Licenziamento per mancato superamento del periodo di prova dell’impiegato e contrasto tra legge e contrattazione collettiva

21 Gennaio 2019

Deve essere dichiarata la nullità, ex art. 1418, comma 1, c.c., della clausola del contratto collettivo che assoggetta, in violazione dell'art. 4, comma 4, r.d.l. n. 1825 del 1924, ad un periodo di prova della durata di sei mesi anche i rapporti di lavoro subordinato degli impiegati diversi da quelli degli impiegati di grado e funzioni equivalenti a quelli degli institori, procuratori, rappresentanti a stipendio fisso, direttori tecnici o amministrativi.
Il caso

La questione riguarda il licenziamento per mancato superamento del periodo di prova di un tecnologo assunto da una fondazione mediante contratto a tempo determinato, nel quale era previsto un patto di prova pari a sei mesi, in applicazione della disciplina collettiva di settore.

Il contratto a tempo determinato, stipulato in data 3 aprile 2017, prevedeva la scadenza dello stesso alla data del 31 marzo 2020; la parte datoriale aveva esercitato la facoltà di recesso a distanza di oltre quattro mesi dalla data di inizio del rapporto di lavoro (25 agosto 2017), abbondantemente prima della scadenza naturale del contratto.

Impugnato il licenziamento, il lavoratore deduceva la nullità del patto di prova apposto al contratto di assunzione, chiedendo la condanna dell'ente convenuto al risarcimento dei danni subiti per effetto dell'illegittimo recesso, da commisurarsi alle retribuzioni non percepite fino alla data di scadenza naturale del contratto, oltre accessori di legge.

In particolare, il lavoratore deduceva che la norma del CCNL applicata al rapporto, che prevedeva la durata di sei mesi del periodo di prova per tutti gli impiegati, si poneva in contrasto con la disposizione contenuta nell'art. 4, comma 4, r.d.l. 13 novembre 1924, n. 1825, convertito in l. 18 marzo 1925, n. 562, che impone un limine massimo, pari a tre mesi, della durata del periodo di prova per gli impiegati, diversi da quelli di grado e funzioni equivalenti a quelli degli institori, procuratori, rappresentanti a stipendio fisso, direttori tecnico o amministrativi.

Le questioni

La questione posta al vaglio del Tribunale di Trento, favorevolmente conclusa in favore del lavoratore, riguarda quindi il contrasto tra una norma collettiva, che prevede l'assoggettamento di tutto il personale impiegatizio ad un periodo di prova pari a sei mesi, e la norma di legge, contenuta, nell'art. 4, comma 4, r.d.l. 13 novembre 1924, n. 1825, convertito in l. 18 marzo 1925 n. 562, che viceversa diversifica la durata del periodo di prova per gli impiegati, ponendo un limite massimo di sei mesi per quelli che svolgono mansioni equivalenti a quelle degli institori, procuratori, rappresentanti a stipendio fisso, direttori tecnici o amministrativi, e viceversa di tre mesi per tutte le altre categorie di impiegati.

Al fine di verificare se il patto di prova apposto al contratto di assunzione del lavoratore licenziato rientrasse nella prima o nella seconda categoria, il Tribunale di Trento parte correttamente da una disamina delle mansioni svolte dal lavoratore licenziato, evidenziando come le funzioni assegnate all'atto dell'assunzione, ovverossia quelle di “tecnologo”, come declinate dalla contrattazione collettiva nella relativa declaratoria, non potessero in alcun modo essere assimilate a funzioni direttive, per le quali la norma di legge prevede un periodo di prova pari a sei mesi.

A riguardo, partendo dal presupposto che il citato art. 4, comma 4, r.d.l. n. 1825, cit., divide gli impiegati in tre categorie, di cui la prima comprende gli impiegati con funzioni direttive, la seconda gli impiegati di concetto ordinari e la terza gli impiegati d'ordine, il Tribunale esclude correttamente che le funzioni di tecnologo svolte dal lavoratore licenziato potessero essere ricomprese nella prima categoria, che riguarda il personale con funzioni direttive.

Secondo la contrattazione collettiva applicata al caso di specie, infatti, il tecnologo inquadrato al quarto livello è colui il quale “svolge attività tecnico professionale sotto la supervisione di un tecnologo sperimentatore o ricercatore di livello superiore o con specifico incarico”; difettavano, quindi, in capo al ricorrente, sia la preposizione ad un singolo ramo o servizio dell'organizzazione aziendale, sia l'esplicazione di un'attività di immediata collaborazione con titolare dell'impresa o con i dirigenti di essa, che sono proprio del personale inquadrato come impiegato con funzioni direttive.

Le soluzioni giuridiche

Effettuato l'accertamento in ordine al contenuto delle mansioni svolte dall'impiegato licenziato, ed escluso che le stesse potessero rientrare in mansioni impiegatizie di livello direttivo, il Tribunale di Trento ha ritenuto sussistere un contrasto tra la norma collettiva applicata al rapporto, che assoggetta ad un periodo di sei mesi tutto il personale impiegatizio, senza alcuna differenza, e la norma di legge (art. 4, comma 4, r.d.l. 13 novembre 1924, n. 1825),che viceversa diversifica la durata del periodo di prova a seconda del contenuto delle mansioni svolte dall'impiegato, prevedendo un periodo di prova di tre mesi per il personale avente funzioni direttive ed un periodo di sei mesi per il restante personale impiegatizio.

In ordine alla perdurante vigenza del citato art. 4, comma 4, r.d.l. 13 novembre 1924, n. 1825, il Tribunale di Trento ha in primo luogo escluso che detta norma possa intendersi abrogata o comunque superata,sia dall'art. 2096, c.c. (che viceversa ha dettato una disciplina di carattere generale con funzione integrativa di altre disposizioni previgenti), che dall'art. 10, l. 15 luglio 1966, n. 604 (la quale, prevedendo che la legge limitativa dei licenziamenti si applica a tutti i prestatori di lavoro e, per quelli assunti in prova, quando sono decorsi sei mesi dall'inizio del rapporto di lavoro, non ha inteso dettare una nuova disciplina in ordine al patto di prova, tale da rendere inoperante la disciplina precedente).

Affermata quindi la piena vigenza dell'art. 4, comma 4, r.d.l. 13 novembre 1924, n. 1825, il contrasto tra la disposizione collettiva e quella normativa nella questione dedotta in giudizio è stato correttamente risolto, dal Tribunale di Trento, in applicazione del principio generale della gerarchia tra fonti, secondo cui la fonte di grado superiore prevale su quella di grado inferiore, ed in ogni caso in ragione del carattere imperativo della norma, in quanto tale non derogabile.

Essendo la norma collettiva postergata, nella gerarchia tra fonti, rispetto a quella di legge, il Tribunale di Trento ne ha quindi dichiarato la nullità, ex art. 1418, comma 1, c.c., per contrasto con una norma imperativa.

La declaratoria di nullità della clausola contenente il patto di prova, per contrasto con norma imperativa, comporta, come conseguenza, che il patto di prova apposto al contratto di assunzione non ha prodotto effetti dopo la scadenza del termine trimestrale, sicchè la parte datoriale, allorchè ha esercitato il potere di recesso per mancato superamento del periodo di prova (dopo oltre quattro mesi dall'inizio del rapporto medesimo), lo ha fatto illegittimamente, essendo priva di tale potere.

Vertendosi in ipotesi di contratto a tempo determinato, il recesso va quindi qualificato come recesso ante tempus da un contratto a termine, privo di idonea ragione giustificatrice.

Quanto alle conseguenze correlate alla dichiarata illegittimità del recesso ante tempus dal contratto a tempo determinato, il Tribunale di Trento, aderendo alla consolidata giurisprudenza della Suprema Corte, in virtù della quale nel contratto di lavoro a tempo determinato il recesso ante tempus, in mancanza di una giusta causa ex art. 2119, c.c., è illegittimo per violazione della norma contrattuale ed obbliga il recedente al risarcimento integrale del danno, da liquidarsi secondo le regoli comuni di cui all'art. 1223, c.c., ha condannato la fondazione al pagamento in favore del lavoratore di un importo commisurato alle retribuzioni cui lo stesso avrebbe avuto diritto dalla data di licenziamento sino a quella della sentenza, oltre accessori di legge, escludendo viceversa qualsivoglia risarcimento per il periodo futuro, anche quale perdita di chances, non essendosi il danno ancora realizzato.

Osservazioni

La decisione commentata affronta correttamente il rapporto esistente, in materia di patto di prova, tra la contrattazione collettiva di diritto comune ed una norma imperativa di legge, contenuta nell'art. 4, comma 4, r.d.l. 13 novembre 1924, n. 1825, che fissa una disciplina inderogabile in tema di durata del periodo di prova per gli impiegati, diversificandolo tra impiegati che svolgano funzioni direttive (per i quali il limite massimo del periodo di prova periodo di prova è pari a sei mesi) e tutti gli altri impiegati (per i quali la durata massima del periodo di prova è viceversa limitata a tre mesi).

La sentenza del Tribunale di Trento segue un iter logico sicuramente corretto, nella misura in cui affronta preliminarmente la questione in termini sistematici, applicando poi le conclusioni raggiunte in tema di perdurante vigenza delle disposizioni contenute nel art. 4, comma 4, r.d.l. 13 novembre 1924, n. 1825, al caso concreto sottoposto al suo vaglio.

In ordine all'attuale vigenza del più volte citato art. 4, comma 4, r.d.l. 13 novembre 1924, n. 1825, il Tribunale ha correttamente escluso che tale disposizione sia stata tacitamente abrogata, o comunque, superata, dall'art. 2096, c.c., posto che le disposizioni contenute nella norma codicistica non hanno esaurito l'intera regolamentazione di questo speciale fenomeno nell'ambito del rapporto di lavoro, viceversa limitandosi a dettare una disciplina di carattere generale che, anziché escludere, implica l'integrazione ad opera di altre norme.

Parimenti, è stato escluso che la disposizione di cui all'art. 4, comma 4, r.d.l. 13 novembre 1924, n. 1825, possa essere stata scalfita dall'entrata in vigore della l. n. 604 del 1966, posto che l'art. 10, di detta legge, si limita ad affermare che le disposizioni in essa contenute si applicano a tutti i prestatori di lavoro e, per quelli assunti in prova, dal momento in cui l'assunzione diviene definitiva e, in ogni caso, quando sono decorsi sei mesi dall'inizio del rapporto di lavoro, non introducendo una nuova disciplina del patto di prova, né fissando alcun termine in ordine alla sua durata.

Ribadita quindi l'attuale vigenza della norma del regio decreto legge convertito nella l. 18 marzo 1925, n. 562, il Tribunale ha risolto il contrasto esistente tra la citata norma, definita una “chiara norma imperativa” (Cass. 27 ottobre 2015, n. 21874) e la contrastante disposizione contenuta in un contratto collettivo di diritto comune (art. 19, comma 1, del CCPL per il personale delle Fondazioni di cui alla l. prov. 2 agosto 2005, n. 14), applicando la tecnica di regolazione cd. “sostitutiva” (artt. 1418 e 1339, c.c.), secondo cui la norma imperativa si sostituisce di diritto al regolamento negoziale di contenuto difforme.

Tale orientamento si pone in linea con quanto affermato dalla Suprema Corte in diverse sentenze (Cass. 27 ottobre 2015, n. 21874, Cass. 8 febbraio 1985, n. 1017; Cass. 20 dicembre 1985, n. 6575; Cass. 28 ottobre 1975, n. 3625) nelle quali, pur non negandosi la funzione integratrice della contrattazione collettiva in materia di inquadramento, si è stabilito che quest'ultima non può comunque giungere a derogare ad una norma imperativa.

In passato, la questione si era già posta con riferimento alle norme collettive recepite in un decreto delegato avente forza di legge, ai sensi di quanto previsto dall'art. 1, l. 14 luglio 1959, n. 741 (legge Vigorelli): anche in questo caso la norma collettiva (art. 6 del CCNL per gli impiegati dipendenti da imprese edili, esteso erga omnes con d.P.R. 14 luglio 1960, n. 1032, il quale fissava in quattro mesi la durata massima del periodo di prova), pur avendo pari forza normativa rispetto all'art. 4, comma 4, r.d.l. 13 novembre 1924, n. 1825, è stata ritenuta da quest'ultima sostituita di diritto, non in virtù del principio della gerarchia tra fonti diverse, bensì in ragione della previsione contenuta nell'art. 5, l. n. 741 del 1959, che espressamente vietava che le norme delegate potessero derogare a norme imperative di legge (Cass. 29 settembre 2008, n. 24282).

A maggior ragione, quindi, deve ritenersi incompatibile con l'art. 4, comma 4, r.d.l. 13 novembre 1924, n. 1825, una norma contenuta in un contratto collettivo di diritto comune, come nel caso sottoposto al Tribunale di Trento.

Condivisibile risulta altresì la decisione in ordine alle conseguenze derivanti dalla illegittimità del recesso ante tempus in materia di contratto a tempo determinato, rispetto al quale valgono gli ordinari rimedi risarcitori di natura civilistica.

Vale la pena di evidenziare che altrettanto non accade ove il licenziamento per mancato superamento del periodo di prova venga intimato nell'ambito di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con riferimento al quale la Suprema Corte, con una recente decisione (Cass. 3 dicembre 2018, n. 31159), ricognitiva della giurisprudenza precedentemente formatasi in materia, ha affermato che ove il patto di prova sia geneticamente viziato da nullità (ad esempio in caso di mancata stipula dello stesso per iscritto in epoca anteriore o almeno contestuale all'inizio del rapporto di lavoro ovvero nella frequente ipotesi di mancata specificazione delle mansioni da espletarsi) si verifica la “conversione” (in senso atecnico) del rapporto in prova in rapporto di lavoro ordinario e trova quindi applicazione l'apparato sanzionatorio in materia di licenziamenti individuali; nell'ipotesi in cui, viceversa, il vizio non sia di natura genetica ma funzionale (ad esempio nelle ipotesi in cui il lavoratore svolga in concreto mansioni diverse da quelle indicate nel patto di prova), il lavoratore avrà esclusivamente diritto al ristoro del pregiudizio sofferto, sicchè non troveranno applicazione le disposizioni limitative in tema di licenziamenti (l. n. 604 del 1966 e art. 18, l. n. 300 del 1970, e per gli assunti dopo il 7 marzo 2015, le disposizioni di cui al d.lgs. n. 23 del 2015), verificandosi unicamente la prosecuzione della prova per il periodo di tempo mancante al termine prefissato ovvero, ed in alternativa, il risarcimento del danno.

Riferimenti bibliografici

P.A. Varesi, Il patto di prova nel rapporto di lavoro, in Commentario al codice civile, Schlesinger, Milano, 1990, 3;

R. Del Punta, Lavoro in prova, in Enc. Giur. Treccani, Roma, 1990, 2;

R. De Luca Tamajo, La norma inderogabile nel diritto del lavoro, Napoli, Jovene, 1976.

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