Legge - 24/03/2001 - n. 89 art. 4 - (Termine di proponibilita') 1

Rosaria Giordano

(Termine di proponibilita') 1

 

1. La domanda di riparazione puo' essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento e' divenuta definitiva 2.

[1] Articolo sostituito dall'articolo 55, comma 1, lettera d), del D.L. 22 giugno 2012, n. 83 , convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, con la decorrenza di cui al comma 2 del medesimo decreto.

[2] La Corte Costituzionale, con sentenza 26 aprile 2018, n. 88 (in Gazz. Uff. 2 maggio 2018, n. 18), ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente comma nella parte in cui non prevede che la domanda di equa riparazione possa essere proposta in pendenza del procedimento presupposto.

Inquadramento

La legge Pinto prevedeva, nella versione originaria, che il ricorso per equa riparazione potesse essere proposto durante il giudizio ovvero entro sei mesi dall'emanazione della decisione definitiva a conclusione dello stesso.

Tale sistema era  stato, poi, riformato dalla legge n. 134 del 2012 nel senso di eliminare la possibilità di proporre la domanda lite pendente, specie per evitare il frazionamento dei ricorsi aventi ad oggetto la violazione del termine di ragionevole durata relativo allo stesso processo.

Nel nuovo assetto, quindi, la domanda di equa riparazione poteva  essere proposta soltanto entro sei mesi dalla pronuncia di una decisione definitiva nel processo presupposto e non più anche lite pendente.

La norma è stata dichiarata illegittima, dalla sentenza della Corte Cost. n. 88/2018, nella parte in cui non contempla la possibilità di proporre la domanda di equa riparazione lite pendente.

Tale pronuncia ha “ripristinato” il sistema originario.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno chiarito che il termine per la proposizione dell'azione è, conformemente alla natura della situazione giuridica soggettiva tutelata, un termine di decadenza.

Proponibilità del ricorso lite pendente

L'art. 4 della legge c.d. Pinto, nella formulazione originaria, prevedeva che la domanda di equa riparazione poteva essere proposta durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata ovvero, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento nel quale la decisione che conclude il medesimo procedimento diviene definitiva.

Pertanto, era espressamente riconosciuta al ricorrente la possibilità di proporre la domanda volta ad ottenere l'indennizzo per i danni derivanti dall'irragionevole durata di un giudizio anche qualora lo stesso fosse stato ancora pendente, sia in primo grado che in sede di gravame.

In sede applicativa è stato affermato a riguardo che, ai fini della condizione di proponibilità della domanda di equa riparazione, prevista dall'art. 4 l. 24 marzo 2001 n. 89, sussiste la pendenza del procedimento, nel cui ambito la violazione del termine di durata ragionevole si assume verificata, allorché sia stata emessa la relativa sentenza di primo grado e non sia ancora decorso il termine lungo per la proposizione dell'impugnazione (Cass. n. 841/2013).

In linea di principio non poteva escludersi, nel sistema originario configurato dalla legge c.d. Pinto, che la parte frazionasse la domanda di equa riparazione avente ad oggetto l'indennizzo per l'irragionevole durata del processo. In particolare, conseguiva in primo luogo alla proponibilità della domanda lite pendente che la parte avrebbe potuto richiedere l'indennizzo relativo alla durata del giudizio con riguardo alla frazione di ritardo già maturata nella pendenza dello stesso e, quindi, introdurre un nuovo procedimento di equa riparazione per ottenere l'indennizzo concernente l'ulteriore durata irragionevole successivamente maturata. E ciò, come sottolineato da autorevole dottrina, avendo riguardo anche solo ad un'ulteriore frazione di durata del procedimento eccessivamente lungo e non sino al momento di definizione dello stesso (Tarzia 2001, 2432).

Sotto altro profilo, nell'assetto tradizionale configurato dalla legge c.d. Pinto, la domanda di equa riparazione avrebbe potuto essere proposta anche in relazione soltanto alla fase o grado del processo che aveva avuto una durata irragionevolmente lunga, i.e. senza possibilità di effettuare compensazioni tra fasi o gradi né ai fini della valutazione sulla sussistenza del diritto all'indennizzo né circa la quantificazione dello stesso (cfr., tra gli altri, Longo 2739; Ronco 2002, I, 2084, secondo cui la possibilità di istanza in corso di causa implica necessariamente l'autonoma rilevanza del superamento dei termini di fase pure a seguito della conclusione del processo, in quanto sarebbe contraddittorio ammettere l'indennizzo se la parte agisce immediatamente e negarlo se invece agisce al termine del processo).

Tale impostazione è stata confermata da quella giurisprudenza di legittimità per la quale in tema di equa riparazione per violazione del termine ragionevole di durata del processo, ai sensi della l. 24 marzo 2001 n. 89, ove la relativa domanda sia proposta durante la pendenza del processo presupposto, il giudice deve prendere in considerazione, ai fini della valutazione della ragionevolezza della durata di detto processo, il solo periodo intercorrente tra il suo promovimento e la proposizione del ricorso per equa riparazione, non potendo considerare altresì l'ulteriore ritardo, futuro ed incerto, suscettibile di maturazione nel prosieguo del primo processo (Cass. n. 19352/2005). Invero, in accordo con la predetta impostazione, tale valutazione prognostica è esclusa dalla lettera dell'art. 2 della legge c.d. Pinto, che si riferisce ad un evento lesivo storicamente già verificatosi e dunque certo, mentre a sua volta l'art. 4, permettendo l'esercizio dell'azione anche in pendenza del processo presupposto, come nella specie avvenuto, delimita l'ambito del pregiudizio, anticipando la liquidazione per ogni violazione già integrata, e fa implicitamente salva la facoltà di proporre altra domanda in caso di eventuale ritardo ulteriore.

In detta prospettiva, ad esempio, la S.C. ha negato che il danno futuro prospettato dalla parte fosse certo per la sola allegazione di un evento, l'udienza di precisazione delle conclusioni in un giudizio civile, pur fissata dal giudice, modificabile o revocabile a seguito di variazioni dell'iter processuale come un'anticipazione d'udienza, una transazione, una rinuncia agli atti o altre cause analoghe (Cass. n. 8547/2011).

Sotto altro profilo, la Corte di legittimità ha affermato che il ricorrente che si avvalga della facoltà di agire per l'equa riparazione prima della definizione del giudizio presupposto — come consentito dal testo originario dell'art. 4 della l. n. 89 del 2001ha l'onere di proporre e coltivare la domanda per ogni profilo di danno già maturato, attesi i principi di unicità, concentrazione e infrazionabilità, sicché nell'eventuale nuovo procedimento volto a ottenere l'indennizzo per la durata ulteriore della causa egli non può far valere danni verificatisi nell'arco temporale coperto dalla prima domanda di riparazione (Cass. n. 15803/2016).

Inoltre, era stato più volte ribadito che nella disposizione dell'art. 4 l. 24 marzo 2002 n. 89 sull'equa riparazione del danno derivante dalla irragionevole durata dei processi, secondo cui la domanda di riparazione può essere proposta anche «durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata», l'espressione «pendenza del procedimento» non deve essere interpretata nel senso, restrittivo, che essa non sia comprensiva del grado di giudizio in cui si è manifestato il ritardo, di guisa che resti esclusa la proponibilità della domanda nel corso di quel grado a causa della violazione, in caso contrario, del principio del giudice naturale conseguente alla possibilità, insita nel sistema, di una astensione o ricusazione di quel giudice conseguenti ad un'azione di responsabilità o ad un procedimento disciplinare promossi nei confronti del magistrato (Cass. n. 11738/2006; Cass. n. 6187/2003).

Tuttavia, almeno da un certo momento in poi, la S.C. aveva ritenuto, in senso diverso, che la verifica della durata ragionevole di un processo, al fine della decisione sul risarcimento del danno per equa riparazione, deve essere effettuata in relazione al tempo occorso per lo svolgimento dell'intero procedimento, mentre, invece, non rileva la sua articolazione in gradi e fasi, sicché la parte non è legittimata a limitare la propria domanda ad uno dei gradi del giudizio, pur ove, singolarmente considerato, abbia ecceduto la durata ritenuta ragionevole dalla Corte europea per quel determinato grado (Cass. n. 23506/2008; Cass. n. 15974/2013, la cui portata innovativa, nella vigenza della pregressa formulazione dell'art. 4 legge c.d. Pinto, risiede proprio nella ritenuta impossibilità per il ricorrente di limitare la domanda al ritardo maturato in un certo grado del giudizio; contra Cass. n. 5265/2003, secondo cui la legge 24 marzo 2001 n. 89 ammette la proponibilità della domanda di equa riparazione anche nella pendenza del processo o della fase di esso la cui durata costituisce titolo della domanda stessa).

Invero, la Corte di Cassazione aveva già più volte evidenziato – mediante l'affermazione di un assunto consolidato – che in tema di equa riparazione ai sensi della l. 24 marzo 2001 n. 89, pur essendo possibile individuare degli «standard» di durata media ragionevole per ogni fase del processo, quando quest'ultimo si sia articolato in vari gradi e fasi, così come accade nell'ipotesi in cui il giudizio si svolga in primo grado, in appello, in cassazione ed in sede di rinvio, agli effetti dell'apprezzamento del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali occorre — secondo quanto già enunciato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo — avere riguardo all'intero svolgimento del processo medesimo, dall'introduzione fino al momento della proposizione della domanda di equa riparazione, dovendosi cioè addivenire ad una valutazione sintetica e complessiva del processo anzidetto, alla maniera in cui si è concretamente articolato (per gradi e fasi appunto), così da sommare globalmente tutte le durate, atteso che queste ineriscono all'unico processo da considerare, secondo quanto induce a ritenere il fatto che, a norma dell'art. 4 della citata legge, ferma restando la possibilità di proporre la domanda di riparazione durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata, tale domanda deve essere avanzata, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che conclude il procedimento stesso, è divenuta definitiva (Cass. n. 3143/2004).

Il sistema riformato nel 2021: proponibilità del ricorso soltanto dopo l'emanazione della decisione definitiva

L'art. 4 l. 24 marzo 2001 n. 89, come sostituito dall'articolo 55, comma primo, lettera d), del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla l. 7 agosto 2012, n. 134, aveva previsto che la domanda di riparazione può essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva.

In ordine alla prova della predetta circostanza, è stato chiarito che l'art. 3, comma 3, della legge 24 marzo 2001, n. 89, prescrivendo il deposito in copia autentica della sentenza che ha definito il giudizio presupposto, non stabilisce che la prova dell'irrevocabilità della sentenza stessa sia data unicamente attraverso la certificazione di cancelleria apposta in calce ad essa, potendo l'irrevocabilità risultare dall'esame complessivo degli atti e dalla prova logica (nella specie, da un'attestazione di cancelleria sul difetto di impugnazioni non apposta in calce alla sentenza: Cass. n. 8049/2015).

Nella ripercorsa formulazione originaria la norma, invece, come evidenziato, prevedeva espressamente la possibilità di proporre la domanda di equa riparazione anche durante la pendenza del processo presupposto.

Sebbene, come rilevato, sulla scorta del mero argomento letterale non possa ritenersi, tenendo conto della richiamata giurisprudenza della Corte di Strasburgo sull'art. 35 Cedu, che sia soltanto per questo mancato riferimento esclusa la proponibilità dell'azione di equa riparazione qualora non sia stato definito il procedimento della cui irragionevole durata si tratta, a tale conclusione deve nondimeno senz'altro pervenirsi avendo riguardo alla pregressa formulazione del medesimo art. 4 legge c.d. Pinto nonché a quanto specificamente evidenziato, sul punto, dalla Relazione illustrativa nella quale la modifica normativa in questione è correlata all'esigenza di evitare la frammentazione di domande di equa riparazione relative ad un unico evento generatore del danno ingiusto, i.e. ad un unico processo (Consolo – Negri 1433, nota 16).

Ne deriva che, se prima della riforma realizzata dalla legge n. 134 del 2012 la domanda di equa riparazione poteva essere proposta anche nel corso del processo presupposto, era stata poi contemplata la necessità che lo stesso fosse stato definito mediante una pronuncia definitiva, momento dal quale soltanto, peraltro, comincerà a decorrere il termine semestrale per la proponibilità della domanda.

La scelta del legislatore doveva essere considerata unitariamente alla previsione, da parte dell'art. 2, comma secondo, ter, legge c.d. Pinto, introdotto dalla stessa legge n. 134/2012, secondo cui il termine ragionevole si considera comunque rispettato se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni.

[*DOTT*]  In sostanza, nel descritto assetto, in conformità agli indirizzi interpretativi già più volte affermati in sede di legittimità ed in omaggio ai quali la valutazione della durata del processo articolato in più fasi deve essere globale ed unitaria (cfr., ex ceteris, Cass. n. 18720/2007) si vuole evitare che, come originariamente consentito per la possibilità di proporre la domanda lite pendente, venga frazionato il credito relativo all'equo indennizzo (Consolo – Negri 1433; Ghirga 823 ss.).

Tale sistema è peraltro espressione di una scelta contraria rispetto alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo secondo cui, ai fini della proponibilità di una domanda di equa riparazione, non è necessario che il giudizio presupposto sia stato definito, quanto soltanto che il procedimento interno abbia superato la soglia di durata ragionevole.

Come era stato notato in dottrina sin dai primi commenti, non avrebbe potuto escludersi, quindi, in ragione di una siffatta differenziazione nelle tutele che rischia di rendere in parte qua ineffettivo il rimedio interno, che vengano nelle situazioni più gravi proposti ricorsi direttamente dinanzi alla Corte europea «saltando» il mezzo di ricorso nazionale inaccessibile per un periodo di tempo indeterminato, ossia fino alla definizione del giudizio presupposto (Consolo-Negri 1434, per i quali, sebbene debba ritenersi apprezzabile l'intento del legislatore di limitare utilizzi strumentali della tutela indennitaria, la rigidità della previsione rischia di lasciare scoperte situazioni particolarmente gravi nelle quali il giudizio pende da numerosi anni senza avviarsi alla definizione, aprendo il varco alla via di Strasburgo; Martino 552).

A riguardo occorre evidenziare che, proprio con riferimento alle modifiche intervenute a seguito della legge n. 134/2012 sull'art. 4 legge c.d. Pinto, è stata sollevata questione di legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3, 111, comma secondo e 117, comma primo Cost., anche in relazione all'art. 6 Cedu, della predetta disposizione normativa nella parte in cui esclude la possibilità di agire per l'indennizzo del pregiudizio derivante dalla irragionevole durata del processo in pendenza del giudizio presupposto (App. Bari 18 marzo 2013, in Corr. Giur., 2013, n. 11, 1420, con nota di Consolo – Negri).

Invero, la Corte di Strasburgo riconosce per converso pacificamente la possibilità di denunciare l'irragionevole durata di un processo anche durante la pendenza dello stesso, essendo possibile dolersi della durata eccessiva di un processo prima che una decisione interna definitiva sia stata resa e proprio perché la medesima tarda ad arrivare (cfr. Edel 32 ss.).

Ne deriva che, potendo risultare sotto tale profilo il rimedio interno di cui alla legge n. 89/2001 privo di effettività, ciò potrebbe riaprire la strada diretta per Strasburgo in favore del ricorrente che non può richiedere, nonostante l'eccessiva durata di un procedimento non ancora definito, la relativa tutela indennitaria, analogamente a quanto già avvenuto, nei primi anni di vigenza della legge c.d. Pinto, con la pronuncia Scordino.

Peraltro, la Corte costituzionale ha ritenuto inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 55, comma 1, lett. d) d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv., con modif., in l. 7 agosto 2012, n. 134, censurato, in riferimento agli art. 3,111, comma 2, e 117, comma 1, Cost. (quest'ultimo in relazione all'art. 6, par. 1, Cedu), nella parte in cui — sostituendo l'art. 4 l. n. 89 del 2001 — preclude la proposizione della domanda di equa riparazione durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione della ragionevole durata si assume verificata. L'intervento additivo invocato dal rimettente — consistente nell'estensione della fattispecie relativa all'indennizzo conseguente al processo tardivamente concluso a quella caratterizzata dalla pendenza del giudizio — non è possibile, sia per l'inidoneità dell'eventuale estensione a garantire l'indennizzo della violazione verificatasi in assenza della pronuncia irrevocabile, sia perché la modalità dell'indennizzo non potrebbe essere definita «a rime obbligate», a causa della pluralità di soluzioni normative in astratto ipotizzabili a tutela del principio della ragionevole durata del processo, ferma l'esigenza che la discrezionalità del legislatore rispetti il limite dell'effettività del rimedio; e sotto tale aspetto la legislazione nazionale risulta carente e non sarebbe tollerabile, quindi, l'eccessivo protrarsi dell'inerzia legislativa in ordine al riscontrato vulnus ove si consideri che la Corte Edu ha ritenuto che il differimento dell'esperibilità del ricorso alla definizione del procedimento in cui il ritardo è maturato ne pregiudichi l'effettività e lo renda incompatibile con i requisiti al riguardo richiesti dalla convenzione (Corte cost., n. 30/2014).

La Corte di Cassazione ha, per sua parte, in seguito a tale pronuncia, evidenziato che è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 della l. n. 89 del 2001, laddove condiziona la proponibilità della domanda di equa riparazione per irragionevole durata del processo alla previa definizione del processo medesimo, giacché il legislatore, nell'esercizio della sua discrezionalità, ha introdotto un sistema di rimedi preventivi diretti a impedire la stessa formazione del ritardo processuale (l. n. 208 del 2015), così aderendo alla sentenza di monito circa la violazione dei principi Cedu (Cass. n. 13556/2016).

Non si può trascurare in questa sede che, in una prospettiva de jure condendo, volta a contemperare l'esigenza di consentire l'accesso alla tutela riparatoria a fronte degli abusi più rilevanti di processi ancora pendenti dopo moltissimi anni con quella di evitare il frazionamento della domanda avente ad oggetto l'indennizzo concernente un unico procedimento, autorevole dottrina ha evidenziato che la soluzione più opportuna sarebbe quella di consentire la proposizione, per una sola volta, della domanda di equa riparazione in corso di causa quando il singolo grado di giudizio abbia ormai superato la durata prevista come ragionevole per la conclusione di un processo articolato in più fasi, attribuendo tuttavia al giudice designato, già nella fase monitoria, il potere di sospendere facoltativamente il giudizio sull'indennizzo qualora appaia opportuno attendere la conclusione del processo presupposto, ormai prossimo alla conclusione onde favorire una valutazione unitaria e globale (cfr. Consolo – Negri, 1437-1438, per i quali dovrebbe tuttavia evitarsi di imporre un ulteriore termine di decadenza decorrente dal momento in cui per il maturare di un ritardo intollerabile l'azione diviene proponibile al fine di limitare la proliferazione di istanze riparatorie relative ad un unico processo finalizzate solo a non far maturare la decadenza e quindi far continuare a decorrere l'unico termine di decadenza dalla definizione del giudizio).

L’intervento additivo della Corte Costituzionale

Con distinte ordinanze, la stessa Corte di cassazione sollevava poi nuovamente questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89 (cd. Pinto), come sostituito dall'art. 55, comma 1, lett. d), del d.l. 22 giugno 2012, n. 83 (conv. in legge n. 134/2012), per assunto contrasto con gli artt. 3,24,111, comma 2, e 117, comma 1, Cost., in relazione, quest'ultimo, agli artt. 6 e 13 della CEDU, nella parte in cui non contempla, come avveniva nella formulazione previgente a tale modifica normativa, la possibilità di proporre la domanda di equa riparazione lite pendente.

Era posto in rilievo, mediante tali ordinanze di rimessione, che la medesima Corte costituzionale, già sollecitata a pronunciarsi su analoghe questioni, con la sentenza n. 30 del 2014, pur ravvisando nel differimento all'esperibilità del rimedio all'esito del giudizio presupposto un vulnus all'effettività dello stesso, aveva sollecitato un intervento del legislatore. Peraltro, la legge 28 dicembre 2015, n. 208, nel prevedere, quali condizioni di procedibilità della domanda ex lege Pinto, alcuni rimedi acceleratori non aveva risolto né inciso sulla problematica.

La questione posta all'esame della Corte costituzionale si correlava, in sostanza, alla possibilità (o meno) di ritenere rimedio giurisdizionale effettivo, in conformità agli artt. 24 e 111 Cost., nonché all'art. 117 Cost. – laddove prevede un vincolo del legislatore ordinario al rispetto degli obblighi assunti sul piano internazionale – con riguardo agli artt. 6 e 13 CEDU, quello contemplato per ottenere l'equa riparazione per irragionevole durata dei processi dalla legge cd. Pinto nella parte in cui, nel sistema successivo alla legge n. 134/2012, non è più prevista la possibilità di proporre la relativa domanda nel corso del giudizio presupposto, ma soltanto una volta concluso lo stesso (entro il termine di decadenza di sei mesi dal momento nel quale la decisione è divenuta definitiva).

Invero, l'inammissibilità della domanda ex lege Pinto nella pendenza del processo presupposto, nell'assetto successivo al d.l. n. 83/2012, si pone in contrasto con la consolidata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo per la quale, ai fini della proponibilità di una domanda di equa riparazione, non è necessario che il giudizio in questione sia stato definito, ma soltanto che abbia superato la “soglia” di durata ragionevole.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 88 del 2018, ha ritenuto fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 della l. n. 89/2001,[1] laddove non contempla l'azione indennitaria lite pendente, con riferimento agli artt. 3,111, comma 2, e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo quale “norma interposta” rispetto agli artt. 6 e 13 CEDU.

Tale soluzione è stata argomentata ricordando che, con la propria precedente decisione n. 30/2014, la Corte  aveva già rilevato la lesione di tali parametri, invitando il legislatore ordinario ad intervenire sulla problematica.

La decisione  della Corte evidenzia, tuttavia, che la legge n. 208/2015, introducendo alcuni rimedi preventivi, il cui mancato esperimento rende inammissibile la domanda di equa riparazione, costituiti dal necessario impiego di riti semplificati o dalla formulazione di istanze acceleratorie, non ha certo risolto la questione del vulnus all'effettività del rimedio interno arrecata dalla modifica del predetto art. 4 della l. n. 89/2001 ad opera del d.l. n. 83/2012.

La ragione fondamentale è che i rimedi in questione, oltre ad incidere, quanto all'introduzione della causa secondo riti più celeri, soltanto per il futuro, si sostanziano nella richiesta di un comportamento diligente della parte interessata ad ottenere l'indennizzo ma non garantiscono una definizione anticipata del giudizio, rimessa in via esclusiva alle scelte dell'autorità giudiziaria.

Ne deriva l'ineffettività del rimedio interno, secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo in relazione agli artt. 6 e 13 CEDU, che finisce con l'escludere l'accesso alla tutela indennitaria proprio nelle situazioni di più grave ritardo nella definizione del giudizio presupposto.

La decisione della Corte costituzionale ha così opportunamente ricondotto il rimedio interno di cui alla legge n. 89 del 2001 alla necessaria conformità con l'assetto di tutela, ripartito tra giudice nazionale e Corte di Strasburgo, contemplato dal sistema della CEDU (GIORDANO, 2018).

La sentenza della Corte ha lasciato tuttavia lascia aperte una serie di questioni interpretative di non facile soluzione, come, ad esempio, quella concernente i criteri di quantificazione dell'indennizzo spettante alla parte del processo presupposto non ancora definito. Il problema è di non poco momento ove si consideri che alcune ipotesi di esclusione dell'indennizzo contemplate dall'art. 2, comma 2°quinquies, della l. n. 89/2001 postulano la definizione del giudizio.

Inoltre, sempre in ordine alla quantificazione dell'indennizzo, l'art. 2 bis, 2° comma, L. n. 89/2001 impone di tenere conto dell'esito del processo, mentre il successivo comma 3° esclude che detta misura possa eccedere il valore della causa o quello del diritto accertato dal giudice, se inferiore al primo. Ancora, l'art. 2, comma 2°ter, considera comunque rispettato il termine ragionevole di durata del processo se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni, presupponendo in tal modo, ancora una volta, la conclusione del processo.

Secondo alcuni, in ragione di tali rilievi, l'intervento della Corte costituzionale  non potrebbe considerarsi effettivo se ad esso non farà seguito una modifica legislativa che vada ad introdurre specifici criteri da applicare per la liquidazione dell'indennizzo nel caso in cui il processo presupposto non si sia ancora concluso poiché, in mancanza, difficilmente i giudici di merito potranno procedere alla quantificazione della somma dovuta a titolo di equa riparazione in favore del ricorrente, se non finendo sostanzialmente per disapplicare le disposizioni contemplate dalla L. n. 89/2001 così come novellata nel 2012 (PARISI, 2123).

Resta fermo che – nonostante le problematiche evidenziate specie in punto di quantificazione dell'indennizzo spettante nonché di frazionamento delle domande - dopo l'intervento della Corte Costituzionale, la domanda di equo indennizzo ex lege Pinto può essere (nuovamente) proposta anche in pendenza del giudizio presupposto, in conformità con le linee direttrici del sistema desumibili dagli artt. 13 e 35 CEDU (Cassazione civile, sez. II, 18/10/2018, n. 26162; v., in sede applicativa, Corte appello Napoli sez. II, 12/02/2020).

Se la domanda è stata proposta lite pendente, la S.C.  continua a non esprimere un indirizzo univoco circa la possibilità per il giudice adito con la domanda di equa riparazione possa apprezzare e valutare l'ulteriore ritardo maturato nelle more del relativo giudizio.

In senso affermativo si è ad esempio ritenuto, in proposito, che la data di pubblicazione della sentenza di appello del giudizio presupposto, intervenuta nel corso del giudizio di equa riparazione, ove la decisione stessa sia stata oggetto di allegazione e prova nel procedimento, costituisce evento certo in base al quale potersi calcolare il ritardo processuale ulteriormente maturato dopo la proposizione dell'azione ex lege n. 89 del 2001 (Cass. n. 10582/2019).

In senso contrario è stato evidenziato, come già nella giurisprudenza anteriore alla novella del 2012, che ai fini della valutazione della ragionevole durata del processo, ai sensi della legge n. 89 del 2001, ove la domanda di equa riparazione sia proposta durante la pendenza del processo presupposto, il giudice deve prendere in considerazione il solo periodo intercorrente tra il suo promovimento e la proposizione del ricorso per equa riparazione, e non anche l'ulteriore ritardo, futuro ed incerto, suscettibile di maturazione nel prosieguo del primo processo, che potrà essere posto a fondamento di una successiva domanda, a meno che tale ulteriore durata, già verificatasi durante il procedimento per equa riparazione, non denoti una protrazione della medesima violazione e sia stata oggetto di specifica allegazione ad integrazione della originaria domanda (Cass. n. 1521/2019).

Resta fermo che il ricorrente il quale si avvalga della facoltà di agire per l'equa riparazione prima della definizione del giudizio presupposto  ha l'onere di proporre e coltivare la domanda per ogni profilo di danno già maturato, attesi i principi di unicità, concentrazione e infrazionabilità, sicché nell'eventuale nuovo procedimento volto a ottenere l'indennizzo per la durata ulteriore della causa egli non può far valere danni verificatisi nell'arco temporale coperto dalla prima domanda di riparazione (Cass. n. 16803/2016).

Decorso del termine semestrale per il deposito del ricorso

Nel sistema attuale la domanda di equa riparazione per l'eccessiva durata di un processo deve essere proposta nel termine di sei mesi decorrente dal momento nel quale la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva.

Per proposizione della domanda si intende, a tal fine, il solo deposito del ricorso e non anche quello degli atti e documenti di cui all'art. 3, comma 3, della l. n. 89 del 2001, i quali possono essere prodotti in ogni momento prima della decisione ovvero nel termine concesso ex art. 640, comma 1, c.p.c. (Cass. n. 22763/2015).

Tale termine è assoggettato a sospensione feriale: invero, poiché fra i termini per i quali l'art. 1 della l. n. 742 del 1969 prevede la sospensione nel periodo feriale vanno ricompresi non solo i termini inerenti alle fasi successive all'introduzione del processo, ma anche il termine entro il quale il processo stesso deve essere instaurato, allorché l'azione in giudizio rappresenti, per il titolare del diritto, l'unico rimedio per fare valere il diritto stesso, detta sospensione si applica anche al termine di sei mesi previsto dall'art. 4 della l. n. 89 del 2001 per la proposizione della domanda di equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo (Cass. n. 5423/2016).

Trattasi, come espressamente precisato, di un termine di decadenza di carattere perentorio, insuscettibile di sospensione ed interruzione, di talché soltanto il tempestivo deposito del ricorso dinanzi alla Corte d'Appello impedisce il verificarsi della decadenza (Martino 552; Ronco in Chiarloni 2002, 334 ss.).

La formulazione dell'art. 4 legge c.d. Pinto, laddove ancora la decorrenza del termine semestrale in questione alla definitività della decisione resa nel procedimento presupposto è di una qualche complessità per l'interprete essendo coniata sull'analoga locuzione «definitività della decisione interna» contenuta nell'art. 35, ultimo par., Cedu e non direttamente riconducibile ad istituti di diritto interno.

Peraltro, una ragionevole interpretazione della norma conforme alla ratio della stessa consente di ritenere che, con riguardo al processo civile, una pronuncia debba ritenersi in tal senso definitiva se passata in giudicato ex art. 324 c.p.c. (mentre per il processo penale dovrà farsi riferimento alla nozione di irrevocabilità della decisione: Giorgetti 322).

La prassi ormai consolidata della giurisprudenza di legittimità appare del resto orientata in tale direzione. È stato con chiarezza precisato, difatti, dalla S.C. che l'espressione «decisione definitiva» riproduce l'analoga espressione «decisioni interne definitive» contenuta nell'art. 35, paragrafo 1, della convenzione Cedu, ed è rivolta a comprendere tutte indistintamente le tipologie di processo del quale sia ipotizzabile dolersi della durata non ragionevole ai sensi della legge n. 89 del 2001, sicché essa non può essere limitata alle sole sentenze di merito, ma deve intendersi riferita a qualsiasi provvedimento dopo il quale quel processo (o quella specifica fase di esso) debba ritenersi concluso e non più pendente. Ne consegue che il concetto di definitività della decisione ove si tratti di una sentenza di merito si identifica con il suo passaggio in giudicato, mentre, con riferimento alle sentenze meramente processuali ed in genere ai provvedimenti giurisdizionali idonei a porre formalmente termine al processo o ad impedire che dopo di esso il processo medesimo e/o il relativo segmento processuale che lo ha concluso possano considerarsi ancora pendenti, si correla non già alla effettiva realizzazione del diritto la cui tutela era stata invocata in quel processo (nel giudizio civile) ovvero al definitivo accertamento della pretesa punitiva statuale (in quello penale), bensì allo spirare del termine per la proposizione degli appositi rimedi onde rimuoverne gli effetti, quale che ne sia la denominazione (opposizione, reclamo, regolamento ecc.) e la conseguente peculiare disciplina (Cass. n. 1184/2006).

Con specifico riguardo al processo civile è quindi stato affermato che in tema di equa riparazione ai sensi della l. 24 marzo 2001 n. 89, il termine semestrale di decadenza fissato dall'art. 4 delle legge citata per la proposizione della domanda decorre dalla data dell'emissione di una decisione non impugnabile con un mezzo ordinario di impugnazione, ovvero, se una tale impugnazione è prevista dalla legge, dalla data di scadenza del termine stabilito per proporla, secondo una regola che trova applicazione anche quando una impugnazione ordinaria sia stata in concreto proposta ma tardivamente, avendosi in tal caso l'inizio di un nuovo processo, la cui durata va esaminata, ai predetti effetti, in modo autonomo rispetto a quella del processo conclusosi con il giudicato (Cass. n. 17446/2011). In sostanza, in tema di equa riparazione ai sensi della l. 24 marzo 2001 n. 89, laddove il diritto al relativo indennizzo si fondi sulla durata non ragionevole di un processo di cognizione, per «definitività» della decisione concludente il procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata, la quale segna il dies a quo del termine di decadenza di sei mesi per la proponibilità della domanda, deve intendersi il passaggio in giudicato della sentenza, non essendo conclusiva del procedimento una pronuncia suscettibile di impugnazione.

Poiché in tema di equa riparazione per violazione del termine ragionevole di durata del processo, ai fini dell'individuazione della data di decorrenza del termine di decadenza di sei mesi per la proponibilità della domanda, la decisione conclusiva del procedimento, nel quale la violazione si assume verificata, diventa « definitiva » con il passaggio in giudicato della sentenza che lo definisce, allorché la decisione che conclude il processo presupposto sia stata depositata ma non notificata, la sua definitività si identifica con il decorso del c.d. termine lungo previsto dall'art. 327 c.p.c. e del periodo di sospensione feriale dei termini (Cass. n. 1775/2012; Cass. 24450/2006). In proposito è stato puntualizzato, da ultimo, che nell'ipotesi di sentenza di merito in grado di appello resa in un processo con pluralità di parti, la definitività della decisione si identifica con il suo passaggio in giudicato formale, per essere la sentenza non più impugnabile coi rimedi ordinari elencati nell'art. 324 c.p.c. da nessuna delle parti, senza che perciò rilevi, ai fini del decorso del termine di sei mesi per proporre la domanda di equa riparazione, la data in cui una delle parti sia decaduta dall'impugnazione per effetto della notifica della sentenza eseguita ad uno solo dei contraddittori (Cass.  n. 27401/2023).

Qualora, pertanto, il procedimento della cui irragionevole durata si tratta sia stato definito mediante pronuncia di rigetto ovvero di accoglimento con definizione nel merito ex art. 384 c.p.c. da parte della S.C., il termine semestrale per la proposizione dell'azione di equa riparazione decorrerà dal momento del deposito della decisione della Corte di Cassazione (Cass. n. 21863/2012).

È discussa la decorrenza del termine di decadenza in questione nell'ipotesi di proposizione di un mezzo di impugnazione straordinario.

Nella giurisprudenza di legittimità, è stato a riguardo affermato il principio in forza del quale in tema di equa riparazione per violazione della durata ragionevole del processo, il termine semestrale di decadenza per la proposizione della relativa domanda, previsto dall'art. 4 della legge n. 89 del 2001, decorre dalla data in cui è divenuta definitiva la decisione che conclude il processo della cui durata si discute. Detto termine, una volta spirato, non può essere riaperto, ed a tempo indeterminato, per effetto del ricorso per revocazione, ai sensi dell'art. 395, n. 4 e 5, c.p.c., della sentenza conclusiva del processo presupposto, trattandosi di un mezzo di impugnazione straordinario, non legato da «rapporto di unicità» con il giudizio di cognizione concluso con sentenza passata in giudicato (Cass. n. 14970/2012).

In termini analoghi, la S.C. ha evidenziato che in caso di irragionevole durata del giudizio di appello della Corte dei conti, la domanda di equa riparazione, ai sensi dell'art. 4 della l. n. 89 del 2001, può essere proposta anche all'esito del giudizio di revocazione ordinaria, sempre che questo sia stato introdotto entro sei mesi dal deposito della sentenza che ha concluso il giudizio presupposto, essendo irrilevante, perché assolutamente straordinario, il termine di tre anni previsto per la revocazione dall'art. 68 del r.d. n. 1214 del 1934 (Cass. n. 25179/2015).

Da ultimo, è stato chiarito, poi, che il procedimento di correzione dell'errore materiale, proponibile senza limiti di tempo, rileva ai fini della valutazione del superamento del termine previsto dalla legge, ma non ai fini dell'individuazione del "dies a quo" del termine perentorio di sei mesi per la proposizione del ricorso ex art. 4 della l. n. 89 del 2001, il quale, pure in pendenza di un procedimento di correzione dell'errore materiale, decorre dal momento della definizione del giudizio presupposto (Cass. n. 38473/2021).

Quanto all'incidenza dell'attivazione del procedimento di mediazione rispetto alla decorrenza del termine per la proposizione dell'azione di equa riparazione, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, premesso che a differenza del diritto alla ragionevole durata del processo che, quale diritto fondamentale della persona, non è disponibile, né suscettibile di conciliazione, il diritto all'equa riparazione per durata irragionevole, quale diritto patrimoniale, è soggetto alla disciplina della mediazione finalizzata alla conciliazione, in aderenza alla ratio di deflazione del contenzioso giudiziario, hanno affermato che, di conseguenza, la domanda di mediazione comunicata entro il termine semestrale ex art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89 impedisce, «per una sola volta», ai sensi dell'art. 5, comma 6, del d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, la decadenza dal diritto di agire per l'equa riparazione, potendo quest'ultimo essere ancora esercitato, ove il tentativo di conciliazione fallisca, entro il medesimo termine di sei mesi, decorrente dal deposito del verbale negativo presso la segreteria dell'organismo di mediazione (Cass.S.U., n. 17781/2013). Nella medesima pronuncia, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno inoltre precisato che anche se la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 5 primo comma del d.lgs. n. 28 del 2010, di cui alla sentenza del 6 dicembre 2012 n. 272 della Corte Costituzionale ha escluso la obbligatorietà della mediazione in ogni controversia civile e commerciale vertente su diritti disponibili e se la mediazione non costituisce più condizione di proponibilità della domanda, resta fermo l'effetto della istanza di mediazione d'interruzione della prescrizione e di impedimento per una sola volta della decadenza dal diritto di agire per equa riparazione, essendo rimasta ferma l'applicazione del sesto comma dell'art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, che non è stato dichiarato in contrasto con la carta costituzionale ed è coerente agli intenti deflattivi del contenzioso giudiziario della disciplina legale della mediazione stessa (Cass. S.U., n. 17781/2013).

Sotto altro profilo, in tema di irragionevole durata del processo amministrativo, la sentenza adottata dal Consiglio di Stato diviene definitiva, agli effetti dell'art. 4 della l. n. 89 del 2001 (nel testo introdotto dal d.l. n. 83 del 2012, convertito in l. n. 134 del 2102), dal momento in cui scadono i termini per la sua impugnazione per motivi attinenti alla giurisdizione, giacché tra questi rientra anche il cd. eccesso di potere giurisdizionale, vizio che può emergere solo con la pubblicazione della decisione medesima (Cass. n. 25714/2015).

Con riguardo alla domanda di equa riparazione per la eccessiva durata di un procedimento penale, il termine semestrale decorre dalla data della lettura pubblica del dispositivo della pronuncia della Cassazione e non già da quella del deposito della relativa motivazione, divenendo la decisione di merito irrevocabile da quella data, come stabilisce l'art. 648-bis c.p.p. (Cass. n. 28374/2020).

La finalità della disposizione in esame, ossia quella di ricondurre la decorrenza del termine semestrale per la proposizione dell'azione di equa riparazione all'emanazione di una pronuncia che concluda ad ogni effetto il procedimento della cui irragionevole durata si tratta consente di risolvere anche le ulteriori questioni interpretative problematiche concernenti l'operatività della disposizione in procedimenti diversi da quello ordinario di cognizione.

Pertanto, ad esempio, nel procedimento esecutivo per espropriazione forzata il termine decorrerà dal momento in cui il provvedimento di distribuzione del ricavato diviene stabile a seguito della decorrenza del termine per la proposizione dell'opposizione agli atti esecutivi avverso lo stesso (Martino, 554).

Problematica distinta è quella concernente la decorrenza del termine semestrale in questione quando il ricorrente lamenti allo stesso tempo l'irragionevole durata del processo di cognizione e del successivo processo esecutivo finalizzati ad ottenere l'accertamento e, quindi, la concreta soddisfazione del medesimo diritto soggettivo. In altre e più chiare parole, la questione attiene alla decorrenza del termine semestrale per l'introduzione dell'azione di equa riparazione dalla definizione del processo esecutivo ovvero, per la durata del processo di cognizione, dal passaggio in giudicato della sentenza – utilizzata, poi, come titolo per dare corso all'esecuzione forzata – di accertamento del diritto in questione.

Sulla questione si era formato un contrasto nella giurisprudenza di legittimità.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono quindi intervenute affermando, sia rispetto all'esecuzione civile che all'ottemperanza amministrativa, il principio in forza del quale il processo civile di cognizione e quello successivo di esecuzione, come il processo cognitivo del giudice amministrativo e quello successivo di ottemperanza teso a far conformare la pubblica amministrazione al giudicato, sono tra loro autonomi in ragione della diversità delle situazioni soggettive azionate in ciascuno di essi e le loro durate, pertanto, non possono sommarsi ai fini della valutazione di violazione del termine ragionevole e della equa riparazione, di cui alla l. n. 89 del 2001, con la conseguenza che il termine semestrale per l'esercizio della relativa azione decorre, per ciascuno di essi, dalla sua definizione (Cass.S.U., n. 27365/2009 in relazione all'ottemperanza amministrativa e Cass. S.U., n. 27348/2009, con riguardo all'esecuzione civile). Deve quindi essere escluso che il termine previsto dall'art. 4 legge c.d. Pinto resti inoperante dopo la definitività della decisione che conclude il giudizio di cognizione della cui irragionevole durata si tratta ed inizi a decorrere soltanto con il primo atto satisfattivo adottato dal giudice dell'esecuzione (Cass. n. 25529/2006; Cass. n. 1732/2009).

Peraltro, con una più recente decisione, relativamente ai rapporti tra processo di cognizione e processo di esecuzione, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno modificato il proprio orientamento affermando il diverso principio in forza del quale «in tema di equa riparazione, allorquando, nel processo civile o amministrativo, sia fatta valere dinanzi al giudice una situazione giuridica soggettiva sostanziale di vantaggio e questa sia stata riconosciuta al suo titolare con decisione definitiva ed obbligatoria (c.d. fase processuale della cognizione) e, tuttavia, tale decisione non sia stata spontaneamente ottemperata dall'obbligato e il titolare abbia scelto di promuovere l'esecuzione del titolo così ottenuto (c.d. fase processuale dell'esecuzione forzata o dell'ottemperanza), la garanzia costituzionale d'effettività della tutela giurisdizionale e l'art. 6, par. primo, Cedu impongono di considerare tale articolato e complesso procedimento come un unico processo scandito da fasi consequenziali e complementari».

Ai fini della decorrenza del termine di decadenza per la proposizione del ricorso ex art. 4 della l. n. 89 del 2001, nel testo modificato dall'art. 55 del d.l. n. 83 del 2012, conv. dalla l. n. 134 del 2012, risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 88 del 2018, la fase di cognizione del processo che ha accertato il diritto all'indennizzo a carico dello Stato-debitore va considerata unitariamente rispetto alla fase esecutiva eventualmente intrapresa nei confronti dello Stato, senza la necessità che essa venga iniziata entro sei mesi dalla definitività del giudizio di cognizione, decorrendo detto termine dalla definitività della fase esecutiva. Nel computo della durata del processo di cognizione ed esecutivo non va considerato come "tempo del processo" quello intercorso fra la definitività della fase di cognizione e l'inizio della fase esecutiva, quest'ultimo, invece, potendo eventualmente rilevare ai fini del ritardo nell'esecuzione come autonomo pregiudizio, allo stato indennizzabile in via diretta ed esclusiva, in assenza di rimedio interno, dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (Cass., Sez. Un., 19883/2019).

Orientamento analogo a quello tradizionale, oggi peraltro rivisitato con la richiamata decisione delle Sezioni Unite, era stato espresso dalla S.C. con riguardo ai rapporti tra giudizio ordinario di cognizione e procedura fallimentare. A riguardo, la Corte ha evidenziato che in tema di equa riparazione ai sensi della l. n. 89 del 2001, il processo di cognizione, volto alla condanna del debitore al pagamento del credito, e quello fallimentare, nel quale il creditore sia intervenuto per ottenere il pagamento del credito portato dal conseguito titolo giudiziale divenuto definitivo, sono diversi ed autonomi per cui è in relazione a ciascuno di essi che va computato l'eventuale periodo di irragionevole protrazione del processo, senza possibilità di sommatoria dei tempi occorrenti per la definizione dell'uno e dell'altro procedimento. Ne deriva, rispetto alla questione in esame, che, all'interno di ciascuno di essi, deve essere individuato l'atto conclusivo e, quindi, il momento di assunzione della definitività, cui l'art. 4 della legge citata ricollega il dies a quo di decorrenza del termine semestrale per la proposizione della domanda di equa riparazione da parte del creditore con la conseguenza che deve escludersi che il suddetto termine, pur dopo la definitività per giudicato della decisione che conclude il giudizio di cognizione, resti inoperante in ragione della pendenza della procedura fallimentare (Cass. n. 19882/2010).

È evidente, peraltro, che il mutato orientamento delle Sezioni Unite con riferimento ai rapporti tra processo di cognizione e procedimento esecutivo dovrebbe portare alla rivisitazione, per eadem ratio, dei predetti assunti affermati con riguardo al procedimento volto all'accertamento del credito nei confronti dell'imprenditore fallito ed al giudizio in sede concorsuale finalizzato ad ottenere concreta soddisfazione della medesima pretesa creditoria.

Sotto un correlato profilo, è stato recentemente puntualizzato che l'esperimento del giudizio di ottemperanza non presuppone il preventivo infruttuoso esperimento della procedura esecutiva da parte del creditore insoddisfatto, potendo i due rimedi essere azionati anche in via concorrente, con la conseguenza che, in tale ultimo caso, il termine di decadenza di cui all'art. 4 della l. n. 89 del 2001 decorre dal momento in cui uno dei due procedimenti sia stato definito con l'effettiva estinzione dell'obbligazione azionata (Cass. n. 21706/2024).

Con riferimento alle procedure concorsuali, la S.C. ha recentemente sottolineato che, poiché il termine semestrale di decadenza per la proposizione della domanda di riparazione previsto dall'art. 4 della l. n. 89 del 2001 decorre dalla data in cui è divenuta definitiva la decisione del processo presupposto, nel processo fallimentare, il predetto termine di decadenza decorre, per i creditori che siano stati integralmente soddisfatti, dalla definitività del riparto, quanto alla riforma del d.lgs. n. 5 del 2006 - che ha introdotto all'art. 114, comma 1, l.fall. l'irripetibilità dei pagamenti effettuati in esecuzione dei piani di riparto - perdendo essi da tale momento la qualità di parti, e dal provvedimento di chiusura del fallimento, quanto alla previgente disciplina, derivando da esso, in ragione della sua irrevocabilità, la definitiva stabilizzazione della relativa posizione (Cass. II, n. 9590/2022).

Con riferimento all'estinzione del giudizio, si è osservato che, qualora il procedimento si sia estinto senza una formale pronuncia declaratoria dell'evento estintivo, il termine semestrale decorrerà dal verificarsi dello stesso. Invero, nel caso in cui la causa sia stata cancellata dal ruolo per mancata comparizione delle parti, il termine di sei mesi per proporre la domanda di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo decorre dal giorno della cancellazione della causa dal ruolo, anche se la definizione della lite dipenda da una transazione stragiudiziale, non potendosi fare riferimento, ai fini della predetta decorrenza, al momento di conclusione dell'accordo, i cui effetti vengono in evidenza solo quando siano fatti rifluire nel processo e facciano così cessare il dovere del giudice di provvedere sulla domanda, mentre il tempo lasciato trascorrere per abbandonare il processo, o chiederne la chiusura, rileva ai soli fini dell'imputazione, alle parti e non allo Stato, della responsabilità per l'ulteriore durata del processo (Cass. n. 6185/2010).

Diversamente, in presenza di un provvedimento dichiarativo dell'estinzione stessa, il termine inizierà a decorrere dal momento dell'inoppugnabilità di tale provvedimento (Martino, 554).

Sul punto, è pertanto utile ricordare che, in accordo con l'insegnamento ormai consolidato della S.C., l'ordinanza emanata dal tribunale in composizione monocratica, che dichiara l'estinzione del processo, è assimilabile alla sentenza del tribunale che, in composizione collegiale e ai sensi dell'art. 308 c.p.c., comma secondo, respinge il reclamo contro l'ordinanza di estinzione del giudice istruttore, di talché tale provvedimento ha natura sostanziale di sentenza e deve essere impugnato con l'appello, mentre la pronuncia conserva invece la natura di ordinanza reclamabile avanti al collegio se emessa dal giudice istruttore nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione collegiale (Cass. n. 20681/2011).

Tale tesi appare confermata dalla giurisprudenza di legittimità che, pure, rispetto al provvedimento di estinzione del processo per rinuncia agli atti del giudizio ha precisato che in tema di equa riparazione, ai sensi della legge 24 marzo 2001 n. 89, per violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, il dies a quo del termine semestrale di decadenza per la proposizione della relativa domanda, nel caso di ordinanza dichiarativa dell'estinzione del processo, pronunciata ai sensi dell'art. 306 c.p.c., per rinuncia agli atti del giudizio, va individuato nella pronuncia dell'ordinanza medesima, atteso che questa recepisce e rende processualmente rilevante l'intervenuta carenza d'interesse delle parti del giudizio presupposto alla definizione di esso con provvedimento di merito ed, inoltre, l'astratta possibilità che avverso l'ordinanza predetta, avente natura di sentenza ove pronunciata dal giudice monocratico, sia proponibile l'appello, non appare idonea a differire il momento iniziale di decorrenza del termine di decadenza, atteso che in relazione ad un provvedimento di estinzione, conforme alle istanze delle parti del giudizio presupposto, non è configurabile un interesse all'impugnazione (Cass. n. 14971/2012).

Nell'ipotesi, invece, di estinzione del giudizio di equa riparazione la relativa azione potrà essere riproposta secondo quanto previsto in generale dal primo comma dell'art. 310 c.p.c., ma soltanto se il termine semestrale di cui all'art. 4 legge c.d. Pinto non sia ancora decorso (Martino 553; Ronco 335).

Con riferimento, invece, al processo presupposto estintosi a seguito di interruzione per mancata riassunzione entro il termine previsto dall'art. 303 c.p.c. è stato chiarito che ai fini della decorrenza del termine semestrale di decadenza per la proponibilità della domanda, di cui all'art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89, costituisce idoneo «dies a quo» non la data della dichiarazione di interruzione del processo, ma quella in cui diviene definitiva la pronuncia di improseguibilità del giudizio per mancanza di un valido atto di riassunzione (Cass. n. 28486/2013). In sostanza, la mera dichiarazione di interruzione non è idonea a determinare la decorrenza del termine semestrale di proposizione della domanda di equa riparazione, verificandosi tale effetto a seguito soltanto della scadenza del termine stabilito dall'art. 303 c.p.c. per la riassunzione, dopo il quale il giudizio non può più considerarsi in stato di pendenza (Cass. n. 26191/2013).

Analogamente, è stato precisato che, in tema di irragionevole durata del processo amministrativo, il decreto di estinzione emessoexart. 85, comma 1, c.p.a., per rinuncia agli atti proveniente da entrambe le parti, riveste il carattere di definitività cui è subordinata, ai sensi dell'art. 4 della l. n. 89 del 2001 (nella sua nuova formulazione), la proponibilità della domanda di equa riparazione, e ciò indipendentemente dal decorso del termine per l'opposizione prevista dal comma 3 del medesimo art. 85, in quanto il reclamo resta in tal caso escluso dal difetto di interesse delle parti a proporlo «contra factum proprium» (Cass. n. 7011/2016).

L'estinzione della procedura esecutiva si realizza, agli effetti dell'osservanza del termine di decadenza ex art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89, solo quando l'ordinanza di estinzione della procedura stessa sia stata corredata dall'ordine di cancellazione della trascrizione del pignoramento, necessario ai sensi dell'art. 632 c.p.c. (Cass. n. 17210/2014).

In accordo con i principi generali vigenti in materia — e che quindi appaiono oggi operanti ai sensi dell'art. 59 legge 18 giugno 2009 n. 69 ed ancora prima in ragione della giurisprudenza di legittimità e costituzionale sulla questione anche all'ipotesi di proposizione della domanda dinanzi a giudice sfornito di giurisdizione – in tema di equa riparazione, a norma dell'art. 4 l. 24 marzo 2001 n. 89, la tempestiva proposizione della domanda giudiziale, ancorché davanti a giudice incompetente, rappresenta un evento idoneo ad impedire la prevista decadenza, purché la riassunzione della causa innanzi al giudice dichiarato competente avvenga in presenza dei presupposti e delle condizioni che permettono di ritenere che il processo sia continuato, ai sensi dell'art. 50 c.p.c., davanti al nuovo giudice, mantenendo una struttura unitaria e, perciò, conservando tutti gli effetti sostanziali e processuali del giudizio svoltosi dinanzi al giudice incompetente (v., tra le altre, Cass. n. 22729/2014; Cass. n. 22498/2006).

La Corte di Cassazione ha chiarito che poiché tra i termini per i quali l'art. 1 l. 7 ottobre 1969 n. 742 prevede la sospensione nel periodo feriale vanno compresi non solo i termini inerenti alle fasi successive all'introduzione del processo, ma anche il termine entro il quale il processo stesso deve essere instaurato, allorché l'azione in giudizio rappresenti, per il titolare del diritto, l'unico rimedio per fare valere il diritto stesso, detta sospensione si applica — pertanto — anche al termine di sei mesi previsto dall'art. 4 legge 24 marzo 2001 n. 89 per la proposizione della domanda di equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo (Cass. n. 22242/2010).

Sul punto, la dottrina appare invece divisa. Secondo alcuni, infatti, il termine semestrale decorrente dal momento in cui è divenuta definitiva la decisione pronunciata nel procedimento presupposto non sarebbe assoggettato alla sospensione durante il periodo feriale non essendo un termine endoprocessuale ed avendo una durata tale da non giustificare l'estensione ad esso dell'orientamento favorevole espresso dalla Corte Costituzionale per termini di estensione inferiore al periodo feriale anche se afferenti all'esercizio dell'azione giudiziaria (Ronco, 335 ss.). Per altri, la cui concezione appare peraltro più vicina con quella operata dalla giurisprudenza di legittimità, tale tesi non sarebbe condivisibile dovendo attribuirsi al termine in questione natura processuale essendo il decorso dello stesso idoneo a provocare l'estinzione del potere di adire il giudice e quindi destinato comunque a produrre i propri effetti sul processo (Martino, 553).

Appare inoltre condivisibile, sotto un distinto profilo, il rilievo per il quale è applicabile al termine in esame l'art. 153, comma 2, c.p.c. sulla rimessione nell'esercizio dei termini processuali la cui decadenza non sia imputabile alla parte, in ragione del carattere generale di tale disposizione rispetto all'abrogato art. 184-bis c.p.c. concernente invece le sole decadenze «interne» al procedimento ordinario di cognizione (Martino 553).

In ogni caso l'errore sulla decorrenza del termine ex art. 4 della l. n. 89 del 2001 non integra errore di fatto ex art. 395, n. 4, c.p.c., trattandosi di errore di giudizio conseguente a una errata valutazione o interpretazione di fatti, documenti e risultanze processuali (Cass. n. 11057/2024).

In ogni caso l'errore sulla decorrenza del termine ex art. 4 della l. n. 89 del 2001 non integra errore di fatto ex art. 395, n. 4, c.p.c., trattandosi di errore di giudizio conseguente a una errata valutazione o interpretazione di fatti, documenti e risultanze processuali (Cass. n. 11057/2024).

Secondo il sistema vigente anche in sede europea rispetto al termine di cui all'art. 35 Cedu, è stato più volte ribadito che in tema di equa riparazione ai sensi della l. 24 marzo 2001 n. 89, l'onere della prova in ordine alla tardività della domanda di riparazione grava sulla parte che sollevi la relativa eccezione (Cass. n. 13572/2011).

Con riferimento al processo penale, si è ritenuto, sempre in sede di legittimità, che, in tema di irragionevole durata del processo penale, il «dies a quo» per la proponibilità della domanda di equa riparazione va individuato nella data di irrevocabilità della sentenza conclusiva del processo presupposto e tale momento coincide con lo spirare dei termini per impugnare detta decisione, ex art. 585 c.p.p., ed impone, in virtù del principio di unicità della decorrenza del termine semestrale ex art. 4 della l. n. 89 del 2001 per tutte le parti del giudizio, che scada, altresì, il termine per l'impugnazione ad opera del procuratore generale presso la corte d'appello, a propria volta decorrente dal giorno in cui è stato comunicato allo stesso l'avviso di deposito con l'estratto della sentenza (Cass. n. 22818/2016).

Natura del termine

Il termine semestrale per la proposizione dell'azione di equa riparazione dei danni derivanti dall'irragionevole durata di un processo è un termine di decadenza.

La possibilità, specie nell'assetto previgente alla riforma realizzata dalla legge n. 134/2012 in punto di improponibilità della domanda lite pendente, che, prima del maturare della decadenza in questione, iniziasse a decorrere il termine di prescrizione è stata oggetto di ampio dibattito (Pirollo, 91).

In particolare, infatti, numerose pronunce di merito hanno sostenuto la tesi favorevole all'assoggettabilità a prescrizione del diritto all'equa riparazione del danno da irragionevole durata del processo, non essendovi alcuna norma speciale derogatrice al principio generale della prescrizione del diritto per decorso del tempo (v., tra le altre, App. Napoli 4 agosto 2008, in Rass. Avv. St., 2008, n. 4, 175 ss.; App. Reggio Calabria 6 novembre 2008, in Foro it., 2009, I, 1472, con nota di Longo).

In tale prospettiva è stato osservato che il diritto ad un'equa riparazione in caso di mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo – che poteva essere fatto valere in sede europea sin dai danni maturati a partire dal 1° agosto 1973, data di inizio del sistema sovranazionale di protezione dei diritti umani instaurato nell'ambito della Corte europea dei diritti dell'uomo (nel senso che, invece, il termine di prescrizione decorre dalla data di entrata in vigore della legge c.d. Pinto istitutiva del rimedio interno per lamentare l'irragionevole durata dei processi v. App. Napoli 17 luglio 2008, in Rass. avv. Stato, 2008, n. 4, 175 ss.) — si estingue per prescrizione qualora trascorrano più di dieci anni senza che il cittadino avanzi alcuna pretesa al riguardo, con decorrenza dal momento in cui è stato superato il termine ragionevole di durata prospettabile anche se il processo sia ancora pendente, trattandosi di diritto che matura giorno per giorno mentre si protrae il processo irragionevolmente lungo e sino a quando lo stesso non venga definito sicché la prescrizione inizia a decorrere, come per l'illecito permanente, per ciascuna frazione del risarcimento dal giorno in cui il relativo nocumento si è verificato (App. Napoli 4 agosto 2008, cit.; App. Reggio Calabria 11 maggio 2009).

La giurisprudenza dominante della S.C. opinava invece in senso diverso ritenendo, invero, che in tema di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo, l'art. 4 l. 24 marzo 2001 n. 89, nella parte in cui prevede la facoltà di agire per l'indennizzo in pendenza del processo presupposto, non consente di far decorrere il relativo termine di prescrizione prima della scadenza del termine decadenziale previsto dal medesimo art. 4 per la proposizione della domanda, in tal senso deponendo, oltre all'incompatibilità tra la prescrizione e la decadenza, se riferite al medesimo atto da compiere la difficoltà pratica di accertare la data di maturazione del diritto, avuto riguardo alla variabilità della ragionevole durata del processo in rapporto ai criteri previsti per la sua determinazione, nonché il frazionamento della pretesa indennitaria e la proliferazione di iniziative processuali che l'operatività della prescrizione in corso di causa imporrebbe alla parte, in caso di ritardo ultradecennale nella definizione del processo (Cass. n. 478/2011; Cass. n. 3325/2010; Cass. n. 27719/2009).

Peraltro, un'altra pronuncia della medesima S.C. aveva ritenuto, avallando così i richiamati orientamenti affermati in sede di merito, che il diritto ad un'equa riparazione in caso di mancato rispetto del termine ragionevole del processo ai sensi della legge 24 marzo 2001 n. 89, ha carattere indennitario e non risarcitorio, non richiedendo l'accertamento di un illecito secondo la nozione contemplata dall'art. 2043 c.c., e non presupponendo la verifica dell'elemento soggettivo della colpa a carico di un agente ed essendo di conseguenza soggetto all'ordinaria prescrizione decennale, e non a quella breve dettata dall'art. 2947 c.c. per il diritto al risarcimento del danno da fatto illecito (Cass. n. 4524/2010, in Resp. civ. e prev., 2010, n. 6, 1296, con nota adesiva di Chindemi).

A questo punto, mediante ordinanza interlocutoria della prima sezione civile la questione è stata rimessa al Primo Presidente per l'assegnazione alle Sezioni Unite della Corte, essendo necessario risolvere il contrasto di giurisprudenza sussistente al riguardo (Cass. n. 21380/2011).

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione – pur premettendo di affermare tale principio senza necessità di risolvere la più complessa questione a monte in ordine ad una generale incompatibilità tra prescrizione e decadenza (AzzaritiScarpello, 357) — hanno ritenuto che in tema di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo, la previsione della sola decadenza dall'azione giudiziale per ottenere l'equo indennizzo a ristoro dei danni subiti a causa dell'irragionevole durata del processo, contenuta nell'art. 4 legge 24 marzo 2001 n. 89, con riferimento al mancato esercizio di essa nel termine di sei mesi dal passaggio in giudicato della decisione che ha definito il procedimento presupposto, esclude la decorrenza dell'ordinario termine di prescrizione. A riguardo, è stato in primo luogo sottolineato che depone in tal senso non solo la lettera dell'art. 4 richiamato, norma che ha evidente natura di legge speciale rispetto alle generali previsioni in tema di prescrizione dei diritti, ma anche una lettura dell'art. 2967 c.c. coerente con la rubrica dell'art. 2964 c.c., che postula la decorrenza del termine di prescrizione solo allorché il compimento dell'atto o il riconoscimento del diritto disponibile abbia impedito il maturarsi della decadenza. In secondo luogo, nella prospettazione delle Sezioni Unite in tal senso depone, oltre all'incompatibilità tra la prescrizione e la decadenza, se riferite al medesimo atto da compiere, la difficoltà pratica di accertare la data di maturazione del diritto, avuto riguardo alla variabilità della ragionevole durata del processo in rapporto ai criteri previsti per la sua determinazione, nonché il frazionamento della pretesa indennitaria e la proliferazione di iniziative processuali che l'operatività della prescrizione in corso di causa imporrebbe alla parte, in caso di ritardo ultradecennale nella definizione del processo (Cass. S.U., n. 16783/2012).

La posizione assunta dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione sulla questione richiamata deve apprezzarsi non soltanto in quanto idonea, anche con riferimento alle domande di equo indennizzo proponibili nell'assetto previgente durante la pendenza del giudizio presupposto ad evitarne la proliferazione rispetto al credito concernente un medesimo processo non dovendo avere la parte il timore della prescrizione del proprio diritto nell'ipotesi di pendenza già ultradecennale del giudizio, quanto altresì per la coerenza della stessa con la natura della situazione giuridica soggettiva tutelata mediante la legge 24 marzo 2001, n. 89 (Consolo-Negri 1434).

Invero, non è superfluo ricordare che diverse sono le posizioni affermate su tale questione.

Una parte della dottrina riconduce l'equa riparazione del danno da irragionevole durata del processo al modello della responsabilità aquiliana evidenziando che l'obbligazione risarcitoria sorge in capo allo Stato per la violazione del diritto fondamentale alla ragionevole durata del processo (Partisani II, 480 ss.).

Altri Autori ritengono che l'equa riparazione per l'irragionevole durata del giudizio costituisce un indennizzo da attività illegittima ma lecita al di fuori del paradigma dell'illecito civile (Chindemi 690 ss.; Didone 2002, 39; De Santis Di Nicola 627 ss.).

Né manca in alcuni approfondimenti la distinzione tra il diritto primario alla ragionevole durata del processo e quello secondario all'indennizzo (Consolo). Invero, il diritto alla definizione del processo entro un termine ragionevole dovrebbe essere ricondotto alla categoria dei diritti della personalità di rango costituzionale alla cui lesione si accompagnerebbe il sorgere del diritto secondario alla riparazione dei conseguenti danni patrimoniali e non patrimoniali, diritto del tutto nuovo derivato da quello precedente e non identico ad esso (Genovese 66).

La tesi secondo cui l'equa riparazione ha natura indennitaria è quella che ha l'avallo della giurisprudenza di legittimità per la quale, difatti, il diritto ad un'equa riparazione in caso di mancato rispetto del termine ragionevole del processo ai sensi della legge 24 marzo 2001 n. 89, ha carattere indennitario e non risarcitorio, non richiedendo l'accertamento di un illecito secondo la nozione contemplata dall'art. 2043 c.c., e non presupponendo la verifica dell'elemento soggettivo della colpa a carico di un agente, essendo invece ancorato all'accertamento della violazione dell'art. 6, paragrafo 1, della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, cioè di un evento ex se lesivo del diritto della persona alla definizione del suo procedimento in una durata ragionevole, configurandosi l'obbligazione, avente ad oggetto l'equa riparazione, non già come obbligazione ex delicto, ma come obbligazione ex lege, riconducibile, in base all'art. 1173 c.c., ad ogni altro atto o fatto idoneo a costituire fonte di obbligazione in conformità all'ordinamento giuridico (Cass. n. 4524/2010).

L'orientamento dominante in giurisprudenza che ritiene di natura indennitaria la posizione giuridica soggettiva tutelata dalla legge c.d. Pinto appare condivisibile. Difatti, come ha evidenziato la dottrina più autorevole, il superamento del termine di ragionevole durata del processo evidenzia un inadempimento dello Stato nei confronti del cittadino che si vede riconosciuto dalla legge non il diritto al risarcimento integrale del danno ingiusto bensì «il potere di agire in giudizio al fine di ottenere la costituzione di un diritto all'indennizzo, a parziale ristoro dei disagi subiti ed in funzione sanzionatoria e deterrente nei confronti della Pubblica Amministrazione» (Consolo-Negri 1435).

In altre parole, la riparazione da irragionevole durata del processo è un rimedio indennitario non soltanto nel senso che la parte non ha diritto all'integrale risarcimento quanto, altresì, analogamente ad un interesse pretensivo, nel senso che il diritto a ricevere una somma di denaro non preesiste alla sentenza costitutiva di condanna che ne determina l'ammontare.

La natura indennitaria dell'obbligazione implica, come è stato più volte ribadito in giurisprudenza, che gli interessi legali sul relativo importo decorrono dalla data della domanda giudiziale di equa riparazione, sempreché, tuttavia, essi siano stati richiesti (Cass. n. 15732/2016).

Se per i fautori della tesi che ritiene l'equa riparazione riconducibile allo schema aquiliano deve ritenersi senz'altro incostituzionale l'art. 3, settimo comma, legge 24 marzo 2001, n. 89, laddove condiziona l'erogazione del risarcimento accordato in favore del privato al limite delle risorse disponibili, anche per coloro i quali accedono alla differente ricostruzione della situazione giuridica soggettiva tutelata in termini di indennizzo tale limite appare difficilmente compatibile con il disposto dell'art. 24 Cost., essendo il diritto all'esecuzione di un provvedimento giudiziario parte integrante dello stesso diritto di azione in giudizio (ConsoloNegri, 1436).

Sul punto, la S.C. ha rilevato, sin dai primi anni di applicazione della legge c.d. Pinto, che nel giudizio di cognizione diretto ad ottenere l'equa riparazione per eccessiva durata del processo, è inammissibile, per irrilevanza, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma settimo, legge 24 marzo 2001 n. 89, che limita l'erogazione dell'indennizzo agli aventi diritto entro i limiti delle risorse di bilancio annualmente disponibili, detta norma essendo destinata ad operare soltanto, eventualmente, in fase di esecuzione della pronuncia di condanna dell'amministrazione a corrispondere una determinata somma a titolo di equa riparazione (Cass. n. 11715/2003). Peraltro, la giurisprudenza amministrativa che si è pronunciata in sede di ottemperanza al giudicato nei confronti dell'Amministrazione ha osservato, premesso che l'esecuzione della condanna relativa all'indennizzo fa parte del termine complessivo del procedimento e dunque rileva ai fini del rispetto dell'art. 6 par. primo della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e che è ammissibile un periodo di tolleranza tra la data in cui il provvedimento del giudice diventa esecutivo e quella del pagamento, ma non può esservi normalmente un intervallo superiore a sei mesi, che in ogni caso, la mancanza di risorse finanziarie non può costituire un pretesto per non onorare un debito riconosciuto giudizialmente, sicché deve essere interpretato restrittivamente, ed in definitiva disapplicato, l'art. 3 comma 7, l. n. 89 del 2001 che pone il vincolo delle risorse disponibili, essendo l'Amministrazione, in realtà, obbligata a operare le necessarie variazioni di bilancio per reperire fondi sufficienti al pagamento degli indennizzi (T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III, 1° febbraio 2013, n. 313, in Foro amm. Tar, 2013, n. 2, 416).

La stessa dottrina più autorevole aveva invero evidenziato, in altra sede, che con riferimento agli interessi pretensivi la pretesa risarcitoria si configura in realtà come pretesa indennitaria, la cui funzione precipua non è la piena compensazione dei pregiudizi subiti dal privato bensì quella deterrente a fronte degli inadempimenti della Pubblica Amministrazione, di talché non si tratta di una situazione giuridica soggettiva riconducibile al diritto sostanziale quanto di un peculiare potere di agire in giudizio per far sorgere il diritto alla compensazione, potere che può essere condizionato nel suo esercizio all'operare di un termine di decadenza (cfr. Consolo, 660 ss.).

Sotto altro profilo, è stato precisato che, in tema di irragionevole durata del processo, l'intervenuta decadenza dalla possibilità di proporre l'azione indennitaria, per mancato rispetto del termine semestrale ex art. 4, della l. n. 89 del 2001, è rilevabile d'ufficio, anche in sede di legittimità, costituendo la definizione del processo presupposto entro detto termine una componente indefettibile del giudizio di equa riparazione, sia in negativo, quale causa preclusiva di una pronunzia sul merito della pretesa, sia in positivo, quale condizione di proponibilità della domanda, il cui rispetto va dimostrato dalla parte interessata a trarne beneficio (Cass. n. 21777/2016).

Bibliografia

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