Codice Civile art. 5 - Atti di disposizione del proprio corpo.

Luca Stanziola

Atti di disposizione del proprio corpo.

[I]. Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all'ordine pubblico o al buon costume [1343, 1418; 579 c.p.]1.

 

[1] In deroga al presente articolo, v. art. 1 l. 19 settembre 2012, n. 167, recante « Norme per consentire il trapianto parziale di polmone, pancreas e intestino tra persone viventi ».

Inquadramento

L' art. 5 c.c. vieta gli atti di disposizione del proprio corpo «quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica». D'altronde, tali atti possono essere sottratti alla generale autonomia patrimoniale del soggetto anche nel caso in cui «siano altrimenti contrari alla legge, all'ordine pubblico o al buon costume».

L'articolo in commento è espressione del fondamentale principio della semi-disponibilità del diritto all'integrità fisica.

Secondo la dottrina, la norma nel sancire la liceità degli atti di disposizione del proprio corpo, se non comportino una diminuzione permanente dell'integrità fisica, mira in effetti a contemperare due contrapposte esigenze: la prima, in prospettiva proprietaria, volta a garantire una certa disponibilità del proprio corpo, inteso quale «oggetto» di un diritto patrimoniale (c.d. ius in se ipsum: Carnelutti, 127, che riconduce il corpo umano all'interno di una logica dominicale); l'altra, tipicamente autoritaria, propria della tradizione culturale in cui vide la luce l'attuale codice civile, volta a promuovere un controllo pubblicistico in funzione della tutela di interessi superiori (così, Bessone - Ferrando, 200; sposano la tesi pubblicistica, in particolare, Santoro Passarelli , 51, e Pesante, 656, il quale ultimo non a caso preferisce parlare di atti di disposizione «sul» corpo umano, e non del corpo umano, come vorrebbe la rubrica dell'art. 5; sull'impossibilità di mercificare il corpo umano, cfr. anche Venuti, 827, che al riguardo rinvia all'art. 21 della Convenzione di Oviedo sui diritti umani, e all'art. 3, comma 2, della Carta dei Diritti Fondamentali dell'U.E, ove è fatto divieto di fare del corpo umano e delle sue parti una fonte di lucro). La norma in esame, più di recente, viene letta in sinergia con l'art. 32 Cost. e viene considerata la massima espressione della tutela della salute nei rapporti tra privati (Alpa – Ansaldo, 360).

Altra e più sensibile dottrina distingue a seconda degli effetti prodotti dall'atto lesivo, poiché se essi incidono nella sola sfera giuridica del disponente dovrebbe prevalere il principio della libera disponibilità del proprio corpo, mentre al contrario qualora l'atto lesivo sia idoneo a produrre effetti anche nella sfera giuridica dei terzi, ignari, si ritiene prevalga il principio della indisponibilità (così Alpa - Ansaldo, 367; conforme Romboli, 239).

D'altra parte, secondo alcuni, l' art. 5 c.c. , nella parte in cui fa divieto di compiere atti dispositivi che cagionino una diminuzione permanente dell'integrità fisica della persona, sarebbe espressione del più generale principio che sancisce il divieto di abuso del diritto, dato che viene concesso al disponente un potere (che incide sulla propria integrità fisica), entro limiti e le direttive stabilite dall'ordinamento (Rossi, 227; così anche Pesante, 658, secondo cui in questo caso l'art. 5 farebbe applicazione del principio per cui «nessun diritto soggettivo può riconoscersi se non nei limiti della utilità sociale»).

In buona sostanza, quindi, l'art. 5 non impedisce qualsiasi regolamentazione che coinvolgesse la dimensione fisica della persona, ma intende fissare gli atti di disposizione del corpo entro limiti precisi e rigorosi, onde evitare un possibile abuso nell'utilizzo del corpo stesso (così Venuti, 827).

Secondo una parte della dottrina (Dogliotti, 365) non è escluso che con il termine “disposizione” il legislatore abbia voluto riferirsi anche ai contratti con cui il soggetto disponga del proprio corpo, con conseguente applicabilità della disciplina sull'inadempimento e risarcimento del danno (contra, tuttavia, De Cupis, 105, che predica l'indisponibilità dei diritti della persona con conseguente invalidità dell'atto di autonomia privata).

In questo senso, in ordine alla capacità richiesta per il compimento di “validi” atti dispositivi sul proprio corpo, secondo alcuni sarebbe necessaria la capacità di agire mentre secondo altri la sola capacità di intendere e di volere (riferimenti in Dogliotti, 373), sebbene, tuttavia, la lettera della legge sia assolutamente protesa per la necessaria sussistenza della capacità di agire in capo all'agente (cfr. l'art. 1 della l. 22 dicembre 2017, n. 219 in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento).

In giurisprudenza è pacifico l'orientamento secondo cui la manifestazione del consenso del paziente (o genitori se il paziente è minorenne) alla prestazione sanitaria costituisce esercizio del diritto fondamentale all'autodeterminazione in ordine al trattamento medico propostogli e, in quanto diritto autonomo e distinto dal diritto alla salute, trova fondamento diretto nei principi degli artt. 2,13 e 32, comma 2, Cost. (tra le tante, Cass. III, n. 26104/2022).

La limitata disponibilità del corpo umano tramite consenso del titolare

La soluzione contenuta nell'art. 5 è quindi il frutto del contemperamento dei predetti interessi, «con la conseguenza che l'attività dispositiva del corpo umano non è in assoluto vietata ma perimetrata dal divieto di diminuire in modo permanente la propria integrità fisica e dai limiti della contrarietà alla legge, all'ordine pubblico e al buon costume» (così Caggia, 556).

Anche se v'è stato chi ha intravisto nella norma un divieto assoluto di disposizione del proprio corpo, la dottrina assolutamente dominante, operando una lettura a contrario dell'art. 5 c.c. , ne ha tratto il principio opposto: l'art. 5, dunque, starebbe a testimoniare come gli atti dispositivi del proprio corpo sono generalmente ammessi, ad eccezione di quelli espressamente vietati, perché cagionanti una diminuzione permanente delle funzionalità del disponente ovvero perché vietati da disposizione legislative, dai principi di ordine pubblico o dal buon costume (riferimenti in Tozzi, 17, secondo cui «con una lettura deduttiva a contrario, potrebbe sostenersi che, fuori dai casi sanzionati dalla norma, si suppone l'esistenza di un generale potere di porre in essere validi atti [negozi] con effetti dispositivi»; così anche Venuti, 827, e De Cupis, 120, secondo cui il diritto all'integrità fisica è disponibile mediante consenso, liberamente prestato; conforme anche Alpa - Ansaldo, 366, anche alla luce dell'art. 13 Cost. che assicura la libertà del singolo di decidere in ordine agli atti che incidono sul proprio corpo).

Più in generale, si distingue (AlpaAnsaldo, 368) tra gli atti di disposizione del proprio corpo: (1) che esauriscono i loro effetti all'interno della sfera personale dell'agente, in quanto compiuti “manu propria”, senza I‘ausilio di terzi, sul proprio corpo (suicidio o autolesioni); (2) che vengono provocati da terzi a seguito del consenso prestato da un soggetto nei loro confronti, i cui effetti sono ritenuti vantaggiosi dal soggetto stesso (trattamenti sanitari); (3) che siano diretti a realizzare un vantaggio o conseguire un beneficio a favore di terzi (trapianti da vivo, donazioni di sangue o di seme); (4) che vengono compiuti da un soggetto che sottopone il proprio corpo a rischio di menomazioni anche gravi e permanenti (sperimentazione umana, attività sportive pericolose, come ad esempio le competizioni di Formula 1).

Non vi è unità di vedute, in dottrina, in merito all'esatta interpretazione del limite dalla diminuzione permanente delle funzionalità del corpo, essendo per taluni tale limite concepito in senso esclusivamente quantitativo, quale menomazione irreversibile e permanente, quindi empiricamente valutabile (così Romboli, 230), mentre, al contrario, altri ritengono che tale diminuzione permanente vada interpretata in senso qualitativo, in relazione quindi agli effettivi riflessi che la menomazione produce nella vita di relazione del singolo individuo (Caggia, 561, che ritiene di dover coniugare il concetto di diminuzione permanente con «lo sviluppo della persona considerata nei suoi valori spirituali e nelle sue relazioni sociali»; così sostanzialmente anche Pesante, 658).

Circa il limite derivante da disposizioni legislative, deve essere rilevato come in questo caso la legge funge da parametro attraverso cui viene radicalmente negato al titolare di disporre, sia pur lievemente, del proprio corpo, essendo in questi casi il consenso eventualmente prestato nullo, cioè a dire inefficace allo scopo (per Caggia, 562, sono escluse tra le norme di legge ivi contemplate le disposizioni penali, il cui effetto punitivo è escluso per l'operare della scriminante di cui all' art. 50 c.p. ); l'ordine pubblico, invece, inteso quale complesso di principi desumibili dall'intero ordinamento giuridico, permette di ampliare il carattere di inderogabilità di cui all'art. 5 con concetti di nuova emersione, e quindi non ancora normativamente tradottisi (per Rossi, 228, trattasi quindi di clausola generale a contenuto mutevole, in quanto soggetta a continue evoluzioni e condizionamenti storici); il limite del buon costume va invece inteso quale complesso di precetti morali, dominanti in un dato momento storico (Dogliotti, 364).

Sono quindi implicitamente ammessi tutti quegli atti che determinano una incisione lieve, se non lievissima, dell'integrità fisica, i c.d. atti di disposizione del proprio corpo per così dire consentiti, e quindi leciti, in quanto particolarmente lievi ovvero perché esplicitamente o implicitamente autorizzati.

Sicché, come sostenuto dalla più autorevole dottrina, si tratterebbe di una limitata disponibilità del corpo, con particolare riferimento alla facoltà del soggetto di acconsentire alla lesione della propria integrità fisica (c.d. consenso dell'avente diritto, ai sensi dell'art. 50 c.p. ), attraverso cui si avrebbe «non già di una inammissibile rinuncia al diritto all'integrità fisica, ma soltanto di una rinuncia preventiva alla tutela giuridica di fronte a certi atti lesivi che possono essere compiuti da determinati soggetti», giuridicamente autorizzati (così sempre Pesante, 657; così anche Caggia, 559, e Giacobbe, 892, secondo cui «L' art. 5 c.c. deve essere collegato all' art. 50 c.p., precisando, il primo, la norma in bianco contenuta nel secondo»; nel medesimo senso, De Cupis, 116). Naturalmente, la disponibilità del corpo, non essendo assoluta, è destinata a soccombere nel caso in cui l'atto dispositivo cagioni una diminuzione permanente o addirittura la perdita della integrità fisica, ovvero quando sia altrimenti contrario alla legge o all'ordine pubblico o al buon costume, sicché il consenso eventualmente a tal uopo prestato è radicalmente privo dei suoi effetti tipici (in questo caso, quindi, «il consenso è improduttivo di effetti, giacché è nullo in quanto contrario al divieto del detto art. 5 c.c. e cioè contrario alla legge»: Pesante, 657; così anche De Cupis, 119: «il consenso all'offesa dell'integrità fisica sarà, dunque, illegittimo tutte le volte che trattasi di forme di offesa da cui la legge vuole inderogabilmente preservare l'integrità fisica»).

Pur essendo il corpo umano, e quindi l'integrità fisica, limitatamente disponibile da parte del suo titolare, nei limiti appunto del consenso scriminante ex art. 50 c.p. , deve negarsi in radice la disponibilità del diritto alla vita, massima espressione, secondo taluni, dell'integrità fisica: sicché, il diritto alla vita non è disponibile nemmeno mediante consenso (Pesante, 658; De Cupis, 106, secondo cui, pur essendo il diritto alla vita radicalmente indisponibile da parte del titolare, esso è sacrificabile in virtù di un interesse pubblico preminente che possa giustificarne la soppressione, come avveniva in passato con la pena di morte, oggi abolita, ovvero con la difesa della Patria, ancora proclamata dall' art. 52, comma 1, Cost. , comportante il pericolo di morte del compatriota). Per quanto riguarda, poi, l'espletamento di attività, pur non immediatamente lesive ma comunque rischiose per l'incolumità fisica (come, ad es., le attività sportive violente, o che comunque possono arrecare danno ai partecipanti), esse sono state ritenute esulanti dall'ambito applicativo dell'art. 5 c.c. in quanto attività socialmente rilevanti, i cui limiti particolarmente rigorosi mal si adattano allo svolgimento di tali attività (riferimenti in Rossi, 227)

Il consenso scriminante, da un punto di vista privatistico, è un negozio giuridico unilaterale, di regola revocabile da parte dell'avente diritto. Sicché, dovrebbe ritenersi privo di effetto il consenso prestato in vista di una futura lesione, e cioè di atti diretti a creare un'obbligazione di disporre del diritto all'integrità fisica, proprio in virtù della revocabilità del negozio in discorso, «che in via normale deve determinarsi liberamente e spontaneamente e, pertanto, all'infuori di qualsiasi coazione contrattuale» (Pesante, 660; De Cupis, 142).

La regola della revocabilità del consenso prestato dal titolare è, però, passibile di deroga, nel caso di atti che colpiscono l'integrità fisica in modo particolarmente lieve, ovvero qualora ad essere incisa sia una delle parti del corpo relativamente meno importante (come avviene, ad es., nel caso di taglio di capelli o di unghie, ovvero nel caso del c.d. contratto di baliatico): in tutti questi casi, il consenso prestato non può essere derogato, pena il risarcimento del danno da inadempimento contrattuale (trattandosi di obblighi di fare, e quindi incoercibili, non è ammissibile l'esecuzione in forma specifica).

Riassumendo, è sempre ammessa la revoca del consenso precedentemente manifestato se l'impegno assunto comporta un rischio per l'integrità fisica, o addirittura per la vita, mentre al contrario deve essere negata la revocabilità del consenso medesimo nel caso di atti dispositivi del corpo irrilevanti sotto il profilo del pregiudizio fisico (Caggia, 559).

Casistica

La dottrina più tradizionale era solita affermare che qualsiasi intervento medico-chirurgico di tipo invasivo necessitasse del consenso del diretto interessato, ovvero del suo rappresentante legale. Soltanto nel caso in cui «l'intervento operatorio sia richiesto dalla urgente necessità di salvare il malato da un danno gravissimo alla persona non evitabile per altra via, il chirurgo può procedere all'operazione di suo proprio arbitrio perché vale la discriminante dello stato di necessità», di cui all'art. 54 c.p. (Pesante, 659).

In senso contrario, altra dottrina ha cercato di ampliare la sfera di operatività del medico anche oltre i limiti di cui all'art. 5 c.c., almeno nel caso di interventi a scopo curativo, e quindi salvavita, ove «una lesione anche grave sarebbe volta a reintegrare l'efficienza dell'organismo e ad impedire più gravi conseguenze» (AlpaAnsaldo, 257).

Per quanto riguarda, in particolare, operazioni di chirurgia estetica, secondo una certa opinione nel caso in cui «il consenso verta su un'operazione gravemente pericolosa al fine di correggere un difetto estetico di scarsa rilevanza, la morale corrente vieta che per una esagerata ambizione di estetica si esponga a grave repentaglio la propria salute» (così, Pesante, 659; nello stesso senso, De Cupis, 122, secondo cui è invalido il consenso prestato all'operazione chirurgica — per fini estetici — atta a determinare una diminuzione permanente dell'integrità fisica, per violazione dell'art. 5 c.c., a meno che tale operazione non sia necessaria per la tutela della salute dell'individuo da un pericolo futuro, ma altamente probabile).

Quanto al consenso informato prestato in vista della procreazione medicalmente assistita, dispone la l. n. 40/2004, all'art. 6, che prima del ricorso ed in ogni fase di applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita il medico informa in maniera dettagliata i pazienti «sui metodi, sui problemi bioetici e sui possibili effetti collaterali sanitari e psicologici conseguenti all'applicazione delle tecniche stesse, sulle probabilità di successo e sui rischi dalle stesse derivanti, nonché sulle relative conseguenze giuridiche per la donna, per l'uomo e per il nascituro».

E' invece espressamente vietato dall'art. 12 comma 6, l. n. 40/2004 il ricorso alla pratica della cd. maternità surrogata.

Per surrogazione di maternità o maternità surrogata (o gestazione per altri) si intende la pratica con la quale una donna assume l'obbligo di provvedere alla gestazione e al parto per conto di altra persona o di una coppia sterile, alla quale si impegna a consegnare il nascituro: in tal caso, una donna utilizza il corpo di un'altra donna che presta il proprio al solo fine di aiutarla a realizzare il suo esclusivo desiderio di avere un figlio.

Ora, la Corte cost., n. 272/2017 – nel giudicare non fondata la q.l.c. dell'art. 263 c.c., censurato, per violazione degli artt. 2,3,30,31 e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali - ha ritenuto che la maternità surrogata offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane) ed imponga di tutelare l'interesse del minore nei limiti consentiti da tale verità.

Ancora, per Cass. S.U., n. 12193/2019, Il riconoscimento dell'efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero con cui sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all'estero mediante il ricorso alla maternità surrogata ed il genitore d'intenzione munito della cittadinanza italiana trova ostacolo nel divieto della surrogazione di maternità previsto dalla L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6, qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità umana della gestante e l'istituto dell'adozione; la tutela di tali valori, non irragionevolmente ritenuti prevalenti sull'interesse del minore, nell'ambito di un bilanciamento effettuato direttamente dal legislatore, al quale il giudice non può sostituire la propria valutazione, non esclude peraltro la possibilità di conferire rilievo al rapporto genitoriale, mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici, quali l'adozione in casi particolari, prevista dalla l. n. 184 del 1983, art. 44, comma 1, lett. d).

Secondo la giurisprudenza, invero, si può anche fare a meno del ricorso all'art. 5 c.c., norma eccessivamente restrittiva; in alternativa, l'art. 5 c.c. necessita di una interpretazione costituzionalmente orientata che la renda più duttile, e quindi più facilmente applicabile anche ai casi di maggiore complessità, dove evidentemente il criterio della lesione permanente all'integrità fisica va superato.

Così, per Cass. III, n. 364/1997 «L'attività medica trova fondamento e giustificazione non tanto nel consenso dell'avente diritto (art. 51 c.p.), che incontrerebbe spesso l'ostacolo di cui all'art. 5 c.c., bensì in quanto essa stessa legittima, ai fini della tutela di un bene, costituzionalmente garantito, quale il bene della salute, cui il medico è abilitato dallo Stato»; in ogni caso, tuttavia, dall'autolegittimazione dell'attività medica, anche al di là dei limiti dell'art. 5 c.c., non può trarsi, la convinzione che il medico possa, di norma intervenire senza il consenso o malgrado il dissenso del paziente, poiché la necessità del consenso — immune da vizi e, ove comporti atti di disposizione del proprio corpo, non contrario all'ordine pubblico ed al buon costume — si evince, in generale, dall'art. 13 Cost., il quale sancisce l'inviolabilità della libertà personale, e dall'art. 32, comma 2, della Costituzione.

Secondo la Cass. III, n. 16543/2011, quindi, costituisce violazione del diritto inviolabile all'autodeterminazione (artt. 2,3 e art. 32 Cost., comma 2) l'inadempimento da parte del sanitario dell'obbligo di richiedere il consenso informato al paziente nei casi previsti, essendo il diritto al consenso informato «un vero e proprio diritto della persona» (cfr. anche Corte cost. n. 438/2008).

In merito alla consistenza effettiva del predetto consenso, in particolare, Cass. III, n. 2854/2015, e Cass. III, n. 24220/2015, secondo cui l'obbligo del consenso informato, che costituisce legittimazione e fondamento del trattamento sanitario senza il quale l'intervento del medico è sicuramente illecito, anche se è svolto nell'interesse del paziente, attiene all'informazione circa le prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente viene sottoposto, e in particolare al possibile verificarsi, in conseguenza dell'esecuzione del trattamento stesso, di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente, al fine di porre quest'ultimo in condizione di consapevolmente consentire al trattamento sanitario prospettatogli. La giurisprudenza ha ulteriormente precisato che l'acquisizione del consenso informato del paziente, da parte del sanitario, costituisce prestazione altra e diversa rispetto a quella avente ad oggetto l'intervento terapeutico, di talché l'errata esecuzione di quest'ultimo dà luogo ad un danno suscettibile di ulteriore e autonomo risarcimento rispetto a quello dovuto per la violazione dell'obbligo di informazione, anche in ragione della diversità dei diritti rispettivamente pregiudicati nelle due differenti ipotesi, all'autodeterminazione delle scelte terapeutiche ed all'integrità psicofisica (Cass. III, n. 10414/2016).

Per la giurisprudenza (Cass. III, n. 2177/2016), quindi, il consenso informato, anzitutto, deve essere personale (salvo i casi di incapacità di intendere e volere del paziente), specifico e esplicito, nonché reale ed effettivo, non essendo consentito il consenso presunto; il consenso deve essere poi pienamente consapevole e completo, ossia appunto «informato», dovendo basarsi su informazioni dettagliate fornite dal medico, ciò implicando la piena conoscenza della natura dell'intervento medico e/o chirurgico, della sua portata ed estensione, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative (nel caso di specie, la S.C. ha puntualizzato che non adempie all'obbligo di fornire un valido ed esaustivo consenso informato il medico il quale ritenga di sottoporre al paziente, perché lo sottoscriva, un modulo del tutto generico, da cui non sia possibile desumere con certezza che il paziente medesimo abbia ottenuto in modo esaustivo le suddette informazioni). Così anche Trib. Milano, I, 1 dicembre 2014, n. 14258, secondo cui «Il consenso informato va inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, e si configura quale vero e proprio diritto della persona»; esso trova fondamento nei principi espressi nell'art. 2 Cost., che tutela e promuove i diritti fondamentali della persona, e negli artt. 13 e 32 Cost. i quali stabiliscono rispettivamente che la libertà personale è inviolabile e che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge; il consenso informato, dunque, rappresenta, ad un tempo, una forma di rispetto per la libertà dell'individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi, che si sostanzia non solo nella facoltà di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche, eventualmente, in quella di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, atteso il principio personalistico che anima la nostra Costituzione.

In tema di chirurgia estetica, la giurisprudenza si è mostrata particolarmente severa nell'accertamento della responsabilità del medico, e soprattutto nel suo dovere di informazione nei confronti del paziente. Il medico ha, infatti, in questo campo un preciso obbligo di informazione verso il paziente (c.d. consenso informato). In sostanza, il miglioramento del proprio aspetto fisico — che è il risultato che il paziente intende raggiungere con l'intervento estetico (che in questo senso si dice “non necessario”) — acquista un particolare significato nel quadro dei doveri informativi cui è tenuto il sanitario, anche perché soltanto in questo modo il paziente è messo in grado di valutare l'opportunità o meno di sottoporsi all'intervento di chirurgia estetica.

È stata quindi ritenuta, in giurisprudenza, la responsabilità del medico per i danni alla salute cagionati al paziente dall'intervento, pur compiuto con perizia, ma in base ad un consenso viziato (Cass. III, n. 12830/2014), poiché la mancanza di informazione rende illegittimo l'intervento, e di conseguenza contra ius il danno derivatone al paziente. Pertanto, l'omessa informazione causa l'illegittimità, e quindi l'antidoverosità, dell'intervento: l'intervento non deve essere compiuto se manca il consenso informato.

Se ne ricava che nel caso di “interventi non necessari”, quali appunto quelli estetici, il consenso informato costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario, sicché «quando ad un intervento di chirurgia estetica consegua un inestetismo più grave di quello che si mirava ad eliminare o ad attenuare, all'accertamento che di tale possibile esito il paziente non era stato compiutamente e scrupolosamente informato consegue ordinariamente la responsabilità del medico per il danno derivatone, quand'anche l'intervento sia stato correttamente eseguito».

Si pone poi l'ulteriore problema della facoltà, per il paziente, di rifiutare le cure terapeutiche, anche eventualmente salvifiche, in virtù del principio di autodeterminazione in materia sanitaria. Secondo la Cass. III, n. 23676/2008, in un caso di rifiuto a subire trasfusioni di sangue da parte di un testimone di Geova, pur essendo stato riconosciuto al paziente un vero e proprio diritto di non curarsi, anche se tale condotta lo esponga al rischio stesso della vita, al contrario nell'ipotesi di pericolo grave ed immediato per la vita del paziente, il dissenso del medesimo deve essere oggetto di manifestazione espressa, inequivoca, attuale, informata: «in definitiva, un dissenso che segua e non preceda l'informazione avente ad oggetto la rappresentazione di un pericolo di vita imminente e non altrimenti evitabile, un dissenso che suoni attuale e non preventivo, un rifiuto ex post e non ex ante, in mancanza di qualsivoglia consapevolezza della gravità attuale delle proprie condizioni di salute».

Più di recente, è stato sostenuto che il Testimone di Geova, che fa valere il diritto di autodeterminazione in materia di trattamento sanitario a tutela della libertà di professare la propria fede religiosa, ha il diritto di rifiutare l'emotrasfusione pur avendo prestato il consenso al diverso trattamento che abbia successivamente richiesto la trasfusione, anche con dichiarazione formulata prima del trattamento medesimo, purché dalla stessa emerga in modo inequivoco la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita (Cass., III, n. 29469/2020).

 

A questo specifico riguardo la giurisprudenza ha fatto applicazione della disciplina prevista in tema di amministrazione di sostegno, nel caso di sopravvenuta incapacità del paziente che (in precedenza) aveva inequivocabilmente manifestato il proprio dissenso ad un determinato trattamento, ben potendo l'amministratore in questione essere nominato dal beneficiario anche in vista della sua “eventuale futura incapacità”, con atto pubblico o scrittura privata (art. 408 c.c.): il beneficiario può esprimere una propria preferenza di trattamento terapeutica, o addirittura la volontà a non curarsi (ma in quest'ultimo caso si discute, e sembra ragionevole, almeno a legislazione invariata, la soluzione negativa).

La questione è piuttosto complessa, e richiama la tematica del c.d. testamento biologico, e delle cc.dd. direttive anticipate di trattamento sanitario, della cui ammissibilità si è molto discusso.

In ogni caso, per la Cass. I, n. 23707/2012, l'intervento dell'amministratore di sostegno designato, pur con i limiti operanti in materia di diritti personalissimi, è vincolato alle indicazioni manifestate nella condizione di capacità dal soggetto, sempre revocabili, ed ha il potere ed il dovere di esternarle. L'atto di designazione, dunque: 1) vincolerà l'amministratore di sostegno; 2) orienterà l'intervento del sanitario; 3) nè imporrà la delibazione da parte del giudice nell'esercizio dei suoi poteri, segnatamente nell'attribuzione di quelli da affidare all'amministratore di sostegno, ovvero in sede d'autorizzazione agli interventi che incidono sulla salvaguardia della salute del beneficiato in caso di sua incapacità.

La disciplina relativa alle disposizioni anticipate di trattamento (c.d. DAT) è stata di recente disciplinata con l. 22 dicembre 2017, n. 219, secondo cui «ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un'eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte, può, attraverso le DAT, esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari», avvalendosi a tal uopo di una persona di sua fiducia (c.d.d «fiduciario») che ne faccia le veci e la rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie (art. 4)

Il legislatore ha peraltro sancito, all'art. 1 comma 5 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), che il paziente ha il diritto di revocare in qualsiasi momento, con le stesse forme di cui al comma 4, il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l'interruzione del trattamento; qualora risultino rifiutati trattamenti sanitari “necessari alla propria sopravvivenza”, il medico è tenuto ad informare il paziente ed i suoi familiari delle conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, “ferma restando la possibilità per il paziente di modificare la propria volontà”, in dissonanza con la dottrina più tradizionale di cui si è dato conto in precedenza.

Le disposizioni anticipate di trattamento (DAT) presuppongono una relazione di carattere fiduciario tra medico e paziente, nel senso che il sanitario, di regola, è tenuto a rispettare il volere espresso dal paziente in vista di una propria, futura, incapacità e può disattenderle soltanto nei seguenti casi: (i) quanto esse appaiono palesemente incongrue o non rispondenti alla condizione clinica del paziente; (ii) quanto si verifica la presenza di terapie favorevoli per lo stato di salute del paziente assenti, tuttavia, nel momento in cui sono state espresse le DAT.

Ora, in tema di diritto all'autodeterminazione terapeutica del malato, la Corte cost., n. 242/2019 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 580 del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione -, agevola l'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.

Già prima, la Corte cost., n. n. 207/2018 ha sancito il principio secondo cui l'incriminazione dell'aiuto al suicidio non può essere ritenuta in assoluto incompatibile con la Costituzione.

Considerando in particolare l'ipotesi in cui il soggetto agevolato si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli, ipotesi nelle quali l'assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l'unica via d'uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in base all'art. 32, secondo comma, Cost., ha ritenuto la Corte che “la decisione di lasciarsi morire potrebbe essere già presa dal malato, sulla base della legislazione vigente, con effetti vincolanti nei confronti dei terzi, a mezzo della richiesta di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto e di contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua. Ciò, segnatamente in forza della recente legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento): legge che si autodichiara finalizzata alla tutela del diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all'autodeterminazione della persona, nel rispetto dei principi di cui agli artt. 2,13 e 32 Cost. e degli artt. 1,2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (art. 1, comma 1)”.

In questo senso, la legge n. 219/2017, all'art. 1 comma 1, dispone che “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge”, riconoscendo ad ogni persona «capace di agire» il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, ancorché necessario alla propria sopravvivenza (art. 1, comma 5). Egli ha altresì il diritto di modificare, in qualsiasi momento, la propria volontà, revocando il consenso già prestato (art. 1, comma 5).

Le citate decisioni della Corte Cost. riconoscono dunque una circoscritta area di liceità dell'aiuto al suicidio, scriminandolo qualora vi sia una richiesta del paziente che si trovi in determinate condizioni e sia, tuttavia, pienamente capace di discernimento.

In tal senso, dunque, la legge n. 219/2017 rappresenterebbe una mera applicazione positiva dell'art. 5 letto in combinato disposto con l'art. 32 comma 2 Cost., segnando la definitiva emersione del principio di autodeterminazione del soggetto in riferimento agli atti di disposizione del proprio corpo e della propria salute, quale basilare attributo del diritto alla dignità del singolo.

Detto in altri termini, il consenso diviene, in tal modo, un vero e proprio diritto fondamentale della persona, costituzionalmente tutelato dagli artt. 2, 13 e 32 Cost. nonché dagli artt. 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dei cittadini dell'Unione Europea, come peraltro sancito dall'art. 1 della predetta legge, che mediante la formula del “consenso informato” delinea un rapporto diretto tra medico e paziente.

In tema di autodeterminazione in materia sanitaria, si veda anche la recente legge sulle unioni civili (l. 20 maggio 2016, n. 76) che all'art. 1, comma 40, l. n. 76/2016 autorizza ciascun convivente di fatto a designare l'altro in qualità di suo rappresentante, con pieni poteri o con poteri limitati, sia per le decisioni in materia di salute (nel caso di malattia invalidante), che per quanto riguarda la celebrazione del funerale e la donazione degli organi (nel caso di morte).

 L'art. 5 c.c. può anche essere guardato nel suo aspetto negativo, ossia inteso come il diritto del soggetto ad opporsi ai trattamenti sanitari sul proprio corpo, in linea peraltro con quanto sancito dall'art. 32 comma 2 Cost.

La dottrina (Alpa - Ansaldo, 377) concorda nel ritenere che le scelte di carattere sanitario non possono mai essere imposte al singolo individuo se non per scopi di carattere pubblicistico; in questi casi, tuttavia, si auspica che l'interesse pubblicistico si saldi con la tutela privatistica della salute del singolo soggetto.

In linea generale, dunque, il soggetto - pienamente capace, con esclusione dunque degli incapaci d'agire - è titolare di un diritto pieno ed assoluto alla salute, salvo limitazioni imposte per ragioni di carattere pubblico, suscettibili di affievolire il diritto del privato.

In ottica di bilanciamento tra il diritto ad autodeterminarsi del singolo e la tutela pubblica della salute, la l. n. 180/1978, il cui testo è confluito nella legge di Riforma Sanitaria (l n. 833/1978), precisa che gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono, di regola, volontari, prevedendo ulteriormente che “nei casi di cui alla presente legge e in quelli espressamente previsti da leggi dello Stato possono essere disposti dall'autorità sanitaria accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione” (art. 1).

Inoltre, il Decreto legge 7 giugno 2017, n. 73 (Disposizioni urgenti in materia di prevenzione vaccinale), conv. con modif., in l. 31 luglio 2017, n. 119, prescrive le vaccinazioni obbligatorie, prevedendo altresì forme di indennizzo a  favore  dei  soggetti  danneggiati  da  complicanze irreversibili da vaccinazioni (art. 5-quater) e prevedendo che negli eventuali giudizi di carattere risarcitorio l'AIFA assume la veste di litisconsorte necessario (art. 5-bis).

Quanto all'obbligo del genitore di prestare il consenso al vaccino contro il Covid-19 per il figlio minore, si richiama sul punto al commento sub. art. 2.

Con riguardo alla disciplina dei trapianti, per una parte della dottrina (Giacobbe, 892 e Alpa - Ansaldo, 374, il quale, tuttavia, opportunamente distingue tra il “diritto” di proprietà del soggetto sul proprio corpo, disciplinato dall'art. 5 c.c. nel senso innanzi precisato, e le parti staccate del corpo, verso le quali il soggetto vanta un vero e proprio diritto di natura reale e quindi di godimento e disposizione, con il solo divieto di atti che producano una limitazione permanente dell'integrità fisica: Alpa - Ansaldo, 393; contra Pesante , Cadavere, 769), i limiti di cui all' art. 5 c.c. troverebbero applicazione solo nel caso di trapianto di organi da parte di soggetto in vita, non essendo il cadavere più uomo, nel senso stretto del termine (ciò perché, non ammettendo l'ordinamento la persistenza della personalità giuridica dopo la morte, «il corpo umano diviene con la morte una cosa»: così, Pesante, Cadavere, 769; generalmente, si ritiene che la disponibilità dell'individuo sul proprio cadavere sia limitata per esigenze di interesse generale collegate in genere al sentimento di pietà dei defunti o anche per ragioni di tutela della salute e dell'igiene pubblica: riferimenti in Alpa - Ansaldo, 397). Sicché sono sempre ammessi gli espianti di organi da cadavere, senza limite alcuno; mentre, al contrario, di regola i trapianti da soggetto vivente sono sottoposti al divieto di diminuzione permanente dell'integrità fisica, oltre che ai limiti derivanti da disposizioni di legge, di ordine pubblico e del buon costume.

Il che pone l'interprete innanzi al delicato compito di discernere tra espianti di organi che possono comportare una diminuzione permanente dell'integrità fisica da quelli che tale rischio non recano.

Invero, in alcuni casi è stato lo stesso legislatore ad assolvere tale compito, tramite disposizioni normative, dichiaratamente in deroga ai principi affermati dall' art. 5 c.c. , che hanno affermato la liceità di alcune tipologie di trapianti: si tratta, in particolare, della l. n. 458/1967 , in tema di trapianto di rene da persona vivente, in cui (art. 1) esplicitamente si afferma che «in deroga al divieto di cui all' art. 5 del Codice civile , è ammesso disporre a titolo gratuito del rene al fine del trapianto tra persone viventi» – in virtù del consenso informato precedentemente prestato ovvero al ricorrere dello stato di necessità (art. 4) – tramite atto tipicamente gratuito, che non tollera l'apposizione di condizioni o di altre determinazioni accessorie di volontà, peraltro sempre revocabile sino al momento dell'intervento chirurgico, la cui revoca non fa sorgere diritti di sorta del donatore nei confronti del ricevente (art. 2, comma 4; per la disciplina del trapianto di fegato, si veda la l. n. 483/1999 ); è ammesso, sempre «in deroga al divieto di cui all' art. 5 codice civile », anche il trapianto parziale di polmone, pancreas e intestino, purché sia effettuato «a titolo gratuito» tra persone viventi ( art. 1, l. 19 settembre 2012, n. 167 ). Per il prelievo di sangue, dispone la l. n. 219/2005 che «Sono consentiti la donazione di sangue o di emocomponenti, nonché il prelievo di cellule staminali emopoietiche periferiche, a scopo di infusione per allotrapianto e per autotrapianto, e di cellule staminali emopoietiche da cordone ombelicale, all'interno delle strutture trasfusionali autorizzate dalle regioni» (art. 3), da parte di soggetti dotati di piena capacità, ovvero in mancanza da parte del rappresentante legale, previa espressione del consenso informato e verifica della loro idoneità fisica; con l'ulteriore precisazione che «il sangue umano non è fonte di profitto» (art. 4)

Al riguardo, le donazioni di organi da soggetto vivente, provocando una sofferenza notevole in capo al disponente, dal devono rispondere al generale principio di solidarietà, di cui all' art. 2 Cost. (così, Caggia, 573).

Quanto al prelievo di tessuti ed organi da persona non più vivente, l'art. 3 della l. n. 91/1999 sancisce che “il prelievo di organi e di tessuti è consentito secondo le modalità previste dalla presente legge ed è effettuato previo accertamento della  morte ai sensi della legge 29 dicembre 1993, n. 578, e del decreto del Ministro della sanità 22 agosto 1994, n. 582”.

In altri casi, il legislatore, non senza discussioni e polemiche, soprattutto in dottrina, ha semplicemente preso atto della liceità di talune pratiche, costituenti sempre atti dispositivi del corpo. Tipico esempio è la disciplina dell'interruzione volontaria della gravidanza ex l. n. 194/1978 , che costituisce pratica lecita nei limiti, particolarmente ristretti, di cui alla medesima legge: in particolare, è sempre ammesso l'aborto entro i primi novanta giorni, nel caso in cui la donna accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito (art. 4), mentre oltre i primi novanta giorni (art. 6) l'interruzione della gravidanza è consentita solo quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna, ovvero quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. Si tratta di atto personalissimo della gestante, il cui esercizio può essere rimesso in capo ai rappresentanti legali solo in caso di minore età della donna stessa (art. 12), ovvero in caso di interdizione per infermità di mente (art. 13), il cui esercizio viene effettuato sempre mediante consenso informato (art. 14).

Sempre in via esemplificativa, la l. n. 164/1982 , che ammette la rettificazione del sesso, in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell'atto di nascita, a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali, così implicitamente ammettendo la liceità del trattamento medico-chirurgico di adeguamento del sesso. La disciplina processuale è oggi contenuta nell'art. 31 del d.lgs. n. 150/2011, non inciso, si noti, dal recente d.lgs. n. 149/2022. Si v., anche per riferimenti giurisprudenziali, il commento sub art. 6.

E' poi noto che con l. n. 40/2004 è consentito il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, alle condizioni e secondo le modalità previste dalla legge medesima, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito, sempre che non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità.

Sul punto, va ricordato che la Corte Costituzionale, con sentenza n. 96/2015  ha   dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della l. 19 febbraio 2004, n. 40  nella  parte in cui non consentono il ricorso  alle  tecniche  di  procreazione medicalmente assistita  alle coppie fertili portatrici di malattie  genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità di cui all'art.  6, comma 1, lettera b), della l. 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza), accertate da apposite strutture pubbliche".

 

Ad es., per la giurisprudenza cfr. Cass. III, n. 9251/2017 , in tema di responsabilità medica da nascita indesiderata, e di legittimazione della madre all'interruzione volontaria della gravidanza, secondo cui la mancanza della mano sinistra del nascituro non è una malformazione idonea a determinare un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, requisito imposto dall'art. 6, lett. b), della l. n. 194/1978 per far luogo all'interruzione della gravidanza dopo i primi 90 giorni dal suo inizio, sicché, non potendosi legittimamente ricorrere all'aborto, dall'omessa diagnosi dell'anomalia fetale non può derivare un danno risarcibile.

Fondamentale, poi, la Cass. S.U. , n. 25767/2015 , secondo cui in tema di risarcimento del danno da nascita indesiderata, la prova che la gestante, se adeguatamente informata dai sanitari delle malformazioni, delle malattie o delle tare del feto, avrebbe interrotto la gestazione, può essere data per presunzioni: perché sussista il danno da nascita indesiderata occorre, invero, che l'interruzione della gravidanza sia stata, all'epoca, legalmente consentita (accertamento di rilevanti anomalie del nascituro e conseguente, grave pericolo per la salute fisica o psichica della madre) e che venga provata la volontà della donna di non portare a termine la gravidanza in presenza di tali specifiche condizioni facoltizzanti. L'onere di provare tali elementi facoltizzanti e la volontà di interrompere, in loro evenienza, la gravidanza è posto a carico della madre ex art. 2697 c.c. (principio della c.d. vicinanza della prova), onere che può essere assolto dalla donna anche in via presuntiva, con la dimostrazione di altre circostanze dalle quali si possa ragionevolmente risalire, per via induttiva, alla sussistenza del fatto psichico che si tratta di accertare secondo il parametro del «più probabile che non».

La «lettura» costituzionalmente orientata dell'art. 5 c.c.

L'art. 5 c.c. ha quindi evidenti radici pubblicistiche, essendo una tipica norma a carattere paternalistico: essa presuppone che la persona appartenga allo stato, sia «cosa» dello stato (per De Cupis, 142, pur non esistendo un obbligo in senso stretto di conservazione della propria integrità fisica, è dato scorgere in materia «l'onere di vigilare sulla propria vita ed integrità fisica»; conf. AlpaAnsaldo, 248, secondo cui è evidente l'influsso del periodo storico in cui venne approvato il codice civile, «con la conseguenza che anche il concetto fondamentale di integrità fisica non può essere ancora interpretato come valore in sé e per sé, come elemento costitutivo della persona umana, bensì come bene strumentale per il soggetto (ora visto come Padre, ora visto come Lavoratore, ora visto come Soldato) per il raggiungimento di obiettivi ed attività essenziali per lo stato di allora»).

Invero la più recente dottrina, con il dichiarato intento di superare la tradizionale contrapposizione tra libertà individuale e interesse generale, vede nella norma in commento l'espressione del più generale principio di tutela della salute umana (art. 32 Cost., letto in combinato disposto con l'art. 2 Cost.; AlpaAnsaldo, 249; estende la nozione di integrità fisica anche alla salute, ex art. 32 Cost., pure De Cupis, 115). In effetti, l'analisi del solo art. 5 è riduttiva poiché, in prospettiva «personalista», a seguito dell'entrata in vigore della Costituzione, si è sviluppata un'interpretazione evolutiva dell'intero impianto codicistico, conforme cioè ai principi contenuti nella Carta Costituzionale (per quest'esigenza, Bessone — Ferrando, 193, secondo cui la Costituzione tutela i diritti individuali non più in vista della promozione di un interesse superiore o pubblico, ma bensì nell'interesse della persona; in questa prospettiva anche Perlingieri, 174).

Da quanto detto è facilmente desumibile come la Costituzione italiana abbia dato un nuovo slancio ai diritti fondamentali, ed in particolare al diritto all'integrità fisica (art. 5 c.c.; art. 3, comma 2, Carta di Nizza), che presuppone a sua volta il rispetto del diritto alla vita (art. 2 CEDU; art. 2 Carta Nizza). Il diritto alla vita, in ogni caso, pur in assenza di una esplicita disposizione costituzionale (ma è certo che esso sia il principale tra i diritti inviolabili dell'uomo, ex art. 2 Cost.), è stato solennemente proclamato in sede sovranazionale, ed in particolare nell'art. 2 CEDU e nell'art. 2 della carta dei diritti fondamentali U.E.

In questo quadro normativo si inscrive l'art. 5 c.c., che letto ed interpretato in combinato disposto con gli artt. 2 e 32 Cost. (così, Venuti, 827, che in particolare fa leva sui limiti della conformità alla legge, all'ordine pubblico e al buon costume, tipici «parametri attraverso i quali l'ordinamento seleziona e controlla l'attività contrattuale dei privati»; contra Pesante, 656), esprime il principio secondo cui, in adempimento dei doveri di solidarietà sociale, gli atti di disposizione del proprio corpo, anche se suscettibili di determinare una diminuzione permanente dell'integrità fisica del titolare, possono essere giustificati dallo spirito di solidarietà sociale che domina l'impianto costituzionale del nostro paese.

Si tratta della più moderna concezione unitaria della persona (Alpa, 239) che, superando l'orientamento tradizionale, ammette un solo e generale diritto della personalità, a prescindere dalla sua tipizzazione normativa, i cui contenuti sono specificati di volta in volta a seconda dello status della persona. In questo senso, la categoria dei diritti della personalità si ritiene interamente protetta dall'art. 2 Cost., intesa come clausola generale, che rende giustizia dei diritti di nuova emersione, benché non ricompresi nel numerus clausus dei diritti della personalità codicistici.

Così si riconosce generalmente tutela ai seguenti diritti della personalità, qui di seguito riportati a mero titolo esemplificativo ma non certo esaustivo: il diritto alla libera autodeterminazione ai trattamenti sanitari; il diritto alla libertà ed all'identità sessuale; il diritto alla privacy e così via.

Così, interpretando l'art. 16 delle preleggi alla luce degli art. 2,3 e 10 cost., per il principio della gerarchia delle fonti, poiché costituiscono diritti inviolabili della persona umana sia il diritto alla salute ed all'integrità psicofisica sia il diritto ai rapporti parentali - familiari, il risarcimento dei danni (patrimoniali e non patrimoniali) subiti dallo straniero (anche extracomunitario) in conseguenza della lesione di tali diritti, può essere fatto valere con l'azione risarcitoria, indipendentemente dalla condizione di reciprocità di cui all'art. 16 delle preleggi, senza alcuna disparità di trattamento rispetto al cittadino italiano, e quindi non solo contro il danneggiante (o contro il soggetto tenuto al risarcimento per fatto altrui), ma anche con l'azione diretta nei confronti dell'assicuratore o del Fondo di garanzia per le vittime della strada(Cass. III, n. 450/2011).

In questo senso, merita di essere salutato positivamente l'art. 1 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), nella parte in cui dispone che “Ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell'eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell'accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi. Può rifiutare in tutto o in parte di ricevere le informazioni ovvero indicare i familiari o una persona di sua fiducia incaricati di riceverle e di esprimere il consenso in sua vece se il paziente lo vuole” (comma 3); ha “diritto di revocare in qualsiasi momento, con le stesse forme di cui al comma 4, il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l'interruzione del trattamento … Qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica” (comma 5).  

Bibliografia

Alpa, Manuale di diritto privato, XII ed., Milano 2023; Alpa - Ansaldo, Le persone fisiche, in Comm. S., Milano, 2013; Bessone - Ferrando, voce Persona fisica (dir. priv.), in Enc. dir., XXXIII, Milano, 1983, 193; Busnelli - Palmerini, voce Bioetica e diritto privato, in Enc. dir., agg. V, Milano, 2001, 142; Caggia, Gli atti di disposizione del proprio corpo, in Dir. civ., I, t. 1, Le fonti e i soggetti, Milano, 2009, 556; Carnelutti, Teoria generale del diritto, Roma, 1957; Criscuoli, L’acquisto delle parti staccate del proprio corpo e gli artt. 820 e 821 c.c., in Dir. fam. 1985, 266; De Cupis, I diritti della personalità, IV, in Tr. C. M., Milano, 1982; De Cupis, voce Corpo (atti di disposizione del proprio), in Nss. D.I., IV, Torino, 1959, 854; Dogliotti, Persone fisiche. Capacità, status, diritti, vol. II, in Tratt. dir. civ., diretto da Bessone, Torino, 2014; Giacobbe, voce Trapianti, in Enc. dir., XLIV, Milano, 1992, 892; Messinetti, voce Personalità (diritti della), in Enc. dir., XXXIII, Milano, 1983, 355; Perlingieri, La personalità umana nell’ordinamento giuridico, Napoli, 1972; Pesante, voce Corpo umano (atti di disposizione), in Enc. dir., X, Milano, 1962, 653; Pesante, voce Cadavere, in Enc. dir., V, Milano, 1959, 769; Quadri, Considerazioni in tema di responsabilità medica e di relativa assicurazione nella prospettiva dell’intervento legislativo, in Resp. civ. e prev. 2017, 1, 27 B; Romboli, Delle persone fisiche, in Comm. S.B., sub art. 5, Bologna-Roma, 1988, 225; Rossi, voce Corpo umano (atti di disposizione sul), in Dig. disc. priv., sez. civ., Agg., VII, Torino, 2012, 235; Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1985; Tozzi, La circolazione dei diritti della persona, Torino, 2013; Venuti, Atti di disposizione del corpo e principio di gradualità, in Dir. fam. 2001, 2, 827.

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