Interdittiva antimafia: la regola del “più probabile che non” e la necessità di fiducia nell’imprenditore

Guglielmo Aldo Giuffrè
13 Maggio 2016

Anche un singolo elemento di permeabilità criminale, qualora grave e preciso, e in assenza di adeguati elementi di segno contrario, può essere ritenuto sufficiente a fondare un'interdittiva antimafia, purché idoneo, secondo la regola del “più probabile che non”, a far perdere quella fiducia nell'imprenditore della quale questi deve necessariamente godere da parte delle istituzioni nei rapporti con le pubbliche amministrazioni.

Il Consiglio di Stato effettua un'ampia disamina relativa all'istituto dell'interdittiva antimafia, affermando, in particolare, che l'impianto motivazionale di quest'ultima deve necessariamente indicare, anche mediante rinvio per relationem agli atti di polizia, gli elementi di fatto posti a base delle relative valutazioni e le ragioni per le quali questi elementi siano ritenuti idonei a permettere di ritenere, sulla base della regola causale del “più probabile che non”, che l'imprenditore abbia perso quella fiducia, della quale deve necessariamente godere da parte delle istituzioni nei rapporti con le pubbliche amministrazioni. L'interdittiva deve fondarsi su una rappresentazione complessiva, basata sulle risultanze dell'attività svolta dall'autorità prefettizia, degli elementi di permeabilità criminale che possano influire e condizionare anche indirettamente l'attività imprenditoriale, tra i quali rilevano, innanzitutto, i provvedimenti giudiziari emessi nei confronti dell'impresa o di suoi esponenti e, tra gli altri, anche i rapporti di parentela tra membri dell'impresa e soggetti affiliati alle associazioni mafiose. Il Collegio afferma che può anche essere ritenuto sufficiente a giustificare l'emissione dell'interdittiva un singolo elemento presuntivo, qualora sufficiente grave e preciso, in assenza di adeguati elementi di segno contrario. Di conseguenza, viene ritenuta legittima l'interdittiva fondata sul forte legame familiare intercorrente tra un soggetto pluripregiudicato e condannato per associazione di stampo mafioso e il figlio convivente, che ha ceduto le sue quote societarie ad altra amministratrice, in continuità con la precedente gestione e in esclusione della normativa antimafia, in quanto tale elemento viene ritenuto sufficiente a ritenere probabile un'infiltrazione mafiosa nell'attività imprenditoriale e, di conseguenza, a far perdere la fiducia nell'imprenditore, data anche la “struttura clanica” delle consorterie mafiose.

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