Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 218 - Ricorso abusivo al credito 1 .Ricorso abusivo al credito1.
1. Gli amministratori, i direttori generali, i liquidatori e gli imprenditori esercenti un'attività commerciale che ricorrono o continuano a ricorrere al credito, anche al di fuori dei casi di cui agli articoli precedenti, dissimulando il dissesto o lo stato d'insolvenza sono puniti con la reclusione da sei mesi a tre anni. 2. La pena è aumentata nel caso di società soggette alle disposizioni di cui al capo II, titolo III, parte IV, del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni. 3. Salve le altre pene accessorie di cui al libro I, titolo II, capo III, del codice penale, la condanna importa l'inabilitazione all'esercizio di un'impresa commerciale e l'incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a tre anni. [1] Articolo sostituito dall'articolo 32 della legge 28 dicembre 2005, n. 262. InquadramentoLa ratio della norma è quella di impedire all'imprenditore in stato di dissesto di continuare ad operare mascherando agli eventuali creditori il proprio dissesto o la propria insolvenza, allo scopo di salvaguardare il patrimonio dal pericolo di inadempimento. Le modifiche introdotte dall'art. 32 l. 28 dicembre 2005 n. 262 non hanno inciso significativamente sulla struttura del reato, limitandosi a precisare aspetti già affermati dalla giurisprudenza sulla struttura del reato. La dottrina si è comunque interrogata sulla comparsa del concetto di «insolvenza», che ha affiancato quello di «dissesto», tradizionalmente utilizzato dal legislatore penal-fallimentare. La citata novità ha invero inevitabilmente smentito l'interpretazione dominante secondo la quale i due concetti erano tra loro pressoché sovrapponibili. Sul punto, si ricorda la tesi di chi afferma che, valorizzando l'art. 641 c.p. che disciplina l'insolvenza fraudolenta, vi sia un rapporto di progressività tra le due condizioni (D'Alessandro, in Cavallini, Disposizioni penali e saggi conclusivi, Milano, 2010, 20). Secondo tale interpretazione, l'insolvenza farebbe riferimento all'incapacità di far fronte ad un singolo rapporto creditorio, mentre lo stato di dissesto sarebbe riferito al complesso dei rapporti esistenti. La maggior parte degli autori annovera tale reato tra i reati contro il patrimonio di colui che concede il credito (Nuvolone, Il diritto penale del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Milano, 1955, 406). Secondo la giurisprudenza, il ricorso abusivo al credito è reato plurioffensivo, nel senso che esso mira anzitutto a tutelare il patrimonio del singolo creditore dal pericolo di inadempimento del debitore insolvente, e, al tempo stesso, ad evitare che il dissesto sia aggravato da operazioni rovinose. Soggetto attivoSoggetto attivo del reato è l'imprenditore commerciale per la cui individuazione si rimanda a quanto esposto sub art. 1 l.fall. In relazione ai rinvii operati dagli stessi articoli della legge fallimentare, il reato può essere commesso anche dall'institore dell'imprenditore dichiarato fallito (art. 227); dal socio illimitatamente responsabile delle società in nome collettivo ed accomandite semplici fallite (art. 222); e, come confermato dalla stessa espressione introdotta dalla riforma, anche dagli amministratori, direttori generali e liquidatori della società. Sentenza dichiarativa di fallimentoLa differenza tra la ipotesi di bancarotta post-fallimentare disciplinata dall'art. 216 comma secondo legge n. 267 del 1942 e quella di ricorso abusivo al credito prevista dall'art. 218 della stessa legge sta nel fatto che con il primo reato vengono sanzionati i comportamenti distrattivi propri della bancarotta patrimoniale compiuti dall'imprenditore dopo la dichiarazione di fallimento; con il secondo, è punito il ricorso al credito da parte dell'imprenditore non ancora fallito che, a tal fine, dissimuli lo stato di dissesto. Il reato di ricorso abusivo al credito richiede che il soggetto al quale esso viene addebitato sia, successivamente, dichiarato fallito (Cass. pen. V, n. 23796/2004). Il reato di ricorso abusivo al credito richiede che il soggetto al quale viene addebitato sia successivamente dichiarato fallito. Ne consegue che il termine di prescrizione decorre dalla data della dichiarazione di fallimento (Cass. pen. V, n. 44857/2014). Elemento materiale del reatoIl reato si sostanzia nel ricorso al credito accompagnato dalla dissimulazione del proprio stato di dissesto. La nozione di credito va intesa in senso ampio, ricomprendendo prestiti di somme, finanziamenti, acquisti a pagamenti differiti, percezione di anticipi per prestazioni da eseguirsi in seguito, cauzioni ai dipendenti, sconto di cambiali e qualsiasi altra forma di concessione di credito (Antolisei, Manuale di diritto penale, Leggi complementari, Milano, 2001, 176). Il dissesto è rappresentato da quell'insolvenza oggettiva che, se fosse nota, darebbe luogo alla dichiarazione di fallimento. La dissimulazione consiste in ogni modalità di occultamento dello stato di dissesto patrimoniale dell'impresa. Integra il reato di ricorso abusivo al credito (art. 218 l.fall.), la dissimulazione dello stato di dissesto della società avvenuta attraverso l'utilizzo strumentale della posta debitoria e la natura parzialmente fittizia del finanziamento soci, non facilmente individuabile dalle banche (Cass. pen. V, n. 38144/2006). Il momento consumativoIl reato di ricorso abusivo al credito richiede che il soggetto al quale viene addebitato sia successivamente dichiarato fallito. Ne consegue che il termine di prescrizione decorre dalla data della dichiarazione di fallimento (Cass. pen. V, n. 44857/2014). L'elemento soggettivoIl ricorso abusivo al credito (da intendersi non soltanto come richiesta di finanziamento attraverso gli ordinari canali bancari, ma anche come utilizzo di un sistema che consenta il pagamento differito di un debito, mediante l'assoggettamento ad un costo qual'è quello costituito da una fideiussione bancaria), rientra fra le «operazioni dolose» atte a rendere configurabile, qualora ne derivi il fallimento della società, non il reato di cui al combinato disposto degli artt. 218 e 225 l.fall., ma, in virtù della clausola di salvezza contenuta nel citato art. 218, quello di cui all'art. 223, comma secondo, n. 2, seconda ipotesi, del r.d. 16 marzo 1942 n. 267, posto che in tale ipotesi — a differenza che nell'altra, in cui l'evento costituito dal fallimento sia stato «cagionato con dolo» — non si richiede che l'elemento psicologico sia direttamente collegato con l'evento anzidetto ma solo che questo costituisca una possibilità prevedibile, rimanendo comunque assente, nella previsione normativa, la necessità che sussista anche lo scopo di procurarsi un ingiusto profitto (Cass. pen. V, n. 19101/2004). Si tratta dunque di reato di pericolo a dolo generico, rappresentato dalla coscienza e volontà di far ricorso al credito, nonostante il pericolo che la situazione di dissesto costituisce per le ragioni dei creditori. Rapporti con altri reatiIl reato di ricorso abusivo al credito, previsto dall'art. 218 della legge fallimentare (r.d. 16 marzo 1942 n. 267) si distingue dal reato di truffa previsto dall'art. 640 c.p., perché per la sua sussistenza non è richiesto né il fine specifico dell'ingiusto profitto con altrui danno (eventuale), né l'uso di artifici o raggiri, non potendo considerarsi artificio o raggiro la semplice dissimulazione dello stato d'insolvenza (nella fattispecie questa Corte ha ritenuto sussistere il reato di truffa perché l'imputato aveva fatto ricorso al credito non solo dissimulando il proprio dissesto, attraverso l'occultamento delle sue reali condizioni economiche fornendo una reticente e inesatta rappresentazione di esse, ma costituendo abilmente una realtà del tutto diversa, attraverso una imponente attività di frode che andava dalla falsificazione di documenti e sigilli al giro degli assegni privi di copertura, con i quali inducesse in errore gli istituti di credito, procurando a sé l'ingiusto profitto ed agli istituti il danno di parecchi miliardi di lire) (Cass. pen. II, n. 5562/1986). La norma di cui all'art. 219 secondo comma n. 1 legge fallimentare, nel disporre che la commissione di più fatti tra quelli previsti dagli artt. 216, 217 e 218 della stessa legge non dà luogo ad altrettanti reati distinti ed autonomi ma ad un solo reato aggravato, persegue l'evidente finalità di attenuare il rigore delle norme di diritto comune sul concorso di reati (Cass. pen. V, n. 1431/1981). Il reato di ricorso abusivo al credito previsto dall'art 218 della legge fallimentare, reato peraltro di pericolo, si distingue da quello di insolvenza fraudolenta previsto dall'art 641 c.p., in quanto nel primo l'imprenditore, pur celando volontariamente il proprio dissesto economico, non ha nel momento in cui ricorre al credito il proposito di non adempiere alle obbligazioni che assume, mentre nel secondo tale proposito sussiste fin dal momento in cui l'agente contrae l'obbligazione (Cass. pen. II, n. 499/1970). BibliografiaAntolisei, Manuale di diritto penale, Leggi complementari, Milano, 2001, 176; D'Alessandro, in Cavallini, Disposizioni penali e saggi conclusivi, Milano, 2010, 20; Nuvolone, Il diritto penale del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Milano, 1955, 406. |