Conflitto di interessiFonte: Cod. Civ. Articolo 1136
01 Dicembre 2017
Inquadramento
Il conflitto di interessi può avere luogo anche nella materia condominiale sotto vari aspetti. La situazione principale riguarda il condomino portatore di un proprio interesse individuale in conflitto con quello generale degli altri condomini in modo che il suo voto non viene espresso nell'interesse comune, ma esclusivamente dell'interesse proprio in contrasto con l'interesse di tutti. L'altra importante ipotesi tradizionale riguarda l'amministratore incaricato di rappresentare qualche condomino nell'assemblea in virtù della delega che ha ricevuto, ma non è più attuale dopo che il nuovo l'art. 67 disp. att. c.c. introdotto dalla legge di riforma n. 220/2012 ha vietato in modo assoluto all'amministratore di ricevere deleghe dai condomini. La regola tradizionalmente applicata, condivisa sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza prevalente, è quella per cui va esclusa la rilevanza del voto del condomino che si trova in conflitto di interessi nella votazione; e questa regola è stata tratta non solo dai principi generali in materia di rappresentanza, ma anche dall'applicazione analogica dell'art. 2373 c.c., dettato per la materia societaria. Sono numerose le disposizioni contenute nel codice civile sul conflitto di interessi: si ritrovano infatti nel diritto di famiglia (art. 320 c.c. in relazione alla potestà dei genitori; art. 347 c.c. in relazione ai minori soggetti alla stessa tutela; e art. 360 c.c. in relazione ai rapporti fra tutore e pupillo), nella disciplina sulla rappresentanza (art. 1394 c.c. che, a proposito della rappresentanza, prevede che il contratto concluso dal rappresentante in conflitto d'interessi col rappresentato può essere annullato su domanda del rappresentato, se il conflitto era conosciuto o riconoscibile dal terzo, mentre l'art. 1395 c.c. prevede che è annullabile pure il contratto che il rappresentante conclude con se stesso, in proprio o come rappresentante di un'altra parte, a meno che il rappresentato lo abbia autorizzato specificatamente ovvero il contenuto del contratto sia determinato in modo da escludere la possibilità di conflitto d'interessi. L'impugnazione può essere proposta soltanto dal rappresentato), oltre che nel campo societario (art. 2373 c.c. sull'impugnazione della delibera approvata col voto del socio che si trova in conflitto di interesse con quello della società; e art. 2391 c.c. in relazione all'amministratore che ha un interesse in conflitto con quello della società). Si tratta di disposizioni che, nella varietà e nelle differenze degli specifici casi, esprimono la stessa esigenza di evitare che un soggetto portatore di un interesse proprio e specifico possa partecipare ad una decisione diretta a raggiungere, in contrasto con l'interesse comune, una utilità esclusiva del rappresentato o di un particolare gruppo di cui egli stesso fa parte, in modo da scongiurare il pericolo che il soggetto in questione possa agire o decidere favorendo l'interesse proprio a discapito di quello del rappresentato o del gruppo di cui fa parte. L'art. 2373 c.c. prevede che può essere impugnata la delibera approvata con il voto del socio di una società, che ha, per conto proprio o di terzi, un interesse in conflitto con quello della società; che gli amministratori non possono votare nelle deliberazioni riguardanti la loro responsabilità; e che i componenti del consiglio di gestione non possono votare nelle deliberazioni riguardanti la nomina, la revoca o la responsabilità dei consiglieri di sorveglianza. L'art. 2391 c.c., invece, a proposito dell'amministratore di una società, stabilisce che l'amministratore deve dare notizia agli altri amministratori e al collegio sindacale di ogni interesse che, per conto proprio o di terzi, abbia in una determinata operazione della società, precisandone la natura, i termini, l'origine e la portata, e, se si tratta di amministratore delegato, deve altresì astenersi dal compiere l'operazione, investendo della stessa l'organo collegiale, se si tratta di amministratore unico, deve darne notizia anche alla prima assemblea utile; inoltre nel caso di deliberazioni del consiglio o del comitato esecutivo adottate con il voto determinante dell'amministratore interessato, le deliberazioni medesime, qualora possano recare danno alla società, possono essere impugnate dagli amministratori e dal collegio sindacale entro novanta giorni dalla loro data. Fra le varie disposizioni ricordate, nel settore del condominio presentano la maggiore rilevanza ovviamente gli artt. 1394 e 1395 c.c. (che disciplinano la rappresentanza in generale ed esprimono principi applicabili a tutti i casi) e, per l'applicazione analogica, gli artt. 2373 e 2391 c.c. (in tema di società), anche se il riferimento a queste ultime appare un po' superficiale in considerazione della natura totalmente diversa che contraddistingue l'istituto condominiale da quello societario e del fatto che l'unico elemento comune fra i due è dato dall'essere entrambi enti collettivi. Peraltro va ricordato che l'applicazione analogica delle disposizioni sulle società anche al condominio avviene anche sotto altri aspetti, come la distinzione delle delibere in nulle e annullabili.
Ma l'orientamento tradizionale è stato rimesso in discussione dalla Corte di Cassazione con la recente sentenza 28 settembre 2015, n. 19131, secondo cui in tema di condominio, le maggioranze necessarie per approvare le delibere sono inderogabilmente quelle previste dalla legge in rapporto a tutti i partecipanti ed al valore dell'intero edificio, sia ai fini del conteggio del quorum costitutivo sia di quello deliberativo, compresi i condomini in potenziale conflitto di interessi con il condominio, i quali possono, e non debbono, astenersi dall'esercizio del diritto di voto; e pertanto, anche nell'ipotesi di conflitto d'interessi, la deliberazione deve essere adottata con il voto favorevole di tanti condomini che rappresentino la maggioranza personale e reale fissata dalla legge, mentre, in caso di mancato raggiungimento della maggioranza necessaria per impossibilità di funzionamento del collegio, ciascun partecipante può ricorrere all'autorità giudiziaria. A sostegno della propria decisione la Suprema Corte ha richiamato un solo ed isolato precedente (Cass. civ., sez. II, 30 gennaio 2002, n. 1201). La vicenda da cui ha avuto origine la sentenza peraltro è assai peculiare, perché riguarda un condomino che costituiva la controparte del condominio nelle cause oggetto della delibera da approvare e un gruppo di altri condomini, i quali, dichiarando essi stessi di trovarsi in conflitto di interessi nei riguardi dell'oggetto della deliberazione, si erano spontaneamente astenuti dal voto; tuttavia, successivamente all'approvazione della delibera in questione sia il condomino controparte del condominio che gli astenuti l'avevano impugnata. Nel giudizio per cassazione gli impugnanti, soccombenti nel giudizio di appello, avevano sollevato anche il problema degli effetti della riforma dell'art. 2373 c.c. realizzata mediante il d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6 e la Suprema Corte ha considerato determinante, ai fini della sua decisione, la nuova formulazione dell'art. 2373 c.c. La Cassazione ha innanzitutto rilevato che l'ordinamento giuscivilistico non riconosce al condominio alcuna personalità giuridica, neppure limitata, ma, ciononostante, attribuisce ad esso potestà e poteri di carattere sostanziale e processuale, desumibili dalla disciplina della sua struttura e dai suoi organi, con la conseguenza che si deve ritenere applicabile, per quanto riguarda il computo della maggioranza assembleare, la norma dettata per le società in tema di conflitto di interessi e quindi l'esclusione dal diritto di voto di tutti quei condomini che, rispetto ad una deliberazione assembleare, si pongano come portatori di interessi propri, in potenziale conflitto con quello del condominio. Richiamando poi la motivazione della sentenza n. 1201/2002, la Corte - per escludere la sussistenza della stessa ratio legis, ai fini della estensione della disciplina prevista per le società all'assemblea di condominio - ha fatto riferimento al rapporto esistente tra gestione delle cose comuni e fruizione delle proprietà esclusive e alla diversità strutturale del funzionamento delle assemblee nelle società e di quelle condominiali; rilevando che, a differenza delle società di capitali, nel condominio non esiste un fine gestorio autonomo (perché la gestione delle cose, degli impianti e dei servizi comuni non è diretto a raggiungere uno scopo proprio del gruppo e diverso da quello dei singoli partecipanti, che invece è meramente strumentale alla loro utilizzazione e godimento individuali e, principalmente, al godimento individuale dei piani o delle porzioni di piano in proprietà esclusiva), affinché sorga il conflitto di interessi tra il condominio ed il singolo condomino è necessario che questi sia portatore, allo stesso tempo, di un duplice interesse, il primo come condomino e il secondo come estraneo al condominio (vale a dire estraneo al godimento delle parti comuni ed a quello delle unità abitative site nell'edificio) e che i due interessi non consentano di essere soddisfatti contemporaneamente, perché il soddisfacimento dell'uno comporta il sacrificio dell'altro. Inoltre la differenza fra il regime delle società e il regime del condominio si riflette pure sulla disciplina delle maggioranze assembleari, in quanto - in considerazione del fatto che nell'organizzazione dell'assemblea la gestione delle parti comuni è predisposta in funzione del godimento delle parti comuni stesse e soprattutto in funzione strumentale a vantaggio del godimento dei piani o delle porzioni di piano in proprietà esclusiva - la disciplina del metodo collegiale e del principio di maggioranza risponde a criteri specifici, con la conseguenza che le maggioranze occorrenti per la validità delle delibere in tema di gestione in nessun caso possono essere diminuite. Con riguardo invece al profilo della diversità strutturale del funzionamento delle assemblee, nell'assemblea condominiale il quorum deliberativo, come quello costitutivo, è determinato riferendosi sia all'elemento personale (le c.d. teste ovvero i condomini che fanno parte del condominio) sia all'elemento reale (dato dal rapporto fra il valore di ciascun piano o porzione di piano rispetto all'intero edificio, che viene espresso in millesimi); ma in nessuna norma si prevede che, ai fini della costituzione dell'assemblea o delle deliberazioni, non si debba tenere conto di qualcuno fra i partecipanti al condominio e dei relativi millesimi. Il principio maggioritario, adottato dal codice per le deliberazioni assembleari con la regola della «doppia maggioranza», costituisce un principio specifico dell'istituto condominiale, che vale a distinguerlo dalla disciplina della comunione e delle società. La Corte ha ricordato che la sentenza n. 1201/2002 individua la ragione della inderogabilità in meno delle maggioranze, e specialmente delle maggioranze qualificate, nel fatto di impedire che attraverso il principio maggioritario possano essere menomati i diritti dei singoli partecipanti sulle parti comuni e il godimento delle unità immobiliari in proprietà esclusiva; e per questo motivo i quorum sono fissati in misura inderogabile, come dispone l'art. 1138, comma 4, c.c. (secondo cui il regolamento contrattuale di condominio in nessun caso può derogare alle norme da esso richiamate, comprese quelle stabilite dall'art. 1136 c.c. relative alla costituzione dell'assemblea e alla validità delle delibere). Infine, secondo la Corte, non si può considerare irrilevante la circostanza che la riforma del diritto societario realizzata dal d.lgs. n. 6/2003 abbia rimodulato in maniera significativa l'art. 2373 c.c., il quale nella sua formulazione attuale prevede che «la deliberazione approvata con il voto determinante di coloro che abbiano, per conto proprio o di terzi, un interesse in conflitto con quello della società è impugnabile a norma dell'art. 2377 qualora possa recarle danno» (comma 1) e che «gli amministratori non possono votare nelle deliberazioni riguardanti la loro responsabilità. I componenti del consiglio di gestione non possono votare nelle deliberazioni riguardanti la nomina, la revoca o la responsabilità dei consiglieri di sorveglianza» (comma 2); infatti nell'attuale formulazione dell'art. 2373 c.c. è venuta meno la disposizione sulla quale si fondava la soluzione adottata in ambito societario per distinguere, riguardo al conflitto di interesse, il quorum costitutivo dell'assemblea da quello deliberativo della stessa; e che pure il legislatore della riforma del condominio (l. n. 220/2012) non ha aggiunto nulla riguardo al conflitto di interessi nell'ambito condominiale, rafforzando così l'interpretazione giurisprudenziale che, pur richiamando la disciplina societaria in tema di conflitto di interessi, faceva salve le specificità dell'istituto condominiale.
Osservazioni
L'ultima sentenza della Cassazione si contrappone all'orientamento (peraltro dominante) espresso finora in materia di conflitto di interessi dalla stessa Suprema Corte (e alla conseguente regola imperativa), ma il principale limite della decisione è dato dal suo stesso approccio, perché l'unico riferimento normativo considerato è costituito infatti dall'art. 2373 c.c. (nella sua versione attuale, risultante dalla riforma apportata dal d.Lgs. n. 6/2003), senza considerare che il mero richiamo ad esso e all'applicazione analogica fatta in passato di una norma dettata per la materia societaria anche alle delibere condominiali, trascura tutte le altre disposizioni vigenti - che sono pure suscettibili di applicazione analogica in presenza dei presupposti necessari - regolatrici del conflitto di interessi in altre materie pure regolate dal Codice civile e che costituiscono tutti l'espressione di uno stesso principio generale. Peraltro non è neppure vero che nella giurisprudenza più recente non vi siano decisioni favorevoli all'orientamento criticato dalla sentenza n. 19131/2015 e, in tal senso, va ricordata Cass. civ., sez. II, 12 marzo 2012, n. 3891. Infine, va rilevato che l'impostazione data dalla Corte alla problematica trascura completamente pure il fatto che il conflitto di interessi può riguardare anche soggetti diversi dal condomino e che, proprio per questo motivo, il legislatore della riforma ha vietato all'amministratore di ricevere deleghe Ditta, L'applicazione delle regole sul conflitto di interessi nella disciplina condominiale, in Riv. giur. edil., 2002, I, 1225; Celeste, Il conflitto di interessi nell'assemblea condominiale, in Riv. giur. edil., 1999, II, 129; Carbone, Condominio: il conflitto fra interessi comuni e interessi individuali, in Corr. giur., 1997, 1304: Triola, La partecipazione all'assemblea del condomino in conflitto di interessi con il condominio, in Giust. civ., 1995, I, 1166. |