Legge - 1/12/1970 - n. 898 art. 4

Giuseppe Pagliani
Francesco Maria Bartolini

 

[ 1. La domanda per ottenere lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio si propone al tribunale del luogo dell'ultima residenza comune dei coniugi ovvero, in mancanza, del luogo in cui il coniuge convenuto ha residenza o domicilio. Qualora il coniuge convenuto sia residente all'estero o risulti irreperibile, la domanda si propone al tribunale del luogo di residenza o di domicilio del ricorrente e, se anche questi e' residente all'estero, a qualunque tribunale della Repubblica. La domanda congiunta puo' essere proposta al tribunale del luogo di residenza o di domicilio dell'uno o dell'altro coniuge 1.

2. La domanda si propone con ricorso, che deve contenere l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali la domanda di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili dello stesso e' fondata.

3. Del ricorso il cancelliere da' comunicazione all'ufficiale dello stato civile del luogo dove il matrimonio fu trascritto per l'annotazione in calce all'atto.

4. Nel ricorso deve essere indicata l'esistenza di figli di entrambi i coniugi  2.

5. Il presidente del tribunale, nei cinque giorni successivi al deposito in cancelleria, fissa con decreto la data di comparizione dei coniugi davanti a se', che deve avvenire entro novanta giorni dal deposito del ricorso, il termine per la notificazione del ricorso e del decreto ed il termine entro cui il coniuge convenuto puo' depositare memoria difensiva e documenti. Il presidente nomina un curatore speciale quando il convenuto e' malato di mente o legalmente incapace.

6. Al ricorso e alla prima memoria difensiva sono allegate le ultime dichiarazioni dei redditi rispettivamente presentate.

7. I coniugi devono comparire davanti al presidente del tribunale personalmente, salvo gravi e comprovati motivi, e con l'assistenza di un difensore. Se il ricorrente non si presenta o rinuncia, la domanda non ha effetto. Se non si presenta il coniuge convenuto, il presidente puo' fissare un nuovo giorno per la comparizione, ordinando che la notificazione del ricorso e del decreto gli sia rinnovata. All'udienza di comparizione, il presidente deve sentire i coniugi prima separatamente poi congiuntamente, tentando di conciliarli. Se i coniugi si conciliano, il presidente fa redigere processo verbale della conciliazione.

8. Se la conciliazione non riesce, il presidente, sentiti i coniugi e i rispettivi difensori nonche', disposto l'ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di eta' inferiore ove capace di discernimento, da', anche d'ufficio, con ordinanza i provvedimenti temporanei e urgenti che reputa opportuni nell'interesse dei coniugi e della prole, nomina il giudice istruttore e fissa l'udienza di comparizione e trattazione dinanzi a questo. Nello stesso modo il presidente provvede, se il coniuge convenuto non compare, sentito il ricorrente e il suo difensore. L'ordinanza del presidente puo' essere revocata o modificata dal giudice istruttore. Si applica l'articolo 189 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile3.

9. Tra la data dell'ordinanza, ovvero tra la data entro cui la stessa deve essere notificata al convenuto non comparso, e quella dell'udienza di comparizione e trattazione devono intercorrere i termini di cui all'articolo 163-bis del codice di procedura civile ridotti a meta'.

10. Con l'ordinanza di cui al comma 8, il presidente assegna altresi' termine al ricorrente per il deposito in cancelleria di memoria integrativa, che deve avere il contenuto di cui all'articolo 163, terzo comma, numeri 2), 3), 4), 5) e 6), del codice di procedura civile e termine al convenuto per la costituzione in giudizio ai sensi degli articoli 166 e 167, primo e secondo comma, dello stesso codice nonche' per la proposizione delle eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio. L'ordinanza deve contenere l'avvertimento al convenuto che la costituzione oltre il suddetto termine implica le decadenze di cui all'articolo 167 del codice di procedura civile e che oltre il termine stesso non potranno piu' essere proposte le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d'ufficio.

11. All'udienza davanti al giudice istruttore si applicano le disposizioni di cui agli articoli 180 e 183, commi primo, secondo, quarto, quinto, sesto e settimo, del codice di procedura civile. Si applica altresi' l'articolo 184 del medesimo codice.

12. Nel caso in cui il processo debba continuare per la determinazione dell'assegno, il tribunale emette sentenza non definitiva relativa allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio. Avverso tale sentenza e' ammesso solo appello immediato. Appena formatosi il giudicato, si applica la previsione di cui all'articolo 10.

13. Quando vi sia stata la sentenza non definitiva, il tribunale, emettendo la sentenza che dispone l'obbligo della somministrazione dell'assegno, puo' disporre che tale obbligo produca effetti fin dal momento della domanda.

14. Per la parte relativa ai provvedimenti di natura economica la sentenza di primo grado e' provvisoriamente esecutiva.

15. L'appello e' deciso in camera di consiglio.

16. La domanda congiunta dei coniugi di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio che indichi anche compiutamente le condizioni inerenti alla prole e ai rapporti economici, e' proposta con ricorso al tribunale in camera di consiglio. Il tribunale, sentiti i coniugi, verificata l'esistenza dei presupposti di legge e valutata la rispondenza delle condizioni all'interesse dei figli, decide con sentenza. Qualora il tribunale ravvisi che le condizioni relative ai figli sono in contrasto con gli interessi degli stessi, si applica la procedura di cui al comma 8 4.] 5

[1] La Corte Costituzionale, con sentenza 23 maggio 2008, n. 169  (in Gazz.Uff., 28 maggio 2008, n. 23), ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale del presente comma, nel testo sostituito dall'articolo 2, comma 3-bis, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, limitatamente alle parole «del luogo dell'ultima residenza comune dei coniugi ovvero, in mancanza,».

[4] Articolo sostituito dall'articolo 8, comma 1, della Legge 6 marzo 1987, n. 74 e dall'articolo 2, comma 3-bis, del D.L. 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla Legge 14 maggio 2005, n. 80, con effetto a decorrere dal 1° marzo 2006, come previsto dall'articolo 2, comma 3-quinquies, del medesimo D.L. 35/2005.

[5] Articolo abrogato dall'articolo 27, comma 1, lettera b) del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 con effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023, come stabilito dall'articolo 35, comma 1, del D.Lgs. 149/2022 medesimo, come modificato dall'articolo 1, comma 380, lettera a), della Legge 29 dicembre 2022, n. 197.

Inquadramento

L'art. 4 della legge sul divorzio 1 dicembre 1970, n. 898, è abrogato per le controversie instaurate dopo il 28 febbraio 2023 dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, (c.d. Riforma Cartabia). Ai procedimenti pendenti a tale data continuano ad applicarsi le norme già vigenti. L'abrogazione disposta per i procedimenti di nuova instaurazione è diretta conseguenza dell'introduzione del nuovo rito unificato in materia di stato delle persone, di minori e della famiglia da applicarsi  anche ai procedimenti di scioglimento del matrimonio e di cessazione degli effetti civili del matrimonio (artt. 473-bis e ss. c.p.c.). Il decreto di riforma ha conservato alla legge citata le norme di diritto sostanziale e ha profondamente mutato la disciplina di natura processuale già dettata dalla citata l. n. 898/1970.

L'art. 4 della l. n. 898/1970 ha dettato la disciplina processuale da applicare nei giudizi di scioglimento del matrimonio e di cessazione degli effetti civili del matrimonio con una normativa specifica a questa materia e da intendersi come autonoma rispetto all'ordinario giudizio di cognizione, se non per quanto riguarda la fase da svolgersi dinanzi al giudice istruttore e nei gradi di impugnazione. Nel sistema così introdotto, la struttura disegnata per il procedimento riprendeva in gran parte quella già vigente per il giudizio di separazione dei coniugi, con un parallelismo di regole progressivamente reso convergente da riforme succedutesi nel tempo.  Come per la separazione, anche per il divorzio l'art. 4 aveva ad oggetto sia la controversia vera e propria divorzile e sia la procedura introdotta in base ad una domanda congiunta. Il divorzio giudiziale è predisposto per il caso in cui, ricorrendo una delle cause di scioglimento del vincolo matrimoniale previste dalla legge, tra i coniugi non c'è accordo sullo scioglimento del vincolo e sulla regolamentazione degli aspetti personali e patrimoniali dei loro rapporti, con conseguente necessità di un intervento decisorio del giudice.  Il divorzio a ricorso congiunto costituisce  l'alternativa procedurale esperibile se, sempre in presenza di una delle cause di scioglimento del vincolo matrimoniale previste dalla legge, tra i coniugi sussistono identità di vedute sull'intento di troncare il vincolo matrimoniale ed essi raggiungono una accordo sul regime concreto con il quale regolare i rapporti tra di loro e con la prole.

Nella normativa poi abrogata dal d.lgs. n. 149/2022 il procedimento è caratterizzato da due fasi successive. L'una, che si apre con la comparizione dei coniugi dinanzi al presidente del tribunale adito, risponde alla finalità di tentare la conciliazione dei coniugi e, se questa riesce, di darne atto con la chiusura del procedimento o con la diversa strada del divorzio per mutuo consenso; di assumere i provvedimenti che si rivelino urgenti nell'interesse dei coniugi e della prole; e, se la causa richiede trattazione o istruttoria oppure se può essere avviata alla decisione, di dare le disposizioni perché possa avere inizio il giudizio di merito o aversi il passaggio alla fase decisoria. La seconda fase consiste in questo giudizio di merito (nella misura in cui ne sia necessario lo svolgimento), avente natura di giudizio di accertamento e di condanna. Il rito per la famiglia che è stato introdotto dal citato d.lgs. n. 149/2022 ha soppresso le due fasi del procedimento che attualmente deve svolgersi secondo il modello tipico del processo di cognizione, seppure con le forme aggiornate di cui agli artt. 473-bis e seguenti c.p.c. (particolarmente: artt. da 473-bis.47 a 473-bis.51). Alcune modifiche alla normativa processuale sono poi state introdotte dal d.lgs. 31 ottobre 2024, n. 164, di correzione della riforma Cartabia.

La soppressione delle due fasi procedimentali costituisce la diversità più vistosa che separa il nuovo regime dalla disciplina che è stata abbandonata. Una seconda diversità degna di menzione è rappresentata dalla definitiva unificazione dei procedimenti di divorzio e di separazione giunti ad una unica disciplina estesa, inoltre, allo scioglimento dell'unione civile.

L’originaria distinzione in due fasi processuali

Nella normativa poi abrogata dal d.lgs. n. 149/2022 il procedimento è caratterizzato da due fasi successive. L'una, che si apre con la comparizione dei coniugi dinanzi al presidente del tribunale adito, risponde alle finalità: di tentare la conciliazione dei coniugi e, se questa riesce, di darne atto con la chiusura del procedimento o con la diversa strada del divorzio per mutuo consenso; di assumere i provvedimenti che si rivelino urgenti nell'interesse dei coniugi e della prole; e, se la causa richiede trattazione o istruttoria oppure se può essere avviata alla decisione, di dare le disposizioni perché possa avere inizio il giudizio di merito o aversi il passaggio alla fase decisoria. La seconda fase consiste in questo giudizio di merito (nella misura in cui ne sia necessario lo svolgimento), avente natura di giudizio di accertamento e di condanna.

Il rito per la famiglia che è stato introdotto dal citato d.lgs. n. 149/2022 ha soppresso le due fasi del procedimento che attualmente deve svolgersi secondo il modello tipico del processo di cognizione, seppure con le forme aggiornate di cui agli artt. 473-bis e seguenti c.p.c. (particolarmente: artt. da 473-bis.47 a 473-bis.51).

La soppressione delle due fasi procedimentali costituisce la diversità più vistosa che separa il nuovo regime dalla disciplina che è stata abbandonata. Una seconda diversità degna di menzione è rappresentata dalla definitiva unificazione dei procedimenti di divorzio e di separazione giunti ad una unica disciplina estesa, inoltre, allo scioglimento dell'unione civile.

Giurisdizione

Nuove norme in tema di giurisdizione del giudice italiano furono dettate dalla l. 31 maggio 1995, n. 218, di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato. L'art. 3 lega tuttora la giurisdizione al fatto che il convenuto abbia in Italia domicilio o residenza oppure vi abbia un rappresentante autorizzato a stare in giudizio; l'art. 32 aggiunge che la giurisdizione per la separazione personale e lo scioglimento del matrimonio sussiste anche quando uno dei coniugi è cittadino italiano o il matrimonio è stato celebrato in Italia.

In particolare, l'art. 31 della l. n. 218/1995, poi modificato, disponeva per la separazione personale e lo scioglimento del matrimonio l'applicazione della legge nazionale comune dei coniugi al momento della domanda e, in mancanza, della legge dello stato nel quale la vita matrimoniale fosse risultata prevalentemente localizzata. L'art. 31  della citata l. n. 218/1995 è stato riscritto dall'art. 29 del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, di riforma del processo civile per i procedimenti instaurati dopo il 28 febbraio 2023. L'intervento ha sostituito alla disposizione secondo cui la separazione e lo scioglimento del matrimonio sono regolati dalla legge nazionale comune  ai coniugi quella secondo cui la separazione personale e lo scioglimento del matrimonio sono regolati dalla legge designata dal Regolamento n. 2010/1259/UE del Consiglio del 20 dicembre 2010 relativo ad una cooperazione rafforzata nel settore della legge applicabile al divorzio e alla separazione personale. In base all'art. 5 di detto regolamento le parti possono scegliere di comune accordo la legge applicabile, mediante redazione di una scrittura privata, e ciò anche nel corso del procedimento. Norme procedurali innovative per l'attuazione, il riconoscimento o il diniego del riconoscimento in Italia di regolamenti UE in materia matrimoniale, di regimi patrimoniali e di responsabilità genitoriale sono state dettate  con l'art. 30-bis del d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150, di semplificazione dei riti civili speciali (inserito dall'art. 24 d.lgs. n. 149/2022).

Norme più specifiche erano state dettate dalla Convenzione sul riconoscimento dei divorzi e delle separazioni personali, adottata a l'Aja l'1 giugno 1970, resa esecutiva con l. 10 giugno 1985, n. 301. Nell'ambito della partecipazione all'Unione europea, l'Italia è vincolata al rispetto del Regolamento (CE) 27 novembre 2003, n. 2201/2003, Regolamento del Consiglio relativo alla competenza, al riconoscimento e all'esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, modificato dal Regolamento n. 1259 del 2010. Questo provvedimento è stato emanato nell'ambito di una cooperazione rafforzata in materia civile e si applica alle sole situazioni che comportano un conflitto di leggi, vale a dire, a quelle situazioni in cui è possibile l'applicazione di una pluralità di disposizioni di ordinamenti diversi, in quanto vi si presentano elementi di internazionalità o legami stretti con la legislazione di vari Paesi. Ciò avviene, ad esempio, nel caso di cittadinanza diversa dei coniugi o di residenza in stati diversi o di residenza in uno stato del quale essi non sono cittadini. In questi casi il Regolamento consente che gli interessati scelgano la normativa da applicare. Occorre, però, che essi concludano in proposito un accordo e il Regolamento consiglia che esso venga redatto per iscritto. In pratica, i coniugi possono scegliere, di comune intesa, la legge da applicare al divorzio tra quella della comune e abituale residenza al momento della conclusione dell'accordo, quella dello stato dell'ultima residenza abituale se uno di essi vi risiede ancora al momento della conclusione dell'accordo o quella dello stato di cui uno dei coniugi ha la cittadinanza al momento della conclusione dell'accordo oppure, ed anche, la legge del foro. Per le domande di dichiarazione di esecutività e di accertamento in via principale dei presupposti per il riconoscimento  delle decisioni emesse dalle autorità di Stati membri UE si applicano le procedure in camera di consiglio di cui agli artt. 737 e 738 c.p.c.; contro il provvedimento emesso in camera di consiglio è ammesso ricorso nelle forme dell'attuale rito semplificato entro 60 gg. dalla notificazione o dalla comunicazione del decreto. Le domande di diniego del riconoscimento delle stesse decisioni sono introdotte con il rito semplificato di cognizione di cui agli artt. 281 decies e ss. c.p.c. (art. 30-bis d.lgs. n. 150/2011).

Per Cass. n. 5710/2014: “La giurisdizione sullo scioglimento del matrimonio celebrato in Italia tra cittadini italiani ivi residenti appartiene al giudice italiano in base agli artt. 3, primo comma, e 32 della l. 31 maggio 1995, n. 218, nonché agli artt. 3 e 31 del Regolamento n. 2201/2003/CE del 27 novembre 2003, la quale non può essere derogata convenzionalmente, ex art. 4 della l. n. 218 del 1995, in favore del giudice straniero, poiché la causa verte su diritti indisponibili, trattandosi di scegliere il regime giuridico da attribuire ad uno “status” (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che non aveva concesso il riconoscimento in Italia ad una sentenza di divorzio congiunto tra coniugi italiani pronunciata dall'autorità giudiziaria di Santo Domingo)”. Nel giudizio di divorzio che attenga anche all'affidamento ed alla collocazione di un figlio minorenne, al fine di determinare quale sia il giudice nazionale dotato di giurisdizione deve aversi riguardo alla residenza della famiglia al momento della proposizione della domanda, rimanendo ininfluente il successivo trasferimento del figlio con un genitore all'estero (Cass. I, n. 15728/2019). Qualora nel giudizio di divorzio introdotto innanzi al giudice italiano siano avanzate domande inerenti la responsabilità genitoriale (nella specie, con riferimento al diritto di visita) ed il mantenimento di figli minori non residenti abitualmente in Italia, ma in altro stato membro dell'Unione Europea (nella specie, la Germania), la giurisdizione su tali domande spetta, rispettivamente ai sensi degli artt. 8, par. 1, del Regolamento CE n. 2201 del 2003 e 3 del Regolamento CE n. 4 del 2009, all'A.G. dello Stato di residenza abituale dei minori al momento della loro proposizione, dovendosi salvaguardare l'interesse superiore e preminente dei medesimi a che i provvedimenti che li riguardano siano adottati dal giudice più vicino al luogo di residenza effettiva degli stessi, nonché realizzare la tendenziale concentrazione di tutte le azioni che li riguardano, attesa la natura accessoria della domanda relativa al mantenimento rispetto a quella sulla responsabilità genitoriale (Cass. S.U. ord. n. 30657/2018).

Dichiarazione di efficacia della sentenza straniera di divorzio

La disciplina dettata dal codice di procedura civile negli artt. da 796 a 805 è stata sostituita con quella contenuta nella l. 31 maggio 1995, n. 218, Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato (artt. da 64 a 71). Per effetto di questa sostituzione è totalmente mutato il principio che regolava l'attribuzione di efficacia alle sentenze straniere e ai provvedimenti di volontaria giurisdizione stranieri: mentre in precedenza occorreva una pronuncia apposita del giudice italiano (fatta eccezione per l'ambito comunitario, diversamente regolato), nella normativa vigente la sentenza straniera è divenuta immediatamente efficace nell'ordinamento interno semprechè sussistano determinati requisiti (artt. 65 e 66). Essi sono, in sostanza, gli stessi che in precedenza dovevano essere preventivamente accertati dal giudice italiano, con la differenza che attualmente vanno verificati soltanto se sorge al riguardo una contestazione oppure se è necessario procedere all'esecuzione forzata. Alla disciplina per tal modo introdotta si sovrappongono le disposizioni delle convenzioni internazionali cui l'Italia ha aderito nonché i regolamenti dell'Unione europea nella specifica materia del reciproco riconoscimento delle decisioni giurisdizionali; e sulla stessa disciplina di diritto interno sono poi intervenute plurime modifiche.

L'art. 67 della citata l. n. 218/1995 demandava alla corte di appello del luogo di attuazione del provvedimento straniero il giudizio richiesto per il caso di mancata ottemperanza o di contestazione del riconoscimento del provvedimento straniero o per il caso di necessità di procedere ad esecuzione forzata. L'art. 34 del d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150, di semplificazione dei riti civili di cognizione speciali, a modifica del detto art. 67 riferì la competenza genericamente  all'autorità giudiziaria ordinaria, mentre l'art. 30 stesso decreto aggiunse la precisazione per cui il procedimento da seguire davanti alla corte d'appello doveva essere quello del rito sommario di cognizione. Contestualmente lo stesso d.lgs. aggiunse con gli artt. 3, 4 e 5, regole derogatorie alla disciplina del rito sommario di cognizione, quale descritto dagli art. 702-bis e ss. c.p.c.

Rilevanti modifiche procedurali sono state apportate al d.lgs. n. 150/2011 dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, di riforma del processo civile, con effetto per i procedimenti instaurati dopo il 28 febbraio 2023. Dispone l' art. 30 d.lgs. n. 150/2011, come modificato dal d.lgs. n. 149/2022, che le controversie aventi ad oggetto l'attuazione di sentenze e provvedimenti stranieri di giurisdizione volontaria di cui all'art. 67 l. n. 218/1995 sono regolate dal rito semplificato di cognizione, ferma la competenza della corte di appello del luogo di attuazione del provvedimento. Una disciplina autonoma è stata poi dettata dalla riforma di cui al citato d.lgs. con l'art. 30-bis per i procedimenti in materia di efficacia di decisioni straniere previsti dal diritto dell'Unione europea e dalle convenzioni internazionali. Questi procedimenti si svolgono in camera di consiglio, senza contraddittorio. In particolare, per quanto in questa sede interessa, la normativa si riferisce anche al Regolamento (UE) n. 2019/1111 del Consiglio, del 25 giugno 2019, che detta norme relative alla competenza, al riconoscimento e all'esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale, in materia di responsabilità genitoriale e alla sottrazione di minori.

In relazione a una sentenza di divorzio pronunciata dal giudice straniero nei confronti di cittadini non italiani, che non indicava compiutamente le condizioni di affidamento e di mantenimento inerenti   al figlio minorenne degli ex coniugi, la Corte di cassazione ne ha affermato la non contrarietà all'ordine pubblico interno, dal momento che nessun principio costituzionale impone che la definitiva regolamentazione dei diritti e dei doveri scaturenti da un determinato status sia contenuta in un unico contesto, atteso che nel nostro ordinamento è prevista la sentenza non definitiva di divorzio con possibile rinvio al prosieguo anche per l'adozione dei provvedimenti definitivi relativi all'affidamento dei figli e al contributo al loro mantenimento (sent. n. 13556/2012). Per il Tribunale di Modena (18 aprile 2012, Giur. locale Modena 2012) il giudice italiano, investito della modifica delle condizioni di divorzio pronunciato all'estero (nella specie, Marocco), può valutare presupposti e circostanze, già esistenti al momento di quella decisione che non siano state considerate secondo la legislazione estera, ovvero il sopravvenuto mutamento delle circostanze, ai fini della richiesta di revisione della pronuncia. Si è al di fuori dell'ambito della delibazione della sentenza straniera, in via principale o in via incidentale, quando nel giudizio diretto a ottenere il divorzio l'attore faccia valere, quale presupposto per ottenerlo, una sentenza di separazione personale emessa da un giudice straniero, in quanto la domanda che così si propone non mira a costituire nel ns. ordinamento la situazione giuridica che la sentenza straniera ha determinato ma a esercitare un diritto che in detta situazione trova il suo presupposto (Cass. n. 11297/1994). Va ricordato che l'art. 12 quinquies legge divorzio dispone che le norme della stessa legge si applicano allo straniero, coniuge di cittadina italiana, la legge nazionale del quale non disciplina lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio.

Ricorso: contenuto ed allegazioni obbligatorie

a) Il ricorso.

Sia con riguardo alla disciplina originaria della l. n. 898/1970 che con riferimento alla normativa subentrata del rito unificato in materia di famiglia la domanda di divorzio assume la forma del ricorso, atto caratterizzato dall'essere rivolto al giudice e da depositare nella cancelleria del suo ufficio. Questo tipo di atto della parte è descritto, con norma di ambito generale, dal codice di rito civile all'art. 125, che ne indica gli elementi di forma e di contenuto essenziali.

Per quanto concerne il giudizio di divorzio, l'art. 4, nell'imporre la forma del ricorso, ha dettato regole particolari, con il prescrivere sinteticamente che questo deve contenere l'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda e deve altresì indicare l'esistenza di figli; ad esso devono essere allegate le ultime dichiarazioni dei redditi presentate. Il testo iniziale della disposizione venne semplificato nel contenuto dal d.l. n. 35/2005, conv. nella l. n. 80/2005, che escluse dal novero degli elementi necessari da indicare nell'atto l'indicazione dei documenti prodotti e delle prove da far assumere. La circostanza  fu considerata significativa a far intendere sufficiente, per l'introduzione del procedimento, quanto semplicemente occorre a dare oggetto e senso alla domanda, dato che precisazioni, aggiunte, ed eccezioni possono essere formulate nel prosieguo, dinanzi al giudice della fase di cognizione. Si assegnava, dunque, al ricorso la funzione di fornire al presidente nella fase introduttiva del giudizio il quadro dei riferimenti occorrenti a tentare la conciliazione dei coniugi e adottare eventualmente i provvedimenti urgenti e temporanei che la situazione richiede. In questo contesto, non possono comunque essere trascurati gli elementi di diritto da dedurre nel ricorso, in quanto il divorzio è consentito nella sussistenza di precise e tassative condizioni, disciplinate dalla legge quali evidenziatrici della avvenuta cessazione della comunione materiale e spirituale tra i coniugi. Analoga rilevanza rivestono le indicazioni della presenza di figli da tutelare e delle condizioni economiche in cui versa la famiglia, a completare quegli aspetti dei quali il presidente deve tener conto nell'udienza di comparizione delle parti.

Il subentrato rito unificato per le controversie in materia di stato delle persone, di minori e di famiglia, ha mutato profondamente la disciplina del processo divorzile e, con essa, lo scopo stesso dell'atto che ne fa inizio. L'introduzione della controversia avviene ancora con atto in forma di ricorso; ma la sua finalità è divenuta quella di aprire da subito un giudizio di cognizione dinanzi al giudice deputato a tentare la conciliazione, assumere provvedimenti indifferibili, istruire la causa e affidarla alla decisione. La limitata finalità dell'atto di consentire al presidente del tribunale di svolgere il suo ruolo autorevole, per rimettere al prosieguo la vera e propria radicazione della causa, è stata trasformata nella diretta instaurazione del giudizio sul merito della vertenza. Per questa ragione è stato mutato il contenuto necessario del ricorso di parte attrice, ora indicato ex novo dall'art. 473-bis.12. Rispetto alla normativa precedente le differenze dovute alla riforma sono principalmente le seguenti: il ricorso deve contenere l'indicazione anche della cittadinanza dell'attore, del convenuto, dei figli comuni alle parti se minorenni o maggiorenni non economicamente autosufficienti o portatori di handicap grave e degli altri soggetti cui la domanda si riferisce; la determinazione dell'oggetto della domanda; la chiara e sintetica esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali la domanda si fonda, con le relative conclusioni; l'indicazione specifica dei mezzi di prova dei quali l'attore intende valersi e dei documenti che offre in comunicazione; l'eventuale esistenza  di altri procedimenti aventi a oggetto, in tutto o in parte, le medesime domande o domande connesse. Nel caso di domande di contributo economico o in presenza di figli minori, al ricorso sono allegate le dichiarazioni dei redditi degli ultimi tre anni, la documentazione attestante la titolarità di diritti reali  su beni immobili e su beni mobili registrati o su quote sociali e gli estratti conto dei rapporti bancari e finanziari relativi agli ultimi tre anni. Questa documentazione deve essere allegata anche alla comparsa di costituzione nel procedimento (art. 473-bis.47 c.p.c.). Scopo dichiarato della riforma è quello di porre da subito a disposizione della controparte e del giudice tutto il materiale necessario a individuare la materia demandata alla decisione giudiziale. Con il ricorso per la separazione personale può essere proposta, contestualmente, la domanda di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio.

Come è facile constatare, la differenza che distanzia la vecchia e la nuova disciplina impone di abbandonare la tradizionale opinione dottrinaria secondo la quale  la domanda, sia di separazione che di divorzio, è a formazione progressiva e costituisce esplicazione dell'intenzione normativa di consentire un suo completamento mediante una posteriore memoria integrativa: in attuazione della scelta di circoscrivere il contenuto del ricorso introduttivo a quanto occorra al tentativo di conciliazione ed ai provvedimenti presidenziali. Proprio per la iniziale sommarietà del ricorso, si affermava, il presidente del tribunale non può rilevare nullità cui il ricorrente può porre rimedio con la successiva memoria. La situazione è attualmente mutata. Il giudice istruttore, in sede di prima udienza, verifica d'ufficio la regolarità del contraddittorio, pronuncia i provvedimenti opportuni e compie le altre attività di cui agli artt. 156,160 e 182 c.p.c.

La modifica del precedente disposto dell'art. 4, conseguente al nuovo dettato dell'art. 473-bis.12, ha determinato conseguenze che gli operatori hanno considerato negativamente. Quando ad instaurare il procedimento era consentito fornire gli elementi sufficienti a permettere il tentativo di conciliazione presidenziale esisteva spazio di trattativa tra le parti. Esse, infatti, non avevano ancora messo per iscritto i rispettivi argomenti e le contrapposte contestazioni, i reciproci rancori e le recriminazioni, le pretese e gli addebiti i:  che, una volta formalizzati, avrebbero radicalizzato lo scontro. Attualmente, la completa esposizione di fatti, doglianze, rivendicazioni, prove, chiude il dialogo e spinge le parti su posizioni dalle quali diventa difficile farle ripartire.  

Se quello sin qui descritto è il contenuto tipizzante del ricorso di divorzio, la sua caratteristica di essere un atto rivolto a far instaurare un procedimento giudiziale rende necessario che esso presenti alcuni degli elementi contenutistici indicati dal ricordato art. 125 c.p.c., come specifici alla sua funzione di atto di parte rilevante per il processo: almeno l'indicazione dell'ufficio giudiziario, delle parti, dell'oggetto della domanda e delle relative conclusioni che lo esplicitano. Inoltre, la necessaria indicazione di elementi di completamento è desumibile da norme comuni ai procedimenti in genere, quali l'elezione di domicilio del ricorrente e gli altri dati occorrenti per le comunicazioni di cancelleria, conformi alla vigente normativa sulle comunicazioni e notificazioni telematiche; nonché la sottoscrizione del ricorrente e (salvo quanto precisato poco oltre) la sottoscrizione del difensore.

La sopraggiunta riforma processuale ha risolto alcune questioni ampiamente dibattute in precedenza. Una di esse riguarda una indicazione da menzionare nel ricorso introduttivo,  richiesta dall'art. 4, quarto comma, l. n. 898/1970 (nella formulazione mutata dal d.lgs. n.  154/2013). L'indicazione ha ad oggetto la dichiarazione di esistenza di figli di entrambi i coniugi; ed utilizza in proposito una espressione letterale che non precisa se debbano farsi differenze tra figli nati nel matrimonio e quelli, eventuali, nati fuori da esso. Era dubbio se l'indicazione dovesse specificare se si trattava di figli minorenni o anche di quelli divenuti maggiorenni; mentre si dava per certo che dovessero essere menzionati i figli che i coniugi potevano avere avuto da unioni con terze persone. Si è attualmente chiarito che deve farsi indicazione dei figli che meritano protezione: dei minori di età, cioè, e dei maggiorenni se non autosufficienti o se portatori di handicap grave. La precisazione normativa induce a ritenere che vadano menzionati anche i figli dichiarati interdetti per infermità di mente e, del resto, costoro rientrano nella categoria di coloro che vanno elencati in quanto ad essi “le domande o il procedimento si riferiscono”. Inoltre si è precisato che deve trattarsi dei figli “comuni” delle parti: quelli, cioè, immediatamente colpiti dalla disgregazione del rapporto tra i loro genitori.

Il nuovo assetto procedurale conseguente alla riforma introdotta dal d.lgs. n. 149/2022 prevede che, nei procedimenti relativi ai minori, al ricorso sia allegato un piano genitoriale indicante gli impegni  e le attività quotidiane dei figli relative alla scuola, al percorso educativo, alle attività extrascolastiche, alle frequentazioni abituali e alle vacanze normalmente godute. La richiesta del deposito del piano rientra nelle disposizioni dettate dalla riforma per porre a disposizione della controparte e del giudice tutti gli elementi, sin dall'inizio del procedimento, utili a descrivere la situazione nella quale si deve intervenire.

Il ricorso: atto di parte o atto di procuratore? Con riferimento alla disciplina che sopravvive per i procedimenti pendenti all'entrata in vigore della riforma di cui al d.lgs. n. 149/2022  è stata espressa l'opinione per cui nella fase presidenziale sarebbe sufficiente la semplice assistenza del difensore mentre la vera e propria rappresentanza sarebbe necessaria nella successiva fase che si apre dinanzi al giudice istruttore. Le conseguenze che ne derivano sono le seguenti: il ricorso potrebbe essere un atto sottoscritto dalla parte, la quale potrebbe conferire un incarico verbale al difensore ed esserne assistita all'udienza di comparizione. Ove si ritenesse necessaria la rappresentanza del difensore anche per comparire davanti al presidente, il ricorso dovrebbe essere sottoscritto dal difensore, precedentemente munito di procura scritta. In questo senso si erano espresse Cass. 26365/2011; Cass. 3095/1989.

La riforma del processo civile disegnata dal d.lgs. n. 149/2022 indica come contenuto ordinario del ricorso l'indicazione del nome, del cognome e del codice fiscale del procuratore, unitamente all'indicazione della procura. La disposizione attesta univocamente la necessità della rappresentanza tecnica, salvi i casi di possesso delle qualità personali e professionali che consentono alla parte di stare in giudizio personalmente. La necessità appare confermata dall'art. 473-bis. 14, il quale manda al presidente del tribunale di comunicare al convenuto, nel decreto di fissazione dell'udienza di comparizione che deve essergli notificato, che la difesa a mezzo di avvocato è obbligatoria. Ne segue che il ricorso deve contenere anche la sottoscrizione del difensore. In particolare, il difensore deve indicare l'indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine, anche se tale indirizzo è comunque conoscibile: l'art. 3-bis del d.lgs. n. 82/2005, fa obbligo ai professionisti tenuti a iscriversi in albi o elenchi di dotarsi di un domicilio telematico iscritto nell'Elenco nazionale dei domicili dei professionisti e delle imprese. 

L'art. 473-bis.14 aggiunge inoltre che il decreto di fissazione dell'udienza di comparizione deve contenere anche l'avviso della facoltà per il convenuto di presentare l'istanza per l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato nonché della possibilità di avvalersi della mediazione familiare.

 Il ricorso segna il momento di inizio del procedimento. Il suo deposito in cancelleria instaura il rapporto cittadino-giudice (Cass. n. 18448/2004) mentre la successiva notifica alla controparte apre il contraddittorio e dà luogo alla pendenza della lite. Questa distinzione del procedimento in due fasi, quella presidenziale e la successiva, di cognizione era ritenuta foriera di  alcune conseguenze. Il ricorso, si affermava,  fissa già il petitum del procedimento: doveva considerarsi, ad esempio, domanda nuova, inammissibile in difetto di accettazione del contraddittorio, la richiesta formulata nelle conclusioni definitive di eliminare l'obbligo di corresponsione dell'assegno di mantenimento rispetto alla originaria domanda di ridurlo (Cass. n. 11061/2011). Parte della giurisprudenza si era tuttavia espressa in senso permissivo. Ad esempio, è stato ribadito che, come principio generale, la domanda di assegno divorzile deve essere proposta con l'atto introduttivo del giudizio o con la comparsa di risposta; ma si è poi affermato che deve escludersi la relativa preclusione nel caso in cui i presupposti del diritto all'assegno maturino nel corso del giudizio, in quanto la natura e la funzione dei provvedimenti diretti a regolare i rapporti economici tra i coniugi in conseguenza del divorzio postulano la possibilità di modularne la misura al sopravvenire di nuovi elementi di fatto (Cass. I, ord. n. 29290/2021; Cass. 3925/2012). In ogni caso, la declaratoria di inammissibilità della domanda volta al riconoscimento dell'assegno di divorzio, proposta tardivamente nel giudizio relativo allo scioglimento del vincolo matrimoniale, non ne limita la proponibilità in separato giudizio, pur in mancanza di fatti sopravvenuti, trattandosi di pronuncia processuale inidonea alla produzione del giudicato perché impeditiva dell'esame nel merito della domanda (così Cass. I, n. 17102/2019).

Nell'assetto normativo introdotto con il rito unificato di famiglia si fa espresso richiamo alle decadenze di cui all'art. 167, per il convenuto, alla perentorietà dei termini di deposito delle memorie difensive e al divieto di domande nuove che non abbiano ad oggetto diritti disponibili. La materia del decidere viene a consolidarsi e delimitarsi attraverso il ricorso introduttivo, la comparsa di risposta, la memoria del ricorrente, la memoria di risposta del convenuto e la replica attorea; per poi essere precisata, modificata e integrata con le memorie da depositarsi in vista della rimessione in decisione. Ma le parti possono sempre introdurre nuove domande e nuovi mezzi di prova relativi all'affidamento e al mantenimento dei figli minori; nonché nuove domande di contributo economico in favore proprio e dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente, con i nuovi mezzi di prova, quando si verificano mutamenti nelle circostanze o a seguito di nuovi accertamenti.

La giurisprudenza aveva ammesso la validità dell'introduzione del giudizio con atto di citazione ma alla condizione che il coniuge citato compaia effettivamente davanti al presidente. E ciò per il principio di conservazione degli effetti degli atti giuridici, quando ne è raggiunto lo scopo (Cass. n. 4876/1991). Principio analogo non può più essere affermato con riferimento alla nuova disciplina in materia di processo di famiglia, con riguardo alla comparizione davanti al giudice istruttore. Manca, nel nuovo rito, il calendario delle prime udienze di comparizione alle quali poter citare il convenuto, scelta del ricorrente attore; mentre l'udienza di comparizione deve essere fissata dal presidente del tribunale con un provvedimento che assegna al convenuto il termine per costituirsi e gli comunica gli avvisi di legge a sua tutela.

Tutte le regole concernenti l'introduzione del giudizio e il suo successivo sviluppo sono dichiarate dall'art. 1, comma 25, della l. n. 76/2016 applicabili anche alle unioni civili tra persone dello stesso sesso.

b) Le produzioni documentali obbligatorie.

L'art. 4, comma sesto, della l. n. 898/1970 dispone (ancora per i procedimenti cui si applica la normativa che è stata sostituita) che al ricorso (e alla prima memoria del convenuto) devono essere allegate le ultime dichiarazioni dei redditi. La norma ha formulazione generica e non è munita di sanzione per il caso di inosservanza. Non è specificato cosa debba intendersi per «ultime» e, verosimilmente, questo aspetto deve trovare concretezza nel contenuto stesso del ricorso, in relazione alla specifica situazione patrimoniale che si chiede di regolare attraverso il giudizio di divorzio. Il subentrato art. 473-bis.12 nel terzo comma precisa attualmente che con il ricorso devono essere prodotte le dichiarazioni dei redditi degli ultimi tre anni, così fornendo l'indicazione che mancava. Esso dispone, inoltre, che devono essere allegati all'atto di parte: la documentazione attestante la titolarità di diritti reali su beni immobili e beni mobili registrati nonché di quote sociali; e gli estratti conto dei rapporti bancari e finanziari relativi agli ultimi tre anni. Ma aggiunge, anche, che la produzione va fatta quando le domande chiedono un contributo economico o in presenza di figli minori.  L'art. 473-bis.48 detta una disposizione divergente, in quanto rinvia al citato terzo comma dell'art. 473-bis.12 per precisare che l'allegazione dei sopra detti documenti è sempre obbligatoria nei procedimenti di separazione, di scioglimento o cessazione degli effetti del matrimonio, di scioglimento dell'unione civile, di regolamentazione della responsabilità genitoriale nei confronti dei figli nati fuori del matrimonio e di modifica delle relative condizioni.

 La titolarità dei diritti reali dovrebbe già risultare dalle dichiarazioni dei redditi in quanto concorrente alla creazione del patrimonio considerato dal Fisco come oggetto di imposizione. La disposizione che ne fa esplicita richiesta è dunque da intendere in senso rafforzativo di una doverosa dichiarazione di disponibilità economiche idonee a incidere sulla valutazione della situazione reciproca riferita ai coniugi in quanto tali e in quanto genitori. Si richiede, altresì, allo stesso fine la produzione degli estratti conto dei rapporti bancari e finanziari degli ultimi tre anni, quali specchi immediati del possesso di possibili risorse rilevanti a descrivere l'abbienza delle parti. Una funzione a sé esplica la richiesta di produzione del piano genitoriale per i procedimenti relativi a figli minori. Questo piano costituisce una innovazione dovuta alla riforma del processo civile ed è intesa a sottoporre da subito al giudice la visione che della vita familiare il genitore si è formato, la realtà quotidiana dei rapporti per come sono vissuti e i propositi che si intende sviluppare con e dopo il divorzio nell'esercizio della responsabilità verso i figli. La descrizione che se ne offre serve anche al pubblico ministero per le eventualità di un suo intervento fattivo; e pone la controparte in grado di ribattere e di correggere rappresentazioni strumentali in anticipazione di quanto dovrà poi risultare dall'eventuale istruttoria che si rende opportuna. L'assenza di precedenti normativi e la delicatezza del piano hanno indotto molti tribunali a predisporre moduli e fac-simili, anche in forma di questionario, onde guidare i compilatori in una piena e chiara esposizione della situazione oggetto di controversia.

La mancata allegazione delle dichiarazioni reddituali non impedisce certo acquisizioni successive, d'ufficio o per produzione di controparte. E la norma resterebbe priva di significato, ove non si ammettesse che all'inadempimento il giudice possa attribuire quanto meno un valore indiziario nel contesto del complessivo comportamento e delle altre risultanze probatorie. Sul punto vecchia e nuova normativa convergono e in parte si sovrappongono. L'art. 5 della l. n.  898/1970 dispone che il giudice, con riferimento alle domande di contributo economico, può d'ufficio ordinare l'integrazione della documentazione presentata dalle parti e disporre ordini di esibizione  e indagini sui redditi, sui patrimoni e sull'effettivo tenore di vita, anche nei confronti di terzi, valendosi se del caso della polizia tributaria: analogamente si pronuncia l'art. 473-bis.2 c.p.c. per i nuovi procedimento. Va ricordato che già l'art. 155 c.c. consentiva al giudice di disporre accertamenti ad opera della polizia tributaria sulle condizioni economiche delle parti nonché sui beni oggetto di eventuali contestazioni. La norma è stata trasfusa nell'art. 337-ter, ultimo comma, dal d.lgs. n. 154/2013 di attuazione della l. n. 219/2012, ed è espressamente dichiarata (nella rubrica del Capo II) riferibile non solo al procedimento di separazione ma anche a quelli di scioglimento e cessazione degli effetti civili del matrimonio, di annullamento e nullità del matrimonio nonché ai procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio. Similare disposizione è comunque dettata dal comma nono dell'art. 5 legge divorzio. Deve ritenersi che il dovere di presentare le dichiarazioni dei redditi possa essere adempiuto anche con il deposito, ad opera di una qualunque delle parti, della dichiarazione compilata a modello unico, quando essa è redatta a nome congiunto dei coniugi: e ciò quando al riguardo non siano proposte opposizioni o contestazioni. La Corte di cassazione aveva affermato  che il potere di disporre indagini della polizia tributaria, derivante dall'applicazione dell'art. 5, comma 9, l. n. 898 del 1970, costituisce una deroga alle regole generali sul riparto dell'onere della prova, il cui esercizio è espressione della discrezionalità del giudice di merito che, però, incontra un limite in presenza di fatti precisi e circostanziati in ordine all'incompletezza o all'inattendibilità delle risultanze fiscali acquisite al processo. In tali casi, il giudice ha il dovere di disporre le indagini della polizia tributaria, non potendo rigettare le domande volte al riconoscimento o alla determinazione dell'assegno, fondate proprio sulle circostanze specifiche che avrebbero dovuto essere verificate per il tramite delle menzionate indagini. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito, che, ai fini della determinazione dell'assegno di mantenimento, aveva ritenuto superflue le indagini della polizia tributaria, nonostante fossero stati dedotti fatti specifici a supporto della relativa richiesta, in base all'erroneo presupposto dell'irrilevanza, ai fini della ricostruzione del tenore di vita familiare, di eventuali entrate sottratte al fisco). Le questioni che possono insorgere sono risolte dal tribunale tramite le indagini deferite a consulenti o alla polizia tributaria. L'art. 155-sexies delle disposizioni di attuazione al codice di procedura civile ha esteso alle situazioni in cui occorre ricostruire l'attivo e il passivo nell'ambito di procedure in materia di famiglia le modalità di accesso telematico alle banche dati disciplinate dagli articoli 155-ter seguenti.

L'art. 1, comma 25, della l. n. 76/2016 ha poi esteso l'applicazione delle disposizioni contenute nell'art. 5 della legge sul divorzio anche alle unioni civili tra persone dello stesso sesso, da essa regolate. Più precisamente, l'estensione è disposta con la clausola della compatibilità e non riguarda i commi secondo, terzo e quarto, relativi al cognome che la donna perde o può conservare con il divorzio. In proposito, la legge ricordata detta norme specifiche per le unioni civili in argomento.

Competenza

a) Criteri di competenza.

Il procedimento di divorzio è di competenza per materia del tribunale cui spettano in generale tutte le controversie in tema di status personale. Dopo la fase di trattazione e di istruzione si pronuncia il collegio: questa composizione dell'organo giudicante trova ragione anche nella natura obbligatoria della partecipazione del P.M. (art. 50 bis c.p.c.). Trattasi di competenza funzionale. La competenza per territorio era indicata dall'art. 4 legge divorzio secondo tre criteri di applicazione successiva: il tribunale del luogo dell'ultima residenza comune dei coniugi; in difetto, il tribunale del luogo di residenza o domicilio del coniuge convenuto; in ulteriore difetto, il tribunale del luogo di residenza o domicilio del ricorrente se il convenuto è residente all'estero o risulta irreperibile ma, se anche il ricorrente è residente all'estero, qualunque tribunale della Repubblica. La Corte costituzionale, con sentenza 23 maggio 2008, n. 169, ha dichiarato l'illegittimità del disposto concernente il primo di questi criteri, in quanto riconosciuto inadatto alle situazioni specifiche del divorzio, cui si giunge in genere dopo convivenze cessate da tempo (all'epoca della pronuncia occorrevano tre anni di separazione ininterrotta) e allorché la residenza comune non è più che un ricordo privo di significato. I rimanenti due parametri erano stati ritenuti di natura inderogabile, per gli effetti di cui all'art. 28 c.p.c. I coniugi, pertanto, non potevano accordarsi per derogare alla competenza territoriale.

La normativa concernente la fissazione dei parametri individuativi della competenza è ormai decaduta posto che per i procedimenti da instaurare dopo il 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni in parte diverse introdotte con la riforma del processo civile, di cui al d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149. Nel giudizio dinanzi al tribunale, per lo stato delle persone, per i minori e per la famiglia, la competenza per territorio è determinata in base alla natura della causa ed ai suoi riferimenti soggettivi. Per tutti i procedimenti nei quali devono essere adottati provvedimenti che riguardano un minore, è competente il tribunale del luogo in cui il minore ha la residenza abituale; se vi è stato trasferimento non autorizzato del minore e non è decorso un anno, è competente il tribunale del luogo dell'ultima residenza abituale prima del trasferimento (art. 473-bis.11). Tale criterio di competenza vige anche per le domande di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio (art. 473-bis.47). In mancanza di figli minori, è competente il tribunale del luogo di residenza del convenuto; in caso di irreperibilità o di residenza all'estero del convenuto, è competente il tribunale del luogo di residenza dell'attore o, se risiede all'estero, qualunque tribunale della Repubblica.  Fuori da questi casi si applicano le disposizioni generali in ordine alle controversie tra persone (art. 18 c.p.c.).

Per le nozioni di residenza e domicilio valgono le indicazioni del codice civile. In questa sede ricordiamo che il principio della normale corrispondenza tra residenza anagrafica e residenza effettiva costituisce una presunzione semplice, superabile con ogni mezzo di prova; se si prova che il coniuge separato di fatto era a conoscenza della mancata corrispondenza tra la residenza anagrafica e la residenza effettiva non può operare la rigorosa disciplina di cui all'art. 44 c.c. in ordine alla opponibilità del trasferimento della residenza (Cass. n. 8049/2005). A fronte della mera risultanza di una residenza anagrafica, al convenuto è consentito dimostrare che la sua residenza effettiva non corrisponde a quella risultante formalmente. Ove tale prova manchi, la competenza è determinata sulla base delle emergenze dei registri anagrafici. La residenza effettiva è il luogo in cui si trova la dimora abituale. Il suo trasferimento non è opponibile ai terzi di buona fede, se non denunciato nei modi prescritti dalla legge (art. 44 c.c.), irrilevante essendo che, dopo aver trasferito la residenza anagrafica in altra città, l'uno coniuge abbia continuato a servirsi della vecchia abitazione come ufficio o recapito, senza negare l'intento di considerarsi ormai trasferito in quella nuova (Cass. n. 1302/1976).

Per irreperibilità deve intendersi l'impossibilità di conoscere la residenza o il domicilio del convenuto, non integrata però dalla semplice difficoltà o dal rifiuto delle persone di ricevere la notifica del ricorso introduttivo del giudizio.

La dottrina discuteva in ordine alla individuazione del momento rilevante per la determinazione della competenza: se quello del deposito del ricorso, che nel procedimento bifasico costituisce il rapporto cittadino-giudice; o se quello della notifica del ricorso di fissazione dell'udienza di comparizione dinanzi all'istruttore dopo l'udienza presidenziale, sulla falsariga dell'art. 39, comma 3, e in quanto la notifica costituisce il contraddittorio con la controparte. Nel primo senso si era espressa la giurisprudenza, non ritenendo applicabile in via di interpretazione analogica l'art. 39 citato, dettato (in allora) per i giudizi che iniziano con citazione (Cass. n. 5729/2001). Attualmente non sussistono motivi di dubbio: per i procedimenti che iniziano con ricorso la prevenzione è determinata dal momento della notificazione del ricorso, come ora dispone l'art. 39, comma terzo, nel testo modificato dalla l. 18 giugno 2009, n. 69.

b) Effetti della connessione sulla competenza.

L'art. 40 c.p.c. consente il cumulo nello stesso processo di domande soggette a riti diversi unicamente nelle ipotesi di connessione qualificata (artt. 31, 32,34, 35 e 36 c.p.c.), così escludendo, ad esempio, la proposizione cumulativa di domande connesse soltanto soggettivamente, appartenenti a giudici diversi. In applicazione di questo principio, la giurisprudenza ha escluso il simultaneus processus tra l'azione di divorzio e quella avente a oggetto la restituzione dei doni fatti nella prospettiva del matrimonio (l'anello di fidanzamento: Cass. n. 11828/2009); e tra l'azione di divorzio e quella per la divisione dei beni comuni (Cass. n. 26158/2006). Le domande di risarcimento dei danni e di separazione personale con addebito sono soggette a riti diversi e non sono cumulabili nel medesimo giudizio, atteso che, trattandosi di cause tra le stesse parti e connesse solo parzialmente per "causa petendi", sono riconducibili alla previsione di cui all'art. 33 c. p. c., laddove il successivo art. 40, nel testo novellato dalla legge 26 novembre 1990, n. 353, consente il cumulo nell'unico processo di domande soggette a riti diversi esclusivamente in presenza di ipotesi qualificate di connessione "per subordinazione" o "forte" (artt. 31,32,34,35 e 36, c. p. c.), stabilendo che le stesse, cumulativamente proposte o successivamente riunite, devono essere trattate secondo il rito ordinario, salva l'applicazione del rito speciale qualora una di esse riguardi una controversia di lavoro o previdenziale (Cass. I, n. 18870/2014). In proposito, Cass. VI, ord. n. 22700/2021 ha affermato che tra la domanda di cessazione degli effetti civili del matrimonio e quella proposta in via riconvenzionale volta ad ottenere l'annullamento dell'accordo di separazione consensuale, assoggettate a riti diversi, è configurabile una situazione di connessione “per subordinazione” o “forte”, atteso il nesso di pregiudizialità che lega le azioni, la quale rende applicabile l'art. 40, comma 3, c.p.c., salva ogni determinazione del giudice di merito in ordine alla sospensione ex art. 295 c.p.c.

È stata fatta eccezione nel caso di proposizione della richiesta di attribuzione di una quota del TFR (art. 12 bis legge divorzio), quando la liquidazione dell'indennità era avvenuta nel corso del giudizio di divorzio, essendosi ritenuto incongruo costringere le parti a un nuovo e separato giudizio (Cass. n. 2733/2008). Cass. VI, ord. n. 22700/2021 ha affermato che tra la domanda di cessazione degli effetti civili del matrimonio e quella, proposta in via riconvenzionale, volta ad ottenere l'annullamento dell'accordo di separazione consensuale per vizio del consenso, assoggettate a riti diversi, esiste una situazione di connessione “forte”, atteso il nesso di pregiudizialità che lega le azioni, con conseguente applicazione dell'art. 40, comma 3, salva ogni determinazione di sospensione del processo di divorzio, ex art. 295 c.p.c. (Cass. I, n. 18870/2014).

Un caso di connessione risolto espressamente dalla legge processuale è previsto dall'art. 38 disp. att. al codice civile, che ripartisce la competenza tra giudice ordinario e tribunale per i minorenni. In particolare, esso dispone che, per i procedimenti di cui agli artt. 330. 332,333,334 e 335 c.c., la competenza è attribuita in via generale al tribunale per i minorenni ma, quando è pendente un giudizio di separazione, di divorzio, oppure exartt. 250, quarto comma, 268,277, secondo comma, e 316 c.c. o per la modifica delle condizioni dettate da precedenti provvedimenti a tutela del minore, la competenza spetta al tribunale ordinario. Analogamente, il tribunale per i minorenni è competente per il ricorso previsto per l'irrogazione delle sanzioni in caso di inadempienze o violazioni quando è già pendente o è instaurato successivamente tra le stesse parti un procedimento previsto dagli artt. 330, 332, 333, 334 e 335 c.c.; nei casi in cui è già pendente o viene instaurato successivamente un procedimento autonomo per l'irrogazione delle sanzioni davanti al tribunale ordinario, questo adotta i provvedimenti temporanei e urgenti nell'interesse del minore e trasmette gli atti al tribunale per i minorenni.

Cass. VI, n. 24099/2015 aveva affermato che non assume, invece, alcun rilievo la residenza della prole minorenne. La residenza abituale del minore costituisce attualmente un preciso criterio determinativo della competenza territoriale (art. 473-bis.11).

Soggetti e legittimazione

a) Principi generali.

 La legittimazione all'azione di scioglimento del matrimonio civile o di cessazione degli effetti civili del matrimonio religioso spetta esclusivamente ai coniugi, per la natura personalissima dei diritti da far valere. In linea di principio la legittimazione spetta ad entrambi, disgiuntamente o congiuntamente, nei casi di divorzio per separazione giudiziale o consensuale, di non consumazione del matrimonio o di divorzio a seguito di sentenza di rettificazione e attribuzione del sesso. Negli altri casi è legittimato, almeno secondo l'opinione dominante, il coniuge che non ha dato causa alla condizione che consente la proposizione della domanda di divorzio. Si tratta di un diritto potestativo personalissimo, intrasmissibile a terzi (v. ad esempio, Pagliani, Codice della famiglia, Milano, 2022, 826).

Si nega legittimazione ai soggetti diversi dai coniugi, anche se stretti congiunti o se muniti di poteri di rappresentanza. In giurisprudenza è stata riconosciuta legittimazione a stare in giudizio agli eredi con riguardo agli aspetti economici connessi alla domanda di divorzio già entrati nel patrimonio del loro dante causa (Cass. n. 10065/2003). Si è trattato, però, di una situazione nella quale colui che era subentrato esercitava il medesimo diritto che spettava al soggetto deceduto e reso oggetto di successione. Si ammette la presentazione del ricorso da parte di un procuratore speciale, che tuttavia non può compiere gli atti che richiedono necessariamente la presenza personale del coniuge, come la comparizione avanti al presidente del tribunale.

b) Intervento volontario del terzo.

L'intervento in causa di altre parti non è previsto, nemmeno se si tratta di familiari. In particolare, gli ascendenti di figli di genitori separati non sono legittimati a proporre il giudizio di divorzio o ad intervenirvi. L'esclusione è riferita anche agli stretti congiunti ed agli eventuali rappresentanti, non abilitati a compiere gli atti riservati ai coniugi, quali la comparizione personale in udienza.

Più pertinente al tema è la pronuncia di Cass. I, n. 4296/2012, per la quale nel giudizio di separazione o di divorzio, in cui il genitore convivente con il figlio maggiorenne agisce per ottenere il rimborso di quanto versato per il mantenimento di questi ovvero la determinazione del contributo per il futuro, è ammissibile l'intervento anche del predetto figlio, per far valere un diritto relativo all'oggetto della controversia o eventualmente in via adesiva, trattandosi di posizioni giuridiche meritevoli di tutela ed intimamente connesse, che comportano la legittimazione ad agire, la cui esistenza è da riscontrare esclusivamente alla stregua della fattispecie giuridica prospettata dall'azione, prescindendo dalla effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa; inoltre, detto intervento assolve, altresì, ad un'opportuna funzione di ampliamento del contraddittorio, consentendo al giudice di provvedere in merito all'entità del versamento, anche in forma ripartita, del contributo al mantenimento. Come è possibile desumere dalla pronuncia, sul rigore dei principi hanno prevalso le ragioni di tutela sostanziale degli interessi in gioco, ritenuti meritevoli di speciale protezione.

Un caso particolare di negato intervento è stato individuato da Cass. 1, n. 22081/2009: “L'art. 1, comma primo, della legge 8 febbraio 2006, n. 64, che ha novellato l'art. 155 c. c., nel prevedere il diritto dei minori, figli di coniugi separati, di conservare rapporti significativi con gli ascendenti ed i parenti di ciascun ramo genitoriale, affida al giudice un elemento ulteriore di indagine e di valutazione nella scelta e nell'articolazione di provvedimenti da adottare in tema di affidamento, nella prospettiva di una rafforzata tutela del diritto ad una crescita serena ed equilibrata, ma non incide sulla natura e sull'oggetto dei giudizi di separazione e di divorzio e sulle posizioni e i diritti delle parti in essi coinvolti, e non consente pertanto di ravvisare diritti relativi all'oggetto o dipendenti dal titolo dedotto nel processo che possano legittimare un intervento dei nonni o di altri familiari, ai sensi dell'art. 105 c. p. c., ovvero un interesse degli stessi a sostenere le ragioni di una delle parti, idoneo a fondare un intervento "ad adiuvandum", ai sensi dell'art. 105, comma secondo, c.p.c.

Con riferimento alla medesima situazione aveva invece ammesso l'intervento il Tribunale di Firenze, 22 aprile 2006 (in Il Merito, speciale, fasc. 2, 14): “Secondo l'attuale disposto dell'art. 155, c.c., come modificato dalla l. n. 54/2006 (c.d. Legge sull'affidamento condiviso), costituisce esplicitamente oggetto del giudizio di separazione dei coniugi il diritto del minore al mantenimento di rapporti significativi da parte del figlio non solo con i genitori, ma anche con gli «ascendenti e i parenti di ciascun ramo genitoriale». Deve pertanto ritenersi ammissibile nell'ambito di detto giudizio l'intervento degli ascendenti quali portatori di un proprio interesse quello al mantenimento delle relazioni affettive e familiari, di rilievo costituzionale, in base agli artt. 2 e 29 Cost., e come tale meritevole di protezione giuridica per sostenere le ragioni fatte valere da una delle parti per l'attuazione del corrispondente e convergente diritto del minore. Costituisce, del resto, interesse degli ascendenti impedire altresì che si ripercuotano negativamente nella propria sfera giuridica, quale effetto riflesso del mancato riconoscimento del corrispondente diritto dei minori, conseguenze dannose in caso di sconfitta della parte adiuvata (che è quanto caratterizza l'intervento adesivo dipendente”.

Ai sensi dell'art. 70 n. 2 c.p.c. è previsto l'intervento obbligatorio del pubblico ministero nelle cause di divorzio. La partecipazione del pubblico ministero in concreto si esplica a seguito della comunicazione dell'ordinanza presidenziale (art. 473-bis.14) ed è effettuata nelle modalità di cui all'art. 267 c.p.c. (art. 2 disp. att. c.p.c.).

c) Incapacità di agire.

L'incapacità di agire del coniuge interessato all'esercizio dell'azione ha posto i maggiori problemi interpretativi. Alcuni autori negano che l'interdetto possa proporre la domanda di divorzio, anche se per il tramite del tutore, così come non può contrarre matrimonio. Per altri si determinerebbe, per tal modo, una inammissibile disparità di trattamento, proprio a danno del coniuge più debole; e dovrebbe ammettersi che il tutore possa chiedere la nomina di un curatore speciale cui spetti di proporre l'azione di divorzio (Cass. 9582/2000; Trib. Napoli 1 giugno 2005). In sostanza, il tutore dell'interdetto per infermità di mente non può proporre direttamente la domanda di divorzio per il suo assistito ma deve chiedere la nomina del curatore speciale: e ciò, si afferma, in analogia a quanto dispongono per il caso inverso, in cui l'interdetto è il convenuto nel giudizio di divorzio, l'art. 4, comma 5, l. n. 898/1970 per i procedimenti che proseguono secondo le norme antevigenti e, attualmente, l'art. 473-bis.14 per i procedimenti instaurati dopo il 28 febbraio 2023. La Corte di cassazione (Cass. n. 14977/2007) ha ritenuto non necessario sospendere il giudizio di divorzio nelle more del procedimento di interdizione del coniuge ricorrente, dato che sono validi gli atti processuali compiuti dal soggetto non ancora interdetto o al quale non sia stato nominato un rappresentante provvisorio.

Per quanto riguarda specificamente il coniuge convenuto nel giudizio di divorzio, il comma quinto dell'art. 4 l. n. 898/1970 dispone che gli sia nominato un curatore speciale quando è malato di mente o è legalmente incapace. Si afferma, da una parte della dottrina, che la nomina di un curatore speciale va intesa come necessaria quando l'interessato sia privo di un tutore. Si osserva, da altri, che la disposizione ricordata non avrebbe senso se fosse sufficiente la rappresentanza legale del tutore per resistere all'avversa domanda di divorzio: e che, dunque, la titolarità dell'azione spetta al curatore speciale. In modo identico si esprime attualmente il ricordato art. 473-bis.14, che rimette al presidente del tribunale la nomina di un curatore speciale al convenuto malato di mente o legalmente incapace.

L'inabilitato può proporre la domanda di divorzio assistito dal curatore. Il soggetto sottoposto ad amministrazione di sostegno può agire da solo, a meno che il giudice tutelare abbia disposto diversamente nel decreto di nomina dell'amministratore.

Il minore è di diritto emancipato con il matrimonio (art. 390 c.c.), e quindi per la presentazione del ricorso non è necessaria l'assistenza del curatore, trattandosi di atto di natura personale, escluso dalle disposizioni dell'art. 394 c.c.. La presenza del curatore speciale del coniuge minore è, però, necessaria per la partecipazione all'accordo sulle disposizioni di carattere patrimoniale che eccedono l'ordinaria amministrazione. Infatti, dal momento che il curatore del coniuge minore è l'altro coniuge (art. 392 c.c.), ricorre una situazione di conflitto di interessi che, a norma dell'art. 394 in relazione all'art. 320 c.c., richiede la nomina di un curatore speciale da parte del giudice tutelare.

Quando un coniuge è curatore dell'altro, o sono entrambi minori (ipotesi quasi di scuola per ragioni derivanti dalla reciproca età), si verifica il conflitto d'interessi che rende necessaria la nomina di un curatore speciale.

La legge 26 novembre 2021, n. 206, di delega per la riforma del processo civile, ha modificato gli artt. 78 e 80 c.p.c. che recano le disposizioni generali in tema di nomina del curatore speciale. Per le controversie instaurate dopo la data del 28 febbraio 2023, il d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, di attuazione della riforma, ha poi previsto fattispecie particolari nelle quali deve procedersi alla detta nomina; il nuovo art. 473-bis.8 ha, di fatto, sostituito l'art. 78 c.p.c. ed elenca in dettaglio le fattispecie nelle quali il giudice procede alla nomina del curatore speciale per il minorenne, anche d'ufficio e a pena di nullità degli atti del procedimento.

La normativa prevede la competenza del presidente del tribunale per la nomina del curatore speciale soltanto quando la persona incapace sia convenuta; la norma in commento viene considerata un'applicazione del principio generale di cui all'art. 78 c.p.c., secondo il quale «se manca la persona a cui spetta la rappresentanza o l'assistenza, e vi sono ragioni d'urgenza, può essere nominato all'incapace...un curatore speciale che lo rappresenti o assista finché subentri colui al quale spetta la rappresentanza o l'assistenza». Cass. n. 14669/2018 ha avvertito che il tutore può compiere in nome e per conto dell'interdetto anche un atto personalissimo – sempre che ne sia accertata la conformità alle esigenze di protezione – sicché la designazione di un curatore speciale è da ritenere necessaria solo nel caso di conflitto di interessi tra il tutore e il rappresentato, non evincendosi dal sistema una generale e tassativa preclusione al compimento di atti di straordinaria amministrazione da parte del rappresentante legale dell'incapace. Più in generale, in mancanza di una specifica norma che attribuisca al tutore dell'interdetto per infermità di mente esplicitamente tale potere, si esclude che al tutore dell'interdetto per infermità di mente competa il potere di chiederne il divorzio, e si ritiene che su richiesta del tutore debba e possa essere nominato un curatore speciale (Trib. Bari, I, 24 febbraio 2014, n. 966).

Nel caso in cui il tutore sia il coniuge, ricorre quella situazione di conflitto di interessi che, come avviene per l'emancipato, richiede la nomina di un curatore speciale.

Per il beneficiario di amministrazione di sostegno l'art. 374, n. 5, c.c. (richiamato dall'art. 411 c.c.), prevede in generale, tra le attività per le quali occorre l'autorizzazione del giudice tutelare, quella di «promuovere giudizi», che tuttavia si ritiene riferibile esclusivamente a giudizi aventi ad oggetto rapporti di natura patrimoniale. Per quanto riguarda il giudizio di divorzio valgono i riferimenti normativi per la nomina del curatore speciale, norme che sono state ritenute applicabili per analogia anche al beneficiario di amministrazione di sostegno (Trib. Pinerolo, 13 dicembre 2005personaedanno.it). In dottrina si ammette la legittimazione dell'incapace a proporre istanza di divorzio, negando nel contempo che in tale attività sia ammissibile una sostituzione della sua volontà da parte dell'amministratore, trattandosi di scelte del tutto personali. In giurisprudenza si fa riferimento al concetto di capacità settoriale, introdotto dalla l. 9 gennaio 2004 n. 6, che ha mutato il sistema normativo dell'incapacità (Trib. Pinerolo, 13 dicembre 2005, personaedanno.it). In questo ordine di idee si riconduce la capacità processuale per il ricorso di divorzio all'ambito della capacità processuale generale, e se ne individua la fonte nel contenuto concreto del provvedimento di nomina. Per tal modo la regola da applicare viene a dipendere di volta in volta dalle condizioni concrete del beneficiario e dalla sua residua capacità sostanziale: qualora il beneficiario appaia in grado di orientarsi lucidamente nelle scelte della sua vita affettivo/familiare, sarà lui — e non già l'amministratore di sostegno — a decidere se presentare o no l'istanza di separazione personale (cfr. Trib. Roma, 13 aprile 2007, personaedanno.it).

In giurisprudenza la legittimazione ad agire è stata affermata sulla base di molteplici premesse, muovendo da un esame complessivo della disciplina del nuovo titolo XII del libro primo del codice civile, e sulla base della considerazione che l'istituto dell'amministrazione di sostegno è stato concepito come strumento di garanzia dei diritti fondamentali della persona, in cui l'attività di affiancamento e sostituzione è soprattutto volta all'assistenza e cura della persona; finalità che talora viene messa in diretto collegamento con l'esigenza di separarsi e divorziare, e sul punto si è affermato che «liberarsi di una unione coniugale oramai insostenibile è atto che rientra con maggiore dignità nell'ambito della cura della persona ossia di salvaguardia della salute psico-fisica della stessa, e la legge certamente valorizza questi poteri in capo all'amministratore di sostegno» (Trib. Modena, 26 ottobre 2007, giurisprudenzalocalegiuffrè.it).

In concreto, la soluzione dipende dalle reali condizioni del beneficiario: quando sia lo stesso beneficiario, godendo di ampi margini intatti di capacità, a richiedere di essere rappresentato nel giudizio dal proprio amministratore di sostegno, con attribuzioni allo stesso dei poteri di rappresentanza esclusiva, la nomina del curatore speciale «non ha alcuna ragione logico-giuridica» (Trib. Pinerolo, 13 dicembre 2005, personaedanno.it). Talora viene disposta un'audizione del beneficiario da parte del giudice tutelare, appositamente attivato dall'amministratore di sostegno che ritenga opportuno procedere a separazione o divorzio, e non è infrequente che venga conferito apposito incarico di procedere allo stesso amministratore (Trib. Modena, 14 dicembre 2006, giurisprudenzalocalegiuffrè.it). In caso di presenza di prole, al fine di raggiungere un regime di contribuzione e di frequentazione compatibile con le condizioni, personali ed economiche, del beneficiario, si è ritenuta sufficiente la specificazione, nel decreto di conferimento dei poteri all'amministratore di sostegno, che la frequentazione avvenisse «regolarmente e non in modo episodico» (Trib. Modena, 29 marzo 2007, giurisprudenzalocalegiuffrè.it).

Nel caso in cui, invece, il beneficiario conservi margini assai esigui di capacità residua, fino ad esserne sostanzialmente privo, e non sia in grado di esprimere un'attendibile volontà in ordine all'instaurazione del giudizio di divorzio, è più conforme al sistema ritenere che la sua protezione in ordine al predetto giudizio si realizza mediante la nomina di un curatore speciale, la cui nomina verrà richiesta da parte dell'amministratore di sostegno, e disposta dal presidente del tribunale; nulla impedisce che venga nominato curatore speciale lo stesso amministratore di sostegno (Trib. Modena, 12 febbraio 2007, giurisprudenzalocalegiuffrè.it). Infatti la norma in commento prevede che la nomina del curatore speciale avviene non solo nei casi di incapacità legale del coniuge, ma anche nel caso in cui il coniuge sia malato di mente.

Una volta nominato un curatore speciale, la domanda svolta da un tutore provvisorio o amministratore di sostegno è improponibile (Trib. Caltanissetta, 13 giugno 2016, Dir. e giust. 2016).

Fase introduttiva

Con il deposito del ricorso avviene la costituzione in giudizio del ricorrente. Nei procedimenti che iniziano con ricorso il rapporto cittadino-giudice si costituisce con la presentazione dell'atto, mentre la successiva notificazione determina l'instaurazione del contraddittorio (Cass. n.  18448/2004; Cass. n. 3095/1989).

Nel giudizio bifasico di cui all'art. 4 l. n. 898/1970 (e nei limiti della sua sopravvivenza) il passaggio dalla fase presidenziale a quella propriamente di merito non costringe il ricorrente a presentare di nuovo la nota di iscrizione a ruolo e a costituirsi nuovamente una volta che è stata fissata l'udienza dinanzi al giudice istruttore. Non si applicano al ricorrente le norme sui termini e le modalità di costituzione nel giudizio ordinario di cui agli artt. 165,  171 e 307, commi 1 e 2 c.p.c. (Cass. n. 3095/1989); e non è configurabile la contumacia del ricorrente. Il cancelliere iscrive la causa nel ruolo generale e forma il fascicolo d'ufficio (Cass. n. 10291/1992); comunica, inoltre, il ricorso all'ufficiale di stato civile che ne fa iscrizione in calce all'atto di matrimonio. Nel procedimento che invece si svolge con le forme del rito unificato per le controversie in materia di stato delle persone, di minori e di famiglia il ricorso è depositato con modalità telematiche (secondo le generali disposizioni di cui agli artt. 87 e 196-quater disp. att. c.p.c.) e presentato al presidente del tribunale per i suoi provvedimenti di ordine. Il deposito comprende l'allegazione dei documenti dei quali occorre fare produzione, indicati dall'art. 473-bis.12 nonché quelli richiesti dalle particolarità del caso. Il presidente, entro tre giorni (termine sicuramente ordinatorio - come per casi similari ha affermato Cass. n. 11315/1995 - la cui mancata osservanza non si ripercuote come causa di nullità del ricorso, che con il deposito è regolarmente presentato: Cass. n. 18448/2004): designa il giudice relatore tra i componenti dell'ufficio e, se lo ritiene, gli delega la trattazione del procedimento; fissa l'udienza di comparizione dinanzi al giudice così designato; e fissa altresì il termine entro il quale il convenuto deve costituirsi se vuole che la sua costituzione sia tempestiva. Il provvedimento è assunto in forma di decreto, che non richiede motivazione. Esso deve contenere l'informazione per il convenuto degli effetti derivanti dalla costituzione tardiva (le decadenze di cui agli artt. 38 e 167); deve, inoltre, comunicare al convenuto che la difesa tecnica è obbligatoria; che, sussistendone i presupposti, egli può presentare domanda per l'ammissione al patrocinio dello Stato; e che può avvalersi della mediazione obbligatoria. Se risulta dal ricorso che il convenuto è malato di mente o legalmente incapace il presidente nomina un curatore speciale.

Il ricorso e il decreto sono notificati al convenuto (al suo legale rappresentante o al curatore speciale) a cura del ricorrente. In proposito vanno ricordate le norme dettate dalla l. 21 gennaio 1994, n. 53, Facoltà di notificazioni di atti civili per gli avvocati e i procuratori legali, modificate dal d.lgs. n. 149/2022, di riforma del processo civile. Il decreto presidenziale è comunicato al P.M. a cura della cancelleria.

Nel sistema di cui all'art. 4 della l. n. 898/1970 al presidente era assegnato il compito di fissare al ricorrente il termine per la notifica del ricorso e del decreto al convenuto nonché un termine al convenuto per depositare una memoria difensiva. La disposizione in tal senso aveva fatto sorgere il problema dell'effetto da assegnare all'inosservanza del detto termine e all'omesso deposito della memoria (si vedano tra le altre: Cass. n. 3905/2011; Cass. n. 4903/2004). La questione è risolta con la semplificazione apportata dalla riforma processuale di cui al d.lgs. n. 149/2022: il presidente stabilisce unicamente la data dell'udienza di comparizione e il termine ad essa anteriore entro il quale deve costituirsi il convenuto. Inoltre, la memoria difensiva è attualmente sostituita dalla comparsa di costituzione e risposta.

La comparizione delle parti

La struttura del procedimento disciplinato dall'art. 4 della l. n. 898/1970 si articola, dopo la notifica del ricorso e del decreto presidenziale al convenuto, nelle due fasi caratterizzate dal tentativo di conciliazione dinanzi al presidente del tribunale e dalla successiva prosecuzione del giudizio davanti al giudice istruttore nelle forme dell'ordinaria cognizione. Di seguito si completa il commento alla norma in esame, per quanto possa essere utile dopo la sua soppressione riferita ai procedimenti instaurati dopo il 28 febbraio 2023; per fornire anche cenni sulla normativa subentrata e sulle sue diversità.

A) Nel giudizio di cui alla l. n. 898/1970.

Le parti devono presentarsi davanti al presidente del tribunale personalmente, salvo gravi e comprovati motivi (art. 21 d.lgs. 149/2022). La mancata comparizione non deve trovare giustificazioni che rendano opportuna la fissazione di una occasione successiva. Il comportamento omissivo privo di giustificata motivazione è considerato manifestazione concreta di una resipiscenza sopravvenuta nel ricorrente; mentre la presenza di una causa oggettiva di giustificazione rende applicabile il principio generale per il quale l'impossibilità di compiere un atto non deve andare a danno dell'avente diritto.

La dottrina distingueva. Se compare il solo difensore, si afferma, il procedimento deve proseguire, dandosi atto dell'impossibilità di esperire il tentativo di conciliazione. Se non compaiono né il ricorrente né il difensore la domanda è priva di effetto, salva la possibilità che il giudizio prosegua a istanza del convenuto regolarmente costituitosi. La mancata comparizione, in questo caso, è equiparata negli effetti alla rinuncia all'azione. Il Tribunale di Siena ha affermato che la reiterata assenza del ricorrente all'udienza di comparizione personale davanti al presidente determina l'inefficacia della domanda, senza che ad essa possa supplire la presenza del difensore, con la conseguenza che le parti vanno rimesse dinanzi al giudice istruttore (sent. 25 febbraio 2012, Foro it., 2012, 5, 1592). Per il caso in cui compaia il ricorrente, senza un difensore, si ritengono applicabili gli artt. 82 e 87 c.p.c. Se non si presenta il coniuge convenuto, il presidente dispone il rinvio ad una udienza successiva con il rinnovo della notifica per tale data.

Vigente l'art. 7 della l. n. 898/1970 si era affermato che la mancata comparizione del convenuto non è, di per sé, ragione di impedimento alla prosecuzione del giudizio e il motivo è comprensibile: sarebbe, altrimenti, semplicissimo creare un ostacolo all'iniziativa del ricorrente. L'assenza del convenuto è, anzi, considerata dimostrazione palese che la sottrazione al tentativo di conciliazione trova causa nell'irreversibilità della frattura avvenuta nel legame tra i coniugi (Cass. n. 11059/2001). La detta assenza impedisce l'effettuazione del tentativo di conciliazione, che rappresenta un passaggio fondamentale nella procedura di divorzio. Per la giurisprudenza ciò non costituisce motivo di irregolarità se l'assenza non è accompagnata dalla dimostrazione di una impossibilità a comparire, per impedimenti di rilievo quali la malattia, la detenzione, l'emigrazione e simili (Cass. n. 5874/1981).

Nel caso in cui si alleghi che la mancata comparizione del convenuto è giustificata da un grave motivo, la circostanza deve essere valutata dal presidente del tribunale ai fini della fissazione di una nuova udienza. La giurisprudenza aveva già affermato che il presidente poteva concedere un rinvio ad una udienza successiva. Il testo vigente dell'art. 4 legge divorzio prevede espressamente il potere presidenziale di fissare una nuova data per la comparizione, con rinnovazione della notifica del ricorso e del decreto. Di tale potere il presidente può far uso anche ove risulti incerto l'esito della notifica effettuata. Una parte della dottrina ammette che la comparizione, prevista come personale, possa avvenire per il tramite di un procuratore speciale quando la presentazione personale è impedita da gravi e comprovati motivi. Cass. n. 17336/2010 ha precisato che la mancata comparizione di una delle parti non comporta la fissazione necessaria di una nuova udienza presidenziale che, per contro, può essere omessa quando, con incensurabile apprezzamento discrezionale, non se ne ravvisi la necessità o l'opportunità. Nello stesso senso Cass. n. 8386/2008.

Cass. I, n. 9189/2021 ha affermato che la mancata comparizione delle parti esaurisce la fase processuale di cui all'art. 4, comma 7, l. n. 898/1970 e cagiona l'estinzione del processo; il provvedimento che ne fa dichiarazione non è impugnabile dinanzi alla corte d'appello ma è reclamabile al collegio ex art. 308 c.p.c.; non, invece, di impugnazione innanzi alla corte d'appello poiché la fase presidenziale del giudizio è finalizzata all'emissione di provvedimenti anticipatori, anche in rito, di natura provvisoria e come tali non idonei a definire il giudizio.

 La norma non precisa come avviene tecnicamente la perdita di efficacia della domanda: trattandosi di ricorso, o se ne dispone l'archiviazione, ovvero si pronuncia anche in questo caso una vera e propria estinzione del giudizio. Non è invece utilizzabile la formula della cessazione della materia del contendere, di più ampia portata e coinvolgente questioni di merito. Nella prassi, l'istanza si reputa abbandonata, salvo che prima dell'udienza di comparizione sia stato chiesto al presidente di fissarne una nuova, per impedimento temporaneo delle parti a comparire. Il ricorso abbandonato si estingue immediatamente e viene disposto l'invio degli atti in archivio. Se il coniuge convenuto è comunque interessato ad ottenere la separazione (o il divorzio), deve instaurare un nuovo giudizio.

 L'esercizio del potere di disporre la fissazione di una nuova udienza per il tentativo di conciliazione, in caso di mancata comparizione di uno dei coniugi all'udienza presidenziale, è rimesso all'insindacabile discrezionalità del presidente, e non è censurabile in sede di legittimità (Cass. VI, n. 22111/2014).

Se nella fase presidenziale il convenuto si costituisce, a sua volta proponendo domanda di divorzio, la mancata comparizione o la rinuncia del ricorrente non privano di effetto la domanda svolta dal convenuto, sicché il processo si ferma solo se anche il coniuge convenuto che ha svolto riconvenzionale non compare o, se comparso, rinuncia alla domanda. Altrimenti il processo deve proseguire. In tal caso non si deve disporre notifica, a cura del convenuto, dell'ordinanza al ricorrente non comparso, che ha l'onere di attivarsi autonomamente mediante consultazione del fascicolo d'ufficio.

B) Nel nuovo rito in materia di famiglia.

Nei giudizi instaurati dopo il 28 febbraio  2023, la comparizione delle parti all'udienza davanti al giudice designato come relatore è preceduta da una attività difensiva che presuppone la formale costituzione in giudizio della parte convenuta e che poi si si svolge attraverso il deposito di memorie. La parte convenuta si costituisce mediante deposito telematico della comparsa di risposta disciplinata dall'art. 167 e contenente le indicazioni di cui all'art. 473-bis.12. La costituzione, per essere tempestiva, deve essere effettuata entro il termine stabilito dal decreto presidenziale. Alla comparsa il ricorrente ha facoltà di ribattere con una memoria (venti giorni prima dell'udienza – termine perentorio) nella quale deve prendere posizione in maniera chiara e specifica sui fatti allegati dal convenuto e, a pena di decadenza, modificare o precisare le domande e le conclusioni formulate nel ricorso, proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza delle difese del convenuto, indicare mezzi di prova e produrre documenti. Se il convenuto ha formulato domande di contenuto economico (in riconvenzionale) il ricorrente attore deve depositare le dichiarazioni dei redditi e gli altri documenti di cui all'art. 473-bis.12, terzo comma. Almeno dieci giorni prima dell'udienza il convenuto può depositare una propria memoria per, a pena di decadenza, precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni formulate nella comparsa di costituzione, proporre le eccezioni non rilevabili d'ufficio e conseguenziali alla domanda riconvenzionale dell'attore o alle difese da lui esplicate nella precedente memoria, indicare mezzi di prova e produrre documenti anche in prova contraria. A sua volta l'attore è ammesso a depositare un'ulteriore memoria recante le sole indicazioni di prova contraria rispetto a quelle dedotte dal convenuto nella sua memoria.

Le parti devono poi comparire personalmente, salvo gravi e comprovati motivi, all'udienza fissata per la oro comparizione. La mancata comparizione dell'attore o la sua rinuncia, se il convenuto costituitosi non chiede di procedere in assenza dell'attore, cagiona l'estinzione del giudizio; la mancata comparizione delle parti è valutabile ai sensi dell'art. 116 c.p.c. e nella liquidazione delle spese. Esse sono sentite dal collegio o, se questi è stato nominato, dal giudice relatore: congiuntamente o separatamente e alla presenza dei rispettivi difensori per averne informazioni e per tentarne la conciliazione. Lo stesso giudice può formulare una proposta conciliativa che deve essere motivata. Se la conciliazione non riesce, i provvedimenti temporanei e  urgenti nell'interesse delle parti e dei figli, nei limiti delle domande proposte in causa sono pronunciati dal collegio o dal giudice relatore. Sono poi adottati i provvedimenti necessari alla prosecuzione del giudizio se la causa non è matura per la decisione. Se la causa è matura per la decisione è disposta la discussione orale nella stessa udienza o in altra successiva.

Tentativo di conciliazione

Per quanto lo consentano le singole situazioni che conferiscono fondamento alla domanda di divorzio, il tentativo di conciliazione dei coniugi è voluto dal legislatore in nome di un favor matrimonii che ispira la normativa e risponde a esigenze di utilità sociale. Nella disciplina di cui alla l. n. 898/1970 il compito di effettuare il tentativo spetta istituzionalmente al presidente del tribunale ma la prassi ha consentito la delega a uno dei giudici del tribunale, preventivamente individuato nelle tabelle dell'ufficio, in osservanza di regole di funzionalità dell'ufficio stesso e del principio della precostituzione del giudice rispetto alla controversia (Cass. n. 22607/2004). Nella normativa subentrata il tentativo è stato mantenuto, affidato al giudice relatore se il presidente non assegna la causa a se stesso, quale riconoscimento di una tradizione ispirata al mantenimento per quanto possibile del vincolo matrimoniale: pur se, nei fatti, esso si è rivelato di scarsa efficacia a indurre un ripensamento di coniugi che in genere già vivono formalmente separati.

Sia pur ridimensionato, il tentativo rimane previsto come momento tipico dello sviluppo del procedimento e in qualche misura non rinunciabile. La dottrina però si era interrogata sulla sua reale necessità e sulle  conseguenze della sua eventuale omissione. Nel contrasto di opinioni, la giurisprudenza ha affermato che il tentativo di conciliazione rappresenta un atto necessario a verificare l'avvenuta cessazione della comunione coniugale ma non costituisce, anche, un presupposto indefettibile del giudizio. Come la mancata comparizione di una delle parti, non giustificata, non comporta l'obbligo della fissazione di una nuova udienza presidenziale, così l'omissione del tentativo può essere legittimamente effettuata quando se ne ravvisi l'opportunità, in quanto risulti la persistente e certa volontà della parte di conseguire gli effetti dello scioglimento del vincolo (Cass. n. 23070/2005). Per Cass. n. 6016/2014: “In tema di divorzio, il tentativo di conciliazione da parte del presidente del tribunale, pur essendo necessario per l'indagine sull'irreversibilità della frattura spirituale e materiale tra i coniugi, non costituisce un presupposto indefettibile del giudizio di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, atteso che, ai sensi dell'art. 4, comma 7, della l. 1° dicembre 1970, n. 898 (nella formulazione vigente “ratione temporis”, risultante dalle modifiche di cui all'art. 2 del d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv., con modif., nella l. 14 maggio 2005, n. 80), ove il ricorrente non si presenti all'udienza presidenziale, in cui deve svolgersi il tentativo di conciliazione, la domanda di divorzio non ha effetti, mentre nella diversa ipotesi in cui sia il coniuge convenuto a non comparire, spetta al presidente valutare, tenendo conto delle ragioni della mancata comparizione, l'opportunità di un rinvio per l'espletamento di tale incombente”.

Le sezioni unite della Corte di cassazione (Cass. n. 5865/1987) avevano affermato che l'omissione del tentativo di conciliazione, dovuta alla mancata comparizione di uno di essi davanti al presidente, può non essere considerata illegittima, e invalidante del corso del processo, solo quando la parte assente abbia assolto l'onere di dare ritualmente tempestiva e adeguata comunicazione dei motivi cui è dovuta l'assenza. In seguito si affermò che l'omissione costituisce un ostacolo alla prosecuzione del giudizio solo quando è determinata da un legittimo impedimento di uno dei coniugi a comparire.  Infine si è ritenuto che il tentativo di conciliazione non costituisce un presupposto indefettibile del giudizio di divorzio, sì che la mancata comparizione di una delle parti non comporta la fissazione obbligatoria di una nuova udienza presidenziale, che può essere omessa quando non ne emerga la necessità o l'opportunità, anche se l'impedimento è giustificato e sia dipeso da ragioni di salute (Cass. n. 23070/2005). Non si verifica nullità neppure nel caso in cui in vece della parte compaia un suo rappresentante (del coniuge istante: Cass. n. 17336/2010). Non occorre comunque ripetere il tentativo se, dopo l'udienza di comparizione e il tentativo di conciliazione, il coniuge convenuto dichiara di aderire alla domanda di divorzio e chiede l'assegno divorzile (Cass. n. 4957/1987).

Se compaiono entrambi i coniugi, il presidente procede al tentativo di conciliazione; a tal fine deve sentire i coniugi prima separatamente e poi congiuntamente, per ascoltarne le ragioni e cercare un accordo. Se i coniugi si conciliano, il presidente fa redigere processo verbale della conciliazione: essa ha l'effetto di estinguere il procedimento.

Se la conciliazione non riesce, il presidente deve ascoltare nuovamente i coniugi e i loro difensori, ai fini della pronuncia dei provvedimenti provvisori ed urgenti.

Il tentativo di conciliazione può condurre a trasformare la procedura contenziosa in una procedura fondata sul reciproco accordo per avere il divorzio. Può condurre ad una rinuncia al ricorso, la quale non implica la ripresa della convivenza e la cessazione dello stato di separazione. Si discute, però, se una siffatta rinunzia abbia ad oggetto l'azione oppure soltanto gli atti del giudizio. La differenza ha risvolti pratici, posto che la rinunzia all'azione impedisce la ripresentazione della domanda fondata sugli stessi fatti già dedotti e impedisce al convenuto di proseguire il giudizio, dovendo proporre, egli, un nuovo ricorso. L'eventuale conciliazione non può essere assoggettata a condizioni o a termini. Come la rinuncia, essa comporta l'estinzione del processo.

Il ruolo dei difensori

L'art. 4 l. n. 898/1970, dispone, nel comma settimo, che i coniugi compaiano davanti al presidente assistiti dai rispettivi difensori; e il comma ottavo demanda al presidente del tribunale di pronunciare provvedimenti temporanei e urgenti dopo avere sentito le parti e avere sentito i difensori. Ugualmente, l'art. 473-bis.21 per i procedimenti di nuova instaurazione dispone che il giudice sente le parti alla presenza dei rispettivi difensori mentre il seguente art. 473-bis.22 impone al giudice di sentire anche i difensori prima di assumere i provvedimenti temporanei e urgenti nell'interesse delle parti e della prole. È certo, pertanto, che a tutt'oggi i difensori debbano svolgere un loro proprio ruolo sin dall'udienza di comparizione. La necessità della difesa tecnica è connessa anche alla natura contenziosa, anziché volontaria, del procedimento (Cass., I, n. 26365/2011), e al carattere decisorio del provvedimento del giudice, ossia alla sua incidenza su diritti soggettivi e status con l'efficacia propria del giudicato.

Il concetto di assistenza è diverso da quello di rappresentanza (artt. 82 e 87 c.p.c.). Nella prassi accade di frequente che un coniuge convenuto compaia personalmente all'udienza presidenziale, senza assistenza di un difensore, e senza essersi costituito formalmente. La norma in commento non dispone espressamente che l'assistenza del difensore è richiesta a pena di nullità, e non prevede che il presidente possa, o addirittura debba, escludere il convenuto comparso personalmente, senza difensore, dall'udienza presidenziale, e non possa utilizzare le dichiarazioni dallo stesso eventualmente rese: l'impossibilità di ascoltare il convenuto comparso ma non assistito comporta, infatti, l'impossibilità di espletare il tentativo di conciliazione, che costituisce, invece, un momento essenziale della fase del procedimento avanti al presidente.

Nella prassi in alcuni casi si risolve tale situazione con un differimento dell'udienza, per consentire al convenuto, presentatosi senza difensore, di provvedere a nominarne uno, e talora si inserisce nello stesso decreto di fissazione della udienza presidenziale l'invito alla parte convenuta a comparire avanti al presidente del tribunale con l'assistenza del difensore, eventualmente avvalendosi del patrocinio a spese dello Stato. In genere, però, si ritiene che la norma, invece che prevedere un divieto di audizione dei coniugi non assistiti dal difensore, comporti di considerare come non comparso non solo il coniuge assente ma anche quello presente senza l'assistenza del difensore, con la conseguenza che anche a lui va notificata l'ordinanza presidenziale; all'udienza presidenziale, tuttavia, il coniuge comparso senza assistenza di difensore va ugualmente sentito e le dichiarazioni rese possono essere utilizzate. La normativa introdotta dal d.lgs. n. 149/2022 è più rigorosa. Già con il decreto presidenziale che fissa l'udienza di comparizione il convenuto deve essere informato dell'obbligatorietà dell'assistenza a mezzo difensore e degli effetti preclusivi della mancata costituzione in termini. La comparizione priva di assistenza tecnica è dunque causa di dichiarazione di contumacia.

Fermo il fatto che non è necessaria la formale rappresentanza, varie sono le opinioni formatesi sul modo di esplicazione dell'assistenza tecnica del difensore nella specifica occasione dell'udienza presidenziale. Si è sostenuto che il difensore può essere presente accanto alla parte soltanto nel momento in cui, esaurito l'interrogatorio, il presidente tenta la conciliazione e sono esposte le eventuali condizioni cui essa è subordinata. Si è affermato che il difensore deve assistere la parte durante l'interrogatorio e rispondere in sua vece. Ed anche che lo stesso debba partecipare all'interrogatorio dell'altra parte, in una sorta di contro esame di questa. Il confronto tra queste interpretazioni ed il chiaro dettato della norma evidenzia lo sforzo di attribuirle un significato che eccede lo scopo al quale è finalizzata. L'assistenza del difensore è prevista nel contesto di una fase caratterizzata dal tentativo di conciliazione e dall'adozione di provvedimenti a regime provvisorio, con totale dilazione ad un secondo momento di quanto concerne il contraddittorio vero e proprio sulla stessa domanda di divorzio, sulle ragioni che la fondano e sulle soluzioni da adottare con riguardo ai figli ed agli interessi del nucleo familiare. Di quanto sostenuto ed avversariamente risposto dalle parti al presidente è redatta una verbalizzazione del tutto sommaria e non si comprende la ragione per cui le parti dovrebbero essere sottoposte ad interrogatorio e addirittura ad un contro interrogatorio. Ciò che le parti ammettono può poi essere negato, nel giudizio di merito; e gli argomenti sui quali è tentata la conciliazione vertono unicamente sulla possibilità che i coniugi riprendano una vita comune, risolvano con l'aiuto di chi interviene, per posizione qualificata e per esperienza tecnica, i loro problemi o accettino di lasciarsi con mutuo consenso. L'anticipazione alla fase presidenziale della contrapposizione di interessi attraverso un intervento attivo dei difensori è contraria alla ratio della normativa e rischia di radicalizzare i contrasti, invece di contribuire ad appianarli. Il compito dei difensori nel procedimento bifasico e per quanto possa sopravviverne, sembra dunque dover essere: di munire di un appoggio e di un consiglio la parte che si presenta, dapprima da sola e poi in confronto con l'altra, di fronte al magistrato; di individuare tra le recriminazioni, le accuse e le rivalse che la parte attende di rovesciare sull'altra, gli argomenti da esporre al giudice come gli unici di rilievo per la propria posizione, nell'ottica di un possibile accordo sulle misure da prendere; di suggerire al presidente la richiesta di informazioni su aspetti della vita di coppia aventi importanza per i provvedimenti da adottare; e di tenere il proprio assistito a freno ove gli animi, nella concitazione del momento, conducano ad accendere il dialogo e il confronto. Spetta al presidente condurre l'udienza, in un compito che è quello tipico del bonus vir, almeno sino alla formulazione delle rispettive richieste per quanto attiene ai provvedimenti urgenti e provvisori. E il presidente deve impedire le interferenze e proibire le domande dirette dei difensori alla parte avversa. La sua funzione è di tentare di sedare i contrasti e non già quella di contribuire ad acuirli.

La prevalente dottrina ritiene non necessaria la formale rappresentanza e afferma che, in ogni caso, l'assistenza del difensore non è richiesta a pena di nullità (non prevista dalla legge); e che il presidente deve comunque sentire il convenuto non assistito, e tener conto delle sue dichiarazioni, salvo l'obbligo per il ricorrente di notificare formalmente a controparte l'ordinanza presidenziale (dovere nel quale si esaurirebbe il contenuto di garanzia dell'art. 4).

La presenza del pubblico ministero alla fase presidenziale non è espressamente prevista e di conseguenza nella prassi non è ritenuta necessaria. Soltanto una risalente pronuncia della Corte di cassazione aveva ritenuto dovuta la presenza del P.M. , posto che è già nell'udienza presidenziale che possono essere emanati i provvedimenti relativi ai figli minori, i cui interessi devono essere tutelati dall'organo pubblico (Cass. n. 8475/1992).

Ordinanza presidenziale

A) Nel giudizio bifasico di cui alla l. 898/1970.

Se il tentativo di conciliazione non riesce, il presidente, anche di ufficio, dà con ordinanza i provvedimenti temporanei e urgenti che reputa opportuni nell'interesse della prole e dei coniugi, ai sensi dell'ottavo comma dell'art. 4 l. n. 898/1970.

Prima di pronunciare il provvedimento il presidente deve sentire, ove vi siano e in considerazione della loro età, i figli minori; l'ottavo comma prevede l'obbligo di ascolto della prole ultradodicenne o di età inferiore se capace di discernimento, in linea con la previsione di cui agli artt. 315-bis, 336-bis e 337-octies (queste ultime due disposizioni poi trasfuse in norme nuove: artt. 152-quater, 152-quinquies disp. att. c.p.c.) c.c. L'obbligo suddetto è fattispecie di una previsione più vasta, essendo divenuto di osservanza necessaria in tutte le procedure giudiziarie che riguardano i minori degli anni dodici o di età minore se capaci di discernimento (Cass. I, n. 12018/2019). In proposito la giurisprudenza ha richiamato i principi stabiliti dall'art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo e l'art. 6 della Convenzione di Strasburgo 25 gennaio 1996, ratificata con l. n. 77/2003. Si è affermato che i minori, nei procedimenti che li riguardano, non possono essere considerati parti formali in quanto nessuna norma attribuisce loro una legittimazione processuale; essi sono però parti in senso sostanziale in quanto portatori di interessi diversi, quando non contrapposti, rispetto ai loro genitori. La tutela dei minori si realizza mediante la previsione del loro ascolto, che costituisce elemento del necessario contraddittorio (Cass. I, ord. n. 16410/2020). L'ascolto costituisce un adempimento previsto a pena di nullità, non sostituibile, ad esempio, con una consulenza tecnica (Cass. I, ord. n.23804/2021).

In generale può dirsi che da parte del presidente può essere adottato qualsiasi provvedimento necessario o opportuno, purché non eccedente la portata di quelli consentiti, in via definitiva, al collegio, non competendo al presidente poteri più ampi di quelli assegnati al tribunale.

La pronuncia officiosa di provvedimenti è espressamente prevista dalla legge; in dottrina la si ritiene legittima con riferimento ai provvedimenti nell'interesse della prole minore d'età, ma non anche se riferita ai coniugi, per i quali vige il principio della domanda. Secondo questo orientamento, al presidente sarebbe consentito di adottare soltanto i provvedimenti relativi all'affidamento dei figli e al contributo per il loro mantenimento nonché all'assegnazione della casa familiare. Le altre statuizioni, relative ai rapporti tra i coniugi, dovrebbero essere adottate solo in presenza di apposita domanda, non sussistendo un interesse pubblico tale da giustificare un'iniziativa officiosa del presidente.  La realtà della prassi e dell'interpretazione giurisprudenziale è, peraltro, assai spesso diversa.

Nei limiti di cui sopra al presidente si riconoscono generalmente ampi poteri discrezionali. I suoi provvedimenti sono considerati del tutto indipendenti dagli accordi stabiliti eventualmente con la separazione, giudiziale o consensuale, e si ammette che possano avere finalità diverse da quelle del petitum delle domande di parte. Si attribuiscono al presidente poteri di indagine e di controllo nell'ambito di quanto appare opportuno nell'interesse degli stessi coniugi e soprattutto dei figli. E in questo senso si è ritenuto consentito al presidente di assegnare un emolumento mensile al coniuge avente bisogno nonostante la mancata previsione o la previsione in misura minore nelle clausole di separazione (Cass. n. 21245/2010).

Il contenuto dell'ordinanza presidenziale presenta due aspetti principali, entrambi essenziali per la struttura bifasica del giudizio. Il primo aspetto è l'emanazione dei provvedimenti urgenti e temporanei, opportuni per coniugi e prole. Il secondo riguarda i provvedimenti processuali necessari per la prosecuzione del processo davanti al giudice istruttore. In proposito il Presidente assegna alle partii termini necessari per l'esposizione delle loro difese. Un primo termine è fissato al ricorrente per il deposito di una memoria integrativa, avente il contenuto pratico dell'atto di citazione. Un termine a scadenza successiva è stabilito per il convenuto per la sua costituzione in giudizio ai sensi degli artt. 166 e 167 c.p.c. nonché per la proposizione delle eccezioni processuali e di merito non rilevabili d'ufficio. Contestualmente il convenuto è avvertito che la costituzione oltre il termine indicatogli implica le decadenze di cui all'art. 167 c.p.c. e che diventano improponibili le eccezioni non rilevabili d'ufficio. Nello stesso provvedimento il presidente nomina il giudice istruttore e fissa l'udienza di comparizione e di trattazione davanti a lui nel rispetto del disposto dell'art. 163 bis c.cp., con riduzione della durata dei termini da esso previsti alla metà.  Se il convenuto non era comparso, l'ordinanza deve essergli notificata con l'osservanza del termine a difesa: tra la data della notifica e quella dell'udienza di comparizione e trattazione devono intercorrere i termini di cui all'art. 163 bis c.p.c., ridotti alla metà.

I provvedimenti temporanei e urgenti del presidente regolano provvisoriamente i rapporti tra le parti nell'ambito temporale del giudizio di divorzio e possono sovrapporsi al regime fissato dalle statuizioni adottate in sede di giudizio di separazione o di giudizio di revisione delle condizioni di separazione (Cass. n. 14381/2005). La giurisprudenza relativa all'applicazione della l. n. 898/1970 affermava che il  potere del presidente si estende ai rapporti patrimoniali e implica la facoltà di incidere a titolo provvisorio sulle condizioni eventualmente diverse del rapporto di separazione (Cass. n. 21245/2010, nel caso di riconoscimento di un emolumento mensile al coniuge bisognoso non previsto dalle clausole della separazione o previsto in misura minore; anche n. 12034/1991). Nel giudizio di divorzio, una volta emessi i provvedimenti presidenziali temporanei ed urgenti, questi non possono essere modificati con una decisione assunta in sede di giudizio di revisione delle condizioni di separazione (Cass. n. 17825/2013). Per il Tribunale di Pordenone il riconoscimento provvisorio dell'assegno divorzile risponde agli stessi criteri dettati per lo scioglimento (o cessazione degli effetti civili) del matrimonio come individuati dalle sezioni unite della Corte di cassazione con sentenza Cass. S.U. n. 18287/2018 (si veda il commento sub art. 5, paragrafo 8, l. n. 898/1970). I provvedimenti presi dal presidente, se il giudizio di divorzio viene abbandonato, conservano la loro efficaciaex art. 189 disp. att. c.c.: sì che, se i coniugi vivono in regime di separazione personale, essi sono modificabili ai sensi dell'art. 710 c.p.c. (Cass. n. 3164/1994). L'esecutività ai sensi dell'art. 189 disp. att. c.c. sopravvive alla sentenza dichiarativa dell'improponibilità della domanda di divorzio (Cass. n. 4930/1988). Il richiamo all'art. 189 disp. att. c.p.c. (effettuato dall'art. 4, comma ottavo, in fine) non è stato ripreso dalla normativa introdotta dal d.lgs. n. 149/2022, di riforma del processo civile ma sul punto il principio nel senso dell'esecutività e della sua sopravvivenza è ripreso dall'art. 473-bis.22, secondo comma. I provvedimenti provvisori inerenti all'affidamento ed al mantenimento della prole, essendo rivolti a soddisfare esigenze e finalità pubblicistiche, sono sottratti all'iniziativa ed alla disponibilità delle parti, e vanno pronunziati d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio di merito, anche per la prima volta dal giudice d'appello; tale principio non trova applicazione per i rapporti personali ed economici tra coniugi che rivestono un carattere strettamente privato (Cass. I, n. 23510/2010; Cass. I, n. 19535/2014).

L' ordinanza presidenziale è soggetta a reclamo avanti alla Corte d'appello, ai sensi dell'art. 4, comma 2, l. 8 febbraio 2006 n. 54, che ha esteso il gravame avverso i provvedimenti provvisori pronunciati in sede di separazione (art. 708, comma 4, c.p.c.) anche ai procedimenti di divorzio (App. Bologna I, 2 novembre 2015, giuraemilia.it). Cass. I, ord. n. 9344/2023 ha affermato che il decreto di rigetto del reclamo è impugnabile con ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. limitatamente alla pronuncia sulla liquidazione delle spese processuali.

B) Nel nuovo rito in materia di famiglia.

L'art. 473-bis.21 c.p.c. sinteticamente dispone: il collegio o, se nominato, il giudice delegato verifica d'ufficio la regolarità del contraddittorio e pronuncia gli eventuali provvedimenti che al riguardo si rendono opportuni; se il ricorrente non compare o rinuncia, quando il procedimento non è stato introdotto con ricorso del P.M. e se il convenuto costituito non chiede procedersi in assenza, il procedimento si estingue; le parti devono comparire personalmente, salvo gravi e comprovati motivi; la mancata comparizione senza giustificato motivo costituisce comportamento valutabile ai sensi dell'art. 116 e nella liquidazione delle spese; all'udienza il giudice sente le parti, congiuntamente o separatamente, alla presenza dei rispettivi difensori e ne tenta la conciliazione; può inoltre formulare una motivata proposta conciliativa. 

La disciplina dell'udienza riprende le linee fondamentali della normativa che aveva per figura dominante e di riferimento il presidente del tribunale. Identico rimane lo scopo, che è quello di verificare il corretto inizio del processo e di verificare la reale volontà dei coniugi di porre fine al loro matrimonio.  L'accenno alla verifica della regolarità del contraddittorio richiama per implicito i doveri che nel giudizio di cognizione ordinario sono indicati nell'art. 182. Deve tuttavia considerarsi che nel rito unificato di famiglia si giunge all'udienza di comparizione dopo che il convenuto si è costituito e dopo che le parti hanno precisato, modificato, rettificato le domande e le conclusioni, proposto domande conseguenziali e nuove eccezioni, prodotto documenti e dedotto i rispettivi mezzi di prova. E' pertanto difficile che davanti al giudice si verifichi l'esigenza di fissare un termine perché la parte che ne è priva si munisca di un difensore. Valgono comunque le regole di principio, mentre più verosimile appare che una delle parti possa non essersi regolarmente costituita a mezzo di un legale rappresentante o di un curatore.

L'art. 473-bis.21 risolve in maniera diversa l'eventualità della mancata comparizione di entrambe le parti o del ricorrente, rispetto al dettato dell'art. 181: la mancata comparizione del ricorrente in prima udienza è idonea a troncare da subito il giudizio se il convenuto non dichiara di voler procedere comunque. La normativa recente riprende il dettato dell'art. 185-bis, in tema di proposta di conciliazione ad opera del giudice, senza riprodurlo in dettaglio; può intendersi che esso sia richiamato per intero. Alla disposizione precedente è stata aggiunta la precisazione per cui la proposta deve essere motivata. Si tratta di una aggiunta condivisibile e opportuna ad evitare sospetti di parzialità del giudice o di mera autorità del suo intervento. Rimane per fermo il principio per cui la proposta non può costituire motivo di ricusazione o di astensione del giudice: principio che richiama il giudice al suo senso di responsabilità e ad essere neutrale. Dell'art. 185, dedicato al tentativo di conciliazione, può considerarsi estensibile al rito familiare il disposto secondo cui le parti possono fare richiesta congiunta di tentativo di conciliazione, tentativo che può essere rinnovato in qualunque momento dell'istruzione.

Provvedimenti provvisori

Il nuovo rito in materia di stato delle persone, di minori e di famiglia, disciplinato dagli artt. 473-bis e seguenti c.p.c. ha conservato al giudice della prima udienza di comparizione il potere di disporre provvedimenti temporanei e urgenti nell'interesse dei coniugi e della prole, come disponeva il comma ottavo dell'art. 4 l. n. 898/1970. L'attribuzione di un siffatto potere trovava ragione nell'esigenza di consentire un intervento tempestivo e autoritativo in situazioni di verosimile aspro confronto tra le parti, circostanza maggiormente probabile in sede di separazione personale ma pur sempre verificabile anche dopo la durata temporale della cessazione della convivenza. La legge sul divorzio si limitava a indicare le caratteristiche dei provvedimenti emanabili in esito all'udienza di comparizione: durata limitata nel tempo, nell'attesa di una sistemazione definitiva dei rapporti familiari; urgenza di disporre misure cautelative; opportunità della loro assunzione  in una fase ancora interlocutoria del processo. La normativa subentrata, per i procedimenti instaurati dopo il 28 febbraio 2023, è più diffusa e precisa.

L'art. 473-bis.22 dispone che i provvedimenti nell'interesse delle parti devono rimanere entro i limiti delle domande da esse proposte. Fatta eccezione per l'istanza che riguarda la pronuncia di divorzio,  le domande che riguardano i rapporti tra i coniugi hanno ad oggetto diritti disponibili; la pronuncia giudiziale su di esse deve osservare il divieto posto dall'art. 112 di non estendersi oltre il petitum e la causa petendi della controversia. Per contro, a tutela del minore cui si rivolge la causa il giudice può adottare i provvedimenti opportuni in deroga all'art. 112 e disporre mezzi di prova al di fuori dei limiti di ammissibilità previsti dal codice civile, sia pure nel rispetto del contraddittorio e del diritto alla prova contraria (art. 473-bis.2). Inoltre, il giudice di prima udienza, quando pone a carico delle parti l'onere di versare un contributo economico, determina la data di decorrenza del provvedimento ed ha facoltà di farla retroagire sino alla data della domanda. In proposito la riforma ha anticipato al momento della prima udienza un potere di retrodatazione che l'art. 4, comma 13, l. n. 898/1970 riservava alla decisione del tribunale. L'ordinanza era pronunciabile anche in caso di non comparsa del convenuto; è attualmente disposto che essa è consentita anche se una delle parti non compare. Tuttavia, se non compare il ricorrente occorre che il convenuto chieda la prosecuzione in assenza, a meno che il processo sia stato intrapreso su ricorso del P.M. Nel nuovo regime è disposto che nell'adottare i provvedimenti temporanei e urgenti in processi che interessano figli minorenni il giudice indica le informazioni che ciascun genitore è tenuto a comunicare all'altro e può formulare una proposta di piano genitoriale tenendo conto di quelli allegati dalle parti (art. 473-bis.50). Mentre i provvedimenti hanno natura autoritativa, costituiscono titolo esecutivo, sono titolo per l'iscrizione dell'ipoteca giudiziale e conservano la loro efficacia anche dopo l'estinzione del giudizio, il piano oggetto della proposta si risolve in un progetto del quale viene suggerita l'attuazione, per la quale si richiede il consenso di entrambi i coniugi. Sotto questo profilo la proposta vale come tentativo di conciliazione che risolve una parte della materia del decidere, quella che riguarda l'affidamento, il mantenimento e la cura dei figli minorenni. 

I provvedimenti sono revocabili e modificabili: e in ciò consiste la loro temporaneità, da intendersi sia quale scadenza entro un termine temporale o punto di arrivo del processo e sia soprattutto per la loro caratteristica di caducabilità. Nel vecchio regime processuale revoca e modifica dell'ordinanza presidenziale erano affidate al giudice istruttore davanti al quale la causa di norma doveva proseguire per le pronunce economiche e sui figli. Nella disciplina dovuta al d.lgs. n. 149/2022 i provvedimenti temporanei e urgenti di prima udienza possono essere modificati o revocati dal collegio o dal giudice delegato: ma soltanto in presenza di fatti sopravvenuti nuovi o di nuovi accertamenti istruttori. (art. 473-bis.23). Inoltre, prima ancora della modifica e della revoca, gli stessi provvedimenti possono essere impugnati con reclamo da proporre con ricorso alla corte d'appello (attuali artt. 473-bis. 24 e 473-bis.50 c.p.c.). I provvedimenti sono impugnabili con reclamo.

La riforma, come è palese, ha apportato modifiche di non stravolgente portata. Ciò consente di affermare che rimangono utilizzabili in gran parte le acquisizioni interpretative e applicative raggiunte nel vigore della l. n. 898/1970 anteriormente alle modifiche introdotte dalla riforma. Pertanto può considerarsi tuttora valido il principio espresso da Cass. I, ord. n. 11788/2018, secondo cui l'ordinanza della Corte d'appello pronunciata sul reclamo non è ricorribile per cassazione ai sensi dell'art. 111 Costituzione, difettando il requisito della definitività in senso sostanziale e dell'idoneità al giudicato, dal momento che l'ordinanza, pur incidendo su posizioni di diritto soggettivo, non è idonea a statuire su di esse in modo definitivo ma assume la stessa natura di provvedimento interinale, provvisorio e strumentale al giudizio di merito che caratterizza l'ordinanza presidenziale, sempre revocabile e modificabile dal giudice istruttore, ai sensi dell'art. 4, comma 8, l. n. 898/1970.

I provvedimenti hanno vario contenuto, a seconda delle circostanze. Essi possono avere ad oggetto tutte le misure di cui agli artt. 337-ter (già art. 155) e 156 c.c., compresa quella relativa al divieto alla moglie di far uso del cognome del marito; e contenere disposizioni sull'assegno da versare al coniuge e ai figli, per l'affidamento della prole, per il diritto di visita, per le modalità di frequentazione, come pure ordini di protezione contro la violenza nelle relazioni familiari.

Era discussa la natura dei provvedimenti presidenziali, se anticipatoria oppure interinale; e se, a seconda di questa natura, il presidente potesse modificare le disposizioni emanate con la sentenza di separazione oppure dovesse limitarsi ad adottare misure non aventi ad oggetto situazioni già prese in considerazione nel procedimento di separazione. Nel senso della natura anticipatoria, ma non cautelare (non essendo richiesto il periculum in mora), e nel senso della limitazione dei poteri del presidente si era espressa la giurisprudenza, sull'assunto che le disposizioni dettate con il provvedimento finale di separazione possono essere revocate e modificate soltanto con le modalità di cui all'art. 710 c.p.c.  Per alcuni Autori quei provvedimenti sono soltanto semplici regolamentazioni temporanee della situazione tra i coniugi in una fase interlocutoria e sono privi di qualunque idoneità a cagionare effetti sulle decisioni finali. La prevalente opinione e la giurisprudenza formatasi sotto il precedente regime facevano leva sulla non impugnabilità (in allora) dei provvedimenti presidenziali e sul fatto che la condanna al pagamento degli assegni al coniuge, contenuta nella sentenza definitiva, produce effetti sin dalla presentazione del ricorso, per affermare che quei provvedimenti hanno una funzione anticipatrice della decisione finale. Provvedimenti provvisori e decisione finale, secondo questo assunto, si saldano tra loro, per offrire una tutela efficace alla parte più debole durante tutta la durata del procedimento (Cass. n. 4193/1991). In questo contesto, si precisava che il presidente, nell'andar oltre le sistemazioni raggiunte con la separazione, doveva avere di mira la situazione suscettibile di avere, poi, rilevanza per la decisione definitiva: il suo intervento non poteva tendere più a conservare il regime personale o patrimoniale dei coniugi ma doveva essere rivolto alla futura risoluzione dei loro rapporti.

I provvedimenti temporanei e urgenti sono impartiti con ordinanza, atto tipicamente decisorio di questioni in rito e in merito ma, almeno in linea generale, non idoneo a definire il giudizio. La forma dell'atto richiede, ex lege, la motivazione, requisito divenuto di particolare rilievo in un sistema che espressamente ammette oggi l'impugnazione con reclamo: impugnazione che vede proprio nelle ragioni con le quali la pronuncia è stata giustificata l'obiettivo delle critiche nelle quali il gravame si risolve. I provvedimenti contenuti nell'ordinanza hanno natura sommaria, perchè basati su rappresentazioni dei fatti che possono restare limitate a quanto occorre per giustificare richieste urgenti. Sono provvisori, perché destinati ad essere, se non revocati o modificati prima, assorbiti nella sentenza che definisce il giudizio; sono altresì giurisdizionali, e non amministrativi, anche se non idonei al giudicato; sono esecutivi, anche se non prima che scada il termine per impugnarli; sono altresì efficaci anche in caso di estinzione del giudizio, fino a che vengano sostituiti con altro provvedimento. Sono, infine, pronunciabili anche d'ufficio, per il rilievo pubblicistico che il regime della famiglia assume, al di sopra ed oltre gli interessi particolari dei singoli. Gli stessi provvedimenti perdono efficacia nel momento in cui è pubblicata la sentenza che pronuncia il divorzio, anche in primo grado, posto che essa è immediatamente esecutiva. Il potere ufficioso riconosciuto al presidente o in sua vece al giudice delegato comporta il superamento del principio dispositivo nel processo, fatta eccezione per quanto concerne le domande a contenuto patrimoniale. I rapporti patrimoniali restano soggetti al principio della domanda. Con riguardo ai provvedimenti relativi ai figli, il presidente deve tener conto soltanto dell'opportunità del suo intervento, pur potendo e dovendo aver presenti le istanze delle parti. I provvedimenti nell'interesse dei figli possono concernere anche il nascituro già concepito (in questo senso già Trib. Catania 9 dicembre 1991).

Una peculiarità dei provvedimenti temporanei e urgenti in sede di divorzio è che con essi possono essere modificate le condizioni stabilite con la sentenza di separazione personale. Infatti, la cognizione del giudice della causa di divorzio, estendendosi anche alle questioni connesse, concerne anche la eventuale modifica delle condizioni di separazione, che in assenza del giudizio di divorzio dovrebbe costituire oggetto di ricorso ai sensi dell'art. 710 c.p.c. Nella dottrina formatasi sub lege n. 898/1970 è diffusa l'opinione che la regolamentazione resa in sede di separazione non preclude al presidente del tribunale, con i provvedimenti provvisori di divorzio, di disporre diversamente da quanto stabilito nella separazione; e ciò anche in assenza di fatti nuovi successivi alla separazione, anche se in tal caso è logico che il presidente in sede di divorzio provveda a confermare espressamente, facendolo proprio come regime provvisorio di divorzio, il regime di separazione; se, invece, non dispone in tal senso, e si limita a non adottare provvedimenti provvisori, nemmeno di conferma di quelli già operanti, il regime di separazione resta in vigore, e la successiva istanza di modifica rientra nella cognizione del giudice istruttore del divorzio. In giurisprudenza si era affermato che anche la cognizione di un ricorso per la modifica delle condizioni della separazione consensuale spetta al giudice investito del giudizio di divorzio, una volta che quest'ultimo sia stato avviato. Si è ritenuto, infatti, che la cognizione del giudice della causa di divorzio comprende tutta la materia del contenzioso di modifica, anche se il ricorso ai sensi dell'art. 710 c.p.c. è stato anteriormente proposto.

Possono essere considerate tuttora utilizzabili le seguenti pronunce giurisdizionali. La conferma del regime di separazione può essere pronunciata esplicitamente nell'ordinanza presidenziale, ovvero —come di frequente nella prassi- risultare implicitamente dall'assenza di ogni modifica apportata dal presidente. In entrambi i casi, però, si configura la sussistenza di un provvedimento temporaneo nell'ambito del procedimento di divorzio, suscettibile di modifica da parte del giudice istruttore, ai sensi dell'ultimo periodo dell'ottavo comma dell'articolo in commento: anche l'intenzionale omissione in fase presidenziale di ogni provvedimento provvisorio comporta l'implicita, perdurante vigenza dell'eventuale assegno di separazione (Trib. Modena, 7 maggio 2012, Giurisprudenza locale — Modena 2012). L'ordinanza con cui il presidente del tribunale dispone la riduzione dell'assegno di separazione, nomina se stesso giudice istruttore e fissa l'udienza di comparizione delle parti, è un provvedimento temporaneo ed urgente (Cass. VI, n. 15186/2014).

Passaggio alla fase istruttoria

Nella disciplina a suo tempo introdotta dalla l. n. 898/1970 la distinzione in due fasi del procedimento comportava la necessità di norme regolatrici del passaggio dalla porzione procedimentale da svolgersi davanti al presidente del tribunale  a quella di cognizione ordinaria da trattarsi e da istruirsi  ad opera del giudice delegato. Queste norme avevano altresì il compito di trasformare un procedimento atipico e soltanto preparatorio in un giudizio introdotto secondo i canoni ordinari dell'atto di citazione e della costituzione con atto di comparsa e risposta. Il subentrato rito unificato per le controversie in materia di stato delle persone, di minori e di famiglia ha la diversa struttura tipica del giudizio che da subito si pone come di cognizione ordinaria: al convenuto è notificato il ricorso che nei suoi confronti chiede al giudice una pronuncia costitutiva sullo status ed eventualmente domande accessorie di accertamento e/o di condanna; e il procedimento instaura da subito il contraddittorio tra le parti. Risultano pertanto palesi le diversità, in un contesto in cui emergono altresì le inevitabili assonanze di regole.

A) Nel giudizio di cui alla l. 898/1970.

Il presidente provvede con ordinanza con la quale dispone (comma 8 dell'art. 4): la nomina del giudice istruttore; la data dell'udienza di comparizione e trattazione davanti all'istruttore; l'assegnazione all'attore del termine per il deposito di memoria integrativa del ricorso (da valersi, in sostanza, quale atto di citazione); l'assegnazione al convenuto del termine per la costituzione in giudizio ai sensi degli artt. 166 e 167 c.p.c., e per la proposizione delle eccezioni non rilevabili di ufficio; l'avvertimento al convenuto che la costituzione oltre tale termine implica le decadenze previste dall'art. 167 c.p.c. e la decadenza dalla facoltà di sollevare le eccezioni non rilevabili di ufficio (comma 10, della norma in commento). L'omissione dell'avvertimento comporta l'applicazione delle disposizioni di cui all'art. 164, comma 3, c.p.c.

L'ordinanza, a cura dell'attore, deve essere notificata al convenuto non comparso all'udienza presidenziale, nel termine perentorio stabilito nell'ordinanza stessa. L'ordinanza è inoltre comunicata al pubblico ministero, che deve intervenire nel giudizio a pena di nullità. L'onere per la cancelleria di comunicare l'ordinanza al pubblico ministero è previsto espressamente solo per la separazione; peraltro, se l'ordinanza è pronunciata fuori dell'udienza presidenziale, l'obbligo di comunicazione discende dalla disposizione a carattere generale di cui all'art. 134, comma 2, c.p.c.; in ogni caso, molti commentatori suggeriscono che il presidente dia comunque alla cancelleria l'espresso ordine di comunicazione al pubblico ministero.

 L'udienza dinanzi al presidente non ha la stessa natura della prima udienza nel giudizio ordinario di cognizione; e per tutte le finalità che riguardano i termini di costituzione del coniuge convenuto e della decadenza dello stesso dalla formulazione delle domande riconvenzionali è rilevante esclusivamente l'udienza innanzi al giudice istruttore nominato all'esito della fase presidenziale (Cass. II, 20383/2019). Nel rito divorzile non si applica l'art. 709 c.p.c. che prevede un termine perentorio per la notifica del provvedimento assunto in sede presidenziale, ma trova applicazione l'art. 4, commi 9 e 10, l. 1 dicembre 1970, n. 898 che prevede non un termine perentorio, ma il rispetto dei termini a comparire di cui all'art. 163-bis dimidiati (Trib. Lamezia Terme, 10 maggio 2012, Dir. e Giust. online 2012).

In dottrina la mancata previsione della perentorietà del termine e dell'obbligo di notifica viene attribuita ad una mera svista del legislatore; tuttavia, siccome per l'esistenza di un termine perentorio occorre una espressa previsione legislativa (art. 152, cpv., c.p.c.), nella prassi dei processi di divorzio il termine per la notifica dell'ordinanza spesso non è considerato perentorio.

Se il termine assegnato dal presidente al convenuto è inferiore a quello dovuto, si determina una nullità parziale dell'ordinanza e il giudice istruttore, in applicazione analogica dell'art. 164 c.p.c., in caso di omessa comparizione del convenuto deve fissare una nuova udienza, nel rispetto degli stessi termini, disponendo una nuova notifica dell'ordinanza presidenziale, unitamente al verbale di udienza e al provvedimento dello stesso istruttore. Parimenti, il convenuto può comparire all'udienza e chiedere al giudice istruttore il rinvio dell'udienza per una data che assicuri il rispetto dei termini.

Con l'emissione dei provvedimenti urgenti si chiude la fase presidenziale e si passa alla vera e propria fase contenziosa del procedimento. In realtà il processo è unitario pur se si svolge dinanzi ad autorità giurisdizionali diverse (quando è nominato il giudice relatore diverso dal presidente). Il processo prosegue automaticamente, senza necessità di ulteriori atti di impulso della parte, impulso già presente nel deposito del ricorso introduttivo. L'unico onere a carico del ricorrente è quello di notificare al convenuto non comparso l'ordinanza presidenziale.

Per la giurisprudenza non incorre in decadenza il convenuto che, nel giudizio di divorzio, si costituisce entro un termine inferiore a quello di venti giorni precedenti l'udienza di comparizione innanzi al giudice istruttore se l'intervallo temporale tra la data di deposito dell'ordinanza presidenziale di fissazione di questa udienza e la data dell'udienza stessa sia inferiore al suddetto termine dilatorio. In quanto unica parte pregiudicata da quella violazione, il solo convenuto è legittimato a dolersene ovvero a rinunciare al termine se ritiene di essere comunque in grado di spiegare adeguatamente le proprie ragioni di difesa (Cass. I, n. 3905/2011).

Se le parti lo richiedono congiuntamente, e nello stesso tempo rinunciano espressamente alla concessione dei termini di cui all'art. 4, comma 10, l. 1 dicembre 1970, n. 898, il tribunale, all'esito dell'udienza di prima comparizione, può pronunciare sentenza non definitiva di cessazione degli effetti civili del matrimonio e proseguire il giudizio per le ulteriori domande (Trib. Roma, I, 7 settembre 2016, n. 16588, Dir. e Giust.2016; conf.: Trib. Milano, IX, 27 settembre 2016).

B) Nel nuovo rito in materia di famiglia.

Le parti compaiono davanti al giudice istruttore dopo avere depositato telematicamente le rispettive memorie difensive, nella tipologia e nella consecuzione di cui all'art. 473-bis.17. Una volta esperito il tentativo di conciliazione, se questo non ha avuto successo non resta che assumere i provvedimenti occorrenti alla prosecuzione del processo. Se la materia controversa è pronta per la decisione, il giudice, se collegiale, fa precisare le conclusioni e ordina la discussione orale della causa nella stessa udienza o, a richiesta di parte, in una udienza successiva; all'esito trattiene la causa in decisione. Se ha proceduto il giudice delegato, questi, esaurita la discussione, si riserva di riferire al collegio per la decisione. Allo stesso modo si procede nel caso di pronuncia di sentenza non definitiva e di causa che poi procede per la definizione delle domande diverse da quelle sullo status (art. 473-bis.22, quarto comma). Se occorre proseguire perché la controversia richiede istruzione, il giudice provvede sulle istanze di prova e predispone il calendario del processo (art. 473-bis.22, terzo comma).

La memoria difensiva e la comparsa di costituzione

A) Nel giudizio di cui alla l. 898/1970.

La fase di trattazione si introduce con il deposito degli atti integrativi della difesa delle parti, sulla falsariga del processo ordinario di cognizione: il ricorrente deposita in cancelleria una memoria integrativa (che in sostanza vale come atto introduttivo del giudizio); il convenuto si costituisce formalmente con comparsa di risposta. Per ciascuna di queste difese operano le preclusioni proprie del giudizio ordinario contenzioso, con le note conseguenze: il ricorrente non può proporre domande nuove rispetto a quelle contenute nella memoria integrativa, ad eccezione di quanto disposto dall'art. 183, comma 2, c.p.c.; il convenuto, dopo il deposito della comparsa di risposta, non può più proporre domande riconvenzionali (art. 167, comma 2, c.p.c.), chiamare in causa terzi (167, comma 3, c.p.c.) e sollevare eccezioni processuali e di merito rilevabili solo ad istanza di parte (comma 10 della norma in commento); peraltro, la chiamata di terzi nei processi di divorzio è da considerare molto rara e limitata, in sostanza, a eventuali figli maggiorenni.

Il termine per il deposito della memoria integrativa da depositarsi a onere del ricorrente  è da ritenere perentorio, anche se la norma non lo dispone espressamente. La perentorietà deriva dal sistema delle preclusioni previste dal disposto degli artt. 183 e 184 c.p.c., applicabili anche al processo di divorzio (11° comma della norma in commento) e dalla perentorietà del termine assegnato al convenuto, la cui inosservanza comporta la decadenza di cui all'art. 167 c.p.c. Inoltre, si ritiene la perentorietà del termine funzionale a consentire al convenuto di prenderne conoscenza della memoria integrativa del ricorrente prima della costituzione davanti all'istruttore. Con la memoria integrativa l'attore può allegare altri fatti a sostegno di nuove domande in precedenza non proposte, o precisare e modificare quelle già proposte.

Sulle conseguenze del mancato deposito della memoria integrativa l'interpretazione non è uniforme. Secondo una opinione rigorosa, il giudizio di cognizione non viene nemmeno ad esistenza e quindi, anche se il convenuto si costituisce, non può chiedere la prosecuzione di un processo che non è mai cominciato. Nella prassi prevale altra opinione, secondo la quale la memoria ha carattere facoltativo e, se il ricorso e la prima memoria difensiva del convenuto sono idonei a configurare con sufficienza la materia del decidere non vi è necessità di altri atti aventi analogo contenuto; rifacendosi alla teoria dell'unitarietà del processo di divorzio, benché suddiviso in due fasi, si ritiene che il ricorrente possa anche non avvalersi della facoltà di depositare la memoria integrativa, fermo restando l'obbligo di concessione del termine da parte del presidente. Pertanto, se il deposito della memoria costituisce un onere della parte che voglia integrare o modificare le asserzioni, le allegazioni e le richieste formulate nel ricorso introduttivo, viceversa - laddove l'atto si sostanzi in una mera duplicazione di deduzioni e istanze già svolte - la sua omissione non incide sulla condizione del ricorrente, che è già ritualmente costituito in giudizio, e non è seguita da alcun tipo di sanzione in rito, se non quella che deriva dalla impossibilità di formulare richieste di merito ormai precluse.

La notifica della memoria integrativa alla controparte non è prevista dalla norma. Del termine fissato per il deposito dell'atto e della corrispondente facoltà del ricorrente di integrare con esso la sua istanza introduttiva del giudizio è in grado di essere informato il convenuto, che ha ricevuto la notifica dell'ordinanza presidenziale. In un processo caratterizzato dagli oneri di diligenza e di attivazione, per le parti, spetta al convenuto accertarsi se la memoria è stata depositata ed estrarne copia. Per esercitare concretamente questa facoltà occorre che il termine per il deposito della sua comparsa di costituzione sia fissato a data successiva a quella del deposito della memoria integrativa.

La costituzione del convenuto avanti al giudice istruttore avviene con il deposito, nel termine assegnato dal presidente, di una vera e propria comparsa di risposta del tutto analoga a quella del giudizio contenzioso ordinario. La costituzione potrebbe essere già avvenuta nella fase presidenziale, con la memoria difensiva di cui al quinto comma della norma in commento; in tal caso l'assegnazione del termine al convenuto, già costituito, vale solo per circoscrivere ad un momento temporale preciso la proposizione delle eccezioni processuali e di merito non rilevabili d'ufficio. Con la comparsa di costituzione il convenuto deve, a pena di decadenza, proporre le eventuali domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d'ufficio.

Al convenuto si chiede di costituirsi in causa in forme sostanzialmente equivalenti a quelle previste per la costituzione in giudizio in genere. L'assegnazione al convenuto del termine per costituirsi è accompagnata dall'avvertimento concernente gli effetti della costituzione tardiva, che nell'atto di citazione costituisce onere per l'attore, e che in questo caso è compito del presidente ed appartiene al contenuto necessario della sua ordinanza.

Il rinvio operato agli artt. 166 e 167, a proposito degli adempimenti previsti a carico del coniuge convenuto che intenda costituirsi nel giudizio di cognizione, concerne la tempestività della costituzione, le modalità attraverso le quali essa deve essere effettuata e il regime di decadenze ricollegate alla tardività. Poiché il termine entro il quale il predetto deve costituirsi è fissato dal presidente come limite massimo sino al quale la costituzione è tempestiva, si applicano dell'art. 166 soltanto le regole che prevedono l'assistenza del difensore e che fanno carico all'interessato di depositare in cancelleria il proprio fascicolo contenente la comparsa, la copia della citazione notificata (in questo caso, la copia dell'ordinanza presidenziale), la procura nonchè i documenti che intende offrire in comunicazione. L'art. 167 si applica, invece, per intero  nei richiamati primo e secondo comma, in quanto totalmente considerato dal legislatore compatibile con la specialità della situazione attraverso la quale si giunge a radicare il giudizio di merito sul divorzio. Nella comparsa di risposta il convenuto deve proporre tutte le sue difese, prendere posizione sui fatti posti dall'attore a fondamento della domanda, indicare i mezzi di prova e formulare le conclusioni. Con la comparsa, a pena di decadenza, deve essere proposta l'eventuale domanda riconvenzionale, devono essere formulate le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d'ufficio e deve essere avanzata l'eventuale richiesta di chiamare in causa un terzo (nei limitati e improbabili casi compatibili con la natura e l'oggetto del procedimento).

Proprio il maturare delle preclusioni in conseguenza della tardività della costituzione ha imposto di informare il convenuto, con l'ordinanza presidenziale, in ordine alle conseguenze pregiudizievoli dell'inosservanza del termine fissatogli per costituirsi nel giudizio. Nel senso che le decadenze previste per il convenuto dagli artt. 166 e 167 c.p.c. si verificano con riguardo all'atto di costituzione davanti al giudice istruttore, Cass. n. 23051/2007.

Per un caso di preclusione legata alla costituzione in giudizio intempestiva, si veda: “La domanda di annullamento della separazione consensuale per vizi del consenso, proposta dal coniuge convenuto nel giudizio di cessazione degli effetti civili del matrimonio, costituendo domanda riconvenzionale, deve essere proposta con la comparsa di risposta, pena la preclusione della medesima, ai sensi dell'art. 167 c.p.c.” (Cass. n. 6343/2011).

Il termine per la costituzione del convenuto inizia a decorrere dopo la scadenza di quello concesso al ricorrente, cioè dalla scadenza del termine per il deposito della memoria integrativa dell'attore.

B) Nel nuovo rito in materia di famiglia.

La soppressione della suddivisione del giudizio in due fasi conseguente all'introduzione del rito unificato per le controversie familiari (artt. 473-bis e segg. c.p.c.) ha privato il procedimento di divorzio dello iato che in precedenza richiedeva disposizioni dirette a regolare il passaggio dall'una all'altra fase. Il procedimento disciplinato dalle norme inserite dal d.lgs. n. 149/2022 prosegue, dopo la prima udienza, secondo le forme innovate da tale provvedimento: verso la discussione e la decisione se non occorre l'istruzione; come previsto nel calendario del processo se deve procedersi ad assumere mezzi istruttori.

La fase contenziosa

Davanti al giudice istruttore il procedimento si svolge secondo le regole del processo di cognizione ordinario: l'undicesimo comma della norma in commento richiama espressamente gli artt. 180,183, commi 1, 2, 4, 5, 6 e 7, e l'art. 184 c.p.c. L'istruttoria segue le regole comuni di formazione della prova e la fase contenziosa si chiude con sentenza soggetta ai normali mezzi d'impugnazione.

Nel rito unificato per le controversie in materia di famiglia, di persone e di minori, introdotto con il d.lgs. n. 149/2022 di riforma del processo civile il procedimento familiare ha natura contenziosa sin dall'inizio. Dopo la comparizione delle parti davanti al giudice relatore esso semplicemente prosegue oltre, senza mutamenti di tipologia di rito e senza soluzioni di continuità. Il sistema difensivo per le parti ricalca quello della disciplina precedente ma è organizzato diversamente: una porzione di attività difensive è esercitata antecedentemente alla prima comparizione nel giudizio ed altra è sviluppata dopo la trattazione se si è resa necessaria una fase istruttoria.

La morte del coniuge fa cessare, anche nel giudizio di legittimità, la materia del contendere sia nel giudizio sullo status che in quello relativo alle domande accessorie, compreso il giudizio sulla richiesta di assegno divorzile, non assumendo alcun rilievo, in senso contrario, l'intervenuto passaggio in giudicato della sentenza non definitiva di divorzio, posto che l'obbligo di corresponsione di tale assegno è personalissimo e non trasmissibile agli eredi, trattandosi di posizione debitoria inscindibilmente legata ad uno status personale, che può essere accertata solo in relazione alla persona cui detto status si riferisce (Cass. VI, n. 31358/2019; Cass. I, n. 4092/2018).

La morte di uno dei coniugi comporta la cessazione della materia del contendere, con travolgimento di tutte le pronunce emesse nel corso del procedimento (Cass. n. 5441/2008). Il decesso di uno dei coniugi in pendenza del giudizio di divorzio in grado di appello, senza che sia passata in giudicato la sentenza che ha dichiarato lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili dello stesso, determina la cessazione della materia del contendere non solo con riferimento alla domanda di divorzio, in conseguenza del venir meno, per ragioni naturali, del rapporto di coniugio, ma anche in relazione alle domande volte ad ottenere l'assegno di mantenimento per i figli e quello divorzile, non potendo più essere vantato alcuno dei corrispondenti diritti (Cass. I, ord. n. 37896/2022). Se la sentenza dichiarativa della cessazione degli effetti civili del matrimonio interviene successivamente alla morte di una delle parti, è ammesso l'appello della parte superstite al fine di ottenere una pronuncia di cessazione della materia del contendere nella causa di divorzio, ormai priva di oggetto (Cass. n. 16801/2009). Nel caso di pronuncia non definitiva, la pronuncia di cessazione degli effetti del matrimonio religioso passa in giudicato in difetto di impugnazione; il procedimento che deve proseguire per la definizione delle questioni di rilevanza patrimoniale non si estingue per la morte di una delle parti ma prosegue, avendo riflessi sulla sfera giuridica delle parti e dei loro eredi (Cass. n. 8874/2013). L'evento morte di una delle parti non radica una legittimazione al processo per dichiarazione di divorzio del successore a titolo universale nei confronti del coniuge superstite (non si applica l'art. 110 c.p.c.), non verificandosi alcuna successione nel diritto e nel rapporto per l'intrinseca non trasmissibilità della situazione soggettiva: l'azione è intrasmissibile agli eredi, legittimati a stare in giudizio solo in ordine ai diritti e obblighi di carattere economico inerenti al patrimonio del loro dante causa (Cass. n. 10065/2003). In tema di divorzio, nel caso di passaggio in giudicato della pronuncia parziale sullo "status", con prosecuzione del giudizio al fine dell'attribuzione dell'assegno divorzile, il venir meno dell'ex coniuge nei confronti del quale la domanda era stata proposta nel corso del medesimo non ne comporta la declaratoria di improseguibilità, ma il giudizio può proseguire nei confronti degli eredi, per giungere all'accertamento della debenza dell'assegno dovuto sino al momento del decesso (Cass. S.U. n. 20494/2022). Tuttavia, avverso la sentenza dichiarativa della cessazione degli effetti civili del matrimonio, intervenuta dopo la morte di una delle parti, è ammissibile l'appello della parte superstite al fine di ottenere una pronuncia di cessazione della materia del contendere, essendo gli effetti civili del matrimonio già venuti meno per la morte; e nel giudizio di impugnazione sono legittimati processuali ex art. 110 c.p.c. gli eredi della parte deceduta in qualità di successori universali, ancorché ad essi non sia trasmissibile il diritto controverso (Cass. VI, ord. n. 1079/2021). La morte intervenuta dopo la notifica della sentenza di primo grado e durante il termine di impugnazione non interrompe il processo ma, poiché il matrimonio è sciolto per altra causa, preclude il passaggio in giudicato della pronuncia di divorzio (anche se emessa su domanda congiunta), fa cessare la materia del contendere e rende inammissibile il gravame eventualmente proposto (Cass. n. 5664/1996).

In pendenza del ricorso per cassazione, la morte di uno dei coniugi comporta la cassazione senza rinvio delle sentenze di primo e di secondo grado, mentre gli eredi del defunto possono continuare a far valere nel processo soltanto quei diritti di natura patrimoniale che, già acquisiti al patrimonio del loro dante causa, o derivanti da presupposti diversi dalla pronuncia di separazione personale, siano stati eventualmente dedotti in giudizio insieme con la domanda di separazione (Cass. n.  3129/1981). Il giudizio può proseguire nello stesso grado, posto che l'istituto dell'interruzione non si applica nei giudizi dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 1199/1984, citata).

Potere di modifica dei provvedimenti presidenziali

Nel corso del giudizio il giudice istruttore è dotato di poteri di revoca e modifica dei provvedimenti presidenziali. Così dispone il comma ottavo dell'art. 4 l. n. 898/1970, che richiama anche l'art. 189 disp. att. c.p.c. In proposito la normativa regolatrice dell'esercizio di questi poteri è stata modificata dal subentro del rito unificato per le controversie in materia di stato delle persone, di minori e di famiglia.

a) Nel procedimento di cui alla l. 898/1970.

Per i procedimenti che proseguono con l'applicazione delle disposizioni dettate dall'art. 4 della l. 898/1970 i provvedimenti provvisori adottati dal presidente in esito alla comparizione dei coniugi e all'esito negativo del tentativo di conciliazione sono dotati di un regime di stabilità soltanto relativa, essendone prevista, come per la separazione, la modificabilità o revocabilità da parte del giudice istruttore. Al riguardo la normativa non impone condizioni specifiche e, in particolare, non è previsto come presupposto normativo esplicito il mutamento sostanziale delle circostanze, diversamente da quanto è disposto per la revisione delle condizioni stabilite nella sentenza di divorzio che richiede la sopravvenienza di giustificati motivi (art. 9, comma 1, l. n. 898/1970). I provvedimenti diretti a regolare i rapporti economici tra i coniugi in conseguenza del divorzio e della separazione, nel corso del giudizio, postulano la possibilità di adeguare l'ammontare del contributo al variare delle condizioni patrimoniali e reddituali e anche di modularne la misura secondo decorrenze diverse (Cass. I, n. 9533/2019).

In via interpretativa, posto che spesso il regime temporaneo dei rapporti tra i coniugi durante il processo di divorzio altro non è che la prosecuzione di quello di separazione, e che l'art. 156, comma 7, c.c., per l'analoga fattispecie dei provvedimenti provvisori di separazione richiede il requisito di giustificati motivi per far luogo alle modifiche del regime di separazione, si ritiene che anche per la modifica in corso di causa di divorzio sia necessario detto presupposto. In giurisprudenza si tende a richiedere il mutamento delle circostanze di fatto, cioè delle condizioni concrete, personali o patrimoniali, dei coniugi e della prole, quale presupposto per far luogo alla modifica dei provvedimenti già in vigore; si chiede, cioè, di verificare la sussistenza di mutamenti delle condizioni sostanziali di vita dei coniugi od ex coniugi, in assenza dei quali l'istanza difficilmente finisce per apparire effettivamente giustificata. Si ammette, però, che si possano operare modifiche anche sulla base di una diversa valutazione di circostanze non considerate nell'ordinanza presidenziale, benché in assenza di mutamenti dello stato di fatto.

La trattazione dell'istanza di modifica in corso di causa richiede l'instaurazione del contraddittorio, la presenza necessaria del difensore, l'ascolto del minore ove la questione lo coinvolga (art. 337-octies c.c.) e gli altri incombenti istruttori eventualmente necessari.

Anche per i provvedimenti del giudice istruttore nel processo di divorzio si è sviluppata una contrapposizione nella giurisprudenza di merito tra l'orientamento favorevole all'ammissibilità del reclamo al collegio, e l'orientamento volto, invece, all'irreclamabilità del provvedimento, che vede ormai decisa prevalenza della tesi dell'inammissibilità del reclamo (Trib. Milano, IX, 6 dicembre 2011, Giur. merito 2013, 10, 2105; Trib. Reggio Emilia, 6 settembre 2012; Trib. Roma, I, 22 giugno 2012, Giur. Mer. 2013, 10, 2100).

Il giudice del divorzio è l'unico competente a decidere sul perdurare di validità ed efficacia del regime in vigore, restando esclusa ogni ipotesi di delibazione incidentale nel corso di altri procedimenti, come ad esempio in sede di opposizione all'esecuzione (Trib. Modena, II, 10 novembre 2016, n. 2337,Giurisprudenza locale — Modena 2016).

b) Nel nuovo rito in materia di famiglia.

Per i procedimenti che sono instaurati dopo il 28 febbraio 2023 l'art. 473-bis.23 c.p.c. dispone che i provvedimenti temporanei e urgenti possono essere modificati o revocati dal collegio o dal giudice delegato in presenza di fatti sopravvenuti o nuovi accertamenti istruttori. La disposizione ricollega modifica e revoca a circostanze successive che mutano il quadro delle risultanze e dunque esclude interventi ispirati da motivazioni diverse, quali la mera opportunità o i ripensamenti. Per questa ragione i provvedimenti temporanei e urgenti hanno acquistato più incisiva efficacia e maggiore stabilità rispetto a ritorni sulle decisioni già prese. E' stato conservato l'art. 189 disp. att. c.p.c. che peraltro si riferisce al caso di nuova presentazione del ricorso per la revisione dei provvedimenti già assunti.

La sentenza non definitiva

a) Nel giudizio di cui alla l. n. 898/1970.

L'art. 4, comma 12, l. n. 898/1970 dispone una applicazione particolare della normativa che consente nel giudizio ordinario di cognizione la pronuncia parziale del giudice, nei casi di condanna generica o di decisione che non esaurisce il merito della domanda. Esso stabilisce che, quando il processo debba continuare soltanto per la determinazione dell'assegno, il tribunale emette, intanto, una sentenza non definitiva relativa allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio. La disposizione fu accolta dagli operatori con perplessità al punto da venire sospettata di  illegittimità costituzionale per asserito contrasto con gli artt. 2,3,29 Costituzione. La questione tuttavia fu considerata manifestamente infondata dalla Corte di cassazione, sull'assunto che la norma non dà luogo ad una arbitraria discriminazione rispetto ai soggetti che vedano definiti in un unico contesto tutti i rapporti sullo status di coniugio, atteso che nessun principio costituzionale impone che la definitiva regolamentazione dei diritti e dei doveri scaturenti da un determinato status sia dettata in un unico contesto e che la tutela fornita dai provvedimenti temporanei e urgenti, con la loro espressa modificabilità e possibile retroattività al momento della domanda, vale a garantire il coniuge più debole per tutta la durata del processo (Cass. n. 11838/2003; Cass. n. 9614/2010). Proprio questo connotato di garanzia ha indotto la dottrina a interpretare la disposizione cennata nel senso che essa preveda un meccanismo di pronuncia obbligatorio, per il giudice, allorchè se ne verifichino i presupposti.

Si era affermato che la norma dettata dall'art. 4 l. n. 898/1970 rappresenta non una deroga ma un caso di applicazione del principio generale di cui all'art. 277, comma 2, c.p.c., sì che vanno ravvisati i presupposti per una pronuncia non definitiva di divorzio in ogni caso in cui restino ancora da definire i rapporti patrimoniali tra i coniugi ovvero quelli, patrimoniali e non, nei confronti dei figli e altre questioni che richiedano indagini istruttorie (Cass. n. 1314/1996). In tal senso si è affermato che l'indicazione normativa per la quale la sentenza non definitiva va pronunciata quando devesi procedere oltre per la determinazione dell'assegno non è tassativa e consente tale sentenza anche la causa che deve essere proseguita su istanze di contenuto diverso. Ove si ritenesse in contrario, si affermava, si profilerebbe una questione di costituzionalità per la palese e irragionevole differenza che ne seguirebbe rispetto al dettato dell'art. 277 (Cass. n. 3596/1996; Cass. n. 1314/1996; Cass. n. 8288/1994). Con la sentenza non definitiva di divorzio, il tribunale può contestualmente pronunciarsi anche in ordine all'affidamento ed al mantenimento della prole, ove ritenga già acquisiti elementi sufficienti per l'emanazione degli stessi, purché residui controversia non solo sui rapporti patrimoniali fra i coniugi, ma anche su quelli —patrimoniali e non- nei confronti dei figli, atteso che, pure per questa ipotesi, sussiste l'esigenza di una sollecita definizione dello status dei coniugi (Trib. Modena, 28 marzo 2006, n. 604, Giurisprudenza locale — Modena 2006). Per Cass. n. 3596/1996 l'art. 4, comma 12, non esclude che il tribunale possa pronunciarsi con sentenza non definitiva anche in ordine all'affidamento e al mantenimento dei figli, pure se le parti hanno chiesto fissarsi udienza di spedizione in decisione solo in relazione alla dichiarazione di divorzio: i provvedimenti possono essere pronunciati d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio di merito, onde non si verifica alcuna nullità. In senso contrario la successiva Cass. n. 23567/2004, per la quale l'art. 4 persegue l'evidente finalità di consentire una sollecita pronuncia in ordine allo status delle parti in ossequio al favor libertatis, a fronte di una situazione irrimediabilmente compromessa, con rinvio della definizione delle questioni patrimoniali consequenziali all'esito di una più approfondita istruzione. Secondo tale pronuncia non può dunque trovare applicazione l'art. 189 comma 2, per il quale la rimessione al collegio investe il collegio di tutta la causa. Per Cass. VI, n. 20323/2019 non trova applicazione l'art. 190 c.p.c., che consente al giudice istruttore di rimettere la causa al collegio per la decisione, quando la causa deve proseguire per la determinazione dell'assegno, in quanto la normativa è finalizzata a scoraggiare le condotte processuali defatigatorie, volte a procrastinare la statuizione sulla modifica dello status .

Si è anche affermato che, una volta passata in giudicato la pronuncia parziale sullo status , il venir meno dell'ex coniuge non comporta la declaratoria di improseguibilità del giudizio per la sentenza definitiva perché esso può proseguire nei confronti degli eredi per giungere all'accertamento della debenza dell'assegno dovuto sino al momento del decesso (Cass. S.U. n. 20494/2022; Cass. n. 8874/2013). Parte della dottrina evidenzia, invece, che la previsione di cui all'art. 4, comma 12, l. n. 898/1970 è da ritenere speciale rispetto a quella dell'art. 277, posto che non occorre la richiesta di parte e che al giudice non è lasciato spazio a una valutazione del collegio sull'interesse di una parte richiedente: la sentenza non definitiva, infatti, è dovuta.

Contro la sentenza non definitiva non è ammessa riserva di appello, allo scopo di giungere nel minor tempo possibile a una decisione definitiva sullo status (Cass. n. 26/2008). Una parte della dottrina afferma che la previsione del solo appello immediato preclude l'esperibilità di altri mezzi di impugnazione, quali il regolamento facoltativo di competenza (in contrario:Cass. n. 4705/1989). Ove la sentenza pronunci anche su questioni diverse dallo status, senza ovviamente definire il giudizio, sorge l'interrogativo concernente la proponibilità della riserva di appello in relazione ai capi della sentenza non definitiva aventi ad oggetto tali questioni. Nel silenzio della legge, si ritiene che le facoltà delle parti non possano essere limitate e che, dunque, debba ammettersi detta riserva di appello (Cass. n. 3488/2009, sull'assunto che l'esclusione della riserva avverso la sentenza sullo status costituisca una eccezione insuscettibile di estensione per interpretazione analogica). Cass. n. 3488/2009 ha ritenuto non applicabile la medesima norma, che impone l'impugnazione immediata, al giudizio di legittimità e ha ammesso la riserva facoltativa di ricorso per cassazione.

In proposito si è di recente affermato che nel caso di pronuncia non definitiva sullo status nel giudizio di divorzio non trova applicazione l'art. 190 c.p.c., venendo in rilievo la disciplina speciale dell'art. 4 l. n. 898/1970 che consente al giudice istruttore di rimettere la causa al collegio per la relativa decisione quando la causa debba proseguire per la determinazione dell'assegno: così accelerandosi la procedura di accertamento dei presupposti per lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, non solo quando la domanda non sia contestata ma anche quando vi sia disaccordo delle parti sul punto, essendo tale disciplina finalizzata a scoraggiare condotte processuali defatigatorie, volte a procrastinare la statuizione sulla modifica dello status (Cass. VI, ord. 20323/2019).

Appena formatosi il giudicato, la sentenza è sottoposta al regime di pubblicità di cui all'art. 10 l. 1 dicembre 1970, n. 898.

Occorre sottolineare che la pronuncia del divorzio, anche con sentenza non definitiva, fa cessare immediatamente l'efficacia del regime di separazione personale; con la conseguenza che, se non risultano emessi provvedimenti provvisori nella fase presidenziale, alla sentenza non definitiva sullo status consegue quanto meno l'immediata cessazione degli obblighi di contribuzione al mantenimento del coniuge; conseguenze che non si producono in caso di avvenuta emissione di provvedimenti provvisori in sede di divorzio, perché sul regime provvisorio emesso nello stesso processo la sentenza non definitiva non incide. Pertanto, se nel procedimento di divorzio non sono stati emessi provvedimenti temporanei, con l'effetto di lasciare in vigore quelli di separazione, si crea un vuoto di disciplina, con conseguente necessità di un immediato intervento del giudice istruttore della fase di trattazione, per ripristinare un regime consono alle esigenze del caso concreto, come ad esempio un regime di contribuzione al mantenimento. La cessazione della contribuzione prevista in regime di separazione a causa del passaggio in giudicato della sentenza non definitiva sullo status è una modificazione rilevante della situazione di fatto preesistente, che rileva ai sensi dell'ottavo comma della norma in commento (Trib. Modena, 7 maggio 2012, Giurisprudenza locale — Modena 2012).

In giurisprudenza si afferma che la sentenza non definitiva fa certamente cessare ogni valenza dei provvedimenti di separazione relativi ai rapporti tra i coniugi; è stato affermato che sopravvivono i provvedimenti relativi ai rapporti con la prole, anche se di natura patrimoniale (Trib. Reggio Calabria, I, 3 novembre 2003, Dir. fam. 2004, 468).

Per il capo avente ad oggetto i provvedimenti economici anche la sentenza non definitiva, ove li preveda, è provvisoriamente esecutiva (14° comma della norma in commento).

La sentenza di scioglimento del matrimonio, una volta divenuta esecutiva, va annotata negli atti di nascita dei due ex coniugi (v. art. 10 l. 1 dicembre 1970, n. 898 e art. 49, lett. g, d.P.R. 3 novembre 2000 n. 396).

Il d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, di riforma del processo civile, ha abrogato l'art. 156 c.c. avente ad oggetto gli effetti patrimoniali della separazione coniugale.

b) Nel nuovo rito in materia di famiglia.

La possibile pronuncia di una sentenza non definitiva è stata conservata dalla subentrata normativa del rito unificato per le controversie in materia di stato delle persone, di minori e di famiglia. L'ultimo comma dell'art. 473-bis.22 dispone che si procede senz'altro alla pronuncia non definitiva quando può essere decisa la domanda relativa allo stato delle persone e il procedimento deve continuare per la definizione delle ulteriori domande. Ciò comporta: che se procede il collegio, è ordinata la discussione e il tribunale trattiene la causa in decisione, salvo rimessione in istruttoria per il resto; se procede il giudice delegato questi ordina la discussione e si riserva di riferire al collegio; che la fattispecie contemplata si riferisce non soltanto al caso di prosecuzione del giudizio in ordine alla determinazione dell'assegno ma riguarda anche i casi di prosecuzione per le “ulteriori domande”. Queste possono riguardare (nei limiti di applicazione dell'art. 40 c.p.c.) l'assegnazione della casa familiare, la conservazione del cognome del marito, la sistemazione economica dei rapporti in corso, l'affidamento dei figli, ecc. Come in precedenza, contro la sentenza che decide sullo stato delle persone è ammesso soltanto appello immediato.

Impugnazioni

La sentenza di divorzio è soggetta ai comuni mezzi di impugnazione.

A) Nel giudizio di cui alla l. 898/1970.

La l. n. 898/1970 detta regole particolari per il giudizio di appello. In proposito è esplicitamente previsto il rito della decisione in camera di consiglio (art. 4, comma 15). La normativa non fornisce dettagli e la circostanza ha dato luogo al formarsi di due opinioni in sede di interpretazione. Per l'una di esse appare significativo il dato letterale che è riferito alla fase della decisione (“l'appello è deciso in camera di consiglio”): dato dal quale viene desunta la conseguenza per cui soltanto nella fase decisoria devono essere seguite le forme camerali, con soppressione delle comparse conclusionali e delle note di replica, in nome della speditezza e della concentrazione delle attività. L'atto introduttivo del giudizio di appello, secondo questa concezione, deve consistere in una vera e propria citazione. La diversa opinione ha prevalso in dottrina e ha incontrato l'avallo della Corte costituzionale che ebbe a disattendere l'eccezione di illegittimità in proposito sollevata (C. cost. n. 543/1989). 

Il giudizio di appello, si era affermato senza ritorni sulla questione, è modellato sul rito descritto dagli artt. 737 e ss. c.p.c., è un giudizio camerale, è introdotto con ricorso da proporsi nel termine di trenta giorni dalla notificazione della sentenza o nel termine “lungo” dalla pubblicazione se la notifica è mancata (Cass., S.U., n. 4876/1991; Cass. n. 8849/1992; Cass. n. 74/1994; Cass. n. 10614/1994; Cass. n. 11774/1998). Si è specificato che il rito camerale vige per tutto il corso del giudizio di appello e concerne tanto il vero e proprio oggetto del procedimento quanto le accessorie domande di natura patrimoniale, per le quali valgono le stesse esigenze di celerità (Cass. n. 8287/1998; Cass. n. 7495/1998; Cass. n. 7495/1995). Pertanto l'acquisizione dei mezzi di prova, e in particolare dei documenti, è ammissibile sino all'udienza di discussione in camera di consiglio (Cass. VI, n. 11784/2016; Cass. I, n. 6562/2014).

La trattazione con rito ordinario anziché con rito camerale non cagiona, comunque, la nullità del processo purchè la notificazione e il deposito siano avvenuti tempestivamente in cancelleria (Cass. n. 21161/2011; Cass. n. 23907/1999; Cass. n. 14100/2000) e se la parte non deduce e non dimostra che l'adozione del rito diverso ha procurato una lesione al suo diritto di difesa (Cass. n. 9163/1995).

Come accennato, il deposito del ricorso in appello deve avvenire entro 30 gg. dalla notificazione della sentenza o nel termine “lungo” (ora di sei mesi) dalla sua pubblicazione. L'inammissibilità dell'appello per tardivo deposito è rilevabile d'ufficio e non è sanabile per effetto della costituzione del convenuto, data l'indisponibilità degli interessi trattati (Cass. n. 23907/2009). La giurisprudenza si è pronunciata in modo discorde sulle conseguenze del mancato rispetto del termine per la notifica al contro interessato del ricorso e del provvedimento con il quale è fissata l'udienza di comparizione. Si è affermato, in proposito, che l'appello è improcedibile se la notifica del ricorso e del decreto che fissa l'udienza di comparizione avviene oltre il termine stabilito; e che al giudice non sarebbe consentito, neppure alla stregua di una interpretazione costituzionalmente orientata, di assegnare all'appellante, previa fissazione di un'altra udienza di discussione, un nuovo termine a provvedervi, a norma dell'art. 291 c.p.c. (Cass. n. 11992/2010). Al contrario, Cass. n. 21111/2014 ha successivamente affermato che il termine per la notifica del ricorso e del decreto presidenziale di fissazione dell'udienza di comparizione non ha carattere perentorio, sicchè la sua inosservanza non comporta la dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell'impugnazione ma impone soltanto, ove l'appellato non si sia costituito, l'assegnazione di un nuovo termine, perentorio, mentre l'avvenuta costituzione ha efficacia sanante del vizio di omessa o inesistente notifica, in applicazione analogica del regime previsto dagli artt. 164 e 291 c. p.c.

La giurisprudenza ha affermato che in applicazione del principio della conservazione degli atti processuali, la proposizione del gravame con atto diverso dal ricorso (citazione) è ammissibile, purché  esso sia notificato a controparte nel termine di trenta giorni dalla notificazione della sentenza di primo grado o nel termine lungo di sei mesi dalla pubblicazione se la notificazione è mancata e sia depositata nella cancelleria del giudice «ad quem», con l'iscrizione della causa a ruolo: semprechè la parte interessata non deduca e non dimostri che l'adozione del rito ordinario ha procurato una lesione al suo diritto di difesa (Cass. I, n. 21161/2011; Cass. I, n. 19002 /2014).

La giurisprudenza si è espressa in modo contrastante per quanto riguarda, nei procedimenti che si svolgono con il rito camerale, gli effetti dell'omessa notificazione del ricorso nel termine assegnato nel decreto di fissazione d'udienza. Si è affermato che l'omissione cagiona l'improcedibilità dell'appello, in quanto, pur trattandosi di un termine ordinatorio ex art. 154 c.p.c., si determina la decadenza dell'attività processuale cui è riferito, in difetto d'istanza di proroga prima della scadenza; e tale sanzione non è esclusa dalla mancata comunicazione a cura della cancelleria del decreto di fissazione d'udienza, atteso che, nei procedimenti camerali, il giudice è tenuto solo al deposito del decreto, ma non anche a disporne la relativa comunicazione, incombendo sul ricorrente l'obbligo di attivarsi per prendere cognizione dell'esito del proprio ricorso (Cass. I, n. 27086/2011; Cass. I, n. 11992/2010). Più di recente si è osservato che il termine per la notifica del ricorso e del decreto presidenziale di fissazione dell'udienza ha la mera funzione di instaurare il contraddittorio, sì che la sua inosservanza, senza preventiva presentazione dell'istanza di proroga, non ha alcun effetto preclusivo, implicando soltanto la necessità di fissarne uno nuovo ove la controparte non si sia costituita, mentre l'avvenuta costituzione di quest'ultima ha efficacia sanante ex tunc di tale vizio (Cass. VI, n. 24417/2014).

La mancata comparizione, all'udienza fissata, della parte che ha proposto il gravame non è causa di improcedibilità (Cass. I, n. 5651/2012).

Nel giudizio di appello avverso la sentenza di divorzio tra la data di notificazione del ricorso e del decreto e quella dell'udienza di comparizione non devono necessariamente intercorrere i termini di comparizione fissati dall'art. 163-bis c.p.c., ridotti alla metà, così come previsto per il primo grado, pur dovendosi fissare, nel rispetto del principio del contraddittorio, un termine adeguato, che assicuri la possibilità di organizzare una tempestiva difesa tecnica (Cass. I, n. 18973/2013).

Per la Corte di cassazione, le caratteristiche di sommarietà della cognizione e di semplicità di forme del giudizio divorzile d'appello esclude la piena applicabilità delle norme che regolano il processo ordinario e pertanto consentono l'acquisizione di nuovi mezzi di prova, in specie di documenti, all'unica condizione che sia assicurato un pieno e completo contraddittorio tra le parti (Cass. I, n. 27234/2020). L'applicazione del rito camerale comporta che la corte d'appello può decidere la controversia nella stessa udienza fissata dal presidente con decreto in calce al ricorso notificato alla controparte, non trovando applicazione, in materia, la disposizione di cui all'art. 352 c.p.c.

Il rito camerale non preclude la proponibilità dell'appello incidentale (tardivo) indipendentemente dalla scadenza del termine per l'esperimento del gravame in via principale né esclude (essendo caratterizzato dalla sommarietà della cognizione e dalla semplicità delle forme) la piena applicazione delle norme che regolano il processo ordinario e, in particolare, del termine perentorio fissato per la relativa proposizione dall'art. 343 c.p.c.: con la conseguenza che il principio del contraddittorio deve ritenersi rispettato per il solo fatto che il gravame incidentale sia portato a conoscenza della parte avversa entro limiti di tempo tali da assicurare a quest'ultima la possibilità di far valere le proprie ragioni mediante l'organizzazione di una tempestiva difesa tecnica. Da queste affermazioni deriva, per Cass. I, n. 4091/2018, che la tardiva proposizione dell'appello incidentale non comporta l'inammissibilità del gravame, consentendo semmai all'appellante principale di ottenere, ove lo chieda, il differimento dell'udienza per meglio articolare le proprie difese.

Il pubblico ministero, di cui è obbligatorio l'intervento nel processo, può impugnare la sentenza limitatamente agli interessi patrimoniali dei figli minori o legalmente incapaci (art. 5, comma 5, l. n. 898/70).

La sentenza resa a seguito di conclusioni comuni nell'ambito di un procedimento di divorzio originariamente contenzioso è assimilabile a quella intervenuta in un giudizio di divorzio congiunto, sicché non è impugnabile dai coniugi qualora il giudice abbia integralmente recepito le conclusioni. La sentenza è, invece, impugnabile ove le istanze formulate con le conclusioni siano state, in tutto o in parte, disattese (Cass. I, n. 18066/2014; Cass. I, n. 16909/2015).

B) Nel nuovo rito in materia di famiglia.

A differenza di quanto era disposto dalla l. n. 898/1970, l'appello (avverso le sentenze pubblicate dopo il 28 febbraio 2023) è dettagliatamente disciplinato dalla normativa introdotta con il d.lgs. n. 149/2022. L'appello è proposto con ricorso che deve mantenere le indicazioni previste dall'art. 342 c.p.c. Il procedimento si svolge con la notifica del ricorso al convenuto; con la sua costituzione in giudizio mediante comparsa; con l'intervento del P.M. che deposita le proprie conclusioni prima dell'udienza; con la discussione davanti al collegio di appello; con il trattenimento della causa in decisione e con il deposito della sentenza nei sessanta giorni successivi all'udienza.

Ricorso a domanda congiunta

La normativa introdotta dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, riprende senza importanti modifiche la precedente disciplina dettata dall'ultimo comma dell'art. 4, l. n. 898/1970 a proposito del divorzio a domanda congiunta. L'art. 4 (ancora applicabile ai procedimenti pendenti alli 28 febbraio 2023) dispone che la domanda congiunta indichi (anche) compiutamente le condizioni inerenti alla prole e ai rapporti economici; che la domanda è proposta al tribunale con ricorso in camera di consiglio; che il tribunale deve sentire i coniugi e verificare l'esistenza dei presupposti di legge e valutare la rispondenza delle condizioni all'interesse dei figli; che la decisione è assunta dal tribunale in composizione collegiale con sentenza; e che se le condizioni sono ritenute in contrasto con gli interessi dei figli il collegio deve fissare alle parti la data dell'udienza di comparizione davanti al giudice che nomina come giudice istruttore.  In questo modo l'accordo dei coniugi finalizzato a far cessare il vincolo coniugale dà origine a una procedura che si distingue, processualmente, da quella contenziosa perché l'intero procedimento si svolge in camera di consiglio, e si risolve in un'unica udienza, di verifica dell'intento e della ammissibilità delle condizioni scelte dai coniugi. La sostanziale ripresa della disciplina già vigente autorizza a ritenere tuttora utilizzabili le acquisizioni interpretative raggiunte dalla dottrina e dalla giurisprudenza ante riforma.

Il divorzio a domanda congiunta è il risultato di un accordo che i coniugi pongono in essere in ordine sia alla cessazione del rapporto matrimoniale, sia sulle condizioni economiche e relative alla prole, e  sottoposto, nella parte in cui incide su diritti indisponibili, alla verifica da parte del tribunale. Ad esso spetta verificare che l'intesa raggiunta non contrasti con norme inderogabili, e precipuamente con quelle sugli interessi della prole minorenne. A conferire efficacia all'accordo delle parti interviene comunque la pronuncia giudiziale, nella forma della sentenza.

Si ritiene il procedimento congiunto ammissibile soltanto se il tribunale debba limitarsi a controllare l'esistenza di presupposti e condizioni previsti dalla legge, quali risultino dagli atti di causa, e qualora l'accoglimento della domanda non implichi l'effettuazione di accertamenti ed indagini istruttorie per acclarare i presupposti o per determinare, anche parzialmente, le condizioni.

L'atto è a firma congiunta e in esso i coniugi, oltre ad esporre i presupposti che fondano la domanda di divorzio, cioè la ricorrenza in concreto di uno dei casi previsti dalla legge, devono anche «indicare compiutamente le condizioni inerenti alla prole e ai rapporti economici»; condizioni che, in caso di accoglimento della domanda, sono inserite nel dispositivo della sentenza di divorzio a regolazione dei rapporti futuri degli ex-coniugi. L'indicazione delle condizioni non è vincolante nel loro contenuto per i coniugi, nel senso che all'udienza di comparizione con il consenso di entrambi possono essere apportate modifiche che, inserite a verbale, vengono recepite in sentenza.

Come per il divorzio giudiziale, non è sufficiente che il ricorso contenga la domanda di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio in presenza di determinate circostanze di fatto, ma occorre anche che esso indichi a quale delle varie ipotesi tassativamente previste dalla l. n. 898/1970 si intende fare riferimento, nonché circoscrivere l'oggetto della domanda alle questioni riguardanti lo scioglimento del vincolo coniugale e le conseguenze che ne derivano sul piano dei rapporti economici e delle relazioni con gli eventuali figli.

E' richiesta l'assistenza di un difensore, che spesso nel ricorso a domanda congiunta assiste entrambi i coniugi, non sussistendo, per definizione,  contrapposizione di interessi e di posizioni processuali.

Il procedimento per divorzio a domanda congiunta è di competenza per materia del tribunale in composizione collegiale; la domanda congiunta può essere proposta al tribunale del luogo di residenza o di domicilio dell'uno o dell'altro coniuge (1° comma dell'art. 4 l. n. 898/1970; art. 473-bis.51 c.p.c.). La normativa lascia ai coniugi la scelta tra l'uno o l'altro foro.

La legittimazione ad agire spetta esclusivamente ai coniugi. I requisiti di capacità sono i medesimi della domanda contenziosa.

In ipotesi di errore, violenza o dolo a danno di una delle parti, a questa va riconosciuta la facoltà di chiedere l'annullamento del consenso, che si dimostri invalidamente prestato. Fatta eccezione per l'ipotesi di vizi del consenso, non viene ritenuta ammissibile la revocabilità «ad nutum» del consenso congiuntamente prestato, ad esempio fondata su una sopravvenuta diversa valutazione dell'opportunità di divorziare alle condizioni originariamente concordate: in caso di richiesta congiunta di divorzio è, infatti, da considerare inammissibile la rinuncia  unilaterale di uno dei due coniugi, potendo rinunciare alla domanda congiunta soltanto entrambe le parti, di comune accordo. È, infatti, prevalsa in giurisprudenza l'impostazione secondo la quale il potere di rinuncia alla domanda congiunta è esercitabile soltanto da entrambe le parti congiuntamente (Trib. Catania, 12 gennaio 2010, n. 110, in Dir e gius. 2010). Si è affermato che il tribunale deve prendere in esame la domanda di divorzio congiunta, anche risulta non più sorretta dal consenso di entrambi i coniugi al momento della decisione; a meno che non intervenga revoca congiunta di entrambi i ricorrenti (Trib. Lamezia Terme, 23 novembre 2010, Dir. e gius. online 2010).

La revoca del consenso da parte di uno dei coniugi non comporta l'improcedibilità della domanda, dovendo il tribunale provvedere ugualmente all'accertamento dei presupposti per la pronuncia richiesta, per poi procedere, in caso positivo della verifica, all'esame delle condizioni concordate tra i coniugi, valutandone la conformità a norme inderogabili ed agli interessi dei figli minori. Cass. VI, ord. n. 19540/2018 ha giustificato questo principio affermando che, a differenza da quanto avviene nel procedimento di separazione consensuale, la domanda congiunta di divorzio dà luogo ad un procedimento che si conclude con una sentenza costitutiva, nell'ambito del quale l'accordo sotteso alla relativa domanda riveste natura meramente ricognitiva, con riferimento alla sussistenza dei presupposti necessari per lo scioglimento del vincolo coniugale mentre ha valore negoziale per quanto concerne la prole ed i rapporti economici, consentendo al tribunale di intervenire su tali accordi nel caso in cui essi risultino contrari a norme inderogabili, con l'adozione di provvedimenti temporanei e urgenti e la prosecuzione del giudizio nelle forme contenziose. 

Nel caso, però, di domanda congiunta tra coniugi di diversa nazionalità, la valutazione della revocabilità, o meno, del consenso di uno dei coniugi alla domanda già presentata integra una questione preliminare, che deve essere esaminata alla stregua della legge processuale italiana (Cass. I, n. 8010/2004).

L'udienza di comparizione è collegiale ma, nella prassi, sovente viene delegata al giudice relatore e dunque si svolge in forma monocratica. L'udienza non è disciplinata nel dettaglio, se non mediante la prescrizione di sentire i coniugi. L'audizione, quindi, è congiunta, e si limita in concreto alla rituale domanda sull'esistenza o meno di una volontà di riconciliazione; all'udienza camerale possono essere apportate modifiche alle condizioni proposte in ricorso, dandone atto nel verbale d'udienza, in modo da recepire il consenso espresso di entrambi i coniugi.

La presenza di entrambi i coniugi all'udienza collegiale, per essere sentiti, non è ritenuta indispensabile da chi ritiene irrilevante la revoca del consenso già prestato, da parte di uno solo dei coniugi in sede di comparizione; negli altri casi è da ritenere necessaria la presenza personale dei ricorrenti, per la conferma della volontà già espressa con il ricorso introduttivo. Anche perché, mentre per il processo di divorzio contenzioso la comparizione personale dei coniugi davanti al presidente del Tribunale è prevista salvo il ricorrere di gravi e comprovati motivi, nella procedura a domanda congiunta si richiede semplicemente che essi siano sentiti, senza espresse deroghe. D'altronde, se è vero che la presenza dei coniugi serve per verificare fino all'ultimo momento che non sia intervenuta volontà di riconciliazione, è anche vero che per accertarlo è sufficiente che a dichiarare tale volontà compaia davanti al collegio uno solo dei coniugi, essendo in tal modo già esclusa la possibilità di riconciliazione, e non occorrendo la ripetizione del consenso al divorzio in udienza da parte dell'altro coniuge. Sul piano pratico la situazione è ritenuta ancor più tranquillizzante quando, come spesso accade, i coniugi sono assistiti da un solo difensore comune, che con la propria presenza all'udienza conferma la perdurante vigenza dell'intento comune di entrambi i coniugi di far cessare il vincolo matrimoniale. In alcuni casi può essere richiesto che le condizioni, per poter essere attribuibili con certezza al delegante, siano espressamente indicate nell'atto di conferimento dei poteri al procuratore speciale (Trib. Trapani, 11 giugno 2007, Giur. merito 2007, 12, 3203).

La decisione assume la forma della sentenza, con la quale il tribunale deve valutare la rispondenza delle condizioni pattuite nell'interesse dei figli, quando ve ne sono. In caso di accertamento negativo del predetto presupposto, nel sistema di cui alla l. n. 898/1970 il tribunale dispone la prosecuzione del giudizio, che si svolge secondo le formalità seguenti alla mancata conciliazione dei coniugi. Se, cioè, l'esito della verifica da parte del tribunale è negativo, perché le condizioni proposte non sono ammissibili in quanto contrastanti con l'interesse dei figli, la domanda non viene rigettata, ma il giudizio si trasforma in contenzioso: la norma dispone che si applica la procedura di cui al comma 8 del presente articolo. Quindi, il collegio pronuncia ordinanza con la quale dispone in tal senso, e il presidente provvede a dare i provvedimenti provvisori opportuni, nomina l'istruttore e fissa l'udienza di comparizione dei coniugi davanti a quest'ultimo. Nella disciplina subentrata, di cui al d.lgs. n. 149/2022, se gli accordi sono in contrasto con gli interessi dei figli (unico caso nel quale il giudice assume poteri d'ufficio) il collegio convoca le parti e indica loro le modificazioni da adottare; in caso di inidonea soluzione, rigetta allo stato la domanda. Il rigetto non è definitivo: la domanda può essere ripresentata.

A differenza da quanto disposto per il trattamento della prole, l'accordo raggiunto tra i coniugi in ordine ai rapporti patrimoniali tra loro non è suscettibile di sindacato trattandosi di diritti disponibili (Trib. Salerno I, 13 febbraio 2015, n. 658).

La sentenza contiene l'ordine di comunicazione all'ufficiale di stato civile del luogo ove il matrimonio fu trascritto per l'annotazione in calce all'atto di matrimonio.

A lungo si è discusso in ordine al possibile contenuto da considerare consentito negli accordi tra coniugi. In genere tra le parti sono state stabilite le condizioni di affidamento dei figli, i diritti di visita e i diritti di abitazione nella casa familiare (si veda Cass. I, ord. n. 5065/2021 per la disciplina pattizia delle modalità di corresponsione dell'assegno di mantenimento). Con una importante decisione le Sezioni Unite della Corte di cassazione avevano rimosso quello che appariva un ostacolo insormontabile alla validità delle pattuizioni se riferite a beni immobili. Esse hanno infatti affermato che le clausole dell'accordo di separazione consensuale o di divorzio a domanda congiunta, che riconoscano ad uno o ad entrambi i coniugi la proprietà esclusiva di beni - mobili o immobili - o la titolarità di altri diritti reali, ovvero ne operino il trasferimento a favore di uno di essi o dei figli al fine di assicurarne il mantenimento, sono valide in quanto il predetto accordo, inserito nel verbale di udienza redatto da un ausiliario del giudice e destinato a far fede di ciò che in esso è stato attestato, assume forma di atto pubblico ex art. 2699 c.c. e, ove implichi il trasferimento di diritti reali immobiliari, costituisce, dopo il decreto di omologazione della separazione o la sentenza di divorzio, valido titolo per la trascrizione ex art. 2657 c.c., purché risulti l'attestazione del cancelliere che le parti abbiano prodotto gli atti e rese le dichiarazioni di cui all'art. 29, comma 1-bis, della l. n. 52/1985, come introdotto dall'art. 19, comma 14, del d.l. n. 78 del 2010, conv., con modif., dalla l. n. 122/2010, restando invece irrilevante l'ulteriore verifica circa gli intestatari catastali dei beni e la loro conformità con le risultanze dei registri immobiliari (Cass. S.U. n. 21761/2021). Sul punto si erano già verificate convergenze in senso favorevole all'ammissione ma ancora non risolutive. Si veda ad esempio Cass. III, ord. n. 15169/2022 per la quale l'accordo tra coniugi avente ad oggetto un trasferimento immobiliare, nell'ambito di un procedimento di divorzio a domanda congiunta, è soggetto alle ordinarie impugnative negoziali a tutela delle parti o di terzi, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza che lo recepisce, spiegando quest'ultima efficacia meramente dichiarativa, come tale non incidente sulla natura di atto contrattuale privato del suddetto accordo. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza che aveva dichiarato inammissibili le domande di simulazione e revocatoria proposte avverso un accordo implicante un trasferimento immobiliare, ritenendo che lo stesso, una volta confluito nella sentenza di divorzio passata in giudicato, dovesse essere impugnato con l'opposizione di terzo revocatoria).

I principi enucleati dalla giurisprudenza sono stati recepiti dalla normativa introdotta con il d.lgs. n. 149/2022, di riforma del processo civile a quale contiene attualmente l'espresso riconoscimento del potere attribuito ai coniugi di regolamentare, in tutto o in parte, i loro rapporti patrimoniali. La disposizione in tal senso, dettata dall'art. 473-bis.51, comma secondo, pone termine a dubbi dottrinari e giurisprudenziali relativi alla legittimità dell'inserimento nel verbale di divorzio anche di accordi traslativi del diritto di proprietà su beni immobili

Sotto il profilo processuale si  è ripetutamente affermato che le statuizioni regolanti gli aspetti economico-patrimoniali tra coniugi incidono nell'area dei diritti “a disponibilità attenuata” e che essi soggiacciono alle regole processuali ordinarie; ne deriva il corollario del limite invalicabile della domanda in quanto presuppongono l'iniziativa della parte interessata e l'indicazione, a pena di inammissibilità, del petitum richiesto al giudice, potendo configurarsi come diritto indisponibile solo quello relativo alla parte del contributo economico connotata da finalità assistenziale (Cass. I, ord. n. 11795/2021).

Bibliografia

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