Spunti sulla (dubbia) ammissibilità delle “perdite valutative” alla luce del principio di derivazione rafforzata

Simone Marzo
10 Gennaio 2019

Negli ultimi anni il regime di rilevanza fiscale delle perdite su crediti di cui all'art. 101, comma 5, TUIR., è stato ripetutamente modificato nell'intento di agevolare (o, quanto meno, di non penalizzare eccessivamente) le imprese che incorrono nel rischio di non riuscire ad incassare tutti o parte dei propri crediti. L'art. 101 TUIR è stato infatti modificato dapprima ad opera dell'art. 33, comma 5, D.L. 22 giugno 2012, n. 83 (c.d. “decreto crescita”), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, poi dall'art. 1, comma 160, lett. b), L. 27 dicembre 2013, n. 147 (c.d. “Legge di Stabilità 2014”) ed infine dall'art. 13, comma 1, lett. c), del D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147 (c.d. “decreto internazionalizzazione”).
Premessa

Negli ultimi anni il regime di rilevanza fiscale delle perdite su crediti di cui all'art. 101, comma 5, TUIR., è stato ripetutamente modificato nell'intento di agevolare (o, quanto meno, di non penalizzare eccessivamente) le imprese che incorrono nel rischio di non riuscire ad incassare tutti o parte dei propri crediti. L'art. 101 TUIR. è stato infatti modificato dapprima ad opera dell'art. 33, comma 5, D.L. 22 giugno 2012, n. 83 (c.d. “decreto crescita”), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, poi dall'art. 1, comma 160, lett. b), L. 27 dicembre 2013, n. 147 (c.d. “Legge di Stabilità 2014”) ed infine dall'art. 13, comma 1, lett. c), del D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147 (c.d. “decreto internazionalizzazione”).

Alle difficoltà interpretative connesse ad un simile (già censurabile) profluvio normativo si è aggiunta la necessità di dover coordinare sistematicamente detta mutevole disciplina con il rafforzamento del principio c.d. di “derivazione” attuato mediante la modifica dell'art. 83, primo comma, TUIR ad opera dell'art. 13-bis, comma 2, lett. a), n. 1, del D.L. 30 dicembre 2016, n. 244, convertito con modificazioni dalla L. 27 dicembre 2017, n. 19 (c.d. “decreto milleproroghe 2017”). Ne è scaturita, come si tenterà di illustrare meglio nel prosieguo, una disciplina particolarmente problematica, non solo nella ricostruzione del suo contenuto precettivo (comunque assai articolato) ma, ancora più a monte, nell'individuazione delle fattispecie astratte al ricorrere delle quali tali regole possano essere applicate.

Perdite su crediti e svalutazione di crediti secondo la disciplina contabile

Come noto, l'applicazione del principio di competenza per l'imputazione temporale dei componenti reddituali positivi e negativi (imposto tanto dalla corretta tecnica contabile quanto dalla normativa fiscale, salvo che per le imprese minori di cui all'art. 66 TUIR) può dar luogo per sua stessa natura ad uno sfasamento tra il periodo in cui un dato componente reddituale è maturato (concorrendo alla formazione dell'utile di esercizio e, di conseguenza, del reddito imponibile) e quello nel quale lo stesso componente verrà effettivamente realizzato; può accadere, in altre parole, che l'imprenditore sia tenuto ad includere nella determinazione del proprio utile d'esercizio e del proprio reddito imponibile anche componenti positivi rappresentati da crediti maturati ma non ancora effettivamente incassati.

Tale eventuale sfasamento non può ritenersi di per sé censurabile, in quanto anche la maturazione di un diritto di credito rappresenta di per sé una fattispecie rilevante dal punto di vista economico e patrimoniale. Per tale ragione, anzi, il criterio di competenza è generalmente ritenuto maggiormente idoneo, rispetto a quello di cassa, a fornire una più precisa rappresentazione dell'utile di bilancio e del reddito imponibile. Tale assunto resta tuttavia valido a condizione che gli eventuali sfasamenti verificatisi medio tempore giungano alla fine ad una ricomposizione, e cioè a condizione che i crediti che hanno concorso in un dato esercizio alla formazione dell'utile vengano prima o poi effettivamente incassati. Poiché, come si può ben immaginare, non è affatto certo che alla rilevazione contabile del credito faccia inesorabilmente seguito il suo effettivo incasso, è necessario prevedere dei meccanismi correttivi che tengano conto dell'eventualità che l'imprenditore non possa o non riesca più ad incassare i crediti la cui rilevazione in bilancio ha dato luogo negli esercizi precedenti all'emersione di maggiori utili e di maggiore reddito imponibile.

I correttivi predisposti a tali fini dalla tecnica contabile consistono nella possibile emersione di oneri deducibili in conseguenza della “cancellazione” o della “svalutazione” dei crediti rilevati in bilancio.

Quanto alla cancellazione, il principio contabile OIC 15 – Crediti, approvato dall'Organismo Italiano di Contabilità nel mese di dicembre 2016, prevede al paragrafo al paragrafo 71 che “la società cancella (da intendersi nel senso che deve cancellare; n.d.a.) il credito dal bilancio quando:

a) i diritti contrattuali sui flussi finanziari derivanti dal credito si estinguono (parzialmente o totalmente);

oppure,

b) la titolarità dei diritti contrattuali sui flussi finanziari derivanti dal credito è trasferita e con essa sono trasferiti sostanzialmente tutti i rischi inerenti il credito; il successivo paragrafo 72 specifica, inoltre, che “I diritti contrattuali si estinguono per pagamento, prescrizione, transazione, rinuncia al credito, rettifiche di fatturazione e ogni altro evento che fa venire meno il diritto ad esigere determinati ammontari di disponibilità liquide, o beni/servizi di valore equivalente, da clienti o da altri soggetti”.

In sintesi, il credito deve essere cancellato dal bilancio (oltre che quando venga incassato), nelle ipotesi in cui venga ceduto con passaggio integrale di tutti i rischi connessi, quando sia in tutto o in parte estinto per cause diverse dall'adempimento (si pensi alla rinuncia totale o parziale, alla prescrizione, ecc.) oppure infine (ed ancorché il principio contabile non ne faccia espressa menzione) quando ne sia stata accertata l'inesistenza ab origine, ad esempio all'esito di una controversia giudiziale avente ad oggetto l'esistenza del credito medesimo.

Laddove l'obbligo di cancellazione scaturisca da circostanze diverse dal suo integrale pagamento, la cancellazione darà luogo all'emersione di una perdita su crediti idonea a ridurre l'utile dell'esercizio nel quale è rilevata, che il paragrafo 13 del principio contabile OIC 15 definisce (invero non del tutto felicemente) come “un evento certo e definitivo che coincide con la parte del credito non più recuperabile”: in termini più precisi, la perdita sarà pari alla parte del credito che è venuta meno per effetto dell'accertamento di inesistenza o dell'estinzione non satisfattoria del credito oppure, nel caso di cessione con passaggio integrale dei rischi connessi, all'eventuale differenza tra valore contabile del credito e corrispettivo pattuito per la sua cessione (in tal senso dispone specificamente il paragrafo 74 del documento contabile OIC15).

Quelli appena indicati sono i casi in cui, secondo i principi contabili nazionali, un credito può essere cancellato e dare luogo ad una perdita su crediti propriamente detta.

La tecnica contabile prende tuttavia in considerazione anche l'ipotesi in cui un credito, pur astrattamente esistente, si prospetti di improbabile incasso a causa di circostanze di fatto idonee a far ritenere sussistente detto rischio. Al ricorrere di tale diversa fattispecie, le regole contabili vigenti impongono di operare una “svalutazione”, definita dal paragrafo 12 del menzionato principio OIC 15 come “la riduzione di valore di un credito, derivante da una stima, al valore di presumibile realizzo riconducibile alla data di bilancio”.

Più nel dettaglio, il paragrafo 59 del principio OIC 15 stabilisce che “un credito deve essere svalutato nell'esercizio in cui si ritiene probabile che il credito abbia perso valore”, ed il successivo paragrafo riporta a titolo esemplificativo alcuni “indicatori” della probabile perdita di valore di un credito (tra i quali la ravvisabilità di significative difficoltà finanziarie del debitore, eventualmente tradottesi in inadempimenti o nella probabilità che il debitore dichiari fallimento o attivi altre procedure di “ristrutturazione finanziaria”, oppure il verificarsi di cambiamenti sfavorevoli nelle condizioni economiche del settore economico di appartenenza del debitore). Sussistendo tali “indicatori”, il creditore deve rettificare il valore del credito (cioè operare una svalutazione), adeguando il valore contabile a quello di presumibile realizzo e facendo emergere un componente negativo anch'esso in grado di ridurre l'utile dell'esercizio.

Secondo la corretta tecnica contabile, quindi, la differenza tra “perdita su crediti” e “svalutazione di crediti” appare chiara: la perdita discende dal definitivo “venir meno” del diritto di credito dovuto a precise circostanze (accertamento di inesistenza, estinzione non satisfattoria, cessione con passaggio integrale dei rischi), mentre la svalutazione consiste in una rettifica di valore del credito derivante da un giudizio prognostico sulla sua concreta recuperabilità (cioè sulla probabilità che il rischio di credito propriamente detto si avveri concretamente).

L'incerta linea di confine tra perdite su crediti e svalutazione di crediti nella disciplina fiscale

In linea di principio, anche il sistema di tassazione del reddito d'impresa recepisce la distinzione tra perdite su crediti e svalutazione dei crediti, prevedendo per entrambe una dettagliata disciplina.

L'art. 106, primo comma, TUIR prevede che le svalutazioni dei crediti “che derivano dalle cessioni di beni e dalle prestazioni di servizi indicate nel comma 1 dell'art. 85, sono deducibili in ciascun esercizio nel limite dello 0,50 per cento del valore nominale o di acquisizione dei crediti stessi” e che “La deduzione non è più ammessa quando l'ammontare complessivo delle svalutazioni e degli accantonamenti ha raggiunto il 5 per cento del valore nominale o di acquisizione dei crediti risultanti in bilancio alla fine dell'esercizio”. Ai fini tributari, quindi, assumono rilevanza soltanto le svalutazioni dei crediti c.d. commerciali dell'impresa (cioè quelli derivanti dalla cessione dei beni e dalla prestazione di servizi che originano ricavi) e soltanto nei limiti quantitativi annuali e complessivi indicati dalla norma appena richiamata.

Quanto alle perdite su crediti (diverse da quelle registrate dagli enti creditizi su crediti verso la propria clientela), invece, l'attuale quinto comma dell'art. 101, comma 5, TUIR, dispone che “le perdite su crediti […] sono deducibili se risultano da elementi certi e precisi e in ogni caso, per le perdite su crediti, se il debitore è assoggettato a procedure concorsuali o ha concluso un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell'art. 182-bis del Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267 o un piano attestato ai sensi dell'art. 67, terzo comma, lettera d), del Regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 o è assoggettato a procedure estere equivalenti, previste in Stati o territori con i quali esiste un adeguato scambio di informazioni”, ed aggiunge: “Gli elementi certi e precisi sussistono in ogni caso quando il credito sia di modesta entità e sia decorso un periodo di sei mesi dalla scadenza di pagamento del credito stesso. […] Gli elementi certi e precisi sussistono inoltre quando il diritto alla riscossione del credito è prescritto. Gli elementi certi e precisi sussistono inoltre in caso di cancellazione dei crediti dal bilancio operata in applicazione dei princìpi contabili”.

Il contenuto dell'art. 101, comma 5, TUIR, di cui sono stati appena riportati i passaggi principali, scaturisce dalla stratificazione di tutti gli interventi di riforma richiamati in precedenza e presenta numerosi aspetti problematici. Ai fini che qui interessano, tuttavia, è importante notare soprattutto come il legislatore sia giunto a trattare alla stregua di perdite su crediti oneri che, secondo i principi contabili, dovrebbero essere più correttamente classificati tra le svalutazioni, finendo in tal modo per rendere incerta la linea di demarcazione tra i due fenomeni.

Quanto appena detto vale certamente per le perdite su crediti di modesto importo, che la norma consente di dedurre integralmente una volta decorso il periodo di sei mesi dalla scadenza del pagamento. È chiaro, infatti, che il mero protrarsi dell'inadempimento per il periodo indicato dalla norma non comporta né lascia presumere l'estinzione o la definitiva inesigibilità dei crediti de quibus, semmai giustificandone soltanto una rettifica di valore in misura più o meno rilevante. Il legislatore fiscale, invece, riconduce tale eventualità tra i presupposti di applicazione della norma in tema di deducibilità delle perdite su crediti.

Ad analoghe conclusioni potrebbe giungersi anche per i crediti vantati verso debitori assoggettati a procedura concorsuale. Nemmeno l'assoggettamento a procedura concorsuale, infatti, dovrebbe essere in grado di lasciar presumere l'estinzione o la definitiva inesigibilità del credito (se non a seguito del verificarsi di una causa di esdebitazione del debitore), ma soltanto (ed al più) una presunzione di perdita (anche integrale) del suo valore. Anche in questo caso, quindi, il fenomeno dovrebbe essere più correttamente inquadrato tra le svalutazioni e non tra le perdite su crediti, come invece ha optato il legislatore fiscale.

Quanto appena rilevato sembra trovare conferma nel disposto del comma 5-bis dell'art. 101 TUIR (inserito dall'art. 13, comma 1, lett. d), D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147), secondo il quale “Per i crediti di modesta entità e per quelli vantati nei confronti di debitori che siano assoggettati a procedure concorsuali […], la deduzione della perdita su crediti è ammessa, ai sensi del comma 5, nel periodo di imputazione in bilancio, anche quando detta imputazione avvenga in un periodo di imposta successivo a quello in cui, ai sensi del predetto comma, sussistono gli elementi certi e precisi ovvero il debitore si considera assoggettato a procedura concorsuale, sempreché l'imputazione non avvenga in un periodo di imposta successivo a quello in cui, secondo la corretta applicazione dei principi contabili, si sarebbe dovuto procedere alla cancellazione del credito dal bilancio”.

In effetti, la norma appena citata si giustifica proprio alla luce del fatto che, “secondo la corretta applicazione dei principi contabili”, l'assoggettamento del debitore a procedura concorsuale o il protrarsi dell'inadempimento per oltre sei mesi non consentono l'automatica cancellazione dal bilancio dei relativi crediti (e la conseguente emersione contabile di una perdita deducibile), con l'effetto che per detti crediti la cancellazione contabile dal bilancio dovrebbe tendenzialmente avvenire in esercizi successivi a quelli nei quali si sono verificati i presupposti di deducibilità fiscale indicati dall'art. 101, comma 5, TUIR. Il comma 5-bis dell'art. 101 TUIR, insomma, sembra confermare che il precedente comma 5 consente di ritenere “persi” ai fini tributari crediti che, secondo la disciplina contabile, non possono ancora essere cancellati e non possono perciò dare luogo all'emersione contabile di perdite deducibili.

Com'è facile immaginare, la diversa classificazione non è affatto irrilevante sul piano fiscale poiché, fermo il dato normativo vigente, una svalutazione sarebbe deducibile solo entro i limiti quantitativi stabiliti dall'art. 106, primo comma, t.u.i.r., mentre una perdita rileva integralmente. Si può ipotizzare, dunque, che il legislatore storico abbia impropriamente ricondotto (non è ben chiaro quanto consapevolmente) le svalutazioni connesse al realizzarsi di dette circostanze nell'ambito di operatività della disciplina delle perdite su crediti proprio al fine di assicurare la piena deducibilità delle stesse senza introdurre espresse deroghe ai limiti quantitativi attualmente previsti dall'art. 106, primo comma, TUIR.

Il generale riconoscimento fiscale delle “perdite valutative atipiche”

Come visto nel paragrafo precedente, l'art. 101, comma 5, TUIR assoggetta al regime fiscale delle “perdite” anche oneri più correttamente classificabili, sul piano contabile, nell'ambito delle svalutazioni, e che per questo motivo possono genericamente essere definitive come “perdite valutative”. Più in dettaglio, le fattispecie contemplate in detta norma (perdite su crediti di modesto importo e perdite su crediti vantati verso debitori assoggettati a procedure concorsuali) possono essere raggruppate nell'ambito delle “perdite valutative tipizzate”, in quanto espressamente contemplate dal legislatore fiscale.

L'ambito di operatività della disciplina fiscale delle perdite su crediti viene a dilatarsi ulteriormente, rispetto a quanto appena visto, dal generale riconoscimento della deducibilità delle “perdite valutative” diverse da quelle espressamente menzionate dalla norma, e che per questo verranno di seguito indicate come “perdite valutative atipiche”.

L'elaborazione di tale fattispecie trae spunto dal rilievo secondo cui i caratteri di “certezza e precisione” al sussistere dei quali l'art. 101, comma 5, TUIR subordina in generale la deducibilità delle perdite su crediti è riferita non già alle perdite medesime, bensì agli elementi da cui le perdite devono risultare; da ciò si deduce l'asserita deducibilità di perdite su crediti soltanto stimate ma non ancora concretizzatesi nel definitivo venir meno o nel trasferimento della titolarità del credito.

Paradigmatica, a tale riguardo, è la posizione della dottrina, secondo cui le perdite su crediti non deriverebbero soltanto “dalla perdita, per così dire, “giuridica” del diritto, che si manifesta in tutti i casi in cui il diritto di credito non può più essere esercitato, bensì anche dall'inesigibilità del credito, che si manifesta in tutte le ipotesi in cui si riscontra l'impossibilità di procedere alla sua esazione”, con l'effetto che: “La distinzione tra svalutazioni ed accantonamenti, da una parte, e perdite, dall'altra, non si rintraccia quindi sul piano sostanziale, ma sul piano degli elementi probatori, ai quali, se dotati di particolare significatività, l'ordinamento riconosce peculiari effetti” [così, D. Mazzagreco, Le perdite su crediti tra riforma del bilancio di esercizio e nuovo principio di derivazione, Rass. trib., 2018, p. 285-286; nello stesso senso, tra gli altri, M. Trivellin, Profili sistematici delle perdite su crediti nel reddito d'impresa, Torino, 2017, p. 44; S. Fiorentino, O. Lombardi, Il nuovo regime delle perdite su crediti, Dir. prat. trib., 2017, p.1947-1948; F. Tundo, Atti dispositivi dei crediti: cessioni pro soluto e criteri di imputazione temporale, Rass. trib., 2011, p. 1137 e ss.].

Secondo detta impostazione, quindi, non vi sarebbe una differenza sostanziale tra perdite su crediti e svalutazione di crediti, potendosi trattare in entrambi i casi di oneri connessi ad una valutazione compiuta dal contribuente circa la concreta probabilità di incassare un dato credito. A sostegno di tale assunto, sempre la dottrina ha rilevato “l'inadeguatezza, se non proprio erroneità” del riferimento della certezza alla perdita, in quanto “soltanto quando intervenga un fatto che determini l'estinzione giuridica del diritto, esso potrebbe dirsi perduto irreversibilmente”, ed ha aggiunto che “se si volesse essere coerenti fino in fondo, dunque, considerare la definitività come condizione per la rilevanza fiscale della perdita significherebbe pervenire ad una sostanziale interpretazione abrogatrice della norma che consente la deduzione” [così, M. Trivellin, Profili sistematici delle perdite su crediti nel reddito d'impresa, cit., p. 44].

La deducibilità delle perdite valutative atipiche è riconosciuta, seppure con qualche equivocità, anche dalla prassi amministrativa e dalla giurisprudenza. Nella Circolare n. 26/E del 1° agosto 2013, ad esempio, dopo aver precisato che la norma in tema di perdite su crediti si renderebbe applicabile “solo in presenza di una perdita su crediti considerata “definitiva” (cfr. Circolare n. 39 del 10 maggio 2002)” e che “A tal fine, si ritiene che la “definitività” di una perdita sia rinvenibile allorché si possa escludere l'eventualità che in futuro il creditore riesca a realizzare, in tutto o in parte, la partita creditoria”, l'Agenzia delle Entrate dedica un'ampia trattazione alle “Perdite su crediti derivanti da processo valutativo”, cioè a quelle “determinate internamente, attraverso un procedimento di stima” che induca ad “escludere la possibilità di un futuro soddisfacimento della posizione creditoria”.

In senso analogo sembra orientata anche la Cassazione la quale, in una recente pronuncia [Cass. Civ., sez. trib., ord. 4 maggio 2018, n. 10686], dopo aver chiarito che il discrimen tra perdita e svalutazione “è segnato dalla definitività del venire meno della voce” (nel senso che si ha perdita soltanto quando il credito sia divenuto definitivamente inesigibile, mentre “la svalutazione, totale o parziale, del credito, invece, ne presuppone una perdita (solo) potenziale, probabile, ma non (ancora) certa e definitiva”), afferma testualmente che “si ha perdita del credito quando esso è divenuto (alla stregua di un giudizio prognostico) definitivamente inesigibile”, ed ancora, che la perdita del credito “non è un fatto, un evento naturalistico, ma è l'effetto di una prognosi, è una valutazione (sostenuta da elementi più o meno certi e precisi), rimessa all'organo amministrativo della banca, in punto di inesigibilità del credito e di insolvenza del debitore”.

In realtà, come già accennato, sia la Circolare dell'Agenzia delle Entrate che l'ordinanza della Cassazione appena richiamate contengono forti elementi di equivocità, sicché i dubbi in merito alla configurabilità delle perdite valutative “atipiche” restano intatti. Nell'ordinanza della Suprema Corte, ad esempio, oltre a quanto già riportato si legge anche che la “riconosciuta sussistenza del rischio d'inesigibilità “ragionevolmente prevedibile”, ma “non ancora definitiva”” non può dare luogo alla cancellazione di un credito (e quindi all'emersione di una perdita) perché “in tale caso, il credito non è venuto meno né dal punto di vista giuridico - in quanto la pretesa creditoria può essere fatta valere nei confronti del debitore inadempiente - né dal punto di vista economico”; ed ancora, sempre nella stessa ordinanza i giudici di legittimità affermano espressamente che un credito non può essere cancellato (e non può conseguentemente dare luogo all'emersione di una perdita) fintanto che “non è definitivamente perso, è suscettibile di “ripresa di valore”, per rivalutazione e per incasso, e può ancora essere soddisfatto tramite una procedura di recupero coattivo” e che in questi casi “è ben possibile e rispettoso dei principi di diritto civile, tributario, nonché corretto, sul piano contabile, che esso venga anche integralmente svalutato”.

In definitiva, sia la Cassazione che l'Amministrazione Finanziaria giungono ad affermare che la perdita, per essere considerata tale, presuppone il certo e definitivo venir meno del credito, mentre una “perdita” “(solo) potenziale, probabile, ma non (ancora) certa e definitiva” consentirebbe al più di operare mera svalutazione; contestualmente, entrambe ribadiscono che la perdita può essere determinata anche “attraverso un procedimento di stima” (così nella Circolare n. 26/E del 2013) e che può costituire “effetto di una prognosi […] in punto di inesigibilità del credito” (così nell'ordinanza n. 10686/2018), con ciò finendo per ricondurre nell'ambito di operatività del regime fiscale delle perdite su crediti quelle che dovrebbero essere considerate più correttamente delle mere svalutazioni.

La dubbia ammissibilità delle perdite “valutative” alla luce del principio di derivazione rafforzata

Per quanto sia generalmente riconosciuta ed abbia trovato riscontro anche nel dato normativo positivo, sull'ammissibilità delle perdite valutative (tanto di quelle atipiche quanto di quelle tipizzate) sembra attualmente possibile sollevare qualche dubbio, soprattutto alla luce del rafforzamento del principio di derivazione recentemente operato mediante la modifica dell'art. 83 TUIR.

Quanto alle perdite valutative che sono state definite “atipiche”, occorre in primo luogo evidenziare l'erroneità della tesi secondo cui il mancato riconoscimento fiscale delle stesse condurrebbe ad una sostanziale abrogazione della norma in tema di perdite su crediti; pur non ammettendo la configurabilità delle perdite valutative, infatti, residuerebbe un'ampia gamma di ipotesi alle quali detta norma resterebbe applicabile, e cioè le stesse ipotesi al ricorrere delle quali la disciplina contabile correla la cancellazione dei crediti.

Inoltre, il fatto che nel testo dell'art. 101, comma 5, TUIR i caratteri di “certezza e precisione” siano riferiti non alla perdita in sé ma agli elementi da cui la perdita deve risultare, non comporta affatto che la perdita possa essere dedotta anche se incerta o non definitiva. Occorre infatti tenere a mente che la norma fiscale non si pone lo scopo di definire la nozione di “perdita”, bensì quello di indicare le condizioni alle quali una perdita (ove esistente) possa essere dedotta; ciò detto, il primo presupposto (implicito) perché possa farsi luogo alla deducibilità resta il fatto che la perdita possa effettivamente dirsi tale, e cioè che si sia in presenza di un credito “non più recuperabile” in conseguenza di “un evento certo e definitivo” derivante dalla cancellazione contabile del credito. I caratteri di certezza e definitività, quindi, sono insiti nella stessa nozione di “perditafornita dalla disciplina tecnica contabile.

Quanto appena rilevato induce a soffermarsi nuovamente sulle nozioni di perdita su crediti e di svalutazione dei crediti accolte dai principi contabili e sulla loro rilevanza ai fini tributari. Dalla precedente disamina è emerso che, secondo la disciplina contabile vigente, i crediti possono essere oggetto di cancellazione (con conseguente eventuale emersione di perdite propriamente dette) soltanto al verificarsi della loro estinzione, della loro cessione con trasferimento integrale dei diritti e dell'accertamento della loro inesistenza ab origine. Sempre secondo il principio contabile OIC 15, invece, qualunque valutazione prognostica circa la loro concreta realizzabilità dovrebbe sfociare nell'eventuale rettifica di valore, prescindendo dal grado di attendibilità (che deve comunque sussistere) degli elementi probatori sulla base dei quali la stima viene effettuata, e senza possibilità di applicare alcun automatismo.

Detta constatazione potrebbe già di per sé giustificare il disconoscimento della rilevanza fiscale delle perdite valutative “atipiche”.

Di ciò sembrava avvedersi un attento osservatore [M. Procopio, Il <<nuovo>> regime tributario delle perdite su crediti nel <<segno>> dl rafforzamento del principio di derivazione del reddito imponibile dalle risultanze di bilancio, Dir. prat. trib., 2015, I, p. 60] che, nel commentare le previsioni del principio contabile OIC 15 (si trattava del documento OIC approvato nel mese di giugno 2014; sul punto, tuttavia, non v'è alcuna differenza tra il documento approvato nel 2014 e quello tuttora vigente), rilevava come “l'esistenza degli elementi di certezza e precisione sussiste nei soli casi di cancellazione dei crediti operata in applicazione dei principi contabili e non anche in caso di valutazione dei crediti iscritti in bilancio; previsione, questa, che ci appare incomprensibile”, ed aggiungeva: “Le osservazioni appena svolte stanno a significare che, nonostante l'evoluzione che il legislatore ha voluto imprimere al regime tributario dei crediti mediante la citata Legge n. 147/2013, il problema della deduzione appare ancora incerto relativamente a quelli di natura valutativa vantati dalla generalità delle imprese”.

A precisazione di quanto rilevato dall'Autore appena citato si deve peraltro chiarire che, attenendosi al principio contabile, è la perdita stessa (e non “gli elementi di certezza e precisione” da cui la perdita deve risultare) a poter essere ravvisata “nei soli casi di cancellazione dei crediti operata in applicazione dei principi contabili”; resta in ogni caso inteso che, stando alla disciplina tecnico-contabile (che l'Autore stesso va sul punto “incomprensibile”), qualunque “valutazione prognostica” circa la concreta esigibilità del credito potrebbe semmai dare luogo ad eventuali rettifiche del valore (cioè a svalutazioni), e non all'emersione di una perdita. In ogni caso, come riferisce la dottrina richiamata, l'effettiva sussumibilità delle perdite valutative atipiche nell'ambito di applicazione dell'art. 101, comma 5, TUIR, in luogo di quello dell'art. 106, primo comma, TUIR, non poteva dirsi del tutto pacifica.

Nel momento in cui l'Autore citato esprimeva tali dubbi, tuttavia, non era ancora intervenuta la modifica dell'art. 83 TUIR nel senso del rafforzamento del principio c.d. di derivazione del reddito fiscale dal bilancio d'esercizio. In quel momento, quindi, era ancora possibile sostenere (quanto meno per le ipotesi di perdite valutative tipizzate) che la legge tributaria consentisse di classificare anche le “perdite valutative” tra le “perdite su crediti” vere e proprie (assoggettandole al relativo regime di deducibilità), nonostante i principi contabili riconducessero tale fenomeno tra le svalutazioni.

Nel frattempo, però, l'art. 13-bis, comma 2, lett. a), n. 1), del D.L. n. 244/2016 (inserito in sede di conversione ad opera della L. n. 19/2017) ha modificato l'art. 83, primo comma, TUIR, il cui attuale terzo periodo prevede che “Per i soggetti che redigono il bilancio in base ai princìpi contabili internazionali […] e per i soggetti, diversi dalle micro-imprese di cui all'art. 2435-ter del codice civile, che redigono il bilancio in conformità alle disposizioni del codice civile, valgono, anche in deroga alle disposizioni dei successivi articoli della presente sezione, i criteri di qualificazione, imputazione temporale e classificazione in bilancio previsti dai rispettivi princìpi contabili”.

Tale modifica potrebbe suggerire una rimeditazione complessiva del tema, almeno per le imprese cui è destinato a trovare applicazione il principio di “derivazione rafforzata”. Alla luce del principio sancito dalla norma appena richiamata, infatti, la configurabilità di perdite su crediti di tipo “valutativo” sembra presentare profili problematici ancora maggiori di quelli prospettabili in precedenza, in quanto coinvolgenti anche le ipotesi tipizzate dall'art. 101, comma 5, TUIR.

Poiché l'attuale art. 83, primo comma, TUIR, stabilisce che i “criteri di qualificazione, imputazione temporale e classificazione in bilancio previsti dai rispettivi princìpi contabili” valgono ai fini della determinazione del reddito imponibile anche in deroga alle disposizioni del TUIR,sembra infatti lecito interrogarsi sulla possibilità di continuare a classificare le “perdite valutative” (tanto quelle tipizzate dalla legge quanto quelle atipiche) tra le perdite su crediti propriamente dette (deducibili secondo il regime di cui all'art. 101, comma 5, TUIR) anziché tra le svalutazioni (soggette al regime di cui all'art. 106, primo comma, TUIR), nel cui ambito dovrebbero essere ricondotte stando al criterio di classificazione indicato dal principio contabile più volte menzionato.

In definitiva, in forza del vigente art. 83 TUIR i componenti negativi connessi alla rilevazione dei crediti dovrebbero essere classificati ai fini fiscali (anche in deroga ad eventuali diverse previsioni della legge tributaria) sulla base dei criteri dettati dal principio contabile OIC 15, il quale pone un'alternativa abbastanza chiara: i processi di stima circa la concreta realizzabilità di un credito (o di una massa di crediti) possono dare luogo soltanto a svalutazioni, mentre le perdite su crediti propriamente dette sono soltanto quelle derivanti dalla cancellazione dei crediti per intervenuto accertamento di inesistenza, per estinzione o per cessione (con trasferimento dei rischi connessi) dei “diritti contrattuali sui flussi finanziari derivanti dal credito”.

Ciò vuol dire che le “perdite valutative” (tanto quelle espressamente menzionate dalla legge nell'art. 101, comma 5, TUIR quanto quelle atipiche) dovrebbero essere più correttamente classificate tra le rettifiche di valore (cioè tra le svalutazioni), con conseguente loro assoggettamento al regime di deducibilità di cui all'art. 106, primo comma, TUIR, anche in deroga a quanto stabilito dall'art. 101, comma 5, TUIR con riguardo alla deducibilità integrale delle “perdite” valutative rilevate su crediti vantati verso debitori assoggettati a procedura concorsuale o su crediti di modesto importo rimasti insoluti per oltre sei mesi dalla scadenza.

Accogliendo tale ricostruzione, in sostanza, tutte le “perdite valutative” (ivi comprese quelle tipizzate dall'art. 101, comma 5, TUIR) dovrebbero essere classificate anche ai fini fiscali tra le svalutazioni e dovrebbero essere assoggettate al relativo regime fiscale; ciò in quanto il principio contabile OIC 15 non consente di cancellare dal bilancio crediti (e quindi di far emergere perdite propriamente dette) sulla sola base di un giudizio prognostico in ordine alla loro concreta esigibilità e non consente nemmeno di cancellare automaticamente i crediti (e quindi di far emergere perdite) che siano scaduti da oltre sei mesi o i cui debitori siano stati assoggettati a procedure concorsuali.

Considerazioni conclusive

La ricostruzione sin qui operata, ove condivisa, potrebbe dare luogo a rilevantissime conseguenze sull'incidenza del rischio di credito nella determinazione del reddito delle imprese alle quali si applica il principio di derivazione rafforzata ex art. 83 TUIR. Secondo tale ricostruzione, in definitiva, applicando il principio contabile OIC 15 i crediti verosimilmente ritenuti irrealizzabili sulla base di un giudizio prognostico, quelli rimasti insoluti dopo la loro scadenza e quelli vantati verso debitori assoggettati a procedure concorsuali potrebbero (e dovrebbero) costituire oggetto di una mera rettifica di valore, e non anche di cancellazione, con l'effetto che la relativa componente passiva emersa dovrebbe essere classificata contabilmente tra le svalutazioni. In ossequio al principio di derivazione rafforzata attualmente vigente, quindi, la stessa classificazione dovrebbe trovare applicazione anche ai fini fiscali, persino in deroga a quanto espressamente dispone l'art. 101, comma 5, TUIR.

Ne consegue che il regime di deducibilità integrale previsto dalla disposizione appena menzionata potrebbe trovare applicazione soltanto alle perdite su crediti propriamente dette, cioè quelle derivanti dall'effettivo venir meno (per accertamento di inesistenza o per estinzione non satisfattoria) o dalla cessione del credito con trasferimento integrale di tutti i rischi connessi, mentre tutte le “perdite valutative” (sia quelle tipizzate dall'art. 101, comma 5, TUIR sia quelle atipiche) dovrebbero essere ricondotte nel campo di applicabilità dell'art. 106, primo comma, TUIR.

Non si nasconde che l'esito interpretativo raggiunto, ove confermato, si porrebbe in grave contraddizione con la tendenza ad agevolare la deducibilità delle perdite valutative manifestata da tutti gli ultimi interventi riformatori. Ciononostante, sembra pur sempre trattarsi di una ricostruzione conforme al criterio di classificazione proposto dall'OIC 15 il quale, come più volte detto, non contempla alcun meccanismo di cancellazione automatica dei crediti e non sembra ammettere la cancellazione di crediti sulla base di valutazioni prognostiche in punto di concreta esigibilità degli stessi. La grave contraddizione di cui si è dato atto, dunque, dovrebbe semmai imputarsi alla frettolosa e poco meditata generalizzazione del principio di derivazione rafforzata (disposta, si ricorda, mediante un articolo aggiunto in sede di conversione ad un decreto legge “milleproroghe”).

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