Decreto legislativo - 31/12/1992 - n. 546 art. 59 - Rimessione alla commissione provinciale 1 2 .1. La corte di giustizia tributaria di secondo grado rimette la causa alla commissione provinciale che ha emesso la sentenza impugnata nei seguenti casi: a) quando dichiara la competenza declinata o la giurisdizione negata dal primo giudice; b) quando riconosce che nel giudizio di primo grado il contraddittorio non è stato regolarmente costituito o integrato; c) quando riconosce che la sentenza impugnata, erroneamente giudicando, ha dichiarato estinto il processo in sede di reclamo contro il provvedimento presidenziale; d) quando riconosce che il collegio della corte di giustizia tributaria di primo grado non era legittimamente composto; e) quando manca la sottoscrizione della sentenza da parte del giudice di primo grado. 2. Al di fuori dei casi previsti al comma precedente la corte di giustizia tributaria di secondo grado decide nel merito previamente ordinando, ove occorra, la rinnovazione di atti nulli compiuti in primo grado. 3. Dopo che la sentenza di rimessione della causa al primo grado è formalmente passata in giudicato, la segreteria della corte di giustizia tributaria di secondo grado, nei successivi trenta giorni, trasmette d'ufficio il fascicolo del processo alla segreteria della corte di giustizia tributaria di primo grado, senza necessità di riassunzione ad istanza di parte. [1] Per l'abrogazione del presente articolo, a decorrere dal 1° gennaio 2026, vedi l'articolo 130, comma 1, lettera d), del D.Lgs. 14 novembre 2024, n. 175. Vedi, anche, l'articolo 130, comma 3, del D.Lgs. 175/2024 medesimo. [2] Per le nuove disposizioni legislative in materia di giustizia tributaria, di cui al presente articolo, a decorrere dal 1° gennaio 2026, vedi l'articolo 113 del D.Lgs. 14 novembre 2024, n. 175. Inquadramento.Dalla disposizione in esame (più precisamente dal comma 2, ai sensi del quale fuori dei casi previsti al comma precedente la commissione tributaria regionale- ora Corte di giustizia tributaria - decide nel merito previamente ordinando, ove occorra, la rinnovazione di atti nulli compiuti in primo grado) si ricava la regola generale in base alla quale, nel processo tributario, il giudice di appello decide la causa nel merito e pronuncia una sentenza sostitutiva di quella impugnata, con le uniche e tassative eccezioni espressamente contemplate dell'erronea dichiarazione, da parte del giudice di primo grado, di incompetenza o di difetto di giurisdizione; della violazione del litisconsorzio necessario; dell'inesatta conferma del decreto presidenziale di estinzione; dell'illegittima composizione dell'organo giudicante che ha emesso il provvedimento oggetto di gravame; dell'omessa sottoscrizione della sentenza impugnata. Tale direttiva generale non discende automaticamente dalla funzione del gravame, ma solo da una scelta di diritto positivo, dovendo il legislatore valutare se privilegiare, tramite l'estensione dei casi di regressione del giudizio al giudice impugnato, il principio del doppio grado di giurisdizione, che non ha una copertura costituzionale, oppure, al contrario, quella della ragionevole durata del processo, che oggi ha un esplicito fondamento costituzionale, con l'attribuzione al giudice dell'impugnazione del compito di decidere nel merito, previa rinnovazione, secondo la disciplina di cui all'art. 356 c.p.c., degli atti nulli, eventualmente posti in essere dalla commissione tributaria provinciale, ove possibile, o, altrimenti, senza tenerne conto (Pistolesi, 468-470). Può, peraltro, rilevarsi che nell'interpretazione della disciplina vigente, all'esito dell'inserimento nell'art. 111 Cost. del principio della ragionevole durata del processo, con la l. cost. 23 novembre 1999, n. 2, sembra assistersi ad un progressivo contenimento dei casi effettivamente riconducibili all'art. 59, in ossequio alla prioritaria valorizzazione nel nostro ordinamento dell'esigenza di speditezza del processo rispetto a quella del doppio grado di giurisdizione. La disciplina corrisponde a quella vigente, in virtù del combinato disposto degli artt. 353 e 354 c.p.c., nel processo civile in cui il giudice d'appello non può rimettere la causa al primo giudice, tranne che riformi la sentenza di primo grado dichiarando che il giudice ordinario ha sulla causa la giurisdizione negata dal primo giudice, dichiari nulla la notificazione della citazione introduttiva, riconosca che nel giudizio di primo grado doveva essere integrato il contraddittorio o non doveva essere estromessa una parte, dichiari la nullità della sentenza di primo grado a norma dell'art. 161, comma 2, c.p.c. o, infine, riformi la sentenza che ha pronunciato sull'estinzione del processo a norma e nelle forme dell'art. 308 c.p.c. Va ricordato che l'art. 24 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636 stabiliva che «quando la commissione rileva che nel giudizio di primo grado il contraddittorio non si è costituito regolarmente o che il collegio è stato composto in modo illegittimo, rimette le parti, con decisione, davanti ad altra sezione della commissione di primo grado o in mancanza, ad altra commissione di primo grado, alla quale il fascicolo del processo è trasmesso a cura della segreteria dopo che sono inutilmente decorsi i termini per la impugnazione». L'attuale art. 59 ha ridotto, in ossequio alle indicazioni contenute nella legge delega 30 dicembre 1991, n. 413, le diversità tra l'appello tributario e quello civile, che, tuttavia, continuano a persistere. In primo luogo le ipotesi tassative, in cui è eccezionalmente prevista la regressione del giudizio al grado anteriore, coincidono solo parzialmente, atteso che, da un lato, la dichiarazione di incompetenza o la illegittima composizione dell'organo giudicante in sede civile comporta la decisione nel merito ed in sede tributaria la rimessione della causa al primo giudice e, dall'altro, la nullità della notificazione dell'atto introduttivo del giudizio in sede civile determina il ritorno dinanzi al giudice a quo, mentre in ambito tributario non esclude la fase rescissoria dell'appello. A ciò si aggiunga che la prosecuzione del giudizio è rimessa nel processo civile all'iniziativa di parte, mentre è automatica nel contenzioso tributario. In questa sede è opportuno sottolineare che il diverso trattamento riservato alla nullità della notificazione dell'atto introduttivo discenderebbe, secondo autorevole dottrina, dalla natura del giudizio tributario, in cui la nullità dell'atto introduttivo ne determinerebbe l'inammissibilità (Pistolesi, 471, che, però, fa riferimento alla nullità della citazione piuttosto che a quella della sua notificazione – nullità della citazione che neppure in sede civile giustifica la regressione del processo al primo grado). Si può, tuttavia obiettare che la rinnovazione della notifica nulla, ai sensi dell'art. 291 c.p.c., ne comporta la sanatoria ex tunc, con il superamento del problema della decadenza processuale (in questo senso Cass. V, n. 8777/2008, secondo cui nel processo tributario la nullità della notificazione del ricorso introduttivo ovvero dell'atto di gravame è sanata con efficacia retroattiva dalla costituzione della parte resistente od appellata, anche quando sia avvenuta al solo fine di eccepire la suddetta nullità; tale effetto sanante invece non si verifica quando la costituzione della parte resistente od appellata sia avvenuta in modo invalido). In tema di contenzioso tributario, la rimessione della causa alla Commissione provinciale (ora Corte di giustizia tributaria di primo grado) è prevista dall'art. 59, comma 1, solo per ipotesi tassative ed eccezionali, al di fuori delle quali il giudice di secondo grado, qualora accolga l'appello, è tenuto a decidere la causa nel merito, trattandosi di mezzo di impugnazione a carattere sostitutivo, e non ostandovi il principio del doppio grado di giurisdizione, il quale, oltre a non trovare garanzia costituzionale nel nostro ordinamento, postula solo che una questione venga successivamente proposta a due giudici di grado diverso e non anche che venga decisa da entrambi (Cass. V, n. 3334/2011,Cass. V, n. 15530/2010e da ultimo Cass. VI-V, n. 23741/2022). Più precisamente il giudizio di appello, al di là delle ipotesi tassative ed eccezionali previste dall'art. 59, comma 1 (nelle quali è prevista la possibilità di una sentenza meramente rescissoria, in presenza di vizi formali dell'accertamento o di altri atti pregressi su cui esso si fonda), assume le caratteristiche generali del mezzo di gravame, ossia del mezzo di impugnazione a carattere sostitutivo ed obbliga, quindi, il giudice tributario a decidere nel merito le questioni proposte, con la conseguenza che, nell'ambito di una controversia sull'imposta di registro, egli può determinare il valore venale degli immobili sulla base di criteri diversi da quelli utilizzati in sede di accertamento, a condizione che resti nel limite della pretesa tributaria esercitata dall'Ufficio e che gli elementi utilizzati siano legittimamente acquisiti agli atti, come nel caso di utilizzo di dati desumibili da una CTU, stante la possibilità per il giudice tributario di farvi ricorso anche al fine di valutare l'attendibilità della stima dell'Ufficio ed accertare il valore venale degli immobili per cui è causa (Cass. V, n. 13132/2010; v. anche Cass. V, n. 17127/2007, secondo cui, al di là delle ipotesi tassative ed eccezionali previste dall'art. 59, comma 1, il giudizio dinanzi la Commissione tributaria regionale assume le caratteristiche generali del mezzo di gravame, ossia del mezzo di impugnazione a carattere sostitutivo, con la conseguente necessità per i giudici di decidere nel merito le questioni proposte, sicché, in caso di accoglimento dell'appello, alla riconosciuta fondatezza dei rilievi del contribuente relativi all'imponibile non deve seguire una pronuncia di illegittimità e quindi di annullamento dell'atto impugnato, ma un giudizio di merito sull'ammontare delle imposte dovute dal contribuente in luogo di quelle accertate dall'Ufficio, richiedendosi la pronuncia costitutiva di annullamento solo nei casi che si versi di vizi formali dell'accertamento o di altri atti pregressi su cui esso si fondi). Recentemente hanno fatto applicazione di tale regola Cass. V, n. 34634/2021, secondo cui nel caso di impugnazione della sentenza di primo grado pronunciata "a sorpresa", in quanto fondata su questioni rilevate d'ufficio di fatto o miste, di fatto e di diritto, senza il previo contraddittorio delle parti, non si impone la rimessione della causa al grado precedente - la quale costituisce soluzione eccezionale - dal momento che in appello è ammessa la produzione di nuovi documenti, sicché non si determina un vulnus al diritto di difesa; Cass. V, n. 22890/2022, secondo cui, nel processo tributario, la trattazione dell'appello in pubblica udienza, senza preventivo avviso alla parte, costituisce una nullità processuale che travolge, per violazione del diritto di difesa, la sentenza successiva, ma non determina la retrocessione del processo alla commissione tributaria regionale, ove non siano necessari accertamenti di fatto nel merito e debba essere decisa una questione di mero diritto, atteso che il principio costituzionale della ragionevole durata del processo impedisce di adottare decisioni che, senza utilità per il diritto di difesa o per il rispetto del contraddittorio, comportino l'allungamento dei tempi del giudizio; Cass. V, n. 32593/2021, secondo cui nel caso in cui a seguito della camera di consiglio fissata per la decisione dell'istanza di sospensione dell'atto impugnato, il giudice, senza il consenso delle parti, decida anche nel merito la controversia senza la fissazione dell'udienza di trattazione, si è in presenza di una nullità processuale che comporta la nullità anche della relativa sentenza per violazione del diritto di difesa, tuttavia tale vizio processuale non determina la retrocessione del giudizio ex art. 59 del d.lgs. n. 546 del 1992, atteso che esso esula dalle ipotesi tassative previste da tale disposizione e, in particolare, da quella dell'irregolare costituzione o integrazione del contraddittorio. Si è, inoltre, precisato che la trattazione del ricorso in camera di consiglio invece che alla pubblica udienza, in presenza di un'istanza in tal senso di una delle parti ai sensi dell'art. 33 del d.lgs. n. 546 del 1992, costituisce una nullità processuale che, pur travolgendo la sentenza successiva per violazione del diritto di difesa, non determina, una volta dedotta e rilevata in appello, la retrocessione del processo al primo grado, non rientrando tale ipotesi tra quelle tassativamente previste dall'art. 59 del d.lgs. n. 546 cit., e costituendo l'appello, anche nel processo tributario, un gravame generale a carattere sostitutivo che impone al giudice dell'impugnazione di pronunciarsi e decidere sul merito della controversia (Cass. V, n. 19579/2018 e Cass. V, n. 3559/2010). Parimenti, il vizio della decisione di primo grado, consistente nell'avere omesso la previa audizione delle parti nel procedimento di autorizzazione del sequestro conservativo in favore della Amministrazione finanziaria, non incidendo sulla integrità del contraddittorio, non rientra fra quelli tassativamente indicati dall'art. 59, lett. b), quale presupposto per la regressione del processo dallo stadio di appello a quello precedente; esso comporta, invece, la necessità per il giudice d'appello che lo rilevi di porvi rimedio, trattenendo la causa e decidendola nel merito, senza a che a ciò osti il principio del doppio grado di giurisdizione, privo di rilevanza costituzionale (Cass. V, n. 7342/2008). Ancora, il vizio di omessa pronunzia, come quello di pronuncia ultra petitum, non rientra fra quelli tassativamente indicati dall'art. 59, come suscettibili di far insorgere i presupposti per la regressione del processo dallo stadio di appello a quello precedente, ma comporta la necessità, per il giudice d'appello che dichiari il vizio, di porvi rimedio, trattenendo la causa e decidendola nel merito, senza che a ciò osti il principio del doppio grado di giurisdizione, che è privo di rilevanza costituzionale (Cass. n. 18824/2006). Secondo Cass. V, n. 8159/2011, il giudice d'appello che dichiari la nullità della sentenza per mancata interruzione del processo, deve trattenere la causa e decidere nel merito in virtù del principio della conversione dei vizi della sentenza di primo grado in motivi d'impugnazione, non rientrando tale nullità tra i casi nei quali il giudice d'appello può rimettere la causa al primo giudice e non potendo, pertanto, l'impugnante limitarsi in tali casi a far valere, a motivo del gravame, il solo vizio procedurale. Va, inoltre, segnalata la recente Cass. V, n. 27496/2014, che, ridimensionando l'orientamento sul punto, ha affermato che la trattazione dell'appello in pubblica udienza, senza preventivo avviso alla parte, costituisce una nullità processuale che travolge, per violazione del diritto di difesa, la sentenza successiva, ma non determina la retrocessione del processo alla commissione tributaria regionale, ove non siano necessari accertamenti di fatto nel merito e debba essere decisa una questione di mero diritto, atteso che il principio costituzionale della ragionevole durata del processo impedisce di adottare decisioni che, senza utilità per il diritto di difesa o per il rispetto del contraddittorio, comportino l'allungamento dei tempi del giudizio. Si sono registrate incertezze, pure, circa la necessità di rinviare la decisione della causa, all'esito della cassazione della sentenza impugnata per violazione dell'art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 546 del 1992, alla commissione tributaria provinciale o a quella regionale. Così, secondo l'orientamento più risalente, allorché venga cassata con rinvio la sentenza del giudice tributario d'appello che, errando, abbia omesso di rilevare l'errore del giudice di primo grado, consistito nell'avere ritenuto inammissibile il ricorso per difetto di procura senza fissare al ricorrente un termine per sanare tale vizio, la causa va rimessa alla commissione tributaria provinciale e non a quella regionale, in quanto solo la prima è legittimata a fissare alla parte il termine per munirsi del difensore, e quindi a procedere all'esame del merito ove tale termine venga rispettato, ovvero a dichiarare l'inammissibilità del ricorso in caso contrario (Cass. V, n. 13208/2007 e Cass. V, n. 620/2006). Ad avviso della più recente Cass. V, n. 1245/2017, invece, l'omissione, da parte del giudice adito, dell'ordine, alla parte privata che ne sia priva, di munirsi di difensore, ai sensi dell'art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 546 del 1992, dà luogo ad una nullità relativa, non rilevabile d'ufficio, che, se eccepita, in sede di appello, dalla parte interessata, non determina il rinvio alla commissione provinciale, atteso che l'assistenza tecnica non riguarda i presupposti processuali relativi alle parti né incide sulla regolarità del contraddittorio. Le singole ipotesi di rimessione della causa al primo giudice
L'affermata giurisdizione o competenza del primo giudice (lett. a) L'opportunità di assicurare lo svolgimento nel processo di una duplice fase di merito giustifica, secondo la dottrina, la rimessione della causa alla commissione provinciale tributaria in caso di riforma della pronuncia con cui è stata negata la giurisdizione o competenza. La differenza rispetto al processo civile — in cui gli artt. 353 e 354 c.p.c. non contemplano, tra le ipotesi di regressione del procedimento in primo grado, l'erronea declinazione di competenza — si spiega in considerazione dell'esperibilità del regolamento necessario di competenza ex art. 42 c.p.c. e della conseguente inappellabilità della sentenza che si pronunci esclusivamente sulla competenza. Al contrario, nel processo tributario non solo la sentenza di incompetenza della commissione provinciale tributaria non è soggetta al regolamento necessario di competenza, ma il giudice di primo grado a cui viene rimesso il giudizio, in caso di affermazione della sua competenza da parte della commissione regionale tributaria, non può sollevare il regolamento di competenza di ufficio (Pistolesi, 479). La recente introduzione dell'art. 59 della l. n. 69 del 2009, che ha espressamente sancito il principio della translatio iudicii, eliminando le barriere esistenti tra giudice ordinario e giudici speciali, pone un problema di coordinamento nell'ipotesi in cui all'esito della sentenza declinatoria di giurisdizione, da un lato, la parte vittoriosa sul punto immediatamente riassuma il processo dinanzi al giudice individuato quale munito di giurisdizione e, dall'altro, in accoglimento dell'appello proposto dalla parte soccombente, la causa sia rimessa e prosegua dinanzi alla commissione provinciale tributaria (la problematica è approfondita da Longo, 816, che riconosce, tuttavia, la possibilità di risolvere il pericolo di mancato coordinamento dei giudizi attribuendo alle parti la facoltà di riassumere il giudizio solo all'esito del passaggio in giudicato della sentenza declinatoria di giurisdizione – soluzione, tuttavia, difficilmente compatibile con il principio costituzionale della ragionevole durata del processo). Come chiarito da Cass. S.U., n. 24775/2008, la pronuncia con cui la commissione tributaria provinciale dichiari l'inammissibilità del ricorso, ritenendo che il provvedimento impugnato non rientri tra quelli previsti dell'art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992 impugnabili dinanzi al giudice tributario, non nega affatto la giurisdizione del giudice tributario ma, per necessità logica, implicitamente la presuppone, sicché qualora la commissione regionale riformi la sentenza, sulla base dell'impugnabilità dell'atto, non è tenuta a rimettere gli atti al giudice di primo grado, ai sensi dell'art. 59, ma può decidere sul merito del ricorso. Per completezza, va ricordato che, secondo l'orientamento della giurisprudenza di legittimità (Cass. V, n. 4247/2017), la traslatio iudicii, che assicura la salvezza degli effetti processuali e sostanziali della domanda giudiziale, è applicabile, già anteriormente all'entrata in vigore dell'art. 59 della l. n. 69 del 2009, anche nei rapporti tra diverse giurisdizioni e pure con riferimento alle pronunce declinatorie di giurisdizione dei giudici di merito, atteso che, da un lato, le differenze di organizzazione tra giudice ordinario e speciale non possono danneggiare l'efficienza e l'efficacia del servizio giustizia e, dall'altro, che le parti dispongono, per la soluzione dell'eventuale conflitto negativo di giurisdizione tra i giudici di merito, del ricorso per cassazione ex art. 362, comma 2, c.p.c. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto ammissibile, pur non essendo applicabile, ratione temporis, l'art. 59 della l. 69 del 2009, la riassunzione della causa davanti al giudice tributario dopo che la sezione lavoro di un tribunale, di fronte alla tempestiva impugnazione di una cartella di pagamento, aveva declinato la propria giurisdizione). Sempre in ordine alla translatio iudicii recentemente si è precisato che, per far salvi gli effetti processuali e sostanziali della domanda originariamente proposta innanzi al giudice privo di giurisdizione e riproposta innanzi al giudice tributario, è necessaria la "conversione" dell'azione secondo i canoni propri del processo tributario, avente natura impugnatoria-demolitoria di provvedimento (espresso o tacito) entro un termine decadenziale, con conseguente individuazione del bene della vita richiesto dall'attore sostanziale originario nei suoi termini identificativi di "petitum" e di "causa petendi", senza che tuttavia sia necessario il rispetto di requisiti formali o temporali del rito del giudice munito di giurisdizione (Cass. V n. 6118/2021). Cass. V, n. 33313/2019 ha specificato che, in virtù dell'art. 59 del d.lgs. n. 546 del 1992, trova applicazione anche nel processo tributario il principio secondo cui la sentenza con la quale il giudice di appello, in riforma della decisione del giudice di primo grado, dichiari la giurisdizione da questi negata, rimettendogli la causa, può essere impugnata soltanto con ricorso per cassazione, rimanendo altrimenti coperta dal giudicato interno, senza che la medesima questione possa essere riproposta o sollevata d'ufficio nel corso dell'ulteriore processo. Tale soluzione, pacifica per il giudizio di cognizione ordinario in virtù dell'art. 353 c.p.c., è stata ritenuta applicabile anche al processo tributario, atteso che dall'art. 59 del d.lgs. n. 546 del 1992 si evince chiaramente che, nei casi in cui la Commissione tributaria regionale rimette alla Commissione tributaria provinciale, il processo che si svolge dinanzi a quest'ultima è il medesimo, e in quella sede riprende il suo corso, senza soluzione di continuità. Parimenti il principio fissato dall'art. 50 c.p.c., per il quale nel caso in cui il giudice adito si sia dichiarato incompetente il processo continua davanti al giudice dichiarato competente se la parte riassume il giudizio davanti a quest'ultimo nel termine fissato dalla sentenza di incompetenza ovvero, in mancanza, in quello di sei mesi dalla comunicazione, è applicabile al processo tributario in virtù del rinvio operato dall'art. 39 del d.P.R. n. 636 del 1972 (oggi dall'art. 1 del d.lgs. n. 546 del 1992), con conseguente necessità della traslatio iudicii alla commissione competente, anche nel caso in cui il ricorso sia stato trasmesso per via meramente amministrativa dalla segreteria della commissione adita a quella dichiarata competente (Cass. I, n. 2375/1996), sicché la presentazione del ricorso a commissione tributaria incompetente per territorio non ne comporta l'inammissibilità (Cass. I, n. 5150/1990). La violazione del contraddittorio (lett. b) La commissione tributaria regionale deve rimettere la causa alla commissione tributaria provinciale quando riconosce che nel giudizio di primo grado il contraddittorio non è stato regolarmente costituito o integrato e, cioè, nell'ipotesi in cui la parte non sia stata posta in grado ab origine di partecipare al processo, nell'ipotesi in cui, pur ricorrendo una situazione di litisconsorzio necessario, non sia stato integrato il contraddittorio oppure sia stata erroneamente estromessa una parte. Si esclude, viceversa, l'applicazione dell'art. 59, comma 1, lett. b, laddove il contraddittorio non sia stato regolarmente costituito per negligenza della parte e, cioè, laddove la notifica del ricorso sia inesistente o ancora laddove sia stato convenuto un soggetto diverso dal legittimato passivo. Resta, invece, discussa la possibilità di rimettere la causa in primo grado ove il contraddittorio regolarmente costituito sia stato compromesso in corso di causa in conseguenza, ad esempio, dell'omessa o irregolare comunicazione dell'avviso di trattazione. Ad avviso di una parte della dottrina, tale lettura estensiva rappresenta una forzatura della legge che fa riferimento alla costituzione o integrazione del contraddittorio e, quindi, alla fase iniziale del processo e non a quelle successive (Gianoncelli, 831). Secondo altre opinioni, invece, la formulazione dell'art. 59, comma 1, lett. b, coinvolge ogni patologia nell'applicazione del principio cardine del contraddittorio in primo grado, in presenza della quale tale giudizio non può considerarsi esaurito e deve essere rinnovato; in questo senso si osserva, peraltro, che ove il legislatore avesse inteso riferirsi esclusivamente alle irregolarità della fase di introduzione della lite avrebbe adottato una formulazione analoga a quella che si rinviene nell'art. 354, comma 1, c.p.c., in cui la rimessione al giudice di primo grado è consentita solo se il giudice di appello riconosca che nel giudizio di primo grado doveva essere integrato il contraddittorio o sia stata estromessa una parte o ancora se rileva la nullità della notificazione della citazione introduttiva (Pistolesi, 483, il quale propone una lettura latissima della disposizione, includendovi: 1) le ipotesi di omessa o irrituale comunicazione dell'avviso di trattazione della causa, del differimento a data fissa dell'udienza di discussione o dell'ordinanza con cui viene disposto l'esperimento dei mezzi istruttori in presenza delle parti; 2) quelle di mancata o irrituale notificazione alle controparti costituite dell'istanza di discussione in pubblica udienza o del reclamo contro i provvedimenti presidenziali; 3) l'ipotesi in cui, pur ricorrendo i presupposti di cui all'art. 24, ultimo comma, d.lgs. n. 546 del 1992, non sia stato disposto il rinvio della trattazione o dell'udienza di discussione per consentire l'integrazione dei motivi del ricorso o, ancora, in cui non sia stato notificato alle controparti l'atto contenente l'integrazione dei motivi, di cui la sentenza impugnata abbia tenuto conto; 4) quella dell'omessa notifica dell'atto con cui si è sollecitata la partecipazione di una parte al giudizio ai sensi dell'art. 14 del d.lgs. n. 546 del 1992 o della mancata ricezione del ricorso, pur ritualmente notificato, da parte dell'ente impositore; 5) quella la trattazione della causa in camera di consiglio nonostante la rituale istanza della sua discussione in pubblica udienza. Seguendo questa stessa impostazione sono state ricomprese nell'ambito applicativo dell'art. 59, comma 1, lett. b, del d.lgs. n. 546 del 1992 anche l'ipotesi dell'omessa comunicazione del provvedimento con cui è disposta la prosecuzione del processo sospeso o interrotto o quella in cui non è stata assegnato alla parte il termine per munirsi di difensore, v. Longo, 821). Ad ogni modo, si è sottolineata l'esigenza, in virtù del principio di economia processuale, di escludere la rimessione della causa al giudice di primo grado in tutti i casi in cui non si è concretamente verificata alcuna lesione del contraddittorio, essendosi realizzato l'effetto che l'atto omesso o viziato tendeva a provocare — ad esempio, avendo partecipato la parte all'udienza di trattazione, nonostante l'omessa comunicazione dell'avviso (così Gianoncelli, 831). Tale soluzione è, del resto, imposta dal principio del raggiungimento dello scopo desumibile dall'art. 156, comma 3, c.p.c., ed applicabile nel processo tributario in virtù del generale richiamo di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992 (così anche Pistolesi, 485). Meno scontata è la possibilità di evitare la rimessione della causa in primo grado nel caso in cui il litisconsorte necessario pretermesso in primo grado e spontaneamente costituitosi in appello non abbia eccepito l'irregolare integrazione del contraddittorio (Longo, 822). Va, infine, sottolineato che l'art. 354 c.p.c., a differenza dell'art. 59, prevede espressamente tra le ipotesi di rimessione della causa al giudice di primo grado quella della nullità della notifica dell'atto introduttivo del giudizio, che, tuttavia, secondo alcune opinioni determina sempre la mancata costituzione del contraddittorio e comporta, pertanto, la regressione del procedimento ai sensi della lett. b della disposizione in esame (Pistolesi, 486; per una sintesi delle diverse opinioni sul punto si rinvia Longo, 820). La remissione della causa alla commissione tributaria provinciale prevista dall'art. 59, comma 1, lett. b), per l'ipotesi di non regolare costituzione o integrazione del contraddittorio nel giudizio di primo grado non può trovare applicazione quando, per la mancata notifica all'ufficio tributario del ricorso, semplicemente presentato alla commissione adita, neppure sia stato costituito il contraddittorio, ove si consideri che in tale caso, ai sensi degli artt. 21 e 22 del medesimo d.lgs., la inammissibilità del ricorso è rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio, anche se la parte resistente si costituisce, con la conseguente definitività dell'atto impugnato (Cass. V, n. 7814/2003). Parimenti, secondo Cass. V, n. 3559/2010, la trattazione del ricorso in camera di consiglio invece che alla pubblica udienza, in presenza di un'istanza in tal senso di una delle parti ai sensi dell'art. 33 del d.lgs. n. 546/1992, costituisce una nullità processuale che, pur travolgendo la sentenza successiva per violazione del diritto di difesa, non determina, una volta dedotta e rilevata in appello, la retrocessione del processo al primo grado, non rientrando tale ipotesi tra quelle tassativamente previste dall'art. 59 del d.lgs. n. 546/1992 cit., e costituendo l'appello, anche nel processo tributario, un gravame generale a carattere sostitutivo che impone al giudice dell'impugnazione di pronunciarsi e decidere sul merito della controversia. Va, inoltre, ricordato che Cass. V, n. 27496/2014 ha recentemente affermato che la trattazione dell'appello in pubblica udienza, senza preventivo avviso alla parte, costituisce una nullità processuale che travolge, per violazione del diritto di difesa, la sentenza successiva, ma non determina la retrocessione del processo alla commissione tributaria regionale laddove non siano necessari accertamenti di fatto nel merito e debba essere decisa una questione di mero diritto, atteso che il principio costituzionale della ragionevole durata del processo impedisce di adottare decisioni che, senza utilità per il diritto di difesa o per il rispetto del contraddittorio, comportino l'allungamento dei tempi del giudizio. Risulta così ridimensionato l'orientamento precedente, di cui sono espressione Cass. V, n. 13113/2012 e Cass. V, n. 24972/2006, secondo cui qualora la commissione tributaria regionale, dopo aver accertato la mancata comunicazione dell'avviso di trattazione della controversia in primo grado, invece di disporre la rimessione della causa alla commissione tributaria provinciale, come previsto dall'art. 59, comma 1, lettera b), abbia consentito al contribuente di produrre la documentazione posta a fondamento del ricorso, decidendo poi la causa nel merito, l'intervenuta regolarizzazione del contraddittorio nel giudizio di secondo grado, con possibilità per il contribuente di esplicitare tutte le proprie difese, non consente alla Corte di cassazione di annullare la sentenza di appello con riferimento all'iniziale vizio che inficiava la sentenza di primo grado, posto che la cassazione con rinvio, ai sensi dell'art. 383, comma 1, c.p.c., è prevista soltanto al fine di consentire una valutazione di merito, nella specie ampiamente espletata ed adeguatamente motivata. In materia tributaria una delle ipotesi di applicazione dell'art. 59, comma 1, lett. b, è costituita dall'impugnazione dell'avviso di accertamento nei confronti di società di persone in materia di IRPEF o IRAP (v., da ultimo, Cass. V, n. 15566/2016, secondo cui l'impugnazione dell'avviso di accertamento relativo ad IRPEF o IRAP, dovute dalla società di persone e dai soci, riguarda inscindibilmente sia l'una che gli altri anche se proposto dal socio occulto di società di persone per contestare tale posizione, atteso il principio dell'unitarietà, su cui si basa la rettifica delle dichiarazioni dei redditi delle società di persone e dei soci, con automatica imputazione dei redditi a ciascuno di essi, proporzionalmente alla quota di partecipazione agli utili ed indipendentemente dalla loro percezione, sicché il giudizio è affetto da nullità assoluta, rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del procedimento, in caso di mancata integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti soci, che sono litisconsorti necessari; va, però, tenuto conto che, secondo Cass. V, n. 9527/2016, nella controversia avente ad oggetto la liquidazione, in base alla procedura di controllo automatico, d'IVA, IRAP e ritenute alla fonte, dovute da una società di persone e risultanti dalla dichiarazione dei redditi, i soci non sono litisconsorti necessari, atteso che l'atto impugnato non comporta alcuna rettifica dei redditi della società e conseguentemente neanche di quelli dei soci, per cui si pone solo una questione di solidarietà passiva ex art. 2313 c.c.). In materia di IVA, invece, l'accertamento di maggior imponibile a carico di una società di persone, se autonomamente operato, non determina, in caso d'impugnazione, la necessità d'integrare il contraddittorio nei confronti dei relativi soci. Tuttavia, qualora l'Agenzia abbia contestualmente proceduto, sia pur con distinti atti impositivi, all'accertamento d'IVA e d'ILOR, fondati su elementi anche solo in parte comuni, il profilo dell'accertamento impugnato concernente l'imponibile i.v.a., che non sia suscettibile di autonoma definizione in funzione di aspetti ad esso specifici, non si sottrae al vincolo necessario del simultaneus processus, attesa l'inscindibilità delle due situazioni e l'esigenza, alla luce dell'art. 111 Cost., di evitare decisioni irragionevolmente contrastanti (Cass. n. 21340/2015). La riforma del decreto presidenziale di estinzione (lett. c) Anche l'ipotesi di cui all'art. 54, comma 1, lett. c, che non era contemplata dall'art. 24 del d.P.R. n. 636 del 1972, mira ad assicurare il doppio grado di giurisdizione. Si tende, però, ad un'interpretazione letterale e restrittiva della disposizione in esame, limitando la rimessione alla solo ipotesi in cui l'estinzione del processo sia stata dichiarata in sede di reclamo del provvedimento presidenziale ex artt. 27 e 28 del d.lgs. n. 546 del 1992 ed escludendola, invece, laddove l'estinzione sia stata dichiarata dal collegio nel corso del giudizio regolarmente svoltosi. In tale ultimo caso, pertanto, il giudice di appello dovrà decidere la causa nel merito. (così, tra gli altri, Longo, 822). La giurisprudenza, conformemente all'opinione della dottrina, ha affermato che l'unico caso di rimessione della causa al giudice di primo grado si identifica, ai sensi dell'art. 59, comma 1, lett. c), nella riforma della sentenza della commissione provinciale che, in sede di reclamo, abbia dichiarato, ex art. 28 del d.lgs. n. 546/1992, l'estinzione del processo. Tali ipotesi tassative di rimessione al primo giudice intendono assicurare il doppio grado di giurisdizione, mentre nessun salto del primo grado si verifica nel caso di riforma della sentenza che abbia dichiarato l'estinzione, essendovi stata la trattazione della causa davanti al collegio, con esaurimento del primo grado di giurisdizione, ipotesi che non rende quindi adducibile alcun sospetto di illegittimità costituzionale della norma (Cass. V, n. 8455/2005). L'irregolare costituzione dell'organo giudicante (lett. d) Il vizio di costituzione del giudice di primo grado, contemplato quale causa di regressione del giudizio in primo grado anche dall'art. 24 del d.P.R. n. 636 del 1972, è ravvisabile nelle ipotesi di 1) erronea composizione numerica del collegio (e, cioè, ove il collegio sia composto da un numero di giudici inferiore o superiore a quello di tre, prescritto dalla vigente disciplina); 2) adozione della decisione da parte del presidente o di un giudice singolo in luogo del collegio o viceversa; 3) omessa partecipazione al collegio del presidente o vice-presidente di sezione, imposta dall'art. 2, comma 5, del d.lgs. n. 545 del 1992; 4) partecipazione al collegio di un soggetto estraneo all'organo giurisdizionale o in quanto mai investito della carica di componente della commissione tributaria provinciale o in quanto non ancora perfezionata la nomina o già verificatasi la decadenza; 5) partecipazione al collegio di un componente di altro ufficio giudiziario tributario, diverso da quello investito della decisione; 6) partecipazione al collegio di un giudice autorizzato ad astenersi; 7) diversa composizione del collegio che ha deciso rispetto a quello davanti a cui è stata discussa la causa (cfr. Longo, 823). Si tende ad includere nell'art. 59, comma 1, lett. d, anche il caso in cui il collegio sia composto da un componente di altra sezione della stessa commissione provinciale in assenza dell'autorizzazione del presidente, richiesta dall'art. 2, comma 6, del d.P.R. n. 545 del 1992 (Pistolesi, 488), ma, mancando conferme giurisprudenziali, possono nutrirsi perplessità sul punto, trattandosi di una irregolarità assimilabile alla violazione delle norme tabellari degli uffici giudiziari e, dunque, non incidente sulla struttura quantitativa o qualitativa dell'organo giudicante, che è alterata solo dalla carenza di legittimazione di uno o più dei suoi componenti o dalla loro assoluta inidoneità (in questo senso Cass. S.U., n. 16246/2011). Nel giudizio civile, secondo una parte della do ne in motivi di gravame ex art. 161 c.p.c., comportano la caducazione della pronuncia impugnata e dell'intero processo, con impossibilità di una decisione sostitutiva di merito da parte del giudice di secondo grado. Nel processo tributario da una simile sanzione deriverebbe la definitività dell'atto impositivo e, dunque, un pregiudizio per il contribuente a causa di un'irregolarità a lui non imputabile, sicché si è preferito includere tale fattispecie in quelle di rimessione, da parte della commissione tributaria regionale, a quella provinciale (così Pistolesi, 473, che individua un'ulteriore ragione della differenza rispetto alla disciplina del c.p.c. nella natura non professionale del giudice tributario e nella conseguente particolare attenzione, da parte del legislatore, alla regolare costituzione dell'organo giudicante, garanzia imprescindibile della sua terzietà e idonea preparazione). Risulta tuttora valida la conclusione di Cass. S.U., n. 1947/1987, secondo cui nel contenzioso tributario, l'atto destinato a documentare il numero e l'identità dei componenti del collegio, tanto nella fase di discussione, quanto in quella di deliberazione in camera di consiglio (fino a querela di falso ed in via prevalente sull'intestazione della decisione), è il processo verbale della udienza di discussione, redatto a cura del segretario e, pertanto, la cognizione dell'asserito vizio della decisione per la partecipazione all'udienza delle commissioni tributarie di un numero di componenti superiore a quello prescritto, dedotto con riferimento alle sole risultanze del verbale dell'adunanza, redatto nella prassi in analogia al ruolo d'udienza di discussione nel processo civile ordinario, spetta alle commissioni tributarie in sede d'impugnazione, mentre non sussiste un'ipotesi di irregolare costituzione del giudice rispetto alla quale possa porsi un problema di giurisdizione sull'actio nullitatis di una pronuncia delle commissioni tributarie. Come chiarito da Cass. V, n. 2853/2009, nell'ipotesi prevista dall'art. 59, comma 1, lett. d), in base al quale la commissione tributaria regionale deve rimettere la causa alla commissione provinciale, quando riconosce che il collegio della stessa non era legittimamente composto, rientra a fortiori il caso della decisione della causa di primo grado ad opera di un giudice singolo, avvenuta al di fuori delle condizioni (come quella, rilevante nel caso di specie, del valore della causa inferiore a cinque milioni di lire) in presenza delle quali l'art. 72, comma 1-bis, del d.lgs. n. 546 del 1992 e l'art. 44-bis del d.lgs. n. 545 del 1992 disponevano che le controversie dovessero essere trattate e decise da un giudice singolo, anziché, come di regola, da un collegio composto da tre giudici. Ha, invece, adottato l'opposta soluzione relativamente al processo civile Cass. I, n. 1476/2007, secondo cui l'eventuale errore in ordine alla composizione collegiale o monocratica del tribunale non dà luogo a rimessione della causa al primo giudice. Cass. V, n. 12029/2009, ha precisato che un eventuale vizio di costituzione del collegio giudicante, perché composto in numero superiore a quello previsto dalla legge potrebbe porsi esclusivamente con riferimento alla fase di deliberazione della decisione, non già con riferimento allo svolgimento della udienza di trattazione. La circostanza che a quest'ultima abbiano partecipato magistrati in numero superiore a quello richiesto per comporre il singolo collegio giudicante, che può considerarsi, del resto, evenienza normale al fine della più rapida trattazione delle udienze, non integra pertanto, all'evenienza, alcun indizio o elemento di prova in ordine alla irregolare composizione del collegio che poi ha deliberato la decisione, collegio che del resto è indicato nominativamente nel verbale di udienza e quindi nella sentenza deliberata, che, essendo atti pubblici, fanno fede, sul punto, fino a querela di falso. In argomento va, inoltre, ricordato che in tema di incompatibilità dei componenti delle commissioni tributarie, l'art. 8 del d.lgs. n. 545 del 1992 non contempla tra le cause di incompatibilità lo svolgimento della professione di avvocato, salvo per coloro che «in qualsiasi forma, anche se in modo saltuario o accessorio ad altra prestazione, esercitano la consulenza tributaria, ovvero l'assistenza o la rappresentanza di contribuenti nei rapporti con l'amministrazione finanziaria o nelle controversie di carattere tributario», sicché, se non risultano provate le indicate circostanze di fatto, non può ritenersi sussistente alcuna incompatibilità degli avvocati componenti del collegio giudicante (Cass. V, n. 17936/2004). Sebbene non con riferimento al contenzioso tributario, Cass. S.U., n. 189/1997, ha ritenuto che, qualora, in sede d'impugnazione, vengano denunziati vizi di illegittima composizione del collegio giudicante, il giudice dell'impugnazione può direttamente verificarne la sussistenza solo quando essi emergano immediatamente dall'esame della composizione dell'organo giudicante; mentre, quando detta composizione non si rilevi ictu oculi difforme dal modello legale, una pronunzia di difetto di giurisdizione — ravvisabile solo nelle ipotesi di alterazione della struttura qualitativa e quantitativa o di totale carenza di legittimazione di uno o più componenti del collegio o di loro assoluta inidoneità a farne parte — o di nullità della sentenza impugnata può essere omessa soltanto ove sia stato dedotto e provato che le lamentate difformità implichino l'insussistenza della potestas iudicandi ovvero una irregolare costituzione del giudice. Ad ogni modo nel giudizio dinanzi ad altri giudici speciali i vizi di costituzione dell'organo giudicante comportano la regressione del procedimento dinanzi al giudice di primo grado solo per quell'orientamento — invero in via di ridimensionamento — che ne fa derivare un problema di giurisdizione (v., ad esempio, Cass. S.U., n. 9099/2015, secondo cui la carenza di giurisdizione per illegittima composizione del giudice speciale — nella specie, sezione del Consiglio di Stato — è ravvisabile solo in caso di alterazione strutturale dell'organo giudicante, per vizio di numero o qualità dei suoi membri, che ne precluda l'identificazione con l'organo delineato dalla legge, mentre la semplice violazione di norme processuali — nella specie, per dedotta incompatibilità dei magistrati — esorbita dai limiti del sindacato delle Sezioni Unite; Cass. S.U., n. 15900/2006, con riguardo a pronuncia del giudice contabile, l'eventuale partecipazione alla decisione della controversia di un magistrato che avrebbe dovuto astenersi, ai sensi dell'art. 51 c.p.c., non integra mancanza di giurisdizione del collegio giudicante, atteso che detta carenza di giurisdizione, in relazione all'illegittima composizione dell'organo giudicante, è ravvisabile solo nelle diverse ipotesi di alterazioni strutturali dell'organo medesimo, per vizi di numero o qualità dei suoi membri, che ne precludono l'identificazione con quello delineato dalla legge. Pertanto, il ricorso per cassazione non è esperibile nei confronti di sentenza della Corte dei conti per denunciare la mancata astensione di un membro di quel collegio, vertendosi in tema di violazione di norme processuali, esorbitante dai limiti del sindacato delle Sezioni Unite. Il difetto di sottoscrizione della decisione impugnata (lett. e) Il difetto di sottoscrizione determina l'inesistenza della sentenza, che, ai sensi dell'art. 161, comma 2, c.p.c. sopravvive alla consumazione del potere d'impugnazione, può essere denunciato o rilevato d'ufficio in ogni momento e, ai sensi dell'art. 59, comma 1, lett. e (che ha sul punto innovato rispetto al d.P.R. n. 636 del 1972), comporta la rimessione della causa alla commissione tributaria provinciale, la quale dovrà rinnovare non sola la decisione, ma anche la trattazione della causa. Si discute della possibilità di estendere questa stessa disciplina alle altre ipotesi di inesistenza della sentenza, che, però, non sono previste dal legislatore, ma create dall'elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, per cui si finirebbe, in tal modo, con il forzare la lettera della legge, contraddicendo l'esigenza della sollecita definizione delle controversie, oggi sancita anche dall'art. 111 Cost. (Pistolesi, 490). Altro problema è quello della configurabilità della insufficienza della sottoscrizione, laddove il provvedimento collegiale sia firmato in modo incompleto dal solo presidente o dal solo relatore, quale categoria distinta dalla assenza. Recentemente Cass. S.U., n. 11021/2014, hanno affermato che la sentenza emessa dal giudice in composizione collegiale priva di una delle due sottoscrizioni (del presidente del collegio ovvero del relatore) è affetta da nullità sanabile ai sensi dell'art. 161, comma 1, c.p.c., trattandosi di sottoscrizione insufficiente e non mancante, la cui sola ricorrenza comporta la non riconducibilità dell'atto al giudice, mentre una diversa interpretazione, che accomuni le due ipotesi con applicazione dell'art. 161, comma 2, c.p.c., deve ritenersi lesiva dei principi del giusto processo e della ragionevole durata (v. per un commento della decisione Auletta, 2072). Appare, dunque, in parte superato il consolidato orientamento diverso secondo cui la sottoscrizione della sentenza da parte del giudice — e, nel caso del giudice collegiale, del presidente e dell'estensore (ovvero di uno dei due), secondo quanto disposto dall'art. 132, ultimo comma, c.p.c. — costituisce un requisito essenziale del provvedimento, la cui mancanza ne determina la nullità assoluta e insanabile, senza che possa ovviarsi né con il procedimento di correzione degli errori materiali (che postula un provvedimento dal contenuto affetto da omissioni od errori, ma ormai completo nel suo procedimento di formazione), né tantomeno con la rinnovazione della pubblicazione da parte dello stesso organo che, emessa la pronunzia, ha ormai esaurito la sua funzione giurisdizionale. Il suddetto vizio di nullità, rilevabile anche d'ufficio, comporta la rimessione della causa al medesimo giudice che ha emesso la sentenza carente di sottoscrizione, il quale viene investito del potere dovere di riesaminare il merito della causa stessa e non può limitarsi ad una semplice rinnovazione della sentenza (Cass. III, n. 26040/2005, in Corr. giur., 2006, 1432, con note di Besso, Omessa, parziale, sottoscrizione della sentenza e rinnovazione della deliberazione, e Consolo, Inesistente la sentenza o incompleta solo l'attività di «completamento» del dispositivo già letto dal collegio in udienza?). Tuttavia, l'insufficienza della sottoscrizione, ravvisabile laddove la sentenza collegiale sia sottoscritta dal solo presidente o dal solo relatore, pur non essendo più ritenuta causa della nullità insanabile, sembra ancora riconducibile all'art. 59, comma 1, lett. e, del d.lgs. n. 546 del 1992, non essendone stata sinora riconosciuta l'emendabilità con la procedura della correzione dell'errore materiale, con la pubblicazione di altra sentenza da parte dello stesso giudice o con la convalida della decisione da parte del giudice di secondo grado. La mancanza della sottoscrizione o della sigla dell'estensore e del presidente in alcuna delle pagine che compongono la sentenza non integra violazione dell'art. 132, comma 3, n. 5, c.p.c., il quale richiede la sottoscrizione del giudice come sigillo conclusivo del testo in cui è documentata la decisione, che implica, secondo quanto confermato dall'art. 119, comma 2, disp. att. c.p.c., la verifica analitica della corrispondenza del testo scritto, in ogni sua parte, a quello steso dal relatore ed approvato dal presidente; sicché l'autenticità della sentenza sottoscritta (a conclusione del testo originale) dal giudice può essere contestata soltanto con la querela di falso per materiale contraffazione in ipotesi attuata in tempo successivo al deposito in cancelleria a norma dell'art. 133 c.p.c. (Cass. I, n. 11860/2006). Al difetto del requisito della sottoscrizione del giudice è equiparata la sottoscrizione illeggibile, allorché nella sentenza non risulti neppure indicato il giudice che l'abbia pronunciata, onde rimanga impedita ogni possibilità di individuazione del decidente: Cass. III, n. 28281/2011, nell'enunciare tale principio, ha, però, ritenuto non inficiata da nullità la sentenza impugnata nella quale era possibile individuare l'estensore sia dall'indicazione, nel testo della stessa, del giudice relatore, sia dall'apposizione di una firma in calce al medesimo provvedimento caratterizzata dalla presenza di una lettera alfabetica che non permetteva alcuna confusione con l'altro componente del collegio. La sottoscrizione di una sentenza emessa da un organo collegiale ad opera di un magistrato che non componeva il collegio giudicante, in luogo del magistrato (nella specie, il presidente) che ne faceva parte e che avrebbe dovuto sottoscriverla, integra l'ipotesi della mancanza della sottoscrizione della sentenza da parte del giudice disciplinata dagli artt. 132 e 161, comma 2, c.p.c. Il difetto di detta sottoscrizione, se rilevato, anche d'ufficio, nel giudizio di cassazione, comporta la dichiarazione di nullità della sentenza ed il rinvio della causa, ai sensi degli artt. 354, comma 1, 360, n. 4, e 383, ultimo comma, c.p.c., al medesimo giudice che ha emesso la sentenza carente di sottoscrizione, il quale viene investito del potere — dovere di riesaminare il merito della causa stessa e non può limitarsi alla mera rinnovazione della sentenza (Cass. II, n. 3161/2006). Modalità di prosecuzione del giudizioLa prosecuzione del giudizio dinanzi alla commissione tributaria provinciale, all'esito della rimessione del giudizio da parte della commissione tributaria regionale, è automatica, come, peraltro, già previsto anche nel sistema previgente dall'art. 24 del d.P.R. n. 636 del 1972, e non necessita di riassunzione ad istanza di parte, a differenza di quanto imposto dall'art. 353, comma 2, c.p.c., ai sensi del quale le parti debbono riassumere il processo nel termine perentorio di tre mesi dalla notificazione della sentenza. È la segreteria della commissione tributaria regionale a trasmettere d'ufficio il fascicolo del processo alla segreteria della commissione tributaria provinciale nei trenta giorni successivi al passaggio in giudicato della sentenza di rimessione della causa al primo grado, coincidente con la scadenza del termine lungo ex art. 327 c.p.c. (già di sei mesi ed oggi di tre mesi dalla pubblicazione) o di quello breve ex art. 325, comma 2, c.p.c. (di sessanta giorni) o, infine, in caso di proposizione del ricorso per cassazione, con la pubblicazione della decisione di rigetto. La segreteria della commissione tributaria regionale potrà, però, provvedere nei trenta giorni successivi alla scadenza del termine breve di cui all'art. 325 c.p.c. unicamente ove la parte assolva l'onere a suo carico, previsto dall'art. 38 del d.lgs. n. 546 del 1992, di depositare l'originale o copia autentica dell'originale notificato ovvero copia autentica della sentenza consegnata o spedita per posta, con fotocopia della ricevuta di deposito o della spedizione per raccomandata a mezzo del servizio postale unitamente all'avviso di ricevimento nella segreteria, che ne rilascia ricevuta e l'inserisce nel fascicolo d'ufficio. Tale onere assicura all'ufficio la conoscenza dell'eventuale formazione del giudicato, ma il suo inadempimento non è sanzionato in alcun modo, sicché non ne può derivare un arresto del giudizio, ma solo un ritardo, visto che la segreteria della commissione tributaria regionale, in assenza di adeguata informazione, provvederà alla riattivazione del processo nei trenta giorni successivi alla scadenza del termine lungo di impugnazione (Longo, 825). La competenza relativamente alla prosecuzione del giudizio spetta sempre alla medesima commissione tributaria provinciale che aveva pronunciato la sentenza gravata, eventualmente anche alla medesima sezione, a differenza di quanto previsto per il giudizio di rinvio all'esito della cassazione dall'art. 384, comma 2, c.p.c. che fa riferimento ad altro giudice (Gianoncelli, 834). È stata, difatti, eliminata la prescrizione, contenuta nell'art. 24 del d.P.R. n. 636/1972, in base alla quale la causa doveva essere rimessa ad altra sezione della commissione di primo grado o, in mancanza, ad altra commissione di primo grado. La segreteria della commissione provinciale tributaria dovrà dare comunicazione alle parti dell'udienza di trattazione, mentre non è necessaria né la costituzione delle parti né l'esame preliminare del ricorso di cui all'art. 27 del d.lgs. n. 546 del 1992. Quest'ultima fase sarebbe del tutto superflua, essendo deputata al controllo di fattispecie, quali l'inammissibilità per tardiva notifica del ricorso o tardiva costituzione, che non possono più verificarsi (Pistolesi, 477, il quale ammette, invece, la possibilità di produrre nuovi documenti ex art. 32 del d.lgs. n. 546 del 1992 – possibilità di cui, con riferimento alle parti già coinvolte, può, però, dubitarsi, laddove si aderisca all'impostazione secondo cui il giudizio all'esito di rimessione integra una prosecuzione di quello originario). La giurisprudenza, sia pure con riferimento al processo civile (in particolare al rito del lavoro), ha chiarito che la riassunzione del giudizio in primo grado, dopo che il giudice di appello, in applicazione degli artt. 353 e 354 c.p.c., ne abbia disposto la rimessione al primo giudice dichiarando nulla per difetto di integrità del contraddittorio la sentenza emessa in prime cure, comporta la continuazione del giudizio precedentemente instaurato e non l'instaurazione di un nuovo giudizio, con conseguente inammissibilità della proposizione di domande nuove (Cass. sez. lav., n. 12719/2013; v. anche Cass. lav., n. 11628/2007, secondo cui l'attore, qualora non abbia indicato nell'atto introduttivo i mezzi di prova dei quali intenda avvalersi, decade dal relativo onere, con conseguente inammissibilità di quelli indicati nell'atto di riassunzione perché tardivamente proposti, fermo restando la possibilità, da parte del giudice, di esercitare i poteri istruttori come consentitigli dall'art. 421 c.p.c.). Contenuto della sentenza e impugnabilitàL'art. 360, comma 3, c.p.c., come modificato dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, stabilisce che non sono immediatamente impugnabili con ricorso per cassazione le sentenze che decidono di questioni insorte senza definire, neppure parzialmente, il giudizio, potendo essere proposto il ricorso per cassazione, senza necessità di riserva, solo allorché sia impugnata la sentenza che definisce, anche parzialmente, il giudizio. Tuttavia, la dottrina qualifica le sentenze ex artt. 353 e 354 c.p.c. come sentenze definitive, perché chiudono il processo dinanzi al giudice che le ha pronunciate e non contengono provvedimenti sulla prosecuzione, che resta incerta e subordinata alla riassunzione, sicché ne esclude la riconducibilità all'art. 360, comma 3, c.p.c. Si è, d'altronde, rilevato che l'art. 353, comma 3, c.p.c., richiamato dal successivo art. 354 c.p.c., nel prevedere che il termine di riassunzione del processo è interrotto ove sia proposto il ricorso per cassazione, ne presuppone l'immediata ammissibilità avverso le sentenze che rimettono la causa in primo grado (Balena, 3109). Nonostante le differenze già evidenziate, proprio con riferimento alla prosecuzione del giudizio dinanzi al giudice di primo grado, che nel contenzioso tributario avviene automaticamente e non è rimessa all'iniziativa di parte, la medesima conclusione vale anche per le sentenze ex art. 59, comma 1, le quali, analogamente a quelle ex artt. 353 e 354 c.p.c., concludono il processo dinanzi al giudice di secondo grado. Del resto, una soluzione diversa si porrebbe in contrasto gli artt. 24 e 111 Cost. In primo luogo il differimento del ricorso per cassazione avverso successivamente alla rinnovazione del processo, risulterà del tutto inutile (ancora Balena, 3109). Inoltre, le sentenze ex artt. 353 e 354 c.p.c. contengono il capo provvisoriamente esecutivo della spese processuali e devono, quindi, poter essere immediatamente impugnate, pena la lesione del diritto di difesa del soccombente, che si vede esposto alla pretesa esecutiva della controparte, senza alcuna possibilità di reazione. Per quanto concerne il secondo aspetto, il differimento del ricorso per cassazione avverso le sentenze ex artt. 353 e 354 c.p.c. comporta il rischio — ben più grave di quello insito nella riserva ex lege di ricorso per cassazione avverso una normale sentenza non definitiva di appello — di dover inutilmente proseguire, dopo due gradi di giudizio, altri due gradi prima di poter ottenere la cassazione della sentenza che ha reinvestito il primo giudice. A ciò si aggiunga che, in contrasto con l'obiettivo di semplificazione e razionalizzazione della riforma del 2006, si finisce con l'imporre alla parte, la quale, ad esempio, voglia abbandonare tutte le difese diverse dall'eccezione di giurisdizione, non solo di attendere l'esito del giudizio di primo grado, ma anche di affrontare nuovamente, senza alcuna utilità, il giudizio di secondo grado, pur non potendo più in tale sede riproporre la questione, su cui il giudice ad quem si è già pronunciato (così, oltre a Balena già citato, Consolo, 423). Cass. S.U. , n. 25774/2015 hanno ritenuto che la sentenza, con cui il giudice d'appello riforma o annulla la decisione di primo grado e rimette la causa al giudice a quo ex artt. 353 o 354 c.p.c., è immediatamente impugnabile con ricorso per cassazione, trattandosi di sentenza definitiva, che non ricade nel divieto, dettato dall'art. 360, comma 3, c.p.c., di separata impugnazione in cassazione delle sentenze non definitive su mere questioni, per tali intendendosi solo quelle su questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito che non chiudono il processo dinanzi al giudice che le ha pronunciate (si rinvia per il commento a Ronco, Sull'immediata ricorribilità per cassazione della sentenza d'appello meramente rescindente ex artt. 353 e 354 c.p.c., in Giur. it. 2016, 1902). Risulta, dunque, superato il contrario orientamento, espresso, tra le tante, da Cass. S.U., n. 10136/2012; Cass. S.U., n. 16310/2013; Cass. S.U., n. 20073/2013, secondo cui, in applicazione dell'art. 360, comma 3, c.p.c., come modificato dall'art. 2 del d.lgs. n. 40/2006, non è immediatamente impugnabile con ricorso per cassazione la sentenza d'appello che abbia affermato la giurisdizione del giudice ordinario, negata dal giudice di primo grado, e rimesso la causa a quest'ultimo, trattandosi di pronuncia che, decidendo sulla questione pregiudiziale insorta, non è idonea a definire, neppure parzialmente, il giudizio. La medesima conclusione vale anche per le sentenze ex art. 59, comma 1. Sono, dunque, immediatamente ricorribili per cassazione le sentenze che hanno rimesso la causa al giudice di primo grado così come quelle che, invece, escludendo l'applicabilità dell'art. 59, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, hanno deciso nel merito la causa. In tale ultima ipotesi, la fondatezza del ricorso comporterà la cassazione della sentenza con rinvio non al giudice di secondo, ma a quello di primo grado ai sensi dell'art. 383, comma 3, c.p.c., che stabilisce che la Corte, se riscontra una nullità del giudizio di primo grado per la quale il giudice d'appello avrebbe dovuto rimettere le parti al primo giudice, rinvia la causa a quest'ultimo (v., tra le altre, Cass. III, n. 10034/2004, allorquando si sia verificata violazione delle norme sul litisconsorzio necessario, non rilevata né dal giudice di primo grado, che non ha disposto la integrazione del contraddittorio, né da quello di appello che non ha provveduto a rimettere la causa al primo giudice ai sensi dell'art. 354, comma 1, c.p.c., resta viziato l'intero procedimento e si impone, in sede di giudizio per cassazione, l'annullamento, anche di ufficio, delle pronunce emesse e il rinvio della causa al giudice di prime cure a norma dell'art. 383, comma 3, c.p.c.). Va ricordato che, secondo Cass. V, n. 24972/2006 e Cass. V, n. 13113/2012, qualora la commissione tributaria regionale, dopo aver accertato la mancata comunicazione dell'avviso di trattazione della controversia in primo grado, invece di disporre la rimessione della causa alla commissione tributaria provinciale, come previsto dall'art. 59, comma 1, lett. b), abbia consentito al contribuente di produrre la documentazione posta a fondamento del ricorso, decidendo poi la causa nel merito, l'intervenuta regolarizzazione del contraddittorio nel giudizio di secondo grado, con possibilità per il contribuente di esplicitare tutte le proprie difese, non consente alla Corte di cassazione di annullare la sentenza di appello con riferimento all'iniziale vizio che inficiava la sentenza di primo grado, posto che la cassazione con rinvio, ai sensi dell'art. 383, comma 1, c.p.c., è prevista soltanto al fine di consentire una valutazione di merito, nella specie ampiamente espletata ed adeguatamente motivata. La natura definitiva delle sentenze con cui la causa è rimessa al giudice di primo grado ha indotto ad esigere che le stesse contenessero la liquidazione delle spese, da farsi non in base al principio della soccombenza virtuale rispetto alla domanda, ma tenuto conto della soccombenza effettiva in relazione all'unica questione, dibattuta e decisa. Tale posizione si fonda sulla considerazione che l'art. 91 c.p.c., ai sensi del quale «il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell'altra parte e ne liquida l'ammontare insieme con gli onorari di difesa», non richiede una decisione di merito, ma soltanto una pronuncia che chiuda definitivamente il processo davanti al giudice presso cui è pendente, come è la sentenza di appello che, per qualunque motivo, rimetta la causa davanti al giudice di primo grado e conclude la fase del secondo grado (sul punto v. Gianoncelli, 830; per la giurisprudenza è sufficiente ricordare Cass. S.U., n. 9594/1994, secondo cui qualora il giudice di appello, a norma dell'art. 353 c.p.c. emetta sentenza con la quale afferma la giurisdizione del giudice ordinario, negata in primo grado, e rimette le parti davanti al primo giudice, deve anche provvedere sulle spese, non potendosi rinviare la relativa pronuncia ad un momento successivo, in quanto il giudice d'appello, con l'indicata sentenza, chiude il processo davanti a sé; Cass. S.U., n. 23669/2009, secondo cui il giudice d'appello che, riformando la sentenza del giudice di primo grado declinatoria della giurisdizione del giudice ordinario, dichiari la giurisdizione di quest'ultimo e rimetta le parti davanti al primo giudice, non può porre le spese del giudizio di primo grado a carico della parte risultata vittoriosa in appello sulla questione di giurisdizione, né può, ai fini della statuizione sulle spese, deliberare, sia pure incidenter tantum, il merito della controversia, dovendo statuire sulle spese del giudizio di primo grado non in base al principio della soccombenza virtuale, ma tenuto conto della soccombenza in relazione all'unica questione, dibattuta e decisa, della giurisdizione). Va ricordato che si è ritenuta ammissibile l'impugnazione con la quale l'appellante si limiti a dedurre soltanto i vizi di rito avverso una pronuncia che abbia deciso anche nel merito in senso a lui sfavorevole esclusivamente laddove i vizi denunciati comporterebbero, se fondati, una rimessione al primo giudice ai sensi degli artt. 353 e 354 c.p.c. o art. 59, comma 1, mentre, nelle ipotesi in cui il vizio denunciato non rientri in uno di tali casi tassativamente previsti, è necessario che l'appellante deduca ritualmente anche le questioni di merito, sicché l'appello fondato esclusivamente su vizi di rito, senza contestuale gravame contro l'ingiustizia della sentenza di primo grado, dovrà ritenersi inammissibile, oltre che per difetto di interesse, anche per non rispondenza al modello legale di impugnazione (Cass. III, n. 2053/2010; Cass. II, n. 27296/2005; Cass. n. 17026/2004; Cass. V, n. 2455/2001; in senso contrario, però, Cass. III, n. 11292/2005, con nota di Balena, In tema di appello fondato esclusivamente sulla nullità della citazione, in Foro it. 2006, I, 3223, secondo cui è ammissibile l'appello proposto dalla parte convenuta in primo grado, ivi dichiarata contumace e rimasta soccombente, ancorché limitato alla sola deduzione di una nullità della citazione, senza alcuna censura sul merito, e, quindi, di un vizio che non può comportare la rimessione della causa al primo giudice, non rientrando fra quelli indicate dalle tassative ipotesi di cui agli artt. 353 e 354 c.p.c., atteso che in questo caso il giudice dell'appello, una volta accertata la dedotta nullità, deve procedere — in applicazione dell'art. 159, comma 1, c.p.c. — alla declaratoria della nullità degli atti processuali successivi alla citazione e, quindi, anche della sentenza di primo grado e, successivamente, ritenuta verificata la sanatoria della nullità della citazione con effetti ex nunc ex art. 156 c.p.c. e non ex tunc ex art. 164 c.p.c., deve provvedere alla decisione sul merito della domanda, che è imposta sia dall'art. 354 che dall'art. 112 c.p.c., procedendo, se richiesto da alcuna delle parti, in applicazione dell'art. 354, ultimo comma, c.p.c., alla rinnovazione degli atti nulli compiuti in primo grado. Inoltre, la Corte di Cassazione, allorché rilevi, essendone stata investita dal relativo motivo di ricorso, che il giudice d'appello abbia dichiarato inammissibile l'appello per mancata deduzione di vizi di merito della sentenza, deve cassare con rinvio la sentenza impugnata prescrivendo al giudice del rinvio di procedere con le suddette modalità, tenendo conto delle eventuali decadenze medio tempore verificatesi in conseguenza dell'eventuale sanatoria ex nunc della citazione, deducibili ai sensi dell'art. 394, ultimo comma, c.p.c.). Si è, inoltre, esclusa la possibilità, da parte del giudice di primo grado a cui sia stata erroneamente rimessa la decisione da quello dell'appello, di sollevare il regolamento di competenza di ufficio (così Cass. V, n. 8655/2001 e Cass. V, n. 1093/1997, secondo cui qualora la Commissione tributaria di secondo grado rimetta le parti davanti a quella di primo grado, ai sensi dell'art. 24 del d.P.R. n. 636 del 1972, quest'ultima non può richiedere d'ufficio il regolamento di competenza ex art. 45 c.p.c., al fine di contestare detta rimessione, atteso che il conflitto non verte in tema di competenza per materia o territoriale inderogabile, ma è analogo a quello che venga sollevato, in sede di contenzioso ordinario, dal giudice di primo grado, quando il giudice d'appello gli abbia rimesso la causa fuori delle ipotesi previste dagli artt. 353 e 354 c.p.c.). BibliografiaAuletta, La nullità (sanabile) della sentenza che manca della sottoscrizione di «un» giudice, in Foro it. 2014, I, 2072; Balena, Rimessione al primo giudice, ricorso per cassazione e ragionevole durata del processo, in Foro it. 2014, I, 3109; Balena, In tema di appello fondato esclusivamente sulla nullità della citazione, in Foro it. 2006, I, 3223; Besso, Omessa, parziale, sottoscrizione della sentenza e rinnovazione della deliberazione, in Corr. giur. 2006, 1432; Consolo, Inesistente la sentenza o incompleta solo l'attività di «completamento» del dispositivo già letto dal collegio in udienza?, in Corr. giur. 2006, 1432; Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile. Volume II - Il processo di primo grado e le impugnazioni delle sentenze, Torino, 2014, 423; Fontana, Nullità insanabile per viziata costituzione del giudice, in Riv. dir. proc. 1975, 116; Gianoncelli, Sub art. 59, in AA.VV., Codice commentato del processo tributario, a cura di Tesauro, 2016, 822; Longo, Sub art. 59, in AAVV., Commentario breve alle leggi del processo tributario, a cura di Consolo – Glendi, Padova, 2012, 814; Pistolesi, L'appello nel processo tributario, Torino, 2002; Schiavolin, La Cassazione decide nel merito le controversie «di diritto» anche in caso di nullità della sentenza d'appello (e si conferma inclemente sui condoni «clemenziali»), in Riv. dir. trib. 2015, II, 88; Tesauro, Manuale del processo tributario, Torino, 2014. |