Decreto legislativo - 31/12/1992 - n. 546 art. 50 - I mezzi d'impugnazione 1 2 .1. I mezzi per impugnare le sentenze delle corti di giustizia tributaria di primo e secondo grado sono l'appello, il ricorso per cassazione e la revocazione 3. [1] Per l'abrogazione del presente articolo, a decorrere dal 1° gennaio 2026, vedi l'articolo 130, comma 1, lettera d), del D.Lgs. 14 novembre 2024, n. 175. Vedi, anche, l'articolo 130, comma 3, del D.Lgs. 175/2024 medesimo. [2] Per le nuove disposizioni legislative in materia di giustizia tributaria, di cui al presente articolo, a decorrere dal 1° gennaio 2026, vedi l'articolo 104 del D.Lgs. 14 novembre 2024, n. 175. [3] Articolo modificato dall'articolo 12, comma 1, lettera d-bis), del D.L. 8 agosto 1996, n. 437. Inquadramento.Nonostante l'espresso richiamo alle disposizioni di cui al codice di procedura civile, operato dall'art. 1, comma secondo, del d.lgs. n. 546/1992, la procedura di cui al codice di rito civile non risulta pienamente sovrapponibile al processo tributario. Le restrizioni poste all'applicabilità delle disposizioni di cui al codice di procedura civile al processo tributario, tassativamente indicate dalla normativa fiscale, trovano la loro ragion d'essere nelle peculiarità che caratterizzano quest'ultima. Quanto appena detto, risulta particolarmente evidente in materia di impugnazioni. Più in particolare, la norma in commento, ossia l'art. 50, d.lgs. n. 546/1992, individua in modo puntuale i mezzi di impugnazione delle sentenze pronunciate dalle Commissioni tributarie. Invero, a norma dell'art. 50 del d.lgs. n. 546/1992, i mezzi per impugnare le sentenze delle Commissioni tributarie sono l'appello, il ricorso per cassazione e la revocazione: le differenze con il processo civile emergono subitanee e palesi, data l'espressa inapplicabilità al processo tributario di due mezzi di impugnazione previsti dal rito civile (ossia il regolamento di competenza e l'opposizione di terzo) (Di Paola, 530). La Corte di cassazione sottolinea il rapporto di specialità esistente fra le disposizioni del d.lgs. 31.12.1992, n. 546 e quelle del codice di rito, tale che la presenza di una norma processuale tributaria esclude l'operatività di quella processuale comune (Cass. n. 5504/2007; Cass. n. 10961/2009; Cass. n. 7059/2014), con riguardo alle modalità di notificazione degli atti di impugnazione, specificatamente regolate dagli artt. 16 e 17, d.lgs. n. 546/1992). L'identificazione del mezzo di impugnazione esperibile contro un provvedimento giurisdizionale va operata, a tutela dell'affidamento della parte e quindi in ossequio al principio dell'apparenza, con riferimento esclusivo a quanto previsto dalla legge per le decisioni emesse, secondo il rito in concreto adottato in relazione alla qualificazione dell'azione (giusta od errata che sia) effettuata dal giudice (Cass. n. 2948/2015). Legittimazione ed interesse ad impugnareIn quanto rimedio dato alle parti per rimuovere gli effetti pregiudizievoli che ad esse derivano dalla sentenza, il giudizio di impugnazione si svolge ad istanza di parte e concerne la sentenza medesima nei limiti in cui viene impugnata. Ciò significa, da un lato, che il procedimento di impugnazione non può mai svolgersi d'ufficio, per cui qualsiasi vizio della sentenza diventa irrilevante se le parti fanno acquiescenza ad essa; e, dall'altro, che la parte, come ha la facoltà di impugnare, o meno, la sentenza, così può impugnarla totalmente o solo parzialmente (Cantillo, 409). Strettamente conseguenziale al precedente è il principio per cui legittimati all'impugnazione sono, in via esclusiva, le parti che hanno partecipato al giudizio e che sono, quindi, destinatarie degli atti processuali, indipendentemente dalla effettiva titolarità del rapporto giuridico che è oggetto della controversia (Di Paola, 556 ss.). Quanto alla definizione di «parte», stante il silenzio normativo, la dottrina tende ad individuare le parti funzionalmente alla sussistenza di un titolo a stare in giudizio (Guzzanti, 327). Detto altrimenti, la qualifica di «parte» indica i soggetti che avevano titolo a partecipare al processo, non essendo la stessa attribuita automaticamente ai soggetti che vi hanno effettivamente partecipato (Montesano, Arieta, 1675). A tal riguardo, occorre sottolineare che il venir meno di una delle parti, per morte o per altra causa, non comporta necessariamente il venir meno della relativa legittimazione ad impugnare. Invero, a norma dell'art. 110 c.p.c., pacificamente applicabile al processo tributario, quando la parte viene meno per morte o per altra causa, il processo è proseguito dal successore o in suo confronto. Ai sensi dell'art. 111 c.p.c., ed in conformità al generale principio del diritto alla difesa, la legittimazione ad impugnare la sentenza spetta, altresì, al successore a titolo particolare, la sentenza producendo effetti non solo tra le parti originarie, ma anche nei confronti dello stesso successore a titolo particolare. Oltre alla qualità di parte, per proporre impugnazione si richiede altresì l'interesse ad impugnare, che deriva dalla soccombenza totale o parziale, essendo correlato ad una statuizione della sentenza da cui può derivare pregiudizio alla parte, la quale, quindi, ha interesse ad ottenere la riforma della pronuncia per conseguire, con la rimozione o modifica di tale statuizione, un risultato utile giuridicamente apprezzabile (Cantillo, 411). La soccombenza può essere formale, consistente nel non vedere accolte, in tutto o in parte, le domande proposte, o sostanziale, la quale, invece, è correlata agli effetti della decisione pronunciata e alla loro attitudine a pregiudicare una o più delle parti in causa, prescindendo dalla motivazione della sentenza stessa (Di Paola, 559). Peraltro, in ipotesi di soccombenza parziale, ossia nei casi in cui il giudice accolga solo in parte la domanda di una delle parti, la parte risultata parzialmente soccombente potrà proporre impugnazione limitatamente alle parti della sentenza in cui sia risultata soccombente. Si precisa, inoltre, che, al pari della legittimazione, l'interesse all'impugnazione è condizione essenziale per l'ammissibilità dell'impugnazione da parte di colui che è risultato soccombente in primo grado e deve essere valutato con riferimento all'utilità che può derivare sul piano giuridico all'impugnante dall'accoglimento delle proprie richieste. In tema di impugnazioni, l'interesse ad agire di cui all'art. 100 c.p.c. postula la soccombenza nel suo aspetto sostanziale, correlata al pregiudizio che la parte subisce a causa della decisione, e va apprezzato in relazione all'utilità giuridica che può derivare al proponente il gravame dall'eventuale suo accoglimento (Cass. n. 8934/2013; Cass. n. 20609/2013). Più in particolare, alla radice di ogni impugnazione deve essere individuato un interesse giuridicamente tutelato, identificabile nella possibilità di conseguire una concreta utilità, un risultato giuridicamente apprezzabile, attraverso la rimozione della statuizione censurata e non già in un mero interesse astratto a una più corretta soluzione di una questione giuridica, non avente riflessi pratici sulla soluzione adottata. In altre parole, l'interesse all'impugnazione sebbene di carattere strettamente processuale non può considerarsi avulso dalla necessità di provocare o di far mantenere una decisione attinente al riconoscimento o al disconoscimento di un bene a favore di un determinato soggetto. È inammissibile, pertanto, per difetto di interesse un'impugnazione con la quale si deduca una violazione di norme giuridiche, sostanziali o processuali, che non spieghi alcuna influenza in relazione alle domande ed eccezioni proposte e diretta, quindi, alla emanazione di una pronunzia priva di rilievo pratico (Cass. n. 20440/2004). La soccombenza, che determina l'interesse all'impugnazione, deve essere valutata, quindi, anche con riguardo alle enunciazioni contenute nella motivazione della sentenza, qualora esse siano suscettibili di passare in giudicato, in quanto presupposti necessari della decisione (Cass. n. 17193/2012). Detto altrimenti, il principio di cui all'art. 100 c.p.c. si applica anche al giudizio di impugnazione, con riferimento al quale l'interesse si desume, peraltro, dall'utilità giuridica connessa (per l'impugnante) all'eventuale accoglimento del gravame, alla luce della sua sostanziale soccombenza nel precedente giudizio, intesa come effetto pregiudizievole derivante dalle statuizioni (idonee a passare in giudicato) contenute nella sentenza impugnata, e non già come mera divergenza tra quelle statuizioni e le conclusioni rassegnate dallo stesso impugnante (Cass. n. 6546/2004; Cass. n. 2509/2009). Poiché, ai fini della legittimazione ad impugnare, è sufficiente, oltre alla soccombenza, la mera assunzione formale della veste di parte primaria nel precedente grado di giudizio, l'interveniente volontario in sede di appello assume in tale giudizio detta qualità ed è, quindi, legittimato a proporre ricorso per cassazione, vuoi che le sue istanze siano state respinte nel merito, vuoi che sia stata negata dalla sentenza di secondo grado l'ammissibilità del suo intervento ed egli impugni siffatta pronuncia censurando la legittimità della relativa declaratoria (Cass. n. 7541/2002). Infatti, la giurisprudenza di legittimità, con riferimento alla previsione di cui all'art. 268, primo comma, c.p.c. (nel testo anteriore alle modifiche apportate dall'art. 28 della legge 26 novembre 1990, n. 353), aveva affermato che il terzo, erroneamente pretermesso nel giudizio di primo grado, aveva la possibilità di intervenire volontariamente nel giudizio di appello finché la causa non era stata rimessa al collegio. Qualora la sentenza di merito impugnata si fondi su più ragioni autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente idonea a sorreggere la decisione, l'omessa impugnazione, con ricorso per cassazione, anche di una soltanto di tali ragioni determina l'inammissibilità, per difetto di interesse, anche del gravame proposto avverso le altre, in quanto l'eventuale accoglimento del ricorso non inciderebbe sulla ratio decidendi non censurata, con la conseguenza che la sentenza impugnata resterebbe pur sempre fondata su di essa (Cass. n. 5902/2002; Cass. n. 3942/2004; Cass. n. 20118/2006; Cass. n. 4293/2016). Pertanto, l'interesse, ed il conseguente onere, della parte soccombente ad impugnare è esteso e nel contempo limitato alle rationes decidendi poste a base della sentenza, ma non coinvolge le questioni sulle quali questa non si sia pronunciata, perché ritenute assorbite (Cass. n. 12700/2001). Secondo l'indirizzo espresso dalla giurisprudenza di legittimità, l'impugnazione incidentale tardiva è sempre ammissibile tutte le volte che quella principale metta in discussione l'assetto di interessi derivante dalla sentenza che l'impugnato, in mancanza dell'altrui gravame, avrebbe accettato e, conseguentemente, può essere proposta sia nei confronti del ricorrente principale, anche con riguardo ad un capo della sentenza diverso da quello investito dall'impugnazione principale, sia nelle forma dell'impugnazione adesiva rivolta contro parti processuali diverse dall'impugnante principale, tutte le volte che, nel caso concreto, il gravame di uno qualsiasi dei litisconsorti, se accolto, comporterebbe un pregiudizio per l'impugnante incidentale tardivo poiché darebbe luogo ad una sua soccombenza totale o, comunque, più grave di quella stabilita nella decisione gravata (Cass. n. 14590/2020). L'appellante incidentale tardivo non ha interesse ad impugnare con ricorso per cassazione la pronuncia di inammissibilità dell'appello, ancorché tale pronuncia abbia determinato per conseguenza anche l'inammissibilità dell'appello incidentale tardivo (Cass. n. 1610/2008). Le regole sull'impugnazione tardiva, sia ai sensi dell'art. 334 c.p.c., che in base al disposto di cui agli artt. 370 e 371 c.p.c., si applicano esclusivamente a quella incidentale in senso stretto e, cioè, proveniente dalla parte contro cui è stata proposta l'impugnazione, mentre per il ricorso di una parte che abbia contenuto adesivo a quello principale si deve osservare la disciplina dell'art. 325 c.p.c. cui è altrettanto soggetto qualsiasi ricorso successivo al primo, che abbia valenza d'impugnazione incidentale qualora investa un capo della sentenza non impugnato o lo investa per motivi diversi da quelli fatti valere con il ricorso principale (Cass. n. 17614/2020). Un'affermazione contenuta ad abundantiam nella motivazione della sentenza di appello, che non abbia spiegato alcuna influenza sul dispositivo della stessa, essendo improduttiva di effetti giuridici, non può essere oggetto di ricorso per cassazione, per difetto d'interesse (Cass. n. 2087/2002; Cass. n. 9634/2003; Cass. n. 5683/2005). Il convenuto in un giudizio nel quale il giudice, ravvisando anche d'ufficio un ostacolo all'esame della domanda, abbia dichiarato l'inammissibilità della stessa, senza esaminarla nel merito, non può in alcun modo considerarsi soccombente e difetta, pertanto, di interesse ad impugnare la relativa sentenza. Lo stesso principio di diritto va applicato nell'ipotesi in cui il giudice di merito abbia dichiarato la domanda improponibile o improcedibile (Cass. n. 12960/2001). La limitata esperibilità del regolamento di competenzaIl regolamento di competenza, disciplinato dagli artt. 42 e seguenti del codice di procedura civile, costituisce un mezzo di impugnazione che può, a seconda dei casi, essere proposto, ad istanza di parte, in via esclusiva o insieme all'appello o al ricorso per cassazione al mero fine di ottenere una decisione vincolante sulla competenza (Di Paola, 535). Con riferimento al processo tributario, non è ammissibile come mezzo di impugnazione il regolamento di competenza, essendo espressamente esclusa la proponibilità dello stesso dall'articolo 5, comma 4, del decreto legislativo in commento. (circ. Min. fin. 23 aprile 1996, n. 98/E). Quanto alle ragioni di tale divieto, la prassi amministrativa ha ritenuto che lo stesso derivi dalla necessità di limitare il più possibile l'utilizzo strumentale di tattiche dilatorie nella riscossione di tributi, contenendo in tal modo il rischio di un possibile danno per l'Erario. Ad ogni modo, queste ragioni non hanno convinto la dottrina la quale, interrogatasi a lungo sull'argomento, ha sostenuto che la non proponibilità di tale rimedio avrebbe potuto creare possibili difficoltà di coordinamento processuale (Consolo, 3378; Tesauro, 2011, 568). La giurisprudenza di legittimità, dopo una prima presa di posizione negativa (Cass. n. 1184/2001), in accoglimento di alcune delle obiezioni sostenute dalla dottrina, ha riconosciuto, al contrario, l'esperibilità del regolamento di competenza in alcune situazioni ben delimitate, essenzialmente legate alle ordinanze delle Commissioni tributarie che sospendono il giudizio ai sensi dell'art. 295 c.p.c., in quanto un'interpretazione diversa violerebbe i diritti, di rilievo costituzionale, che gli artt. 24 e 111 Cost. riconoscono alla difesa nel processo tributario (Cass. n. 18100/2013; Cass. n. 11140/2005; Cass. n. 8129/2007). Da ultimo, la giurisprudenza ha ribadito che, in tema di contenzioso tributario, il d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 5, comma 4, è inserito in un complesso normativo, integrante un microsistema, contenuto negli artt. 4 e 5 del d.lgs. n. 546 cit., che riguarda la disciplina della competenza, essenzialmente per territorio, delle commissioni tributarie, e si riferisce soltanto alle questioni che queste possono essere chiamate a rendere in ordine a tale competenza. Pertanto, in conformità all'esigenza di tutelare i diritti fondamentali garantiti dall'art. 24 Cost., comma 1, e art. 111 Cost., comma 2, e art. 6, comma 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, deve ritenersi che la norma sopra citata non esclude la proposizione del regolamento di competenza avverso i provvedimenti di sospensione del processo ex art. 295 c.p.c., impugnazione senz'altro ammissibile alla stregua del combinato disposto del d.lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2 e art. 42 c.p.c.» (Cass. n. 9916/2010; Cass. n. 18104/2013; Cass. n. 11140/2015). L'improponibilità dell'opposizione di terzo.L'opposizione di terzo, disciplinata dagli artt. 404 e seguenti del codice di procedura civile, è un mezzo di impugnazione straordinaria di una sentenza utilizzabile esclusivamente da soggetti terzi, non parti, quindi, del processo originario che ha portato all'emanazione della pronuncia che si vuole impugnare (Luiso, Diritto processuale civile. Il processo di cognizione, II, Milano, 2009, 497). Più in particolare, l'art. 404 c.p.c. consente a soggetti terzi di impugnare la sentenza passata in giudicato, o comunque esecutiva, resa fra altri soggetti nel caso in cui ritengano di averne ricevuto qualche pregiudizio (c.d. opposizione di terzo ordinaria); e legittima gli aventi causa o i creditori di una delle parti ad impugnare la sentenza pronunciata inter alios, se frutto di dolo o di collusione a loro danno (c.d. opposizione di terzo revocatoria). L'opposizione di terzo deve essere proposta al medesimo giudice che ha emesso la sentenza che si intende impugnare. Al pari del regolamento di competenza, a norma dell'art. 50, d.lgs. n. 546/1992, tale mezzo di impugnazione non è esperibile nel processo tributario. Tuttavia, anche nel caso in cui tale mezzo di impugnazione fosse esperibile nel rito tributario, la sua effettiva applicabilità sarebbe, probabilmente, estremamente limitata e, comunque, non tale da renderne assolutamente necessario l'inserimento in tale tipologia di processo (Di Paola, 536). Ad ogni modo, alcuni autori ritengono che l'opposizione di terzo ordinaria dovrebbe ritenersi ammessa anche nel processo tributario (Chizzini, 21), in forza dei principi espressi dalla sentenza con cui la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimi gli artt. 28 e 36, della l. 6 dicembre 1971, n. 1034, nella parte in cui non prevedono l'opposizione di terzo ordinaria fra i mezzi di impugnazione delle sentenze dei Tar e del Consiglio di Stato (Corte cost. n. 177/1995). Con riferimento, invece, all'opposizione di terzo revocatoria, si ritiene assai improbabile che la situazione da essa presupposta (ossia il fatto che la sentenza sia conseguenza del dolo o della collusione a danno dei creditori o degli aventi causa di una delle parti) possa verificarsi in materia tributaria: sarebbe infatti difficile ipotizzare una condotta dolosa di una parte intesa ad arrecare danno ai propri creditori (in sostanza, un comportamento processuale del contribuente artatamente inteso a far rigettare il ricorso), così come un accordo fraudolento fra il contribuente e l'ufficio a danno dei creditori o degli aventi causa (Turchi, 733). Nel processo tributario non è prevista l'opposizione di terzo tra i mezzi di gravame esperibili, stante quindi il principio di tassatività delle impugnazioni, si ritiene che questo mezzo di impugnazione non sia operante (C.t.r. Bari n. 31/2008). L'opposizione di terzo, peraltro, era ritenuta improponibile anche nel previgente sistema. Invero, l'art. 39, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, richiamava le sole disposizioni del libro primo del codice di procedura civile. In tal senso si era espressa la Suprema corte con la sentenza n. 4178 del 18 giugno 1988, con la quale i giudici di legittimità avevano escluso l'intervento in appello di soggetti asseritamente pregiudicati dalla sentenza di primo grado, in considerazione del fatto che tale rimedio è previsto dagli artt. 344 e 404 c.p.c., che si trovano nel libro secondo del codice di rito, mentre il richiamo contenuto nell'art. 39, del d.P.R. n. 636 del 1972 è limitato alle disposizioni contenute nel libro primo. La correzione delle sentenzeIl procedimento di correzione delle sentenze, previsto e disciplinato dall'art. 288 c.p.c., concerne le ipotesi in cui vi sia una fortuita divergenza fra il giudizio e la sua espressione letterale, cagionata da una svista o da una disattenzione nella redazione della sentenza percepibile senza bisogno di alcuna ricostruzione del pensiero del giudice (Marcheselli, Contenzioso tributario, Milanofiori Assago, 2015). Più in particolare, ai sensi dell'art. 287 c.p.c., tale procedimento è attivabile, su ricorso della parte, al fine di correggere la sentenza laddove vi siano stati errori materiali, di calcolo oppure omissioni da parte del giudice che l'ha pronunciata. Trattasi, quindi, di un errore meramente formale che non incide sul contenuto concettuale della decisione, bensì sulla redazione della sentenza, intesa come rappresentazione grafica della decisione già presa. Pertanto, è possibile affermare che il procedimento di correzione non costituisce un mezzo di impugnazione in quanto non è finalizzato a riformare od annullare la sentenza, ma soltanto ad emendarla da un'omissione o da un errore materiale o di calcolo chiaramente percepibile, e a ripristinare, quindi, la corrispondenza tra la volontà espressa dal giudice e la forma che tale volontà ha assunto (Tesauro, 2014, 234). L'applicabilità delle disposizioni di cui agli artt. 287 e 288 c.p.c., in tema di correzione delle sentenze del giudice, viene estesa anche nell'ambito del rito tributario (Turchi, 733). Prima dell'intervento della Corte costituzionale (Corte cost. n. 335/2004), si riteneva che il potere di correzione fosse assorbito da quello di riforma spettante al giudice del gravame, il cui esercizio avrebbe comunque determinato la sostituzione della sentenza errata. In tale contesto si inserisce la suindicata pronuncia della Consulta con la quale la stessa ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 287 c.p.c., per contrasto con gli artt. 3,24 e 111 Cost., limitatamente alle parole «contro le quali non sia stato proposto appello», in quanto la disciplina dettata dalla norma è viziata da manifesta irragionevolezza laddove sottrae al procedimento di correzione, davanti al giudice che le ha pronunciate, le sentenze contro le quali sia stato proposto appello. Tale irragionevolezza si risolve, altresì, in una ingiustificabile compressione del diritto di agire esecutivamente della parte vittoriosa (Corte cost., n. 335/2004). Ad oggi, quindi, si sostiene che la correzione può essere disposta anche in pendenza del gravame, dal giudice d'appello o da quello di primo grado cui sia rivolta l'istanza. La giurisprudenza tributaria ha ritenuto applicabile l'istituto in esame in diverse situazioni. Più in particolare, si è sostenuto che l'indicazione, nella narrativa e nell'intestazione della sentenza di appello, di anni di imposta non coincidenti o coincidenti solo in parte con quelli ai quali si riferisce l'impugnazione originaria, costituendo mero errore materiale, non è denunciabile con ricorso per cassazione, bensì emendabile da parte dello stesso giudice che ha emesso il provvedimento, con la procedura di correzione di cui agli artt. 287 e 288 c.p.c. (Cass. n. 12004/2006). L'istituto trova applicazione anche nel caso di omessa indicazione della data di deliberazione della sentenza. A tal riguardo, la Cassazione ha sostenuto che, a differenza dell'indicazione della data di pubblicazione, che segna il momento di acquisto della rilevanza giuridica della sentenza, l'omessa indicazione della data di deliberazione della sentenza, non costituendo elemento essenziale dell'atto processuale, non integra un'ipotesi di nullità deducibile con l'impugnazione, bensì un mero errore materiale emendabile con il procedimento di correzione (Cass. n. 10010/2006). Al contrario, l'omessa sottoscrizione della sentenza da parte del Presidente del collegio ne determina la nullità assoluta ed insanabile per mancanza di un requisito formale essenziale, equiparabile all'inesistenza del provvedimento, che pertanto, anche se l'omissione è involontaria, non è emendabile con la procedura di correzione degli errori materiali (Cass. n. 9113/2004). La sentenza è inesistente per omessa sottoscrizione solo quando questa sia del tutto mancante, con conseguente non riconducibilità dell'atto al giudice, e non anche quando la stessa sia solo insufficiente, come nel caso di sottoscrizione con firma illeggibile, ricorrendo, in detta ipotesi, una mera nullità (Cass. n. 7546/2017). Con riferimento all'attività di specificazione, o di interpretazione, di una sentenza della Suprema Corte è stato chiarito che essa non può essere oggetto né del procedimento di correzione di errore materiale, né di quello per revocazione, a norma dell'art. 391-bis c.p.c. (Cass. ord. n. 17418/2014; Cass. ord. n. 5595/2017). Particolare è l'ipotesi di divergenza tra la motivazione ed il dispositivo della sentenza. La portata precettiva di una sentenza va individuata tenendo conto non soltanto del dispositivo, ma anche della motivazione, cosicché, in assenza di un vero e proprio contrasto tra dispositivo e motivazione, e da ritenersi prevalente la statuizione contenuta in una di tali parti del provvedimento, che va, per l'effetto, interpretato in base all'unica statuizione che, in realtà, esso contiene (Cass. n. 5666/2000; Cass. n. 12518/2001; Cass. n. 14225/2003; Cass. ord. n. 15088/2015; Cass. n. 12841/2016), mentre, nell'ipotesi di insanabile contrasto tra motivazione e dispositivo, non è consentito individuare la statuizione del giudice attraverso una valutazione di prevalenza di una delle contrastanti affermazioni contenute nella sentenza, né è data la possibilità del ricorso all'interpretazione complessiva della decisione – che presuppone una sostanziale coerenza delle diverse parti delle proposizioni della medesima – e neppure di utilizzare il procedimento di correzione di cui agli artt. 287 e 288 c.p.c., poiché si configura, in tal caso, la nullità di tale provvedimento (invocabile ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 4) per la sua inidoneità a consentire l'individuazione del concreto comando giudiziale (Cass. n. 7671/1995; Cass. n. 1269/1998; Cass. n. 15990/2014; Cass. n. 26077/2015; Cass. ord. n. 16014/2015). Il contrasto tra motivazione e dispositivo, che dà luogo alla nullità della sentenza, si deve, quindi, ritenere configurabile solo se, ed in quanto, esso incida sulla idoneità del provvedimento, considerato complessivamente nella totalità delle sue componenti testuali, a rendere conoscibile il contenuto della statuizione giudiziale. Una tale ipotesi non è ravvisabile nel caso in cui il detto contrasto sia chiaramente riconducibile ad un semplice errore materiale, il quale trova rimedio nel procedimento di correzione, al di fuori del sistema delle impugnazioni, distinguendosi, quindi, sia dall'«error in indicando» deducibile ex art. 360 c.p.c., sia dall'errore di fatto revocatorio ex art. 395 c.p.c., n. 4, – ed è quello che si risolve in una fortuita divergenza tra il giudizio e la sua espressione letterale, cagionata da mera svista o disattenzione nella redazione della sentenza, e che, come tale, può essere percepito e rilevato «ictu oculi», senza bisogno di alcuna indagine ricostruttiva del pensiero del giudice, il cui contenuto resta individuabile ed individuato senza incertezza (Cass. n. 8946/2000; Cass. n. 2958/2001; Cass. n. 29490/2008). Il procedimento di correzione di errori materiali disciplinato dagli artt. 287 ss. c.p.c. è pertanto soltanto funzionale alla eliminazione di errori di redazione del documento cartaceo, ma non può in alcun modo incidere sul contenuto concettuale della decisione, con la conseguenza che l'ordinanza che lo conclude non è soggetta ad impugnazione, neppure con il ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost. (atteso il carattere non giurisdizionale, ma meramente amministrativo di tale provvedimento), mentre «resta impugnabile, con lo specifico mezzo di impugnazione per essa di volta in volta previsto (il cui termine decorre dalla notifica del provvedimento di correzione), la sentenza corretta, anche al fine di verificare se, mercé il surrettizio ricorso al procedimento «de quo», sia stato in realtà violato il giudicato ormai formatosi nel caso in cui la correzione sia stata utilizzata per incidere (inammissibilmente) su errori di giudizio» (Cass.S.U., n. 5165/2004; Cass. n. 5950/2007; Cass. ord., n. 16205/2013). Infatti, costituendo il relativo procedimento per la correzione di errore materiale di sentenza un rimedio esperibile per ovviare a vizi meramente formali, derivanti da una divergenza evidente e facilmente rettificabile fra l'intendimento del giudice e la sua esteriorizzazione, mediante un provvedimento di natura amministrativa del giudice medesimo, che lascia intatto il contenuto della decisione corretta, detto mezzo non è esperibile anche per emendare vizi attinenti al processo formativo della volontà, implicando ciò un riesame dei termini della decisione, consentito solo in sede d'impugnazione; ed a maggior ragione per modificare le statuizioni in essa contenute (Cass. n. 7712/2000; Cass. n. 7486/1998; Cass. n. 5977/1998). In applicazione dei suindicati principi, la Suprema corte ha affermato che non può essere corretta la sentenza che, in materia di Irpef, faccia riferimento nel dispositivo all'aliquota del 12,5% prevista per la tassazione delle somme corrispondenti ai versamenti di capitale al Fondo di previdenza aziendale dell'Enel, senza distinguere in motivazione tra capitale e rendimento. Secondo la Corte, trattasi, invero, di profilo che, investendo il giudizio concettuale della decisione, non è emendabile con la procedura di correzione degli errori materiali, con la conseguenza che, laddove sia già decorso il termine per impugnare, l'ordinanza di correzione eventualmente adottata è lesiva del giudicato e va cassata senza rinvio (Cass. n. 28523/2013). Similmente, non è emendabile con la procedura di correzione dell'errore materiale la sentenza che contenga una corretta statuizione sulle spese nella parte motiva, conforme al principio della soccombenza, ma non contenga, poi, liquidazione di esse o di parte di esse nel dispositivo, in quanto, ai fini della concreta determinazione e quantificazione delle spese, si rende necessaria la pronuncia del giudice (Cass. I, n. 21109/2014; cfr. in senso conforme Cass. n. 255/2006; Cass. n. 5266/2006). Può parlarsi di erroneità materiale laddove la sentenza che ha afferma che l'appello era infondato poi lo accolga parzialmente. Secondo la Suprema corte (Cass. n. 13318/2015), infatti, il vizio di contraddittorietà della motivazione ricorre solo in presenza di argomentazioni contrastanti, e tali da non permettere di comprendere la «ratio decidendi» che sorregge il decisum adottato. Non sussiste, invece, motivazione contraddittoria quando, dalla lettura della sentenza, non sussistano incertezze di sorta su quella che è stata la volontà del giudice, trattandosi di un'evidente errore materiale nella redazione della sentenza (Cass.S.U., n. 25984/2010). Il termine per l'impugnazione di una sentenza, di cui è stata chiesta la correzione, decorre dalla notificazione della relativa ordinanza, ai sensi dell'art. 288 c.p.c. ultimo comma, se con essa sono svelati errores in iudicando o in procedendo evidenziati solo dal procedimento correttivo oppure quando l'errore corretto sia tale da ingenerare un obbiettivo dubbio sull'effettivo contenuto della decisione, interferendo con la sostanza del giudicato, ovvero quando con la correzione sia stata impropriamente riformata la decisione, dando luogo a surrettizia violazione del giudicato; per contro l'adozione della misura correttiva non vale a riaprire o prolungare i termini di impugnazione della sentenza che sia stata oggetto di eliminazione di errori di redazione del documento cartaceo, chiaramente percepibili dal contesto della decisione, in quanto risolventisi in una mera discrepanza tra il giudizio e la sua espressione. (Nella specie la S.C., nel dichiarare d'ufficio inammissibile il ricorso per superamento del termine lungo per l'impugnazione, ha escluso che il prolungamento del termine decadenziale potesse aver luogo nel caso di erronea indicazione del nome di battesimo di una delle parti, trattandosi di errore inidoneo a far dubitare sull'effettiva identificazione della parte interessata) (Cass. n. 6969/2006). La procura rilasciata al difensore nel giudizio concluso con la sentenza da correggere è valida anche per la proposizione del ricorso per la correzione di errore materiale di una sentenza di cassazione ai sensi dell'art. 391-bis c.p.c., in quanto il procedimento di correzione non introduce una nuova fase processuale, ma costituisce un mero incidente dello stesso giudizio, diretto solo ad adeguare l'espressione grafica all'effettiva volontà del giudice, già espressa in sentenza (Cass. n. 730/2015). 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Tesauro, Torino, 1998; Consolo, Le impugnazioni in generale e l'appello nel nuovo processo tributario, in ilFisco, 1994; Consolo, Glendi, Commentario breve alle leggi del processo tributario, Padova, 2008; Di Paola, Trattato del nuovo contenzioso tributario, I, Santarcangelo di Romagna, 2016; Di Paola, Tambasco, Il processo tributario nel c.p.c., Santarcangelo di Romagna, 2014; Fransoni, Le parti, in Russo, Manuale di diritto tributario. Il processo tributario, Milano, 2013; Guzzanti, Le parti-art. 10 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in Boll. trib. n. 5/2010; Luiso, Diritto processuale civile. Il processo di cognizione, II, Milano, 2009; Mandrioli, Corso di diritto processuale civile, II, Torino, 2011; Montesano, Arieta, Trattato di diritto processuale civile, I, t. II, Padova, 2001; Picardi, Codice di procedura civile, Torino, 2000; Pistolesi, Le impugnazioni in generale, in Il processo tributario, in Giur. sist. dir. trib. 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