Codice Civile art. 215 - Separazione dei beni (1).Separazione dei beni (1). [I]. I coniugi possono convenire che ciascuno di essi conservi la titolarità esclusiva dei beni acquistati durante il matrimonio [162 2]. (1) Articolo così sostituito dall'art. 83 l. 19 maggio 1975, n. 151. L'art. 82 della stessa legge, ha modificato l'intitolazione di questa Sezione. InquadramentoL'art. 215 disciplina il regime di separazione dei beni, in virtù del quale i coniugi conservano la titolarità esclusiva dei beni acquistati durante il matrimonio. La separazione del beni rappresenta un regime convenzionale, perché deve essere necessariamente scelto dai coniugi con apposita convenzione da annotarsi nell'atto di matrimonio; in mancanza, com'è noto, si instaura ope legis la comunione legale (artt. 177 ss. c.c.). Sebbene il regime di separazione sia alternativo e sussidiario alla comunione legale, va segnalata negli ultimi decenni la tendenza delle famiglie di nuova costituzione a regolare il loro regime patrimoniale proprio secondo la separazione dei beni. Tale tendenza si spiega con l'intolleranza dei coniugi alla rigidità delle regole dell'amministrazione dei beni comuni, al regime di responsabilità per le obbligazioni contratte da un solo coniuge che può recare nocumento patrimoniale parziale anche all'altro; ed agli effetti patrimoniali svantaggiosi che ne derivano al momento dello scioglimento causato dalla disgregazione del vincolo coniugale (basti pensare alla comunione de residuo per cui un coniuge sarà costretto a dividere i frutti e proventi della sua attività separata, esistenti e non consumati, con una persona verso la quale nutre il rancore e l'acredine che tipicamente segnano la fine dei legami sentimentali). Va segnalato che dal 2014 a seguito dell'introduzione della normativa sugli accordi extragiudiziali in tema di separazione e divorzio, sono stati definiti presso gli Uffici di stato civile 27.040 divorzi (pari al 32,8% dei divorzi del 2015) e 17.668 separazioni (19,3% delle separazioni). La durata media del matrimonio al momento della separazione è di circa 17 anni. Negli ultimi vent'anni è raddoppiata la quota delle separazioni dei matrimoni di lunga durata, passando dall'11,3% del 1995 al 23,5% (fonte ISTAT). Appare evidente che l'affermarsi del trend della «fuga» dal matrimonio esprima connaturatamente l'esigenza dei coniugi di adottare accorgimenti per liberarsi più agevolmente dal vincolo coniugale e senza strascichi patrimoniali; di qui la scelta per la separazione dei beni che assolve a questo scopo. Il mutamento dei costumi sociali, per il quale si è attualmente portati a disgregare i nuclei familiari originari con la stessa facilità con cui se ne creano di nuovi, come rilevano i dati ISTAT, imporrebbe una rimeditazione del legislatore circa l'opportunità di mantenere in vita la disciplina codicistica vigente, la cui introduzione risale alla legge n. 151/1975, animata da valori e principi che la società moderna pare non condividere più; un primo passo in questo senso potrebbe essere de iure condendo proprio la sostituzione della comunione legale con la separazione dei beni quale regime legale automatico in mancanza di diversa dichiarazione; infatti, dal momento che il numero di applicazioni dell'eccezione (la separazione dei beni), ha superato la regola (comunione legale), il legislatore non può ignorare tale nuova istanza sociale, ma dovrebbe recepirla e tradurla in provvedimenti normativi. In occasione del varo della legge sulle unioni civili e convivenze di fatto, l. n. 76/2016, tuttavia, il legislatore non è intervenuto in tal senso, richiamando, anzi, nel comma 13 dell'art. 1, la disciplina codicistica sul regime patrimoniale dei coniugi, confermando che la regola è costituita dalla comunione legale dei coniugi in assenza di convenzione matrimoniale istitutiva del regime di separazione dei beni, Considerazioni generali.La disciplina giuridica della separazione dei beni è costituita da quattro disposizioni che ricalcano, per grandi linee, quella previgente dei beni parafernali, ossia dei beni separati di proprietà della moglie che non venivano costituiti in patrimonio familiare, in dote o in comunione (per un commento sulla disciplina dei beni parafernali cfr. Tedeschi, 280 ss.). Lo statuto della separazione dei beni consiste nella conservazione in capo a ciascun coniuge della titolarità esclusiva dei beni acquistati durante il matrimonio e dei relativi frutti. Si tratta del regime patrimoniale contrapposto alla comunione legale (Maiorca, 77) di cui rappresenta l'unica alternativa nell'ambito dei regimi patrimoniali tipici (Valignani, 623 che nega autonomia giuridica alla comunione convenzionale ritenendo che costituisca un adattamento dell'oggetto della comunione legale alle esigenze dei coniugi). Al pari della comunione legale, infatti, la separazione dei beni è un regime completo, compiutamente disciplinato dal legislatore e compatibile con altri regimi patrimoniali tipizzati, come la costituzione di un fondo patrimoniale, o la disciplina dell'impresa familiare (Bruscuglia-Gorgoni, 513; Galletta, 436; Zaccaria, 357, Tatarano-Capobianco, 530; Sesta-Valignani, 473, secondo cui la separazione dei beni si applicherebbe a tutti i beni non costituiti in fondo patrimoniale e rimasti estranei allo svolgimento dell'attività imprenditoriale); si caratterizza inoltre per la sua portata generale, trovando applicazione indistintamente a tutti i beni acquistati dai coniugi, a differenza della comunione legale da cui ne sono espressamente esclusi quelli elencati nell'art. 179 c.c. (Valignani, 471; Galletta, 435). È un regime patrimoniale «sussidiario» alla comunione legale, perché la sostituisce automaticamente ope legis nel momento in cui si scioglie (Cattaneo, 418). Si sostiene che il regime di separazione dei beni si applichi anche ai beni personali di cui è titolare ciascun coniuge in regime di comunione legale (art. 179 c.c.) in considerazione del richiamo dell'art. 217 c.c. all'art. 185 c.c.; ma questo rilievo è parzialmente sconfessato dalla dottrina maggioritaria che ritiene che su tali beni si instauri, in realtà, un regime di separazione «temperata» (Cattaneo, 419, Cavallaro, 56, Bruscuglia-Gorgoni, 483, Sesta-Valignani, 471, Galasso, 601; Giusti, 1443), rilevandone alcune deviazioni disciplinari dalla separazione «pura», con riferimento ai frutti, che non rimangono in proprietà del titolare ma ricadranno in comunione de residuo al momento dello scioglimento della comunione, ed alla facoltà per i creditori della comunione di aggredirli, ancorchè sussidiariamente all'esecuzione infruttuosa dei beni in comunione, e nei limiti della metà del credito (art. 190 c.c.). A cagione delle peculiarità del regime di separazione dei beni, secondo cui ciascun coniuge mantiene la titolarità i beni acquisiti dopo il matrimonio, parte della dottrina ritiene che si tratti di un «non regime» dal momento che per effetto di tale scelta i beni personali di ciascun coniuge sono soggetti alle regole comuni dettate dal codice civile in materia di proprietà; e gli artt. 217,218 e 219 c.c., lungi dal costituire la disciplina di un regime patrimoniale, si limitano a risolvere i conflitti che dalla separazione possono scaturire (Russo, 76; Corsi, 60; Zaccaria, 359). La dottrina maggioritaria, invece, attribuisce alla separazione dei beni la dignità giuridica di regime patrimoniale completo ed autonomo (Cattaneo, 415; Perego, 1; Tatarano-Capobianco, 530; Gabrielli-Cubeddu, 307; Bruscuglia-Gorgoni, 486; Sesta-Valignani, 468; Galasso, 600; Pittalis, 666; Cavallaro, 58), segnalando che i diritti, facoltà e poteri connessi intrinsecamente al diritto di proprietà (art. 832 ss. c.c.) sui beni in capo a ciascun coniuge risultano integrati ope legis dalla disciplina degli artt. 217 e 218 c.c., che ricalcano rispettivamente quelle del mandato e dell'usufrutto, da una disposizione particolare ed innovativa in materia di onere probatorio nei giudizi di rivendica (art. 219 c.c.) e soprattutto non escludono l'obbligo di ogni coniuge di dover impiegare parte dei frutti e proventi dei suoi beni personali per la contribuzione ai doveri di solidarietà familiare sanciti nell'art. 143 comma 3 c.c., che costituisce una norma imperativa ed inderogabile, in quanto espressione del principio costituzionale della uguaglianza dei coniugi nella famiglia ex art. 29 Cost. (ex multis, Sesta-Valignani, 464; Tatarano-Capobianco, 535; Giusti, 1439). Sul punto, si segnala l'interessante opinione dottrinale secondo cui l'art. 143 comma 3 c.c. rappresenta la disciplina del « regime patrimoniale primario » che deriva automaticamente dalla contrazione del matrimonio, cui si affianca il regime patrimoniale « secondario » prescelto dai coniugi, che sia comunione o separazione dei beni (ex multis Cavallaro, 159 ss.). In conclusione il regime di separazione dei beni deve essere coordinato con gli obblighi e doveri scaturenti dal matrimonio (art. 143 c.c.), per cui il mantenimento della proprietà esclusiva dei beni non esime il coniuge dal destinarne almeno una parte alla contribuzione degli obblighi di mantenimento del coniuge (se non possiede redditi propri) e della prole (Auletta, 129). Questo condivisibile assunto pone però un interrogativo di estrema importanza per le possibili ricadute pratiche: su chi ricade la responsabilità per le obbligazioni contratte da un coniuge nell'interesse della famiglia? Dovrà risponderne lui personalmente con i propri beni secondo le regole generali della separazione dei beni? O può ammettersi la responsabilità concorsuale dell'altro coniuge per l'adempimento di tali obbligazioni, dal momento che ne trae vantaggio? (cfr. Giusti, 1438 ss.; Cattaneo, 429; Bruscuglia-Gorgoni, 494; Sesta-Valignani, 536; Galasso, 608 ss.; Oberto, 153 ss.). Il problema si pone in virtù dell'assenza di una regolamentazione normativa; il legislatore della riforma si è premurato di stabilire che ciascun coniuge in regime di separazione dei beni abbia la titolarità esclusiva del diritto di proprietà, del godimento e dell'amministrazione dei beni che acquista; ma tace sul regime di responsabilità per le obbligazioni assunte verso terzi, a differenza di come ha operato con riferimento al regime di comunione legale, dettando una disciplina ad hoc negli artt. da 186 a 190 c.c. che comprende e regola anche la responsabilità per le obbligazioni personali assunte da un coniuge addirittura prima del matrimonio (art. 189 c.c.). Si potrà obiettare che la previsione della disciplina degli artt. 186-190 c.c. si è resa necessaria per la presenza di un patrimonio comune che si forma dopo il matrimonio, così da regolare e precisare in che misura questo patrimonio debba rispondere delle obbligazioni contratte dai coniugi o da uno di essi per l'interesse della famiglia e di quelle contratte separatamente da un coniuge per bisogni estranei a quelli familiari, mentre, diversamente, il legislatore non ha avvertito tale l'esigenza con riferimento alla separazione dei beni che non prevede la formazione di un patrimonio esterno a quelli personali dei coniugi. Fatta questa premessa, la suggestione lanciata da parte della dottrina mira a postulare, pur in difetto di normazione, l'esistenza di una responsabilità solidale per le obbligazioni assunte da un coniuge nell'interesse della famiglia, in attuazione del reciproco dovere di contribuzione ai bisogni della famiglia, che è immanente alla nascita del vincolo coniugale e si pone quale obbligo economico primario dei coniugi a prescindere dal regime patrimoniale prescelto. La questione era stata risolta positivamente nell'ambito della disciplina originaria del codice civile, che, ispirandosi alla potestà maritale risalente al vecchio codice del 1865, attribuiva esclusivamente al marito il compito di stabilire l'indirizzo familiare e di agire e contrarre obbligazioni nell'interesse della famiglia; di conseguenza era stata profilata tanto in dottrina quanto in giurisprudenza la responsabilità esclusiva del marito per le obbligazioni assunte dalla moglie nell'esercizio del c.d. potere domestico, il cui fondamento era stato rinvenuto nella rappresentanza legale o in un mandato tacito conferito alla moglie (per la ricostruzione dottrinaria e giurisprudenziale sulla questione affronta in vigenza del codice civile originario cfr. Oberto, 153 ss.). Durante i lavori preparatori alla riforma del diritto di famiglia, il problema della configurazione della responsabilità solidale dei coniugi in regime di separazione dei beni per le obbligazioni contratte singolarmente nell'interesse della famiglia fu affrontato ed ottenne una risposta positiva nell'art. 60 del progetto Lotti che la affermava espressamente. Questo progetto fu abbandonato e la norma non è stata riprodotta nel testo finale della l. n. 151/1975; cosicché la questione è rimasta priva di regolamentazione, a differenza degli ordinamenti giuridici di altri paesi europei ove la responsabilità solidale dei coniugi per le obbligazioni assunte nell'interesse della famiglia ha trovato pieno ingresso (art. 220 del code civil francese). Come si è anticipato, la dottrina si è interrogata sulla possibilità di pervenire a questo risultato, pur in assenza di una previsione normativa, muovendo dalla natura familiare dell'obbligazione assunta. Si postula che il dovere reciproco di contribuzione ex art. 143 c.c. debba essere coordinato con le altre norme che rappresentano lo statuto normativo primario e fondamentale dei diritti e doveri che discendono dal matrimonio ed in particolare con l'artt. 144 c.c. che al comma 1 pone su entrambi il dovere di concordare l'indirizzo familiare ed al comma 2 accorda a ciascuno dei due il compito di attuare l'indirizzo programmato. Ebbene, nell'ambito della programmazione dell'indirizzo familiare i coniugi devono decidere insieme gli acquisti che sono necessari per i bisogni della prole, ed allorché uno dei due vi provvederà, contraendo la relativa obbligazione, avrà semplicemente dato attuazione all'indirizzo concordato, e ciò gli attribuirà il diritto di chiedere all'altro il rimborso della metà del costo sostenuto quale contributo pro quota per il soddisfacimento dell'interesse della famiglia che è imposto a carico di entrambi dall'art. 143 comma 3 c.c. (Falzea 609 ss.). La maggioranza degli autori risponde però negativamente sulla base di diverse motivazioni: si afferma che la natura o lo scopo dell'obbligazione non può derogare al principio della relatività degli effetti del contratto sancito dall'art. 1372 comma 1 c.c., salvo che il terzo creditore possa essere stato indotto da circostanze oggettive a ritenere che il coniuge contraente avesse stipulato l'atto anche in rappresentanza dell'altro (Cattaneo, 429; Oberto, 182; Galasso, 610); inoltre, secondo lo scrivente, la suggestiva tesi sopra riportata poggia su basi argomentative troppo fragili, che la rendono suscettibile di venire totalmente ribaltata nell'applicazione pratica: si pensi infatti all'ipotesi in cui i coniugi, in fase di programmazione dell'indirizzo della vita familiare, decidano di concordare la ripartizione delle spese da sostenere nell'interesse della famiglia (ad es. uno paga tutte le utenze della casa familiare, mentre l'altro sopporta i costi scolastici della prole), conseguendone che nel momento in cui ciascuno dei due darà attuazione all'indirizzo familiare ex art. 144 comma 2 c.c. contraendo le relative obbligazioni, non avrà titolo per pretenderne il rimborso pro quota dall'altro, potendo invece confidare che anche quest'ultimo ottemperi all'indirizzo concordato compiendo gli acquisti o sostenendo le spese che si è volontariamente accollato. Certo non può escludersi che vi sia un accordo per la ripartizione paritaria di spese di elevato importo, come le spese sanitarie o scolastiche straordinarie dei figli; ma anche in questo caso è inconfigurabile una obbligazione solidale nel senso tecnico — giuridico attribuitale nell'art. 1292 c.c.; laddove uno dei coniugi assuma l'iniziativa di attuazione dell'indirizzo concordato ed assuma l'obbligazione nei confronti del terzo, ne sarà l'unico responsabile; la richiesta di pagamento formulata dal terzo creditore al coniuge del contraente sarebbe priva di qualsiasi fondamento, perché non è parte del contratto da cui è scaturita l'obbligazione; il terzo è abilitato a pretendere il pagamento nei confronti del solo coniuge contraente; sarà costui poi a doverne richiedere il rimborso per metà all'altro secondo gli accordi pregressi, che assumono quindi rilevanza esclusivamente interna. La tesi della responsabilità solidale dei coniugi per le obbligazioni contratte da un solo coniuge nell'interesse della famiglia è sconfessata dalla giurisprudenza di legittimità, che la esclude, salva l'ipotesi dell'affidamento del creditore che abbia ragionevolmente confidato nell'apparente realtà giuridica, desumibile dallo stato di fatto, che il coniuge contraente agisse anche in nome e per conto dell'altro (Cass. n. 10116/15). Nel caso di specie la S.C. ha accolto la domanda della collaboratrice domestica di pagamento delle spettanze retributive ancora dovutale, condannando solidalmente entrambi i coniugi. La responsabilità solidale a fronte di un'obbligazione assunta soltanto dalla moglie è stata configurata proprio sulla base del legittimo affidamento, poiché il marito era solito versarle la paga periodica, così ingenerando in lei la convinzione che fosse il suo datore di lavoro effettivo. Tale principio di diritto è stato enunciato già nella sentenza Cass. n. 3471/2007 ove addirittura la S.C. postula l'inconfigurabilità della responsabilità solidale dei coniugi per le obbligazioni contratte da uno solo nell'interesse della famiglia, ancorchè i coniugi siano in regime di comunione legale, ostandovi il principio di relatività del contratto ex art. 1372 c.c., ma fatto sempre salvo il principio di affidamento del terzo nel senso sopra descritto (conformi a tale principio anche Cass. n. 19947/2004; Cass. n. 5487/1999; Cass. n. 5063/1992) Costituzione e cessazione della separazione dei beniLa costituzione della separazione dei beni può essere convenzionale o legale. La prima avviene per effetto della stipula di una convenzione matrimoniale ai sensi del combinato disposto degli artt. 215 e 162 comma 2 e 3 c.c., in ogni tempo, quindi anche anteriormente e successivamente al matrimonio. La convenzione matrimoniale di adozione del regime di separazione dei beni dopo il matrimonio costituisce simultaneamente causa di scioglimento della comunione legale ai sensi dell'art. 191 c.c. La convenzione matrimoniale deve essere stipulata per atto pubblico notarile ai sensi dell'art. 162 comma 1 e comma 4 c.c. e 34-bis disp att. c.c. (Cattaneo, 418; Zaccaria, 2007, 360). È discussa in dottrina la natura giuridica di tale convenzione familiare. Secondo alcuni non si tratterebbe di un atto negoziale bilaterale, ma di un atto giuridico in senso stretto, poiché gli effetti sono scaturiti e stabiliti dalla legge (applicazione degli artt. da 217 a 219 c.c.) (in tal senso Russo, 79); secondo altra parte della dottrina, invece, la convenzione in parola possiederebbe natura negoziale al pari delle altre convenzioni matrimoniali, come quella istitutiva di una comunione con oggetto convenzionale o di un fondo patrimoniale (Cavallaro, 17 ss.; Bruscuglia-Gorgoni, 521; Oberto, 38 ss.), in considerazione della derogabilità delle norme che ne costituiscono la disciplina giuridica, ivi compreso l'art. 219 c.c. (al cui commento si rinvia per la disquisizione sulla derogabilità dei criteri stabiliti nei due commi di cui si compone). Sul punto val la pena di osservare che alcuna delle norme degli artt. 215 ss. prevede espressamente la inderogabilità del loro contenuto a differenza di quanto sancisce l'art. 210 comma 3 c.c. nell'ambito della comunione legale tra coniugi; ciò induce a ritenere che le parti possano derogarvi regolando gli effetti della separazione in modo più consono alle proprie esigenze ed intendimenti. Naturalmente, ai fini della stipula della convenzione costitutiva del regime di separazione dei beni (se antecedente al matrimonio) o di mutamento del regime di comunione legale in separazione dei beni (se successiva al matrimonio), le parti devono possedere i requisiti di capacità comuni a tutte le convenzioni matrimoniali, indicati negli artt. 163, comma 2, 165 e 166 c.c. Pertanto, mentre l'interdetto giudiziale, che non può contrarre matrimonio (art. 85 c.c.), non può stipulare convenzioni matrimoniali, l'interdetto legale, cui invece il matrimonio non è precluso, può stipulare la convenzione in parola mediante gli organi di rappresentanza; lo stesso principio vale per i minori emancipati ed gli inabilitati, che dovranno essere assistiti dal curatore (Cavallaro, 175; Oberto, 59 i quali suggeriscono l'applicazione analogica di tali istituti anche al coniuge incapace in cui favore è stato nominato un amministratore di sostegno che dovrebbe assisterlo nella stipula di convenzione della separazione dei beni, sempreché l'amministratore sia persona diversa dal coniuge e non in conflitto di interessi; in tali ultimi casi uno dei coniugi può richiedere al giudice tutelare la nomina di un curatore speciale per il compimento dell'atto). Nella convenzione matrimoniale costitutiva, è sufficiente la dichiarazione dei coniugi di optare per il regime della separazione dei beni affinché ne operino gli effetti e la disciplina giuridica che sono previsti dalla legge, a differenza delle altre convenzioni matrimoniali, come l'atto costitutivo del fondo patrimoniale o la comunione con oggetto convenzionale, in cui i coniugi devono indicare espressamente i beni che vi ricadono. È sufficiente anche una dichiarazione «negativa» dei coniugi — di non voler più che i loro rapporti sia regolati dalla comunione — a rendere immediatamente operativo il regime della separazione; ciò in considerazione della sua tipicità e sussidiarietà rispetto al regime legale (Cattaneo, 423; Zaccaria, 363). Questi rilievi corroborano la tesi secondo cui la convenzione costitutiva della separazione dei beni non ha natura negoziale, ma costituisce un atto giuridico in senso stretto, i cui effetti sono predeterminati dalla legge e non negoziabili, come il matrimonio, che è un negozio di diritto familiare in relazione al quale i coniugi sono chiamati ed esprimere la dichiarazione di consenso di unirsi in matrimonio con assoggettamento alla disciplina imperativa degli art. 143 ss. c.c. La tesi è abiurata dalla dottrina maggioritaria, e soprattutto non trova riscontro nella pratica, dovendosi segnalare la posizione di diversi autori che ammettono la possibilità per i coniugi di aggiungere patti e clausole nella convenzione costitutiva della separazione dei beni, alcune delle quali sono tuttora oggetto di profonde riflessioni. Si pensi alla clausola con cui i coniugi ripartiscono in misura diseguale la contribuzione ai bisogni della famiglia in adempimento dell'obbligo di cui all'art. 143 c.c. Non varrebbe obiettare, per contestarne la validità, che la disposizione dell'art. 143 comma 3 c.c. costituisce una norma imperativa ed inderogabile, in quanto espressione del principio costituzionale di uguaglianza giuridica dei coniugi ex art. 29 Cost., perché il suo contenuto è generico, e lascia quindi ai coniugi il compito di colmarne il vuoto. Infatti, l'art. 143 comma 3 c.c. si limita ad enunciare il principio secondo cui ciascun coniuge è tenuto a contribuire ai bisogni della famiglia in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, spettando quindi proprio ai coniugi in fase attuativa determinare in che modo ed in che misura ciascuno può contribuire alle esigenze familiari; ed all'esito di tale programmazione si potrà convenire che uno dei due apporti un contributo economico minore rispetto all'altro. La inderogabilità della norma si esprimerebbe, secondo questa interpretazione, soltanto nel sanzionare la nullità dell'accordo in base al quale uno dei coniugi sia del tutto esonerato dal contribuire ai bisogni della famiglia. I fautori di quest'impostazione richiamano il precedente normativo costituito dall'art. 211 c.c. nella versione originaria del codice civile che prevedeva che la moglie che possedesse beni parafernali dovesse contribuire ai pesi del matrimonio nella misura stabilita nelle convenzioni matrimoniali o in mancanza secondo quanto disposto dall'art. 148 c.c. e sostengono che tale norma, nonostante l'abrogazione del testo dell'articolo in cui era contenuta, sia valida anche dopo la riforma del diritto di famiglia del '75 e potrebbe trovare applicazione pratica proprio in occasione della stipula di una convenzione istitutiva del regime di separazione dei beni (Perego, 3; Cattaneo, 425; Giusti, 1442; Santosuosso, 345; Bruscuglia-Gorgoni, 521; Oberto, 75; Sesta-Valignani, 475; Tatarano-Capobianco, 539). Si ritiene comunemente che i coniugi possano inserire nella convenzione costitutiva del regime di separazione dei beni sia un termine che una condizione (Tedeschi, 42; Giusti, 1444; Cattaneo, 424; Sesta-Valignani, 476), che naturalmente saranno opponibili ai terzi solo a seguito dell'annotazione della convenzione nel registro degli atti di matrimonio (Zaccaria, 363). Tra i patti e le clausole aggiunte si può anche prevedere la procura rilasciata da un coniuge all'altro di amministrarne i suoi beni personali, ma parte della dottrina rileva che se detta procura viene disposta come esclusiva ed irrevocabile potrebbe costituire lo strumento per aggirare il divieto della costituzione di beni in dote di un coniuge, previsto nell'art. 166-bis c.c. (Sesta, 476; Sesta-Valignani, 540). È nulla senza ombra di dubbio la clausola con cui un coniuge dispone l'attribuzione della proprietà dei suoi beni all'altro in caso di premorienza, perché integra un patto successorio vietato dall'art. 458 c.c. (Bruscuglia-Gorgoni, 541; Zaccaria, 560). Altro problema sollevato in dottrina attiene alla natura, qualificazione giuridica e disciplina applicabile alla clausola, sicuramente valida, con cui i coniugi optano per il regime della separazione dei beni, escludendone però alcune categorie di beni, su cui automaticamente si instaurerà la comunione legale. Alcuni autori, che ammettono la configurabilità di regimi patrimoniali atipici che si affiancano ai due tipizzati, sostengono che si tratti di un regime di separazione parziale (Cattaneo, 424; Maiorca, 424); in senso diverso si esprime la dottrina maggioritaria, che ritiene si tratti di un regime di comunione legale convenzionale ai sensi dell'art. 210 c.c. (Oberto, 73). Si rileva, ancora, che le clausole e patti aggiunti al regime di separazione dei beni devono necessariamente essere consacrati in una convenzione matrimoniale ex art. 162 c.c., come tali redatte per iscritto con atto notarile che dovrà essere annotata nell'atto di matrimonio. Ne consegue che se i coniugi dichiarano all'atto di celebrazione del matrimonio all'ufficiale di stato civile di adottare il regime di separazione dei beni, ne accetteranno la disciplina e gli effetti tout cour; ove intendano integrarla o modificarla con patti e clausole aggiuntive, dovranno successivamente stipulare una convenzione matrimoniale con atto notarile (Oberto, 52; Sesta-Valignani, 479; Bruscuglia-Gorgoni, 525). Ad inizio paragrafo si è evidenziato che l'instaurazione del regime di separazione dei beni può avvenire anche automaticamente, ope legis. Ciò avviene quando si verifica una causa di scioglimento della comunione legale ex art. 191 c.c., che non presuppone lo scioglimento del vincolo coniugale (quindi, interdizione, inabilitazione, fallimento, scomparsa di un coniuge; diversa considerazione merita lo scioglimento della comunione per effetto di convenzioni matrimoniali con cui si opta per il regime di separazione dei beni o per una comunione convenzionale, dovendo trovare applicazione la disciplina prescelta dei coniugi nella predetta convenzione. Ugualmente il problema non si pone se la comunione si scioglie per il venir meno del vincolo coniugale per effetto di divorzio o annullamento del matrimonio, perché i beni che ricadono in comunione, ivi compresi quelli che costituiscono la comunione de residuo, verranno divisi ai sensi degli artt. 192 ss. c.c. e ciascun coniuge diventerà poi proprietario esclusivo dei beni che gli spetteranno). È questo il motivo per cui diverse volte in queste pagine si è accennato alla natura sussidiaria della separazione dei beni rispetto al regime legale di comunione. In realtà, si discute in dottrina (Oberto, 30; Maiorca, 78; Sesta-Valignani, 481; Bruscuglia-Gorgoni, 516; Giusti, 1445) se al verificarsi della causa di scioglimento della comunione legale si instauri automaticamente il regime di separazione dei beni puro oppure si verifichi una situazione di assenza di regime che viene colmato dalle regole codicistiche ordinarie in materia di proprietà. La questione non è teorica ma presenta degli importi risvolti in ordine alla disciplina applicabile: se, infatti, si ritiene che si applichi il regime di separazione dei beni, troveranno applicazione anche le norme degli artt. 217,218 e 219 c.c.; diversamente se si opta per l'assenza di regime, l'acquisto e l'amministrazione di beni saranno regolati dalle norme codicistiche ordinarie in materia di proprietà. Tralasciando le ipotesi di morte reale o presunta di un coniuge, per cui le disposizioni del regime legale di comunione dovranno coordinarsi con quelle relative all'apertura dell'eredità del coniuge premorto, negli altri casi le posizioni della dottrina sono divise: in caso di dichiarazione di assenza alcuni autori postulano l'instaurazione della separazione dei beni, con applicazione degli artt. 217 e 218 c.c. (Zaccaria, 559); altri, invece, propendono per l'assenza di regime che viene colmata con la disciplina ad hoc prevista dal codice (artt. 52 ss. c.c.) che ha lo scopo di anticipare gli effetti della morte della persona sul piano dei rapporti patrimoniali (Cavallaro, 46). Anche per la separazione personale dei coniugi (che non estingue il vincolo coniugale) la dottrina è divisa tra le due posizioni esaminate. Lo scrivente ritiene che il venir meno della convivenza e dell'affectio coniugalis per effetto della separazione, sia incompatibile con l'applicazione degli artt. 217 e 218 c.c., per cui si creerà un'assenza di regime che sarà colmata dalle regole ordinarie, ricavandosene che i beni acquistati singolarmente da ciascun coniuge rientreranno nella loro proprietà esclusiva con conseguente espansione del diritto di amministrarli liberamente e di goderne individualmente dei frutti. In questo caso si determina comunque una separazione dei beni, ma non da intendersi quale regime patrimoniale tipico ex art. 215 ss. ma quale conseguenza naturale del venir meno del regime di comunione legale. Ne consegue che anche i conflitti tra coniugi afferenti all'amministrazione invito domine dei beni di uno ad opera dell'altro ed alla percezione da parte di uno di frutti prodotti dai beni personali dell'altro, dopo la separazione, saranno risolti e definiti secondo la disciplina codicistica ordinaria e non secondo il disposto degli artt. 217 comma 4 c.c. e 218 c.c. Fa eccezione a questo discorso l'art. 219 c.c. che, a prescindere dall'adesione all'una o all'altra delle tesi prospettate, pone un principio generalissimo in ambito probatorio destinato ad applicarsi sempre e comunque nei giudizi di rivendica tra coniugi ed ex coniugi. Diversamente, lo scrivente ritiene che per tutte le altre cause di scioglimento della comunione legale, che presuppongano sia il mantenimento formale del vincolo coniugale, sia la convivenza, sia l'affectio conugalis (ad es. interdizione o fallimento), si instauri automaticamente il regime di separazione dei beni con applicazione della relativa disciplina giuridica (artt. 217 — 219 c.c.). Passando infine all'estinzione del regime di separazione dei beni, occorre osservare preliminarmente che non esiste nell'ambito della disciplina dedicata a questo regime patrimoniale una norma corrispondente all'art. 191 c.c. Questa lacuna può essere considerata un argomento normativo a supporto della tesi secondo cui con lo scioglimento della comunione legale si instauri automaticamente il regime di separazione dei beni e non un'assenza di regime; infatti, quest'omissione può essere interpretata come una scelta ponderata del legislatore, che ha inteso non intervenire dal momento che se i coniugi hanno operato ab origine per la separazione dei beni, tale regime continuerà a regolarne i rapporti nel momento in cui dovesse verificarsi une delle cause dell'art. 191 c.c.; è innegabile infatti che in caso di fallimento o di dichiarazione di interdizione, ad es., di un coniuge coniugato in regime di separazione dei beni, continui a trovare applicazione la disciplina sul mandato e sull'usufrutto contenute negli artt. 217 e 218 c.c., in disparte poi l'art. 219 c.c. che esprime un principio generale di risoluzione dei conflitti tra i coniugi destinato a trovare sempre applicazione. I fautori della tesi secondo cui al verificarsi di una delle cause di scioglimento della comunione legale ex art. 191 c.c. che presuppongono la cessazione della convivenza (quindi dichiarazione di assenza o di morte presunta, separazione dei coniugi, l'annullamento del matrimonio, pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio o di scioglimento del matrimonio civile) si determina una assenza di regime, colmata dall'applicazione delle regole codicistiche normali, sostengono che i predetti avvenimenti rappresentano cause naturali di scioglimento di qualsiasi regime patrimoniale, anche della separazione dei beni quindi. In tale ultimo caso, pertanto, se ricorre una delle suddette cause, il regime di separazione dei beni si scioglie determinando un'assenza di regime (nel caso della dichiarazione di assenza o morte presunta di un coniuge, il regime di separazione si sospende per poi ripristinarsi automaticamente con il ritorno del coniuge, Cavallaro, 63). A parte quest'aspetto, il regime di separazione dei beni instaurato automaticamente, si scioglie, altrettanto automaticamente, al venir meno della causa che ne aveva determinato l'insorgenza, come, ad es., in caso di revoca della sentenza di dichiarazione di fallimento o di interdizione o inabilitazione (cui va aggiunta l'amministrazione di sostegno secondo la moderna dottrina; cfr. commento all'art. 191 c.c. in quest'opera). Tale conclusione (sostenuta tra gli altri da Zaccaria, 559) è però osteggiata da parte della dottrina secondo cui, una volta incardinatasi automaticamente la separazione dei beni quale regime sussidiario ex lege in conseguenza dello scioglimento della comunione legale, detto regime non può cessare neppure se viene meno la causa che l'ha determinata; occorre che le parti stipulino una convenzione matrimoniale ad hoc per ripristinarla (Cattaneo, 422; Perego, 3; Sesta-Valignani, 486 ss.; Oberto, 93 ss.). Si legga il commento all'art. 191 c.c. in quest'opera ove sono illustrate le ragioni a sostegno dell'opposta tesi sul ripristino automatico della comunione dei beni in caso di cessazione della separazione dei beni per effetto del venir meno della causa di scioglimento della comunione. La Cassazione ha precisato che al fine di consentire ad un coniuge di effettuare l'acquisto anche di un solo bene in regime di separazione, i coniugi sono tenuti a stipulare previamente una convenzione matrimoniale derogatoria del loro regime ordinario, ai sensi dell'art. 162 c.c., sottoponendola alla specifica pubblicità per essa prevista, non essendo, per converso, sufficiente una esplicita indicazione contenuta nell'atto di acquisto, posto che questo non viene sottoposto alla pubblicità delle convenzioni matrimoniali, unico strumento che conferisce certezza in ordine al tipo di regime patrimoniale cui sono sottoposti gli atti stipulati dai coniugi (Cass. , ord. n. 17175/2020). 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