Codice Civile art. 4 - Commorienza.Commorienza. [I]. Quando un effetto giuridico dipende dalla sopravvivenza di una persona a un'altra e non consta quale di esse sia morta prima, tutte si considerano morte nello stesso momento [2697]. InquadramentoL' art. 4 c.c. sancisce ad una presunzione, per la quale se, nel caso di contemporaneo decesso di due o più persone, è rilevante stabilire chi sia morta per prima, in mancanza di prova contraria tutte si considerano decedute nello stesso momento. E' un dato comune dell'esperienza che la capacità giuridica cessa con la morte dell'individuo, con la sua fine, pur in assenza di riferimenti del codice civile all'evento morte (Dogliotti, 42). A seguito della eliminazione delle ipotesi di c.d. morte civile (e cioè della privazione della capacità giuridica, con finalità sanzionatoria, a coloro che fossero ancora in vita), ad oggi la morte «naturale» è l'unico evento (o fatto giuridico: Messineo, 225, Sgroi, 103; Contra Falzea, 34, secondo cui «il venir meno della capacità giuridica per morte dell'uomo non è un effetto giuridico e perciò l'evento della morte non può configurarsi, riguardo a questo effetto, come fatto giuridico») che segna in via definitiva la fine del soggetto di diritto, e con esso della sua capacità giuridica (anche se vi sono alcune disposizioni che tutelano la persona, ancorché deceduta: rileva, però, Sgroi, 103, che «la ricerca di un fondamento positivo per l'affermazione di una semi-personalità del defunto può essere relegata senza danno nell'archivio dei falsi problemi, a meno che non si voglia operare in chiave di inattendibili traslati»). La morte, poi, rappresenta contemporaneamente anche un'ipotesi di perdita della capacità di agire del soggetto. In tema di rappresentanza processuale della parte, si è tuttavia sostenuto che l'incidenza sul processo degli eventi previsti dall'art. 299 c.p.c. (morte o perdita di capacità della parte) è disciplinata, laddove la parte colpita dall'evento sia costituita a mezzo di difensore, dalla regola dell'ultrattività del mandato alla lite, nel senso che laddove l'evento non sia dichiarato o notificato nei modi e nei tempi di cui all'art. 300 c.p.c., il difensore continua a rappresentare la parte come se l'evento non si sia verificato, risultando così stabilizzata la posizione giuridica della parte rappresentata (rispetto alle altre parti ed al giudice) nella fase attiva del rapporto processuale e nelle successive fasi di quiescenza e riattivazione del rapporto a seguito della proposizione dell'impugnazione, a meno che, nella successiva fase d'impugnazione, si costituiscano gli eredi della parte defunta o il rappresentante legale della parte divenuta incapace, oppure se il procuratore di tale parte, originariamente munito di procura alla lite valida anche per gli ulteriori gradi del processo, dichiari in udienza o notifichi alle altri parti l'evento verificatosi, o se, rimasta la medesima parte contumace, l'evento sia documentato dall'altra parte o notificato o certificato dall'ufficiale giudiziario ai sensi dell'art. 300 c.p.c., comma 4 (da ultimo, Cass. II, n. 15674/2023). La morteAnche per la morte vale quanto in precedenza rilevato per la nascita (sub art. 1), e cioè, in assenza di una definizione codicistica, è necessario far ricorso alle tradizionali ricostruzioni dottrinali (Giardina, 259 ss.). In ogni caso, entro ventiquattrore dal decesso, deve essere redatto l'atto di morte da parte dell'ufficiale di stato civile (artt. 73, d.P.R. n. 396/2000) che costituisce la principale prova della premorienza (arg. ex art. 451 c.c.). L'accertamento «diretto» della morte era in passato fatto coincidere con «l'assenza di respirazione spontanea» e con «l'assenza di attività elettrica cerebrale, spontanea o provocata» del soggetto (come prescritto dall'art. 3 l. n. 644/1975, in tema di prelievi da cadavere a vivente a scopo di trapianto terapeutico, secondo cui tale accertamento doveva essere effettuato a seguito della «cessazione del battito cardiaco», qualora non vi siano più speranze per mantenere in vita il paziente). L'art. 1 della l. 29 dicembre 1993, n. 578, facendo coincidere l'evento morte con la «cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo», prende nettamente posizione a favore della tesi che individua il decesso della persona fisica con la c.d. morte cerebrale (ritenuta altresì conforme ai principi costituzionali, come ha esplicitato la Corte cost. n. 414/1995), così superando l'opposta tesi a favore della morte respiratoria e cardiaca. Si ha, invece, accertamento «indiretto» della morte, qualora non sia possibile rinvenire o riconoscere il cadavere (art. 78, d.P.R. n. 396/2000), della cui morte però vi è ragionevole certezza. Al riguardo, secondo l'art. 452 c.c. “la prova … della morte può essere data con ogni mezzo”. Soprattutto nel caso di mancato rinvenimento del cadavere, soccorrono alcune disposizioni legislative attraverso cui, con ricorso ad un complesso di circostanze indizianti di rilevante gravità e concordanza, è possibile ritenere certo il decesso (Sgroi, 103). In virtù del rinvio compiuto dall'art. 79 d.P.R. n. 396/2000, in tema di morte sopraggiunta a seguito di viaggio marittimo o aereo, si rendono applicabili le disposizioni dettate dal codice della navigazione per i casi in esame: in particolare, per il viaggio marittimo, troverà applicazione l'art. 211 cod. nav., per il quale «nei casi di scomparizione da bordo per la caduta in mare» e «nei casi di scomparizione per naufragio», qualora si dovesse ritenere che le persone scomparsenei confronti dell'art. 1 debbano «ritenersi perite»,si deve provvedere alla redazione e trascrizione del processo verbale nel registro delle morti; sempre in tema di viaggio marittimo, limitatamente ad «altri casi di scomparizione da bordo o per naufragio», le conseguenze della scomparsa sono regolate dalle disposizioni del libro I, titolo IV, capo II, codice civile, e, decorsi due anni dall'avvenimento, viene dichiarata la morte presunta a norma dell'articolo 60, n. 3, dello stesso codice, su istanza del pubblico ministero o di alcuna delle persone a ciò legittimate; per il viaggio aereo, si applica l'art. 838 cod. nav., che a sua volta rimanda a quanto prescritto dagli artt. 211 e 212 cod. nav.; per il viaggio tramite linea ferroviaria, soccorre la disciplina dell'art. 80 d.P.R. n. 396/2000. In difetto di accertamento diretto o indiretto della morte, soccorre la disciplina dettata in tema di morte presunta, per la quale si rimanda infra sub art. 58 c.c. La morte del soggetto può determinare il prodursi di taluni particolari effetti, sia di carattere patrimoniale che di carattere non patrimoniale. Per quanto riguarda il profilo patrimoniale, il principale effetto dipendente dalla morte è la trasmissione dei beni ereditari per via successoria (ai sensi dell'art. 456 c.c. «La successione si apre al momento della morte, nel luogo dell'ultimo domicilio del defunto»). Per quel attiene ai rapporti personali (come i diritti della personalità) ed i rapporti patrimoniali caratterizzati da una relazione fiduciaria, dovrebbe valere la regola opposta, e cioè quella dell'intrasmissibilità di detti rapporti: così, a parte determinare lo scioglimento automatico del matrimonio (art. 149, comma 1, c.c.), la morte provoca altresì l'estinzione di alcuni rapporti obbligatori (come quelli relativi agli obblighi alimentari, per chi ne fosse tenuto: art. 448 c.c.), nonché lo scioglimento di alcuni rapporti contrattuali a carattere continuativo (come, ad es., il contratto di mandato, ai sensi dell'art. 1722, comma 1 n. 4, c.c., salvo che il mandato sia stato stipulato per l'esercizio di un'impresa, in applicazione del principio generale enunciato, in tema di proposta contrattuale, dall'art. 1330 c.c.), e comunque caratterizzati da vincoli fiduciari. Diversamente, vi sono altre ipotesi in cui la morte, pur non determinando la caducazione automatica del rapporto, giustifica lo scioglimento dal vincolo da parte di chi, tenuto alla prosecuzione del rapporto, non ha apprezzabile interesse a mantenerlo in vita (come avviene nel caso del contratto di comodato, ex art. 1811 c.c., e di conto corrente, ex art. 1833, comma 2, c.c.). In giurisprudenza, è in particolare granitico l'orientamento secondo cui la notificazione della citazione introduttiva del giudizio di primo grado effettuata ad una persona già deceduta è giuridicamente inesistente, posto che la capacità giuridica si acquista dal momento della nascita e si estingue con la morte, a ciò conseguendo l'insanabile nullità, rilevabile anche d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio, delle sentenze pronunciate nel corso del processo nei confronti del soggetto deceduto prima dell'inizio dello stesso, estendendosi tali principi anche all'ipotesi in cui, in luogo di una persona fisica deceduta, sia stato evocato in giudizio un ente giuridico inesistente, come il collegio dei liquidatori del concordato preventivo, ben potendosi assimilare a tale ipotesi quella dell'evocazione in giudizio ovvero della proposizione della domanda da parte di un ente non più esistente (tra le tante, cfr. Cass. civ., II, n. 12528/2018 nonché Cass. civ., I, n. 11688/2001). Più in generale, la morte sì identifica, con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dello encefalo, e dunque vale scientificamente la nozione di morte encefalica cerebrale (Cass. III, n. 24679/2009, secondo cui il processo di morte biologica è più ampio ma meno definitivo e irretrattabile rispetto allo accertamento di morte cerebrale, sicché potrà darsi il caso in un cerebroleso che tuttavia conserva alcune funzioni dell'encefalo, e che pertanto resta in vita per un tempo sufficiente a conservare la capacità giuridica che pragmaticamente viene esclusa sulla base di una nozione empirica di morte immediata). Viene in particolare in questa sede in rilevo l'evoluzione giurisprudenziale registratasi in tema di danno tanatologico e culminata con Cass. S.U., n. 15350/2015, che ne ha predicato l'irrisarcibilità. E' stato in particolare sostenuto che in materia di danno non patrimoniale, in caso di morte cagionata da un illecito, il pregiudizio conseguente è costituito dalla perdita della vita, bene giuridico autonomo rispetto alla salute, fruibile solo in natura dal titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, sicché, ove il decesso si verifichi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, deve escludersi la risarcibilità “iure hereditatis” di tale pregiudizio, in ragione - nel primo caso - dell'assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito risarcitorio, ovvero - nel secondo - della mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo. Viceversa, nel caso in cui tra la lesione e la morte si interponga un apprezzabile lasso di tempo, tale periodo giustifica il riconoscimento, in favore del danneggiato, del c.d. danno biologico terminale, cioè il danno biologico stricto sensu (ovvero danno al bene salute), al quale, nell'unitarietà del genus del danno non patrimoniale, può aggiungersi un danno morale peculiare improntato alla fattispecie ("danno morale terminale"), ovvero il danno da percezione, concretizzabile sia nella sofferenza fisica derivante dalle lesioni, sia nella sofferenza psicologica (agonia) derivante dall'avvertita imminenza dell'exitus, se nel tempo che si dispiega tra la lesione ed il decesso la persona si trovi in una condizione di "lucidità agonia", in quanto in grado di percepire la sua situazione e in particolare l'imminenza della morte, essendo quindi irrilevante, a fini risarcitori, il lasso di tempo intercorso tra la lesione personale e il decesso nel caso in cui la persona sia rimasta "manifestamente lucida” (così Cass., VI, n. 21508/2020; si v. anche più di recente Cass., III, n. 26851/2023). La commorienzaSecondo quanto rilevato dalla dottrina, la questione circa l'individuazione del preciso istante del decesso «è questione che esorbita in larga misura dalla sfera dei compiti dell'operatore del diritto: ed infatti solo il sanitario può essere chiamato a determinare con precisione quel momento fatale» (così Alpa - Ansaldo, 238). In realtà, l'ordinamento non si disinteressa totalmente del momento esatto del decesso della persona fisica, tant'è vero che all'art. 4 fissa la regola secondo cui se vi è incertezza circa la sopravvivenza di una persona ad un'altra, e tale circostanza abbia un certo rilievo per le parti (ed es., a fini successori), «tutte si considerano morte nello stesso momento». Qualora quindi vi sia incertezza circa il momento esatto in cui si sia verificato l'evento infausto (si noti: l'incertezza riguarda solo il momento del decesso non l'an, cioè l'evento morte, nel qual caso soccorre la diversa disciplina della morte presunta), l' art. 4 c.c. , ricorrendo ad una tipica finzione giuridica, considera il decesso di due o più soggetti presuntivamente avvenuto nello stesso momento (anche se la morte, in concreto, sia in realtà avvenuta in momenti diversi), salvo che non sia provato il contrario. Si tratta del c.d. principio di commorienza, in base al quale, in ipotesi di morte congiunta di più soggetti, nel caso in cui fosse dirimente stabilire chi è effettivamente sopravvissuto all'altro (soprattutto ai fini successori, per definire il momento dell'apertura della successione, ai sensi dell' art. 456 c.c.), anche per un solo istante, si pone una presunzione (relativa) di non sopravvivenza, vincibile mediante prova contraria: sicché, in questi casi, se non viene data una prova positiva di sopravvivenza, «non si verifica alcun effetto dipendente dalla premorienza di una all'altra» (Messineo, 227; Carusi, 395). Non sono ammissibili, invece, presunzioni di premorienza, comunque fondate su criteri ritenuti opinabili (Rescigno, 1365): l'unica ipotesi di premorienza rilevante per il diritto attiene all'ambito strettamente successorio, ed in particolare all' art. 467 c.c. , in tema di rappresentazione, dove il riferimento a colui che «non può accettare» è, appunto, a chi sia premorto. La norma in commento va peraltro letta in combinazione con l'art. 69 che non ammette la possibilità di reclamare un diritto se, prima, non si prova l'esistenza del titolare dello stesso. Per la dottrina dominante (Pizzorusso, 118; Santoro Passarelli , 978; Palazzo, 293; Dogliotti 45) la disposizione di cui all'art. 4 costituisce diretta applicazione del principio generale dell'onere della prova (art. 2697): in questo senso, in caso di morte di più persone, è sul soggetto interessato a dimostrare la premorienza di una parte sull'altra che grava l'onere della prova in giudizio, mancando la quale non è tanto presunta la commorienza, quanto non provata la premorienza o la sopravvivenza (così Bianca, 207; conf. Luzzatto, 674; la prova suddetta, per Alpa - Ansaldo, 242, può essere data con ogni mezzo, e quindi anche facendo ricorso a presunzioni legali). Sicché, qualora non venga fornita la prova della sopravvivenza, tornerà ad applicarsi l' art. 4 c.c. in tema di commorienza (o non sopravvivenza di alcuno dei soggetti coinvolti), in applicazione del principio per cui chi allega un fatto costitutivo del suo diritto deve darne la prova (Santoro Passarelli, 978, secondo cui in questa seconda ipotesi «non può negarsi l'introduzione, con l'art. 4, di una presunzione» non di «commorienza», ma di «non sopravvivenza»). Non si tratta quindi di una presunzione in senso proprio, ma dell'applicazione di una regola probatoria, tanto da far ritenere ad altra parte della dottrina che tale disposizione sia in definitiva inutile, poiché già desumibile dall' art. 2697 c.c. (Dogliotti, 45; Andrioli, 769, secondo cui la «presunzione di commorienza [...] è una superfetazione» normativa, a carattere esclusivamente ornamentale, costituendo niente più niente meno «se non la eco dell'art. 2697». Contra Rescigno, 1365, in virtù del rilievo per cui, a differenza del vecchio art. 924 c.c. del 1865, l' art. 4 c.c. odierno ha elevato la regola della commorienza a principio generale, in passato relegato esclusivamente all'ambito successorio). La tesi opposta, invece, ritiene che la norma in commento abbia introdotto una vera e propria «presunzione di commorienza» (ha aderito a questa tesi, in passato, Fadda, 37, ma tale opinione è stata da tempo superata). Per questa opinione, la regola della commorienza va inquadrata, quindi, nell'alveo delle presunzioni legali, quale supposizione della verità di un fatto ignoto come conseguenza indiretta e probabile di un altro fatto noto, con un'esigenza di razionalizzazione e di semplificazione (essendo poco probabile che tutti i soggetti abbiano perduto la vita nel medesimo istante: riferimenti in Patti, 477). Altra dottrina (Giardina, 267), poi, distingue a seconda che si tratti di provare la sopravvivenza di un individuo – nel qual caso è pacifico che non si sta discorrendo di una presunzione legale, ma piuttosto di una regola probatoria – dall'ipotesi in cui si ha interesse a provare la commorienza vera e propria: solo in quest'ultima ipotesi la regola posta dall' art. 4 c.c. si atteggia a vera e propria presunzione, evitando all'interessato di provare la morte di tutti i soggetti coinvolti (Santoro Passarelli , 978). La giurisprudenza a volte ha recepito la tesi maggioritaria, mentre altre volte è giunta a ritenere, sia pur «velatamente», che l' art. 4 c.c. sia espressione di una presunzione legale, in ossequio peraltro alla tesi intermedia poc'anzi esaminata. Ed invero, per il Trib. Firenze, 5 dicembre 1992 , «commorienza, nel significato assunto in base alla norma di legge (art. 4), sta ad indicare non il fatto della morte contemporanea di più persone, ma la situazione di non sopravvivenza stabilita dalla legge quando vi sia incertezza circa la sopravvivenza di una rispetto all'altra», in applicazione del principio dell'onere della prova, per cui spetta a colui che sostiene la premorienza o sopravvivenza di una delle due o più persone, di cui è certa la morte ma è incerta il momento in cui si è verificata, dare la prova del suo assunto (così anche App. Firenze, 24 marzo 1959). Nello stesso senso Trib. Napoli, 21 dicembre 1999 secondo cui, nel caso in cui il soggetto invochi la premorienza di una persona rispetto all'altra, la norma di cui all' art. 4 c.c. non pone alcuna presunzione legale, non costituendo altro che un'applicazione del principio dell'onere della prova. Mentre la Cass. II, n. 963/1986 , pur ritenendo esatto il rilievo in base al quale l' art. 4 c.c. sarebbe applicazione della regola fondamentale in materia di prova ( art. 2697 c.c. ), deve porsi in risalto come, nel caso in cui la norma venga fatta valere per dimostrare la non sopravvivenza di una persona rispetto all'altra, si deroga al principio dell'onere della prova, che viene invertito, «e dunque non può negarsi l'introduzione, con l'art. 4, di una presunzione legale». Sicché, «quando non consti la morte anteriore di una a quella di altra persona, la disposizione che «tutte si considerino morte nello stesso momento» non importa una presunzione legale allorché venga affermata e debba essere provata la sopravvivenza, in conformità del principio dell'onere della prova; importa invece una presunzione legale allorché venga affermata la non sopravvivenza e questa dovrebbe essere provata, secondo lo stesso principio». La clausola di commorienza nelle disposizioni testamentarieLa giurisprudenza ha avuto modo di occuparsi della c.d. «clausola di commorienza» relativamente alle disposizioni testamentarie. Essa assurge a condizione sospensiva dell'atto di ultima volontà, pienamente lecita ai sensi dell'art. 633 c.c., salvo che non si traduca in condizione illecita o impossibile (art. 634 c.c., nel qual caso si considera come non apposta) ovvero in motivo illecito (art. 626 c.c., che rende nulla la disposizione, sempre che il motivo, risultante in modo espresso, sia il solo che abbia determinato il testatore a disporre). Trattasi di una regola del tutto diversa rispetto a quanto visto in precedenza, poiché qui si discorre del libero esercizio dell'autonomia testamentaria, e della corretta interpretazione dell'atto di ultima volontà. Invero, secondo un certo orientamento (Carusi, 394), tali clausole sono da considerare, nel dubbio, condizioni risolutive, di modo che gli atti cui esse accedono producano immediatamente i loro effetti finali; ovviamente però non è da escludere che la clausola condizionale sia stata intesa dalle parti del contratto, e ancor più spesso dal testatore, come sospensiva, nel qual caso l'acquisto del diritto è subordinato ad una circostanza negativa la cui sussistenza si potrà verificare solo una volta defunto il beneficiario. Così due coniugi ben possono, con testamento olografo, subordinare la disposizione testamentaria a favore di un Ente religioso, a condizione della commorienza reciproca, in mancanza della quale il sopravvissuto sarebbe automaticamente divenuto erede universale (Cass. VI, n. 23896/2014, che sostanzialmente attribuisce alla parola «commorienza» il significato di morte di entrambi e non quello di morte nello stesso istante, poiché, essendo quest'ultima un'ipotesi troppo rara e statisticamente infrequente, è altamente improbabile che i due coniugi abbiano disposto a favore dell'ente religioso per tale rara eventualità). In applicazione del generale principio di conservazione degli atti di ultima volontà di data anteriore (c.d. favor testamenti), espresso dall'art. 682 c.c. — secondo cui, in presenza di più testamenti successivi, il testamento posteriore che non revoca in modo espresso quello precedente, fa venir meno esclusivamente le disposizioni con quest'ultimo incompatibili — la Cass. II, n. 10800/2009 ha avuto modo di pronunciarsi in merito ad una fattispecie del tutto peculiare: si trattava dell'ipotesi in cui, redatto un primo testamento sottoposto a condizione sospensiva (della commorienza di entrambe i coniugi) a favore di una nipote, viene successivamente redatto un secondo testamento, in contrasto con il primo, in cui viene nominata erede universale la sola moglie del de cuius. Dovendo ritenersi annullate, ai sensi dell'art. 682 c.c., soltanto le disposizioni che, a seguito di una specifica indagine, risultino essere con incompatibili con l'ultimo atto, si intende, nel caso in oggetto, tacitamente revocata la delazione sospensivamente condizionata alla commorienza di entrambe i coniugi, e non essendo previste sostituzioni ed essendo di fatto premorta l'unica erede istituita, l'eredità verrà devoluta per legge. Tali principi sono stati ripresi dalla più recente Cass. II, n. 4617/2012 che, richiamandosi ad alcuni risalenti precedenti in materia (Cass. n. 12285/2002 e Cass. n. 12649/2001), afferma che nell'ipotesi di più testamenti successivi, il posteriore, quando non revoca in modo espresso il precedente, lo annulla esclusivamente con riguardo alle disposizioni con esso incompatibili, in applicazione del generale principio di conservazione delle disposizioni di ultima volontà, potendosi, inoltre, ravvisare una revoca implicita dell'intero testamento precedente, solo ove sia positivamente accertata la non configurabilità di una sopravvivenza del suo contenuto superstite, a fronte delle mutilazioni derivanti da detta incompatibilità. Ancor più di recente, cfr. anche Cass. II, n. 2785/2017, sempre in tema di clausole testamentarie di commorienza apposte dal de cuius, volte a beneficiare il marito, se ed in quanto possibile (cioè in caso di sua sopravvivenza), destinando altrimenti le voci più consistenti del patrimonio a finalità caritatevoli. Diritto internazionale privatoLa l. n. 218/1995 (legge di riforma del diritto internazionale privato) si occupa dell'istituto della commorienza all'art. 21, a mente del nel caso di contemporaneo decesso di due o più persone, qualora non sia noto quale si esse sia morta per prima, il momento della morte si accerta in base alla legge regolatrice del rapporto rispetto al quale rileva l'accertamento. Rispetto dunque alla disputa sorta in passato, viene chiarito che il criterio di collegamento è rappresentato dalla legge regolatrice del rapporto e non già dalla legge nazionale dei soggetti coinvolti. Tuttavia, attenendo la fattispecie alla materia successoria, sul punto dovrebbe trovare applicazione l'art. 46 e quindi, di fatto, il criterio della legge nazionale del soggetto della cui eredità si tratta al momento della sua morte. BibliografiaAlpa - Ansaldo, Le persone fisiche, in Comm. S., Milano, 1996; Andrioli, Presunzioni (dir. civ. e dir. proc. civ.), in Nss. D.I., XIII, 1966; Carusi, Momentum mortis omnis vitae tribuitur? Del danno da uccisione e di alcune questioni in materia di condizione, in Riv. dir. civ., 2002, 3, 391; De Cupis, Commorienza, in Giust. civ. 1986, 1, 970; Fadda, Diritto delle persone e della famiglia, Napoli, 1910; Falzea, voce Capacità (teor. gen.), in Enc. dir., VI, Milano, 1960; Luzzatto, voce Commorienza, in Nss. D.I., III, Torino, 1959, 675; Musolino, Il testamento posteriore come fattispecie di revoca tacita, in Riv. not., 2012, 5, 1216; Palazzo, voce Presunzione (dir. priv.), in Enc. dir., XXXV, Milano, 1986; Patti, Probatio e praesumptio: attualità di un’antica contrapposizione, in Riv. dir. civ., 2001, 4, 475; Pizzorusso, Delle persone fisiche, sub artt. 1-10, in Comm. S.B., 1978; Rescigno, La successione a titolo universale e particolare, in Riv. not. 1992, 6; Santoro Passarelli, voce Commorienza, in Enc. dir., VII, Milano, 1960; Sgroi, voce Morte (dir. civ.), in Enc. dir., XXVII, Milano, 1977. |