Valutazione delle prove

12 Maggio 2016

Le prove sono gli strumenti attraverso i quali il giudice forma il suo convincimento in ordine ai fatti prospettati dalle parti nel processo.
Inquadramento

Il problema della prova nel processo moderno presuppone la distinzione fra fatto e diritto e l'accoglimento del giudizio come accertamento logico ed analitico della verità (o meno) dei fatti affermati dalle parti, al fine di farne conseguire la decisione del caso concreto (c.d. decisione di merito).

Da questo punto di vista un processo moderno non può che rifuggire concezioni nelle quali il giudice deve accertare in modo globale ed indistinto la «ragione» ed il «torto» della parte, come attributo di questa derivante – a seconda delle epoche storiche - da una indicazione soprannaturale o della collettività o, ancora, di un'autorità superiore, come pure ed analogamente respingere l'idea di un processo in cui la forza delle argomentazioni prescinde dal loro collegamento ai fatti o si impone in seguito ad una rigida gerarchia e predeterminazione assoluta del valore delle singole prove.

Ciò posto, si deve osservare che le prove sono gli strumenti attraverso i quali – su sollecitazione delle parti o, eccezionalmente, d'ufficio – il giudice forma il suo convincimento in ordine ai fatti prospettati dalle parti nel processo. A loro volta si distinguono in dirette, quando sono idonee a far conoscere direttamente i fatti principali da provarsi ed indirette quando riguardano fatti secondari (i c.d. indizi) attraverso i quali è possibile risalire, mediante una operazione logica, alla dimostrazione dei fatti costituenti il thema probandum (al riguardo si parla di presunzioni). La stessa terminologia è a volte utilizzata a seconda che il fatto da provarsi cada direttamente sotto i sensi del giudice (es. ispezione) ovvero a questi pervenga filtrata, mediata da uno strumento rappresentativo appunto indiretto (es. documento, prova testimoniale).

Peraltro il concetto di prova è ambivalente, posto che esso allude sia al risultato cognitivo che partendo dall'affermazione dei fatti passa attraverso il loro riscontro per arrivare al probatum come esito del giudizio di verità processuale, sia con riferimento alle singole fonti del convincimento del giudice, c.d. mezzi di prova. Da questo punto di vista si distingue perciò anche fra prove costituite e prove costituende: le prime non necessitano di un'attività processuale di formazione, ma possono essere semplicemente acquisite al processo mediante la loro produzione (es. documenti), mentre le seconde necessitano di un vaglio giudiziale di ammissibilità e rilevanza e vengono definitivamente acquisite al processo soltanto all'esito di ben specifici subprocedimenti destinati al loro espletamento in sede giudiziale (es. testimonianza, interrogatorio formale, giuramento).

Il principio del libero convincimento del giudice

Il principio del libero convincimento del giudice sta a significare che lo stesso è libero di fornire la propria interpretazione del materiale probatorio ritualmente acquisito al processo, al fine di fondare il proprio giudizio di verità o meno dei fatti affermati. Tale principio ha avuto nel tempo un diverso grado di fortuna, spesso anche in dipendenza della fiducia che l'ordinamento accordava o meno ai giudici ed al loro tasso di professionalità o modalità di reclutamento.

Il nostro ordinamento accoglie sicuramente tale principio, sia pure con modalità attenuate, nel senso che a fronte della sua affermazione in linea generale, si pongono casi in cui è la legge a fissare – una volta per tutte e quindi in modo vincolante – il valore probatorio di certi mezzi di prova. L'art. 116 c.p.c. afferma, quindi, che «il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti».

Sulla scorta di tale affermazione è possibile tradizionalmente operare una vera e propria gerarchia tripartita delle prove che, fondandosi sul rilievo che le stesse hanno per il convincimento del giudice, vede al vertice le c.d. prove legali, al secondo posto le prove liberamente valutabili ed al gradino più basso, gli argomenti di prova (v. per ulteriori approfondimenti l'apposita voce).

Il principio del libero convincimento o di libera valutazione delle prove ha effetti oltre che sul piano del giudizio, anche su quello dell'onere motivazionale del giudice, ossia della esposizione del percorso logico giuridico che permette di raggiungere certe conclusioni.

Più in generale, libera valutazione delle prove non significa soltanto apprezzamento discrezionale del risultato conoscitivo offerto da ciascun mezzo di prova (cioè l'idoneità intrinseca del mezzo di prova acquisito od espletato a dimostrare o meno il fatto che ne costituisce l'oggetto), ma altresì scelta discrezionale delle prove ritenute idonee ed attendibili fra quelle appartenenti all'intero materiale probatorio processuale al fine di fondare la decisione.

Da questo punto di vista costituisce un principio consolidato quello che ritiene che spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, assegnando prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti, nonché la facoltà di escludere anche attraverso un giudizio implicito la rilevanza di una prova, dovendosi ritenere, a tal proposito, che egli non sia tenuto ad esplicitare, per ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui lo ritenga irrilevante ovvero ad enunciare specificamente che la controversia può essere decisa senza necessità di ulteriori acquisizioni (cfr. Cass. civ., 15 luglio 2009, n. 16499).

La modifica dell'art. 360, comma 1 n. 5 c.p.c. (dopo il d.l. 83/2012 convertito in L. 134/2012) restringe le possibilità impugnatorie delle parti, posto che non è più valorizzabile «l'omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio» ma soltanto «l'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti».

Conseguentemente, si è perciò affermato che «l'art. 360, n. 5, c.p.c.., novellato dall'art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. in legge n. 134 del 2012, prevede, quale specifico vizio denunciabile per cassazione, l'omesso esame di un "fatto storico", principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che sia stato discusso tra le parti e abbia carattere decisivo, sicché il ricorrente deve indicare tale fatto storico, il "dato" da cui risulti esistente, il "come" e il "quando" esso sia stato discusso e la sua "decisività", fermo che non rileva l'omesso esame di elementi istruttori, se il fatto storico sia stato comunque valutato dal giudice. La riformulazione dell'art. 360, n. 5, c.p.c. ad opera dell'art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. in legge n. 134 del 2012, implica la riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione, per cui è denunciabile in cassazione solo l'anomalia motivazionale che risulti dal testo della sentenza e si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza stessa della motivazione, non avendo più rilievo il mero difetto di "sufficienza"» (Cass. civ., S.U., 7 aprile 2014, n. 8053).

Le prove legali

Sono definite prove legali quei mezzi di prova di cui è il legislatore ad operare ex ante ed una volta per tutte la valutazione, definendone in modo vincolante sia per le parti che per il giudice il risultato probatorio. Alla base di tale predeterminazione stanno alcune presunzioni generali non scritte che l'ordinamento, pur nel suo mutevole conformarsi ed adattarsi alla realtà sociale, economica e giudiziaria, recepisce in senso assoluto conferendo un maggior grado di attendibilità, vincolante ed obbligatorio, ad alcuni mezzi di prova rispetto ad altri. Così è per la confessione, sulla scorta della regola di giudizio per cui difficilmente un soggetto confessa a proprio danni alcuni fatti se ciò non è vero, essendo piuttosto massimamente frequente il contrario (cioè che la parte tenda a riferire unicamente i fatti a sé favorevoli); così, ancora, per la prevalenza assegnata ad alcuni documenti scritti, rispetto alle prove orali ed alla testimonianza in particolare, sia per il maggior grado di incertezza che quest'ultima conosce in generale, essendo le dichiarazioni il frutto dei corruttibili ricordi che dei fatti ha il testimone, molto spesso incisi altresì dai non infallibili sensi che ne hanno consentito la percezione, sia comunque per il maggiore il grado di “sfiducia” che l'ordinamento nutre rispetto a soggetti, potenzialmente esposti all'interesse che le parti e gli stessi dichiaranti nutrono nell'esito della causa.

La formulazione dell'art. 116 c.p.c. assegna al catalogo delle prove legali il carattere del numero chiuso, insuscettibile cioè di estensione analogica a casi diversi, dovendo infatti ritenersi tutt'ora convincente il rapporto fra eccezione (prova legale) e regola generale (libero convincimento).

Pur con tale precisazione, il numero delle prove legali è tutt'altro che irrilevante, e si riconduce alle seguenti previsioni: artt. 2700, 2702, 2705, 2709, 2712, 2713, 2714, 2715, 2720, 2733, 2734, 2735, 2738 c.c. ed art. 239 c.p.c. (in tal senso anche Cass. civ., S.U., n. 27337/2008).

Di fronte a prove legali contrastanti si ritiene che – salvo i casi in cui la legge assegna ad un mezzo di prova un valore assolutamente prevalente, si pensi al giuramento – il giudice riacquisti la propria facoltà di libero apprezzamento, dovendo indicare quale appaia più meritevole di attendibilità (così, con riferimento a documenti fidefacienti di contenuto contrastante, Cass. civ., n. 12401/1997).

In evidenza

La prova legale opera come limite al libero convincimento del giudice e concerne i casi in cui l'ordinamento assegna in modo vincolante un certo grado di certezza ad alcuni mezzi di prova ritenuti ex ante particolarmente affidanti.

Dalle prove legali vanno tenuti distinti i limiti di ammissibilità di alcuni mezzi di prova, che operano quali criteri legali ostativi all'ingresso in talune circostanze di mezzi di prova (es. artt. 2721 e ss. c.c. per la prova testimoniale).

Gli esempi di prove legali offerti dal codice civile e di procedura, pur in un rapporto di eccezione rispetto alla regola generale della libera valutabilità delle prove da parte del giudice, restano molteplici:

  • Provenienza e dichiarazioni relative a quanto avvenuto in presenza o compiuto contenute nell'atto pubblico (art. 2700 c.c.);
  • Provenienza delle dichiarazioni dal sottoscrittore nella scrittura privata (art. 2702 c.c.);
  • Telegramma sottoscritto in originale (art. 2705 c.c.);
  • I libri e le scritture contabili, ma soltanto contro l'imprenditore (art. 2709 c.c.) e con efficacia non diversa anche le carte e registri domestici contro chi li ha scritti (art. 2707 c.c.);
  • Le riproduzioni, registrazioni e rappresentazioni meccaniche di cui non è contestata la conformità all'originale o ai fatti (art. 2712 c.c.);
  • Le taglie o tacche di contrassegno fra coloro che usano tale modo di provare le somministrazioni (art. 2713 c.c.);
  • Le copie di atti pubblici o di scritture private depositate presso pubblici uffici (art. 2714 c.c.);
  • Gli atti di ricognizione o di rinnovazione di un originale (art. 2720 c.c.);
  • La confessione (artt. 2733, 2734 e 2735 c.c.);
  • Il giuramento (art. 2738 c.c. e art. 239 c.p.c.).
Le presunzioni

Le presunzioni sono definite unitariamente dal codice come «le conseguenze che la legge o il Giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignoto» (art. 2727 c.c.). Di esse si parla, quindi, con riferimento a quegli elementi probatori che non concernono direttamente i fatti da provare, bensì fatti secondari dimostrando i quali è possibile risalire, attraverso un percorso logico (detto anche indiziario) alla dimostrazione del fatto principale da provare.

Le presunzioni possono essere legali, quando lo schema dimostrativo del passaggio dal fatto secondario a quello principale è fissato dalla legge, e semplici (c.d. preasumptiones hominis anche definite praesumptiones facti) in cui lo schema inferenziale o derivativo si basa sul riferimento all'id quod plerumque accidit, a ragioni di ordine logico, scientifico, naturale, non essendo peraltro necessario che la conseguenza (e quindi l'ordine causale argomentativo) sia unico e necessitato, ma soltanto probabile.

Le presunzioni legali possono essere assolute (c.d. iuris et de jure), quando cioè la conseguenza probatoria è prederminata dalla legge senza che sia consentita la prova contraria (es. art. 232 c.c. in tema di filiazione, art. 238 c.c. in tema atto di nascita conforme al possesso di stato, artt. 880 e 881 c.c. sulla comunione del muro divisorio, anche l'art. 897 c.c. sul fosso comune) e relative quando pur essendo gli effetti del ragionamento presuntivo fissati dalla legge, gli stessi dispensano sì la parte a favore dei quali sono previsti dall'onere di fornirne prova ulteriore, ma ammettono la prova contraria (es. art. 234 c.c. sul figlio nato dopo trecento giorni dallo scioglimento, annullamento del matrimonio o separazione dei coniugi, artt. 898 e 899 c.c. sulla comunione di siepi e alberi; art. 1141 c.c. in tema di mutamento della detenzione in possesso, art. 1147 c.c. in tema di possesso di buona fede; art. 1709 c.c. sulla naturale onerosità del mandato; art. 2054 c.c. sulla presunzione di colpa in caso di sinistro stradale con urto fra più veicoli).

Per le presunzioni semplici, in quanto non predeterminate legalmente, opera il principio del libero convincimento del giudice, o prudente apprezzamento, pur se il legislatore – riconoscendone il carattere di prova indiretta e meno confortante di altre – richiede che le stesse debbano essere gravi, precise, concordanti.

La presunzione è grave quando il grado di probabilità dell'esistenza del fatto ignoto è elevata; è precisa quando la relazione fra fatto noto e fatto ignoto è specifica e non generica (in altri termini la relazione non attiene al solo grado quantitativo di probabilità dell'esistenza del fatto ignoto ma al grado qualitativo della relazione di esistenza fra i due fatti). La concordanza allude invece all'esistenza di una pluralità necessaria di fatti noti dai quali desumere il fatto principale oggetto di prova.

Le caratteristiche richieste dall'art. 2729 c.c. per l'operatività delle presunzioni semplici sembrerebbero escludere, letteralmente, l'operatività della presunzione unica o solitaria.

Invece, un orientamento giurisprudenziale costante riconosce al giudice la possibilità di porre a fondamento della propria decisione anche la presunzione unica, purché specifica e non contraddetta da altri elementi di prova ritenuti più affidanti (e fra questi ovviamente le prove legali, che non possono mai essere superate dal ragionamento presuntivo).

Ciò corrisponde, del resto, all'antico insegnamento per cui le presunzioni non si contano, ma «si pesano». Un limite generale all'operare delle presunzioni semplici è invece posto dall'art. 2729 comma 2, secondo cui non si possono ammettere «nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni» (si pensi, ad es. alla dimostrazione della simulazione fra le parti, ex art. 1417 c.c.).

Si suole affermare, ancora, che la presunzione semplice e la presunzione legale iuris tantum, si distinguono unicamente in ordine al modo di insorgenza, perché mentre il fatto sul quale si fonda la prima deve essere provato in giudizio ed il relativo onere grava su colui che intende trarne vantaggio, la seconda è stabilita dalla legge, e, quindi, non abbisogna della prova di un fatto sul quale possa fondarsi; una volta, tuttavia, che la presunzione semplice si sia formata e sia stata rilevata essa ha la medesima efficacia che deve riconoscersi alla presunzione legale iuris tantum, in quanto entrambe trasferiscono a colui contro il quale esse operano, l'onere di fornire la prova contraria.

Gli argomenti di prova (cenni)

Nel rinviare per ogni più approfondita considerazione all'apposita bussola dedicata a questo argomento, va qui ricordato come la categoria degli argomenti di prova, desumibile dal secondo comma dell'art. 116 c.p.c., sia forse quella che in modo più caratterizzante rappresenta il principio del libero convincimento del giudice in materia di valutazione delle prove.

L'argomento di prova viene definito dall'art. 116 c.p.c. come la conseguenza di ordine probatorio che il giudice può trarre da alcuni incombenti processuali specifici (risposte date dalle parti nel corso dell'interrogatorio libero, rifiuto ingiustificato a sottoporsi ad ispezione) o più genericamente dal contegno processuale tenuto dalle parti. Altre disposizioni ricorrono tuttavia, espressamente, a questo concetto (mancata risposta all'interrogatorio formale ex art. 232 c.p.c., le dichiarazioni rese al CTU ex art. 200 c.p.c., le prove raccolte in un processo estinto ex art. 310 c.p.c.)

Generalmente l'argomento di prova non riguarda direttamente i fatti controversi ma le altre prove (diverse da quelle legali) comunque acquisite al processo, confermandone l'attendibilità o la verosimiglianza oppure infirmandola o ancora, nei casi più gravi, escludendola. Dal punto di vista concettuale, quindi, l'argomento di prova non dovrebbe mai fondare da solo il convincimento del giudice, né dovrebbe utilizzarsi come base di un ragionamento presuntivo (pena una inammissibile praesumptio de praesumpto), con l'ulteriore corollario della mancanza di autosufficienza a fini decisori dell'argomento di prova. Ma in concreto la giurisprudenza da tempo ha finito con l'avvicinare l'argomento di prova alla prova indiziaria, e quindi alla presunzione, ritenendo che quando sia grave e non contraddetto da altri elementi probatori possa, anche da solo, costituire il fondamento della decisione del giudice.

La testimonianza de relato

Si parla di testimonianza de relato quando il teste dichiarante si rifà, per la conoscenza dei fatti oggetto del mezzo istruttorio, a soggetti terzi da cui ha appreso detta conoscenza. Si è di fronte, in altri termini, ad una narrazione di secondo grado, nel senso che il fatto oggetto della dichiarazione non è caduto direttamente sotto i sensi e la percezione del testimone, bensì di un diverso soggetto che, a propria volta, ne ha riferito al dichiarante. Da ciò la terminologia usata dall'art. 257 c.p.c., secondo cui «se alcuno dei testimoni si riferisce, per la conoscenza dei fatti, ad altre persone, il giudice istruttore può disporre d'ufficio che esse siano chiamate a deporre».

Evidente è il minor valore probatorio che la testimonianza de relato assume di per sé considerata e, proprio in vista dell'opportunità di consentirne una verifica e rafforzamento della forza persuasiva, la concessione eccezionale al giudice del potere di disporre, anche d'ufficio, che il teste di riferimento venga a sua volta chiamato a deporre. Tale potere officioso, all'evidenza, può essere esercitato anche dopo lo spirare delle preclusioni assertive, presupponendo in effetti il preventivo esperimento della prova testimoniale dedotta dalle parti; proprio per questo si deve ritenere che l'esercizio di tale facoltà non richieda la concessione di termini né abiliti all'ulteriore prova contraria di cui all'art. 183, comma 8 c.p.c. (che restrittivamente attiene ai nuovi mezzi di prova disposti d'ufficio e non, come nel caso esaminato, al mezzo di prova disposto per completare una prova già dedotta dalle parti ed ammessa dal giudice).

Peraltro, dottrina e giurisprudenza distinguono fra dichiarazione de relato ex parte (quando cioè il soggetto cui ci si riferisce per la conoscenza è la parte medesima), priva sostanzialmente di alcun valore probatorio e dichiarazione de relato vera e propria (in cui la qualità di terzo del soggetto riferente consente la citazione d'ufficio come teste indotto).

Si è così affermato che «in tema di rilevanza probatoria delle deposizioni di persone che hanno solo una conoscenza indiretta di un fatto controverso, occorre distinguere i testimoni de relato actoris e quelli de relato in genere: i primi depongono su fatti e circostanze di cui sono stati informati dal soggetto medesimo che ha proposto il giudizio, cosicché la rilevanza del loro assunto è sostanzialmente nulla, in quanto vertente sul fatto della dichiarazione di una parte del giudizio e non sul fatto oggetto dell'accertamento, che costituisce il fondamento storico della pretesa; gli altri testi, quelli de relato in genere, depongono invece su circostanze che hanno appreso da persone estranee al giudizio, quindi sul fatto della dichiarazione di costoro, e la rilevanza delle loro deposizioni si presenta attenuata perché indiretta, ma, ciononostante, può assumere rilievo ai fini del convincimento del giudice, nel concorso di altri elementi oggettivi e concordanti che ne suffraghino la credibilità» (Cass. civ., n. 313/2011).

Fa eccezione il caso in cui la conoscenza del dichiarante derivi dalla parte ma attenga a circostanze sfavorevoli alla stessa, in cui si pone la possibilità di valutare se il teste abbia ricevuto una confessione stragiudiziale che, in quanto fatta ad un terzo, resta comunque liberamente apprezzabile (art. 2735 c.c.) e purché la prova di essa sia ammessa anche se testimoniale.

Le prove atipiche

Come è noto, il codice di procedura civile – a differenza di quello penale con l'art. 189 c.p.p. – non disciplina espressamente l'ammissibilità delle c.d. prove atipiche, cioè non testualmente disciplinate dal codice di rito. Tuttavia la prevalente dottrina e giurisprudenza da sempre predicano l'ammissibilità di prove non previste dalla legge, ritenendo che il loro rilievo si fondi sul combinato disposto dell'art. 24 Cost. (che tutela quale bene di rilievo primario anche il diritto alla prova) e dell'art. 116 c.p.c. che, come già visto, introduce quale regola generale il principio del libero convincimento del giudice. Viene altresì valorizzata la circostanza che non esiste una norma che vieta le prove diverse da quelle espressamente disciplinate, non potendosi perciò introdurre delle decadenze che non siano espressamente comminate dalla legge, non esistendo perciò in questa materia un numerus clausus.

Si discute, altresì, una volta che ne sia consentita l'ammissibilità, quale sia il valore probatorio della prova atipica.

Da un lato si deve ammettere che l'acquisizione al processo della prova atipica è fondamentalmente legata alla produzione di documenti (ma non si devono aprioristicamente escludere anche riproduzioni o registrazioni) e, quindi, soggiace alle preclusioni previste per la prova documentale. Dall'altro lato, deve tuttavia rilevarsi che la non riconducibilità della prova atipica ad una di quelle espressamente disciplinate dal codice non può che assegnare alla stessa un valore probatorio minore, sostanzialmente indiziario. Si tratta di una prova la cui efficacia è equiparabile, pertanto, a quella delle presunzioni di cui all'art. 2729 c.c. o, alternativamente, a quella degli argomenti di prova, in relazione al secondo comma dell'art. 116 c.p.c., che consente una valorizzazione più generale ed «innominata» del comportamento processuale delle parti.

La prova atipica si deve ritenere soggetta alle limitazioni di cui al citato art. 2729 c.p.c., nel senso che la sua valutazione normalmente postula la concordanza con altri elementi indiziari o presuntivi, parimenti gravi e specifici, pur se – come già visto – la giurisprudenza ha finito con l'ammettere la rilevanza della presunzione unica, purché grave e precisa, ed in quanto non contraddetta da altre prove. Del pari, l'efficacia della prova atipica appare limitata dal divieto di fare ricorso alle presunzioni nei casi in cui la legge esclude la prova testimoniale.

Tentare un catalogo delle prove atipiche non è semplice, trattandosi di una categoria che non sembra riconducibile ad unità se non su di un piano puramente negativo (il non essere cioè espressamente disciplinata come mezzo di prova dal codice). Vi rientrano, infatti, sia mezzi di prova del tutto diversi da quelli tipici, sia prove astrattamente tipiche ma impiegate secondo finalità diversa da quella espressamente prevista dalla legge o, ancora, mezzi tipici ma espletati in altro processo da quello in cui la prova è introdotta e rileva.

Senza pretese di esaustività, si può indicare il seguente elenco:

  • le sentenze rese in altri processi (Cass. civ., 27 aprile 2011, n. 9384);
  • i mezzi di prova espletati in altro processo (Trib. Reggio Emilia, 2 luglio 2014);
  • gli scritti provenienti da terzi (Cass. civ., S.U. 23 giugno 2010, n. 15169);
  • gli atti dell'istruttoria penale (Cass. civ., 15 ottobre 2004, n. 20335);
  • i verbali di accertamento in sede amministrativa (Cass. civ., 13 gennaio 2016, n. 403);
  • i chiarimenti resi al CTU (Cass. civ., n. 14652/2012);
  • le perizie stragiudiziali (cfr. Cass. civ., n. 9551/2009);
  • la sentenza di patteggiamento (Cass. civ., sez. Lav., n. 7675/2013; Cass. civ. n. 17967/2012).
Le prove illecite

iversamente dalla prova atipica, cioè non espressamente disciplinata dal codice di rito civile, va considerata la prova illecita, ottenuta in violazione di norme cogenti o addirittura incriminatrici.

Si è autorevolmente sostenuto al riguardo la non utilizzabilità della prova illecita, citando il brocardo latino male captum bene retentum, ma è pur vero che anche in questa materia non può che ricordarsi e partire dal principio del libero convincimento del giudice e dell'assoluta autonomia del processo civile (con i limiti degli artt. 652 – 654 c.p.c.) rispetto al processo penale o disciplinare. Così, si è anche sostenuto che tali prove sarebbero comunque utilizzabili, conserverebbero il loro valore e avrebbero piena efficacia perché gli strumenti attraverso i quali vengono assunte illecitamente si collocano in un momento pre-processuale, ragion per cui, l'illiceità non si ripercuote sugli atti del processo; inoltre anche la mancanza di un esplicito divieto in materia consentirebbe di utilizzare le prove precostituite formate con mezzi illeciti.

Quest'ultimo orientamento pare accolto dalla più recente giurisprudenza di merito, che propende per la utilizzabilità delle prove documentali illecitamente ottenute (ossia di documenti ottenuti al di fuori del giudizio con mezzi illeciti, condotte penalmente o civilmente rilevanti o, comunque, con atti che comportano una violazione di diritti individuali costituzionalmente protetti, quali la segretezza della corrispondenza, la privacy, ecc..). In questo senso Trib. Bari, 16 febbraio 2007, Trib. Torino, 28 settembre 2007 (in materia lavoristica) e Trib. Torino 8 maggio 2013 (in un giudizio di separazione con addebito).

Dichiarazioni sostitutive ed autocertificazioni

Si è discusso del valore probatorio delle dichiarazioni sostitutive o autocertificazioni che la parte abbia rilasciato in sede amministrativa, ex art. 4 L. n. 15/1968 e più recentemente art. 47 d.P.R. n. 445/2000.

Secondo una consolidata giurisprudenza di legittimità, partendo dal principio della irrilevanza delle dichiarazioni a sé favorevoli della parte, nessuna rilevanza probatoria, nemmeno indiziaria, può essere attribuita alla dichiarazione sostituiva dell'atto di notorietà o alla dichiarazione sostitutiva di certificazione sulla situazione reddituale, le quali hanno attitudine probatoria, ma comunque superabile dall'esito di contrari accertamenti, solamente nei confronti della PA ed in determinate attività o procedure amministrative.

In particolare, affrontando il tema della prova del decesso del de cujus e della propria qualità di erede, Cass. civ., S.U. , 29 maggio 2014, n. 12065, dopo aver affermato che il soggetto che intervenga in un giudizio tra altre persone dopo la sua interruzione agendo in riassunzione è tenuto a fornire la prova della propria qualità di erede, ha precisato che a tale fine «la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà di cui al D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, artt. 46 e 47, non costituisce di per sè prova idonea di tale qualità, esaurendo i sui effetti nell'ambito dei rapporti con la PA e nei relativi procedimenti amministrativi».

Analogamente, in tema di riconoscimento di un assegno per invalidità civile, Cass. civ., 20 febbraio 2014, n. 4026 ha ritenuto che «in tema di invalidità civile, la prova del requisito del mancato svolgimento di attività lavorativa previsto per beneficiare dell'assegno di invalidità di cui all'art. 13, legge 21 aprile 1971, n. 118, come novellato dall'art. 1, comma 35, legge 24 dicembre 2007, n. 247, non può essere fornita in giudizio mediante mera dichiarazione dell'interessato, anche se rilasciata con formalità previste dalla legge per le autocertificazioni, che può assumere rilievo solo nei rapporti amministrativi ed è, invece, priva di efficacia probatoria in sede giurisdizionale».

Casistica

CASISTICA

Libero convincimento e prove atipiche

Nel vigente ordinamento processuale, improntato al principio del libero convincimento del giudice e in assenza di una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova, questi può porre a fondamento della decisione anche prove atipiche, non espressamente previste dal codice di rito, della cui utilizzazione fornisca adeguata motivazione e che siano idonee ad offrire elementi di giudizio sufficienti, non smentiti dal raffronto critico con le altre risultanze del processo (Cass. civ., sez. III, 26 giugno 2015, n. 13229).

Libero convincimento e interrogatorio libero

La natura giuridica non confessoria dell'interrogatorio libero non incide sulla sua libera valutazione da parte del giudice, che può legittimamente trarre dalle dichiarazioni rese dalla parte in tale sede un convincimento contrario all'interesse della medesima ed utilizzare tali dichiarazioni quale unica fonte di prova (Cass. civ., sez. lav., 1 ottobre 2014, n. 20736).

Prove raccolte in sede penale

Il giudice civile, in presenza di una sentenza penale di condanna non definitiva, può trarre elementi di convincimento dalle risultanze del procedimento penale, in particolare utilizzando come fonti le prove raccolte e gli elementi di fatto acquisiti in tale giudizio, ma è necessario che il procedimento di formazione del proprio libero convincimento sia esplicitato nella motivazione della sentenza, attraverso l'indicazione degli elementi di prova e delle circostanze sui quali esso si fonda, non essendo sufficiente il generico richiamo alla pronuncia penale che si tradurrebbe nella elusione del dovere di autonoma valutazione delle complessive risultanze probatorie e di conseguenza nel vizio di omessa motivazione (nel caso di specie, avente ad oggetto la separazione dei coniugi, il cui matrimonio era stato caratterizzato da continue vessazioni e violenze da parte del marito in danno alla moglie, la Corte ha confermato la decisione della Corte di Appello che aveva tenuto conto, innanzitutto ,delle prove testimoniali assunte dai giudici di primo grado, dichiarando che tali elementi probatori, acquisiti direttamente, risultavano soltanto "rafforzati" dalle deposizioni rese dai medesimi testimoni in sede penale, ed aveva precisato che il contenuto delle prove assunte direttamente in sede civile era il medesimo -violenze fisiche e psichiche perpetrate dal marito. nei confronti della moglie e dei figli- di quello risultante dagli atti del giudizio penale, in tal modo mostrando di aver compiuto un'autonoma valutazione di tutto il complesso delle prove acquisite nel giudizio civile e, quindi, anche di quelle raccolte nel giudizio penale) (Cass. civ., sez. I, 17 novembre 2011, n. 24164).

Prove raccolte in altro processo

Il giudice civile, in assenza di divieti di legge, può formare il proprio convincimento anche in base a prove atipiche come quelle raccolte in un altro giudizio tra le stesse o tra altre parti, delle quali la sentenza ivi pronunciata costituisce documentazione, fornendo adeguata motivazione della relativa utilizzazione, senza che rilevi la divergenza delle regole, proprie di quel procedimento, relative all'ammissione e all'assunzione della prova (costituita, nella specie, da una deposizione testimoniale resa in assenza del contraddittorio nel corso di un procedimento disciplinare a carico di un avvocato nella fase svoltasi dinanzi al consiglio dell'ordine locale, culminato poi nella decisione del Consiglio Nazionale Forense, giudice speciale istituito con il d.lg.lt. 23 novembre 1944 n. 382) (Cass. civ., sez. III, 20 gennaio 2015, n. 840).

Riferimenti

S. PATTI, Le prove. Parte generale, Giuffrè, 2010

M. CEA COSTANZO, Trattazione e istruzione nel processo civile, Napoli, 2010

G. MORLINI, Art. 116 c.p.c., in Comm. c.p.c. a cura di Cendon, Giuffrè, 2012

M. TARUFFO, La prova nel processo civile, Giuffrè, 2012

R. GIORDANO, L'istruzione probatoria nel processo civile, Giuffrè, 2013

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