La sottoscrizione con firma digitale dei provvedimenti giudiziali

17 Dicembre 2015

La sentenza redatta in formato elettronico dal giudice e da questi sottoscritta con firma digitale ai sensi dell'art. 15 d.m. 21 febbraio 2011, n. 44, non è affetta da nullità per mancanza di sottoscrizione...
Massima

La sentenza redatta in formato elettronico dal giudice e da questi sottoscritta con firma digitale ai sensi dell'art. 15 d.m. 21 febbraio 2011, n. 44, non è affetta da nullità per mancanza di sottoscrizione, sia perché sono garantite l'identificabilità dell'autore e l'immodificabilità del provvedimento (se non dal suo autore), sia perché la firma digitale è equiparata, quanto agli effetti, alla sottoscrizione autografa in forza dei principi contenuti nel d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82 e successive modifiche, applicabili anche al processo civile, per quanto disposto dall'art. 4 d.l. 29 dicembre 2009, n. 193, convertito nella l. 22 febbraio 2010, n. 24.

Il caso

Diciamocelo: la fattispecie che ha originato la pronuncia in commento non sarebbe stata degna di tanto sforzo (due gradi di merito e uno di legittimità), quantomeno in rapporto ai valori patrimoniali involti.

Avviene, infatti, che venga proposta avanti il Giudice di Pace di Napoli opposizione a un precetto — portante la somma di € 2.065,61 oltre interessi e spese legali — relativamente ad alcuni degli importi autoliquidati dal legale dell'intimante; che il Giudice di Pace — con sentenza del settembre 2011 — riconosca fondata l'opposizione con riguardo alla somma di € 292,85; che il Tribunale di Napoli, adito in appello dall'intimante, con sentenza del gennaio 2013 accolga parzialmente l'impugnazione e riduca la dichiarata inefficacia del precetto alla minor somma di € 195,85; che, peraltro, il Tribunale compensi le spese di lite per quanto concerne il primo grado e condanni l'appellato (originario opponente in primo grado) al pagamento delle spese del secondo grado liquidandole in € 1.050,00 oltre accessori.

A questo punto, gli oneri dei due gradi di giudizio sono a tal punto lievitati che probabilmente il malcapitato opponente il precetto avrà maledetto settanta volte sette il momento in cui ha deciso di presentare l'opposizione; ma tant'è: se si è in ballo, tanto vale ballare sino a quando la musica è finita e gli amici se ne vanno, ossia si prosegue sino a Roma, alla Suprema Corte di Cassazione (e crepi l'avarizia!).

Il ricorso per cassazione si articola in ben undici motivi che possono suddividersi, sostanzialmente, in tre principali blocchi tematici: sull'esistenza/inesistenza della sentenza gravata (a proposito della quale viene in discussione il valore della firma digitale rispetto alla sottoscrizione autografa); sulla corretta applicazione delle tariffe forensi (prima, ovviamente, della loro abolizione); sulla soccombenza e le sue conseguenze in ordine all'imputazione delle spese di lite.

Naturalmente, la controparte resiste con controricorso.

Comunque, la sentenza d'appello viene cassata con riguardo ai provvedimenti sulle spese, con totale compensazione delle spese di lite per tutti e tre i gradi di giudizio: il risultato finale è dunque che, per ritrovarsi il precetto decurtato di neppure 200 euro, le parti in causa avranno dovuto metter mano ai portafogli per svariate migliaia di euro onde compensare i rispettivi difensori.

La questione

Il nostro commento, per intuibili ragioni, si limiterà alla sola questione concernente la sottoscrizione della sentenza con firma digitale, oggetto del primo motivo di ricorso, ma che finisce coll'impegnare una buona metà della motivazione.

Il ricorrente, in particolare, aveva dedotto l'inesistenza giuridica della sentenza, ai sensi dell'art. 132, comma 2, n. 5, c.p.c., poiché, contenendo il provvedimento «soltanto la firma digitale e non la sottoscrizione del giudice, non sarebbe possibile l'identificazione del suo autore; la normativa che ha introdotto nell'ordinamento la firma digitale non sarebbe applicabile alle sentenze, in quanto presupporrebbe uno scambio telematico di atti (che, per le sentenze, non è previsto); per di più, trattandosi di sentenza emessa ai sensi dell'art. 281-sexies c.p.c., non vi sarebbero nemmeno la certificazione e il deposito in cancelleria» (sent. cit., p. 4); in conclusione, secondo il ricorrente, «nell'attuale sistema normativo, la sentenza recante la firma digitale sarebbe mancante di sottoscrizione ai sensi dell'art. 132, n. 5, c.p.c., e perciò sarebbe inesistente» (ibidem).

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte respinge, siccome infondato, il primo motivo di ricorso, richiamando innanzitutto i propri orientamenti in merito alla sottoscrizione della sentenza come elemento essenziale dell'atto — la cui mancanza comporta la nullità assoluta e insanabile («equiparabile all'inesistenza giuridica») del provvedimento — sia «perché la sentenza sia riconoscibile come tale», sia perché «ne sia resa palese la provenienza dal giudice che l'ha deliberata» (ibidem); indi, la Corte, tramite l'analitica disamina della normativa in materia, nonché la puntuale descrizione del documento oggetto della contestazione del ricorrente, perviene alla conclusione esplicitata in massima, ossia che la firma digitale apposta a un documento informatico equivalga in buona sostanza alla sottoscrizione vergata di pugno in calce a un documento analogico.

Osservazioni

Nulla da eccepire sulle conclusioni cui perviene la Suprema Corte in tema di equivalenza della firma digitale, apposta dal giudice alla sentenza redatta in forma di documento informatico, alla sottoscrizione autografa, vergata di pugno dal giudice in calce alla sentenza redatta in forma di documento analogico (cioè, cartaceo): del resto, se così non fosse, l'intero processo telematico risulterebbe una costruzione priva di senso.

Quantomeno bizzarro, quindi, che si sia potuto anche solo pensare di articolare una censura in tali termini (considerato, oltretutto, che già il giudizio d'appello avanti il Tribunale di Napoli si era svolto con modalità telematiche, se non altro da parte del giudice).

Piuttosto, ci appare inutilmente faticoso il percorso argomentativo sviluppato dall'estensore per affermare l'applicabilità al processo civile dei principi e delle norme generali contenute nel Codice dell'amministrazione digitale (d.lgs. n. 82/2005), se si tiene conto che tale applicabilità è già disposta nell'art. 2, comma 2, del medesimo CAD (sia pur nella forma mediata del rimando «alle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165»).

Degno di segnalazione, invece, che il giudice di legittimità ritenga l'equiparazione fra firma digitale e sottoscrizione autografa un esito cui sia possibile pervenire non già per via interpretativa bensì e unicamente per disposizione legislativa, anche per l'ontologica differenza fra i due tipi di “firma”: l'una, infatti, consiste in un procedimento di crittografia informatica, mentre l'altra si sostanzia in un segno grafico distintivo e personalissimo.

La Suprema Corte, invero, non esplicita le ragioni logiche e giuridiche a fondamento di tale sua convinzione; ci pare, peraltro, di poter individuare una convincente spiegazione assumendo il peculiare (e, di primo acchito, incongruo) punto di vista della falsificazione della firma.

Si consideri, infatti e innanzitutto, che nonostante entrambe le tipologie di sottoscrizione assolvano alla funzione di ricondurre il documento al “titolare” di quella “firma”, discriminante è invece la diversità del sottostante meccanismo di riconduzione.

La sottoscrizione autografa, esternandosi in un segno grafico mai uguale a se stesso ma costante nelle sue caratteristiche principali, risulta di difficile contraffazione, tanto che solo di rado si incontrano “falsi” davvero convincenti.

Au contraire, poiché la firma digitale opera tramite l'utilizzo di certificati informatici e password (tendenzialmente) segrete, la riconduzione al titolare di quei certificati è invero una presunzione di legge, e la “falsificazione” della firma digitale (di per se stessa, impossibile) si risolve invero in un utilizzo abusivo del dispositivo di firma.

Cosicché, sebbene in ambedue le ipotesi di falsificazione si abbia la costante dell'intervento di un extraneus (vuoi che tracci il segno grafico, vuoi che utilizzi il dispositivo di firma), solo nel caso della sottoscrizione autografa si avrà una vera e propria contraffazione, mentre la firma digitale apparirà (e sarà) comunque vera, cioè quella stessa che avrebbe apposto legittimamente il reale titolare, se solo non fosse intervenuta la sottrazione del dispositivo.

Guida all'approfondimento

Finocchiaro G., Firme elettroniche e firma digitale, in AA.VV., Diritto dell'informatica, Padova, 2014, 309-319

Forner E.M., Procedura civile digitale, Giuffrè, 2015, 61-76

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