento detta una sorta di disposizione di chiusura rispetto a quella dell'art. 46 l.fall., in qualche modo complementare, nella sua ratio, rispetto alla disposizione di cui al n. 2 del primo comma dell'art. 46 l.fall. Così, si dispone che se, in seguito al pressoché onnicomprensivo spossessamento fallimentare, ed in assenza di stipendio o di assegno pensionistico o di guadagno, il fallito si venga a trovare privo di mezzi di sussistenza, il giudice delegato, sentiti il curatore e il comitato dei creditori, può concedergli un sussidio per lui e per la sua famiglia. Il provvedimento del g.d. ha natura di provvidenza discrezionale, sicché, pure se è reclamabile ex art. 26 l.fall. dinanzi al Collegio, non è impugnabile per cassazione (Cass. n. 3664/2001, Cass. n. 2755/2002, Cass. n. 2939/2008), non avendo il fallito un diritto soggettivo al sussidio alimentare, requisito imprescindibile della decisorietà del decreto ai fini della sua impugnabilità ex art. 111 Cost. Il beneficiario del sussidio alimentare di cui all'art. 47 l.fall. può anche non essere direttamente il fallito, ma i familiari rispetto ai quali vi è l'obbligo alimentare a suo carico, come il coniuge o i figli. A tal proposito, si è infatti stabilito che la sentenza di fallimento, che accerta e dichiara lo stato d'insolvenza del coniuge, tenuto, in forza di sentenza definitiva di condanna, al pagamento di un assegno alimentare a favore dell'altro coniuge non pone nel nulla la precedente sentenza determinativa dell'assegno, ma impedisce che il credito maturato successivamente alla dichiarazione di fallimento possa essere fatto valere direttamente contro il fallito, in quanto costui ha perduto l'amministrazione e la disponibilità dei suoi beni, e costringe il titolare dell'assegno alimentare a rivolgersi al fallimento previa osservanza delle norme da tale procedura dettate. Il giudice delegato ha facoltà di opporre che sono mutate le condizioni economiche obiettive esistenti al momento della determinazione dell'assegno; e il creditore deve provvedere ai sensi dello art 47 della legge fallimentare per ottenere dal giudice delegato la concessione di un assegno alimentare sostitutivo di quello indicato nella sentenza che non può più essere fatto valere né contro il fallito, né contro il fallimento. Trattasi di una semplice concessione da parte del giudice delegato, che può essere accordata, sentito il curatore e il comitato dei creditori, in relazione alle possibilità del fallimento e che, comunque, non costituisce un diritto né del fallito, né dei suoi familiari. Il coniuge separato deve essere posto nella stessa condizione del coniuge convivente. Pertanto, al coniuge separato non possono essere riconosciuti a carico del fallimento diritti maggiori o diversi da quelli spettanti a quest'ultimo (Cass. I, n. 1589/1962). Alla concessione del sussidio osta l'esistenza di obbligati alla corresponsione degli alimenti, che siano in condizione di provvedervi (cfr. Trib. Torino, decr. 27 maggio 1988, in Dir. Fall. 1989, II, 899). La natura delle esigenze che si intende soddisfare con il sussidio alimentare riconosciuto al fallito o ai suoi familiari ex art. 47 l.fall. è diversa da quella delle esigenze sottese al decreto ex art. 46 comma 2 l.fall.: queste ultime hanno come punto di riferimento il mantenimento del fallito secondo le condizioni personali sue e della sua famiglia, anche se è esclusa la garanzia della conservazione in suo favore del tenore di vita goduto prima del fallimento (in tema, Cass. I, n. 13171/1999). Il secondo comma dell'articolo in commento contiene la disciplina della casa di abitazione del debitore in seguito alla dichiarazione di fallimento. Letteralmente, la norma inibisce agli organi della procedura di spossessare il fallito e la sua famiglia dalla casa di proprietà nei limiti in cui essa serva ad abitazione del nucleo familiare, fino a quando non siano liquidati tutti gli altri beni. Essa è stata però interpretata, in dottrina, in un altro modo: il fallito e la sua famiglia possono rimanere ad occupare i locali della casa di proprietà del fallito strettamente necessari alla soddisfazione delle loro esigenze abitative fino al compimento della vendita forzata, con l'aggiudicazione o l'assegnazione (Guglielmucci, 163; Rocco di Torrepadula, 2007, 747). Tale interpretazione alternativa rispetto al senso letterale, però, non convince. La possibilità di lasciare il debitore e la sua famiglia nel godimento della casa di abitazione di proprietà del fallito, infatti, è già nel sistema, e non avrebbe avuto bisogno di una disposizione apposita, di tenore letterale peraltro diversa. L'art. 560, comma 3, c.p.c., infatti, è già applicabile al procedimento fallimentare, che è una esecuzione concorsuale sui beni del debitore, ed in cui il g.d. ha il potere, formalizzato nell'art. 25 comma 1 n. 2 l.fall., di emettere provvedimenti finalizzati alla conservazione del patrimonio, e dunque anche quello di estromettere dal godimento della casa di abitazione il fallito, al più tardi, all'atto della vendita forzata. Ed allora, è più probabile che la norma in commento sia da porre in collegamento con l'art. 504 c.p.c.: se la vendita è fatta in più volte o in più lotti, deve cessare quando il prezzo già ottenuto raggiunge l'importo delle spese e dei crediti menzionati nell'art. 495, primo comma c.p.c. Orbene, una volta detto che i crediti dell'art. 495, primo comma, c.p.c. sono, nell'ambito del fallimento, quelli risultanti dallo stato passivo approvato dal g.d., ne deriva che in base all'art. 47, secondo comma, se vi sono altri beni, oltre alla casa di proprietà adibita ad abitazione del fallito e della sua famiglia, il cui valore è potenzialmente suscettibile di soddisfare tutti i crediti ammessi al passivo, bisogna liquidare prima quei beni e poi, da ultimo, nel caso in cui il loro controvalore sarà risultato insufficiente per soddisfare tutti i crediti ammessi al passivo, porre in vendita la casa di abitazione del fallito e della sua famiglia. Tale interpretazione, peraltro, è stata accolta, a ben vedere, in un lontano precedente di legittimità, secondo il quale gli alloggi economici e popolari, ivi compresi quelli costruiti a norma del d.P.R. 17 gennaio 1959, n. 2, dopo l'acquisto da parte degli assegnatari, non sono sottratti in via assoluta alle procedure esecutive, atteso che, in applicazione dell'art 60 del r.d. 28 aprile 1938, n 1165 e salva la ricorrenza di specifiche eccezioni di legge, se ne deve ritenere consentita l'espropriazione nel caso di mancanza altri beni mobili o immobili del debitore (Cass. I, n. 6517/1980). Successivamente si è affermato che l’art. 47, comma 2, l. fall., nel vietare che la casa di proprietà del fallito, nei limiti in cui è necessaria per l’abitazione di lui e della sua famiglia, possa essere distratta dal suo uso prima della liquidazione delle altre attività, si pone su di un piano diverso dalla domanda diretta a far valere l’inefficacia dell’atto con cui il fallito abbia disposto del suo diritto all’abitazione, ex art. 1022 c.c., sicché l’esperibilità dell’azione revocatoria fallimentare è sempre ammessa (Cass. I, n. 8973/2019). Il nuovo "Codice della crisi d'impresa e dell’insolvenza"Il contenuto del vecchio articolo 47 l.f. è stato trasfuso nell'art. 147 del d.lgs. n. 14 del 2019 (in vigore dal 15 agosto 2020). Le novità sostanziali riguardano la casa in cui il fallito abita con la sua famiglia, cioè la disposizione di cui al comma 2. Si precisa che oggetto della liquidazione può essere non solo il diritto di proprietà del debitore sulla casa in cui egli abita con la sua famiglia, ma anche qualsiasi altro diritto reale, tranne quello strettamente personale di uso o di abitazione. Importante precisazione riguarda anche il tempo per il quale, in pendenza di una procedura di liquidazione giudiziale, l'immobile non può essere distratto dall'uso che il debitore ne faccia per finalità di abitazione sua e della sua famiglia: il secondo comma dell'articolo in questione dispone che tale immobile non può essere distratto dalla sua destinazione “fino alla sua liquidazione”. Ne consegue che solo in seguito all'aggiudicazione o all'assegnazione il debitore può essere spossessato della sua casa di abitazione. BibliografiaGuglielmucci, sub art. 47, in De Ferra-Guglielmucci, Effetti del fallimento per il fallito, Commentario della legge fallimentare a cura di Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1986; Rocco di Torrepadula, sub art. 47, in Il nuovo diritto fallimentare, a cura di Jorio e coordinato da Fabiani, Bologna, 2007. |