Confessione stragiudiziale
17 Luglio 2017
Inquadramento
La confessione è una dichiarazione di scienza resa dalla parte sulla verità di fatti a sé sfavorevoli e favorevoli alla controparte. Essa può essere scritta o orale, giudiziale o stragiudiziale e, fatta eccezione per alcune ipotesi in cui è liberamente apprezzabile (artt. 2733 comma 3 c.c., 2734 c.c., 2735 comma 1 c.c.), costituisce una prova legale, con la conseguenza che il giudice è vincolato alla sua portata probatoria, nel senso che non ha margine per esprimere un convincimento diverso da quello che consegue alle sue risultanze. Sulla scorta dell'equiparazione tra confessione giudiziale e stragiudiziale operata dall'art. 2735 c.c., in dottrina e in giurisprudenza si afferma l'identità strutturale e funzionale delle due dichiarazioni (Cass., n. 13212/2006; Cass., n. 1425/1987; Cass., n. 4012/1983). Ne deriva che la confessione stragiudiziale, come quella giudiziale, deve necessariamente essere esternata attraverso una dichiarazione espressa, non potendo desumersi da altra dichiarazione solo implicitamente o indirettamente ammissiva dei fatti in discussione (Cass., n. 13212/2006, cit.; Cass., n. 6301/1992) e deve constare: a) di un elemento soggettivo, consistente nella consapevolezza e volontà del dichiarante di ammettere e riconoscere la verità di un fatto a sé sfavorevole e favorevole alla controparte (Cass., n. 2235/1985); b) di un elemento oggettivo, che ricorre quando dall'ammissione derivi un concreto pregiudizio per l'interesse del dichiarante e un corrispondente vantaggio del destinatario (Cass., sez. lav., n. 23495/2010; Cass., Sez. Un., n. 7381/2013).
Secondo l'orientamento maggioritario della dottrina, cui aderisce la stessa giurisprudenza di legittimità, la confessione stragiudiziale, come quella giudiziale, è un atto giuridico in senso stretto e, in particolare, una dichiarazione di scienza (Cass., n. 1960/1995; Cass., n. 6592/1999), con la conseguenza che i suoi effetti si producono a prescindere dalla volontà del confitente. La confessione stragiudiziale, quale atto giuridico a contenuto meramente dichiarativo e rappresentativo e non normativo o dispositivo, può avere ad oggetto esclusivamente fatti obiettivi che, in quanto pregiudicano l'interesse del dichiarante e avvantaggiano quello del destinatario, devono essere necessariamente fatti ad essi comuni. Essa deve riguardare i fatti principiali (costitutivi, modificativi ed estintivi), mentre se si riferisce a fatti secondari, degrada a semplice ammissione cui va attribuito il valore di argomento di prova ai sensi dell'art. 116 c.p.c.. La confessione stragiudiziale, come quella giudiziale, non può vertere su fatti costitutivi di diritti indisponibili (Cass., n. 7998/2014), né su valutazioni del dichiarante, ovvero sulla qualificazione giuridica del fatto, che è riservata al giudice in virtù del principio iura novit curia (Cass., n. 3453/1971; Cass., n. 7302/1990; Cass., sez. lav., n. 11881/2003; Cass., n. 21509/2011). Ad esempio, in materia danno provocato dalla circolazione di veicoli non può costituire oggetto di confessione la mera affermazione di responsabilità (Cass., n. 6059/1990; Cass., n. 3075/1995; Cass., n. 1561/1998), mentre può esserlo la dichiarazione, resa da uno dei conducenti, di aver violato una norma di comportamento (Cass., n. 2659/2003). La dichiarazione di essere debitore non costituisce confessione, ma riconoscimento di debito ex art 1988 c.c., il quale integra un atto negoziale a carattere dispositivo con funzione “rafforzativa” da cui deriva l'effetto legale dell'inversione dell'onere della prova dell'esistenza rapporto fondamentale sotteso all'obbligazione riconosciuta. Laddove il riconoscimento di debito, che ha carattere recettizio, manchi in concreto di tale requisito, può, comunque, valere come prova del rapporto obbligatorio se ha efficacia di confessione (Cass., n. 12285/2004; Cass., n. 1231/2000). Quando la confessione stragiudiziale contenga, accanto al riconoscimento di fatti sfavorevoli, anche l'affermazione di fatti tendenti ad infirmare, ovvero a modificare o restringere gli effetti della dichiarazione contra se, se la controparte non contesta la verità dei fatti aggiunti, tutte le dichiarazioni che concorrono a formarne il contenuto fanno piena prova nella loro integrità (art. 2734 c.c.). Dalla riconduzione della confessione entro la categoria dei meri atti giuridici non negoziali discende l'inoperatività, neppure nei limiti di cui all'art. 1424 c.c., della disciplina contrattuale dei vizi del consenso (Cass., n. 136/1985) e l'applicazione dello speciale regime della revoca per errore di fatto e violenza delineato dall'art. 2732 c.c.. Al di là dell'apparente coincidenza terminologica, in questo caso la revoca non integra un contrarius actus dello stesso autore della dichiarazione idoneo, di per sé solo, ad eliminarne gli effetti, ma va, piuttosto, assimilata alle nozioni di impugnazione e di annullamento.
Costituisce, infatti, ius receptum in giurisprudenza il principio per il quale la confessione può essere invalidata – e, appunto, non semplicemente revocata, perché gli effetti sostanziali e processuali di essa non sono rimessi alla volontà del dichiarante - soltanto se il confitente dimostra la non veridicità della dichiarazione, e che la non rispondenza al vero di questa dipende o dall'erronea rappresentazione o percezione del fatto confessato, oppure dalla coartazione della sua volontà (Cass., n. 9777/2016; Cass., n. 26985/2013; Cass., n. 26970/2005; Cass., n. 15618/2004, ex multis). Essa necessita, pertanto, di apposita istanza con la quale viene introdotto un procedimento giudiziale incidentale. Secondo la dottrina più recente tale richiesta soggiace alle preclusioni assertorie ed istruttorie del processo, così che, in caso di confessione stragiudiziale, se la dichiarazione confessoria è stata introdotta nel processo attraverso documenti prodotti entro secondo termine ex art. 183 comma 6 c.p.c., l'istanza di revoca deve essere proposta con la terza memoria ex art. 183 comma 6 c.p.c., mentre se risulta da un documento prodotto con la terza memoria, deve essere avanzata nella prima difesa ad essa successiva. Ai fini dell'applicazione dell'art. 2732 c.c. l'errore di fatto viene identificato in una divergenza tra la volizione del valore della dichiarazione e la volizione del contenuto materiale della dichiarazione (Cass., n. 1224/1980), mentre non è previsto il requisito della riconoscibilità da parte del destinatario da essa avvantaggiato perché, come già evidenziato, essendo la confessione una dichiarazione di scienza e non di volontà, l'errore di fatto che ne giustifica la revoca non è sottoposto alla disciplina dei vizi del consenso (Cass., n. 136/1985, cit.). Non può essere riconosciuta portata invalidante all'errore di diritto e, in particolare, all'errore sulle conseguenze giuridiche della dichiarazione confessoria, posto che, trattandosi di atto giuridico in senso stretto, esse non discendono, come già evidenziato, dalla volontà del dichiarante, ma direttamente dalla legge. Per la revoca della confessione che si affermi estorta con violenza – la quale deve avere i requisiti di cui all'art. 1435 c.c. - non viene, invece, richiesta la dimostrazione dell'obiettiva falsità del fatto confessato (Cass., n. 2993/1984). La simulazione
La possibilità di estendere alla confessione stragiudiziale il regime della simulazione è da sempre discussa in dottrina e in giurisprudenza.
Secondo la giurisprudenza più risalente, alla confessione non si applica la disciplina della simulazione (Cass., n. 11498/1992) in quanto nella previsione dell'art. 2732 c.c. la possibilità di invalidazione della confessione a causa della non verità del fatto trova riconoscimento soltanto per vizi tassativamente determinati e, in particolare, per l'errore di fatto e per la violenza. Anche una parte dottrina più remota negava la compatibilità con la confessione della disciplina della simulazione, avendo la prima natura di mero atto giuridico e la seconda valenza negoziale. Altri autori, partendo dal presupposto della negozialità della dichiarazione confessoria, affermavano, invece, che la stessa fosse suscettibile di simulazione. Anche tra le opinioni più recenti si è registrato un contrasto tra chi ha ribadito che la confessione, in quanto dichiarazione di scienza non è simulabile, e chi, invece, ha operato una distinzione tra la fattispecie della confessione solo apparente e quella della confessione falsa. Si è, in particolare, evidenziato che si può parlare di simulazione della confessione solo ove si ravvisi un'effettiva divergenza del contenuto della dichiarazione contra se rispetto alla reale volontà delle parti (Ad esempio, un soggetto confessa un fatto che la rende debitrice del destinatario al solo fine di dimostrare ad un istituto di credito l'affidabilità di quest'ultimo per l'ottenimento di un finanziamento), perché né il confitente, né il destinatario apparentemente avvantaggiato dalla dichiarazione vogliono gli effetti giuridici tipici della confessione. Diverso è il caso in cui le parti vogliono l'effetto tipico della confessione, ma il contenuto della dichiarazione è falso (Ad esempio un soggetto, volendo beneficiare qualcuno al di là di quanto gli consenta la parte disponibile del suo patrimonio, gli presta tutto il proprio capitale e poi rilascia quietanza dell'avvenuto rimborso). In tal caso l'atto ostensibile è effettivamente voluto da entrambe le parti, pur essendo non veritiero, così che la divergenza è tra la dichiarazione ostensibile e il fatto reale. Di conseguenza, secondo l'opinione in esame, l'eventuale controdichiarazione non ha valenza dispositiva e, quindi, negoziale, ma meramente confessoria ed intesa a ristabilire la verità, così che può trovare applicazione la disciplina della simulazione. Anche la giurisprudenza ha rivalutato il proprio orientamento ammettendo la simulazione della confessione nell'ipotesi in cui la divergenza tra la dichiarazione e il fatto reale costituisce il risultato di un'intesa tra le parti. Tale principio è stato affermato con riferimento alla quietanza c.d. di comodo.
Ne discende che la sua non veridicità può essere fatta valere esclusivamente attraverso la revoca ex art. 2732 c.c.. Fa, tuttavia, eccezione l'ipotesi in cui la non veridicità della quietanza non corrisponde ad una determinazione unilaterale del creditore quietanzante, ma riflette una programmazione negoziale, vale a dire un accordo tra creditore e debitore volto a rendere ostensibile ai terzi l'attestazione dell'avvenuto pagamento, la cui non conformità alla realtà è nota alle parti e da queste condivisa. In tale ipotesi, la giurisprudenza ha ammesso la dimostrazione di un accordo simulatorio anche attraverso la prova testimoniale (Cass., n. 9135/1993; Cass., n. 2747/1995; Cass., n. 8730/1997; Cass., n. 6109/2006; Cass., sez. lav. n. 6685/2009). Sono, quindi, intervenute le sezioni unite (sentenza 13 maggio 2002, n. 6877), che hanno escluso la possibilità per il creditore quietanzante di ricorrere alla prova testimoniale per dimostrare la simulazione assoluta della quietanza, ritenendo ostativo all'ammissione della prova per testi il disposto dell'art. 2726 c.c.. Tale assunto si fonda sul rilievo per il quale nella quietanza di favore l'oggetto della prova è costituito dall'accordo simulatorio sotteso all'emissione della quietanza stessa, e poiché l'art. 2726 c.c. estende al pagamento, di cui la quietanza rappresenta la prova documentale, la disciplina dell'ammissibilità della prova testimoniale dettata per i contratti, la dimostrazione di quell'accordo, che si configura come un patto anteriore o contemporaneo aggiunto e contrario all'atto apparente, può essere data dalle parti con la produzione in giudizio del documento che lo racchiude e non con la prova testimoniale, stante il divieto ex art. 2722 c.c.. A tale indirizzo si è successivamente contrapposto quello per il quale tale divieto si riferisce al solo documento contrattuale, formato, cioè, con l'intervento di entrambe le parti e contenente una convenzione, mentre non opera con riferimento alla quietanza, che è una dichiarazione unilaterale (Cass., n. 6109/2006; Cass., n. 5417/2014). Sulla questione si sono, quindi, pronunciate nuovamente le Sezioni Unite nella sentenza n. 19888/2014, confermando, sia pure in un obiter dictum, l'impostazione proposta dalla pronuncia n. 6877/2002.
La prova
La dichiarazione confessoria stragiudiziale, perché possa produrre l'efficacia tipica di prova legale, necessita di dimostrazione. Se, infatti, per la confessione giudiziale resa a seguito di interrogatorio formale, la prova della dichiarazione è acquisita nel momento stesso in cui viene resa (probatio probata), in caso di confessione stragiudiziale, in cui la dichiarazione è rivolta dal confitente alla controparte o al terzo al di fuori del processo, la parte interessata a farla valere deve fornirne valida dimostrazione. Come chiarito in dottrina l'esistenza di una confessione stragiudiziale non incide certo sulle regole di distribuzione dell'onere probatorio, ma muta l'oggetto della prova, la quale non verte sui fatti costitutivi del diritto azionato, ma, appunto, sull'avvenuta confessione extra iudicium di essi. Più precisamente se la confessione stragiudiziale è stata resa oralmente, può essere provata a mezzo di testimoni ai sensi dell'art. 2735 comma 2 c.c., purché non verta, in ossequio all'art. 2721 e ss. c.c., su di un oggetto sul quale la prova per testi non è ammessa. Negli stessi limiti è ammessa la prova per presunzioni. Una parte della dottrina ammette, altresì, l'interrogatorio formale inteso a provocare la confessione su una precedente confessione stragiudiziale. Se la dichiarazione confessoria è stata emessa in forma scritta, la prova della dichiarazione soggiace, invece, alla disciplina della prova documentale. Affinché la confessione abbia efficacia di prova legale, incontrovertibile (o assoluta), contro colui che l'ha resa sono necessarie tre condizioni:
Nel caso in cui manchi la prima, la confessione è priva di qualsivoglia effetto e non può neanche essere liberamente apprezzata dal giudice. Se, invece, ha ad oggetto fatti costitutivi di diritti indisponibili, la confessione degrada a prova liberamente apprezzabile dal giudice. Lo stesso avviene nel caso in cui la confessione stragiudiziale sia resa nei confronti del terzo oppure se è contenuta in un testamento (art. 2735 comma 1 c.p.c.)
Essa, infatti, costituisce pur sempre un atto dichiarativo - rappresentativo caratterizzato dalla contrarietà del fatto confessato all'interesse del dichiarante, mentre dal punto di vista funzionale conserva la propria efficacia di prova diretta. Come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, la confessione stragiudiziale fatta ad un terzo, se non costituisce una prova legale come la confessione giudiziale o quella stragiudiziale resa alla parte o a chi la rappresenta, non è, ciò non di meno, valutabile alla stregua di un mero indizio, unicamente idoneo a fondare una presunzione o ad integrare una prova manchevole, essendo, invece, un mezzo di prova diretta sul quale il giudice può fondare, anche in via esclusiva, il proprio convincimento (Cass., n. 4608/2000). Tra le ipotesi di confessioni rese al terzo va annoverata la quietanza c.d. atipica, ossia la dichiarazione con la quale si assevera la ricezione del pagamento rivolta non al solvens, ma al terzo (Ad esempio, l'attestazione di pagamento diretta conservatore del pubblico registro automobilistico, Cass., Sez. Un., n. 19888/2014, cit.). Secondo la Suprema Corte, la quietanza non è una vera e propria confessione, posto che, a differenza di quest'ultima che si caratterizza per la sua essenziale spontaneità, è un atto dovuto ed ha un contenuto vincolato e tipizzato, tanto che è soggetta ad una specifica disciplina (art. 1199 c.c.). Ciò non di meno è assimilabile alla confessione ed è per questo che ad essa si applicano in via analogica ed integrativa gli artt. 2732 e 2735 c.c. (Cass., Sez. Un., n. 19888/2014, cit.). Ne deriva che in caso di quietanza atipica deve trovare applicazione il regime della confessione resa al terzo. Casistica
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