Codice Civile art. 1559 - Nozione.

Nicola Rumine

Nozione.

[I]. La somministrazione è il contratto con il quale una parte si obbliga, verso corrispettivo di un prezzo [1561, 1562], a eseguire, a favore dell'altra, prestazioni periodiche o continuative di cose [1560] (1).

(1) V. artt. 74 r.d. 16 marzo 1942, n. 267, 121 d.lg. 1° settembre 1993, n. 385 e 73-ter d.lg. 19 settembre 1994, n. 626.

Inquadramento

La distribuzione commerciale (detta anche concessione di vendita) è il contratto con cui una parte, detta concedente, si obbliga a vendere i propri prodotti all'altra, detta concessionaria, con l'intesa che quest'ultima ne promuoverà la commercializzazione in modo continuativo.

La parte concessionaria, in particolare, assume l'impegno di promuovere la commercializzazione dei prodotti in conformità alle direttive impartite da quella concedente e offrendo a quest'ultima, quale contropartita, una porzione dei ricavi.

Il contratto di distribuzione commerciale soddisfa le esigenze del produttore concedente, il quale intende incrementare il volume dei propri affari senza sostenere le spese e i rischi connessi alla costruzione di una nuova rete di distribuzione, ma al contempo restare titolare di un certo potere di direzione e di controllo, e quelle del distributore concessionario, che gode dei vantaggi della pubblicità, dello sfruttamento di marchi, brevetti e know-how e di altre strategie commerciali provenienti direttamente dal produttore (Cavandoli, 384-385; in giurisprudenza, tra le molte, App. Milano I, n. 1916/2022).

Le origini del contratto di concessione di vendita

Il contratto di concessione di vendita si è affermato a partire dall'inizio del secolo scorso, quale conseguenza della diffusione di prodotti contraddistinti da un marchio.

Il fulcro del contratto in commento consiste infatti nell'assunzione di una serie di oneri da parte del concessionario, giustificata dalla natura della contropartita, che è appunto la possibilità di vendere i prodotti col marchio del concedente (Bortolotti, 2).

La concessione di vendita ha avuto un notevole sviluppo nel momento in cui le grandi imprese del settore automobilistico si sono trovate ad affrontare i problemi derivanti dalla possibilità o dall'esigenza di commercializzare prodotti in aree geografiche molto lontane.

Tale formula, non a caso, ha riscosso il maggior successo dopo la seconda guerra mondiale, quando, a causa della penuria di mezzi finanziari che ostacolava l'espansione delle imprese di medie dimensioni, fu abbandonato il vecchio sistema delle succursali proprio in favore della concessione di vendita.

Il medesimo fenomeno è stato osservato, pur progressivamente, anche nel nostro Paese, soprattutto nel mercato degli autoveicoli e dei macchinari per l'industria e l'agricoltura (Cagnasso, 382; Zuddas, 177).

La natura del contratto di concessione di vendita

Come è noto il contratto di concessione di vendita non è oggetto di apposita regolamentazione.

È quindi opportuno dare conto delle principali teorie elaborate nel tempo dalla dottrina e dalla giurisprudenza rispetto alla normativa applicabile (Mirra, 291).

In un primo momento era diffusa la teoria che riconduceva il contratto di concessione di vendita interamente nell'alveo del contratto di somministrazione.

Era infatti osservato che l'unica differenza tra le due figure consisteva nel fatto che le forniture oggetto della somministrazione erano destinate all'uso o al consumo, mentre quelle della concessione di vendita erano volte alla commercializzazione.

Si riteneva, in definitiva, che il contratto di concessione di vendita fosse pienamente riconducibile alla somministrazione, di cui sarebbe stata applicabile interamente la disciplina (Trib. Brescia, III, 11 dicembre 2003).

La citata tesi dell'applicabilità in toto delle regole dettate per la somministrazione risulta oggi minoritaria, osservandosi soprattutto in dottrina che nei contratti di distribuzione non rileva soltanto il momento dello scambio, ma anche il profilo della collaborazione tra le parti in vista del raggiungimento dello scopo contrattuale.

Si è segnatamente osservato che assimilare il contratto di concessione di vendita a quello di somministrazione significa vedere in modo incompleto e parziale il fenomeno della concessione: basti pensare che nella somministrazione non vi è alcun riferimento all'attività di promozione dei prodotti, né tantomeno a quelle di rivendita dei prodotti stessi, mentre nella concessione di vendita questi costituiscono elementi caratteristici e anzi distintivi.

Quanto appena detto non significa peraltro che talune disposizioni relative al contratto di somministrazione non possano trovare applicazione al contratto di distribuzione (Mirra, 291).

In ordine alla natura del contratto di concessione e alla disciplina applicabile una tesi dottrinale ulteriore è quella che predica l'accostamento con il contratto di agenzia.

Anch'essa, tuttavia, non ha trovato il seguito della dottrina e della giurisprudenza, potendosi anzi definire oggi nettamente minoritaria (Mirra, 291-292).

Si è infatti affermato che la struttura del contratto di concessione di vendita è incompatibile con quella tipica del contratto di agenzia, alla luce della natura del contratto di scambio della concessione di vendita, che non può di certo esaurirsi nel mero profilo della collaborazione a scopi commerciali (Cass. III, n. 6819/1994).

Nello stesso senso richiamando tra l'altro le pronunce della Corte di legittimità, v. Trib. Perugia II, n. 932/2020, secondo cui Il contratto di concessione di vendita è un contratto atipico, non inquadrabile tra quelli di scambio con prestazioni periodiche, avente natura di contratto normativo, dal quale deriva l'obbligo per il concessionario di promuovere la formazione di singoli contratti di compravendita e di concludere contratti di trasferimento dei prodotti che gli vengono forniti, mediante la stipulazione a condizioni predeterminate nell'accordo iniziale. Tale contratto differisce da quello di agenzia perché in esso la collaborazione tra concedente e concessionario, pur prevista, non assurge ad elemento determinante.

Così anche Cass. II, n. 25460/2023, per cui la concessione di vendita è un contratto atipico, non inquadrabile tra quelli di scambio con prestazioni periodiche, avente natura di contratto normativo, dal quale deriva per il concessionario il duplice obbligo di promuovere la formazione di singoli contratti di compravendita e di concludere contratti di puro trasferimento dei prodotti che gli vengono forniti alle condizioni fissate nell'accordo iniziale; pertanto, detto contratto differisce da quello di agenzia perché in esso la collaborazione tra concedente e concessionario non costituisce elemento determinante.

Ulteriore aspetto distintivo si apprezza sotto il profilo delle indennità, poiché, mentre il contratto di agenzia conferisce all'agente il diritto di percepire un'indennità di scioglimento commisurata agli affari procurati in corso di rapporto, nella concessione di vendita la circostanza che il concessionario agisca in nome e per conto proprio, senza spendita del nome e senza che si instauri alcun rapporto tra il produttore concedente e il compratore finale del bene, rende inapplicabile in via analogica al concessionario la norma dell'art. 1751 c.c. (Trib. Roma, 12 marzo 1997).

In giurisprudenza ha trovato spazio anche la tesi secondo cui il contratto di concessione di vendita è un contratto misto, presentando elementi comuni al contratto di compravendita, di mandato e di somministrazione (Trib. Torino, 15 settembre 1989).

La tesi era stata sostenuta anche dalla Corte di legittimità, la quale aveva rilevato che il contratto mediante il quale un'impresa si obbliga allo svolgimento di un'attività promozionale per la diffusione di un prodotto in esclusiva non è qualificabile come contratto di commissione, bensì come contratto sinallagmatico misto che, in quanto tale, evidenzia elementi sia della vendita che del mandato, con prevalenza della prima (Cass. III, n. 4961/1979).

Anche il predetto orientamento è stato contestato dalla dottrina e dalla giurisprudenza successive, soprattutto nella parte in cui afferma l'applicabilità delle norme relative al contratto di mandato.

La concessione, infatti, a differenza del mandato, prevede il compimento di attività di natura economica, quali sono quelle di promozione e di organizzazione delle vendite nell'interesse del concedente (Mirra, 293).

Al di là dell'applicazione delle norme sul mandato, la tesi maggioritaria in dottrina è comunque quella predicativa dell'atipicità del contratto di concessione.

Non è dunque possibile una totale assimilazione del contratto in esame ad un unico schema contrattuale e ciò potrebbe anzi comportare vuoti di tutela.

Il giusto riferimento normativo, pertanto, è costituito dall'art. 1322 c.c., il quale dà alle parti la possibilità di concludere contratti che non appartengano ai tipi aventi una disciplina particolare, purché diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico.

La dottrina qualifica il contratto di distribuzione commerciale, oltre che come contratto atipico, come contratto quadro (Cagnasso, 52; Galgano, 28; Moncalvo, 113; Pardolesi, 253 ss.).

Anche la giurisprudenza più recente aderisce alla tesi dell'atipicità del contratto di concessione di vendita.

È stato ad esempio detto che la concessione di vendita non è inquadrabile soltanto nei contratti di scambio con prestazioni periodiche, poiché da essa deriva anche l'obbligo per il concessionario di promuovere la conclusione di singoli contratti di compravendita alle condizioni predeterminate nell'accordo iniziale.

È stato affermato, in buona sostanza, che la concessione di vendita è un contratto cui sono applicabili talune delle disposizioni di legge previste per i contratti ad esso assimilabili, come quelle del contratto di somministrazione e del contratto di mandato (v. Cass.II, n. 4948/2017; Cass. I, n. 3990/2010; Cass. III, n. 20106/2009; Cass. n. 6819/1994; Cass.I, n. 14891/2002; Cass. I, n. 11960/1990).

Nello senso, di recente, Cass. III, n. 19315/2023, ha affermato che la concessione di vendita è un contratto atipico, non inquadrabile tra quelli di scambio, con prestazioni periodiche, e ha natura di contratto "normativo", dal quale deriva a carico del concessionario il duplice obbligo di promuovere la formazione di singoli contratti di compravendita (o rivendita) e di concludere contratti di puro trasferimento dei prodotti che gli vengono forniti alle condizioni fissate nell'accordo iniziale.

Le figure contrattuali limitrofe

Quanto appena osservato in merito alla natura del contratto di concessione di vendita fa sorgere l'esigenza di distinguere lo stesso da altre figure contrattuali.

Occorre innanzitutto distinguerla dal contratto di somministrazione, malgrado alcune tesi dottrinali, come visto, ne sostengano la sostanziale equivalenza.

Si distinguono in particolare perché il contratto di somministrazione ha ad oggetto la fornitura di beni o di servizi per il consumo, mentre la concessione di vendita incarna sia una funzione di scambio sia una finalità di collaborazione e di integrazione (Venezia, 134).

Si è poi notato che mentre nel contratto di somministrazione la funzione traslativa tende a concretizzarsi mediante la conclusione di un negozio unico, che manifesta l'intesa delle parti in ordine al trasferimento e all'acquisto di una quantità di beni previamente determinata o determinabile a seconda delle richieste del somministrato, nella concessione di vendita la stessa non si realizza se non attraverso la stipulazione di diversi contratti di scambio (Bortolotti, 226; Cagnasso, 37; D'Alessandro, 88; Delli Priscoli, 501; Pardolesi, 220 ss.).

Quanto sopra non elimina la circostanza che potrebbe aversi un contratto di concessione di vendita con il medesimo contenuto e struttura della somministrazione, perlomeno quando sia stata prevista la clausola di esclusiva di cui all'art. 1568 c.c. (Venezia, 134).

Anche la giurisprudenza di legittimità si è pronunciata al riguardo, stabilendo che la concessione di vendita, pur presentando aspetti che per qualche verso l'avvicinano al contratto di somministrazione, non può essere inquadrata in uno schema contrattuale tipico, trattandosi di un contratto innominato che si caratterizza per una complessa funzione di scambio e di collaborazione e che consiste sul piano strutturale in un contratto quadro o normativo, da cui deriva l'obbligo di stipulare singoli contratti di compravendita o l'obbligo di concludere contratti di puro trasferimento dei prodotti alle condizioni fissate nell'accordo iniziale (Cass. II, n. 1469/1999 e Cass. III, n. 38223/2021. Nella giurisprudenza di merito si veda, tra le più recenti, Trib. Firenze III, n. 1538/2021).

La concessione di vendita, inoltre, si distingue dal contratto di commissioneex art. 1731 ss. c.c., come è evidente se si considera che il concessionario agisce in nome e conto proprio, mentre il commissionario agisce per conto del committente, che, così facendo, partecipa direttamente all'attività di distribuzione dei suoi prodotti.

Nella commissione, inoltre, a differenza della concessione di vendita, grava sul commissionario l'eventuale inadempienza dei contraenti, nonché sul committente l'obbligo di rimborso al mandatario delle anticipazioni (con gli interessi legali dal giorno in cui sono state fatte) e di corrispondere allo stesso il compenso che gli spetta (Cavandoli, 409).

Peraltro, a proposito degli effetti dei contratti conclusi dal distributore, di recente la Corte di giustizia, con sentenza n. 680/2023, ha concluso nel senso che i comportamenti adottati da distributori facenti parte della rete di distribuzione dei prodotti o dei servizi di un produttore che gode di una posizione dominante possono essere imputati a quest'ultimo, qualora sia dimostrato che tali comportamenti non sono stati adottati in modo indipendente da detti distributori, ma fanno parte di una politica decisa unilateralmente da tale produttore e attuata tramite tali distributori.

Per quanto concerne la differenza tra la concessione di vendita e il contratto di mandato, può osservarsi che nella concessione di vendita difetta il compimento di un'attività c.d. giuridica, che è oggetto tipico del mandato, dovendo il concessionario vendere e promuovere le vendite, ovvero svolgere attività di impresa piuttosto che compiere atti giuridici (Cavandoli, 411).

La concessione di vendita si distingue altresì dal contratto estimatorio, che è il contratto della distribuzione commerciale per cui un soggetto consegna beni mobili a un altro soggetto, cge a sua volta si obbliga a pagarne il prezzo o a restituirli entro un termine stabilito.

Dunque nel contratto estimatorio la proprietà dei beni non passa all'accipiens con la consegna, divenendone questi proprietario soltanto con il pagamento del prezzo.

Le due figure contrattuali, in definitiva, differiscono perché nella concessione di vendita, diversamente dal contratto estimatorio, il concessionario acquista i prodotti dal concedente per poi rivenderli in nome e conto proprio, oltre che per il fatto che quest'ultimo svolge un'attività promozionale estranea allo schema tipico del contratto estimatorio (Cavandoli, 412).

Decisamente più ardua è la distinzione tra la concessione di vendita e il contratto di affiliazione commerciale (c.d. franchising ) (Scorza, 516 ss.; Sega, 3 ss.).

Entrambi i negozi sono infatti riconducibili al genus dei contratti per la distribuzione commerciale c.d. integrata, essendo genericamente finalizzati alla commercializzazione di determinati beni attraverso un sistema di distribuzione, composto da soggetti indipendenti dall'impresa produttrice.

Il concessionario e il franchisee sono entrambi imprenditori autonomi facenti parte del sistema distributivo del concedente (o del franchisor), ma nella concessione di vendita può difettare il trasferimento dei diritti di utilizzazione del know-how e dei segni distintivi che invece caratterizza il franchising.

Nel franchising, inoltre, difetta l'obbligo promozionale che grava invece, tipicamente, sul concessionario.

Di regola, poi, il concessionario conserva maggiore autonomia rispetto al franchisee e non è tenuto a pagare una fee di ingresso nel circuito distributivo del franchisor, come avviene appunto nel franchising (Spinozzi, 277-278).

Va tuttavia ricordato che secondo una parte minoritaria della dottrina non sarebbe ravvisabile alcuna significativa divergenza tra concessione di vendita e franchising, a partire dall'accordo quadro iniziale, da cui dipendono i successivi atti di scambio (D'Alessandro, 92; Delli Priscoli, 509; Scorza, 517).

Un'ultima distinzione, già analizzata poc'anzi a proposito delle teorie sulla natura del contratto di concessione di vendita, è quella che consente di distinguere la concessione di vendita dal contratto di agenzia.

Si è visto, infatti, che la struttura del contratto di concessione di vendita è incompatibile con quella tipica del contratto di agenzia, dal momento che una tale assimilazione non tiene conto della natura del contratto di scambio della concessione di vendita, che non può di certo esaurirsi nel mero profilo della collaborazione a scopi commerciali (Cass. III, n. 6819/1994).

Ulteriore elemento distintivo si apprezza sotto il versante delle indennità dovute in caso di scioglimento del contratto, posto che il contratto di agenzia conferisce all'agente il diritto di percepire un'indennità di scioglimento commisurata ai nuovi affari procurati, mentre nella concessione di vendita la circostanza che il concessionario agisca in nome e per conto proprio, senza spendita del nome e senza che si instauri alcun rapporto tra produttore-concedente e il compratore finale del bene, rende inapplicabile al concessionario la disposizione normativa in tema di indennità nel rapporto di agenzia prevista all'art. 1751 c.c. (Trib. Roma, 12 marzo 1997).

La struttura e i caratteri della concessione di vendita

Per quanto concerne la struttura del contratto di concessione di vendita deve osservarsi che nella prassi commerciale esso si atteggia come un contratto a prestazioni periodiche, come un contratto quadro da cui deriva l'obbligo di concludere ulteriori contratti o ancora come un contratto preliminare a cui faranno seguito successivi contratti definitivi (Mirra, 294).

Si è affermato, infatti, che qualora le parti abbiano interesse a mantenere una certa elasticità relativamente al contenuto dei successivi contratti la concessione di vendita assumerà le vesti del contratto-quadro, mentre se le parti manifestino un interesse opposto, la concessione di vendita potrà configurarsi come un contratto che, da un lato, regolamenta le modalità di collaborazione, dall'altro disciplina i futuri scambi attraverso un accordo preliminare (Di Lorenzo).

L'analisi ermeneutica del testo contrattuale e della volontà delle parti consente di individuare la natura del contratto e le norme applicabili.

Infatti, trattandosi di contratto atipico, le norme applicabili dipendono dalla singola e concreta pattuizione (Cass. I, n. 9035/1995; Cass. I, n. 11960/1990).

Se dunque è vero che in genere l'autonomia imprenditoriale del concessionario è notevolmente ridotta a fronte della posizione privilegiata attribuitagli dal concedente, è però possibile che le parti abbiano disciplinato diversamente taluni aspetti del rapporto, riservando all'autonomia del concessionario uno spazio più o meno ampio (Cass. II, n. 1469/1999).

In ordine alle applicazioni pratiche della concessione di vendita, si osservi che esso viene utilizzato sia a livello di vendita all'ingrosso, come è il caso dei concessionari responsabili di un'intera zona, o addirittura di un intero paese, sia al dettaglio, come avviene nell'esempio classico dei concessionari di automobili (D'Alessandro, 72).

Pur trattandosi del medesimo contratto, la concessione di vendita al dettaglio presenta alcune peculiarità rispetto alla concessione di vendita all'ingrosso poiché nella prima l'attività promozionale è normalmente legata a un determinato punto vendita.

È inoltre evidente che i compiti di un concessionario incaricato di organizzare la distribuzione su un territorio di sua competenza sono notevolmente differenti da quelli che possono connotare un rivenditore al dettaglio integrato (quale può essere, come si è detto, un concessionario di automobili).

Da ultimo occorre considerare che il concessionario al dettaglio ha spesso un più elevato grado di dipendenza dal concedente e ciò spiega perché alcuni orientamenti della giurisprudenza hanno evidenziato la posizione di inferiorità del concessionario (Bortolotti, 4).

Quanto sopra illustrato consente di individuare i principali caratteri del contratto di concessione di vendita, essenzialmente tre.

Il primo elemento caratterizzante è dato dal fatto che la concessione di vendita appartiene al genere dei contratti di distribuzione, aventi come funzione economica primaria la commercializzazione dei prodotti del concedente in un determinato territorio e conformemente alle direttive del concedente stesso.

Il secondo carattere è dato dal fatto che il contratto di distribuzione implica l'attribuzione al concessionario di una posizione di privilegio — costituita normalmente, ma non necessariamente, da un diritto di esclusiva per la rivendita dei prodotti del concedente — come contropartita degli oneri di commercializzazione nonché dell'assunzione di un vincolo di fedeltà.

Il terzo carattere essenziale è dato dal fatto che il concessionario agisce come acquirente-rivenditore, a differenza di quanto avviene con gli intermediari commerciali in senso stretto, quali sono gli agenti o i commissionari (Bortolotti, 3).

La disciplina applicabile alla concessione di vendita

Si è visto che la disciplina applicabile dipende dalle caratteristiche della singola pattuizione, ma anche che, in linea generale, è possibile fare riferimento alle norme dettate dal legislatore per i contratti di somministrazione, mandato e compravendita (Bortolotti, 3).

In particolare sono comunemente ritenuti applicabili alla concessione di vendita gli artt. 1561, 1562 e 1563 c.c., in tema di determinazione e momento di corresponsione del prezzo e di scadenza delle singole prestazioni, nonché l'art. 1564 c.c., in tema di risoluzione del contratto.

L'art. 1561 c.c. stabilisce che qualora il prezzo debba essere determinato in base all'art. 1474 c.c., si ha riguardo al tempo della scadenza delle singole prestazioni e al luogo in cui queste devono essere eseguite.

Il successivo art. 1562 c.c. stabilisce il momento in cui il prezzo deve essere corrisposto, ossia all'atto delle singole prestazioni, in proporzione di ciascuna di esse e secondo le scadenze d'uso.

L'art. 1563 c.c. prevede che il termine fissato per le singole prestazioni si considera stabilito nell'interesse di entrambe le parti e che nel caso in cui l'avente diritto alla somministrazione (nel nostro caso il concessionario) abbia la facoltà di fissare la scadenza delle singole prestazioni, debba comunicarlo al somministrante (concedente) con congruo preavviso.

In tema di risoluzione del contratto, l'art. 1564 c.c. dispone che essa può essere richiesta dalla parte adempiente in caso di inadempimento dell'altra, purché detto inadempimento risulti di notevole importanza e sia tale da menomare la fiducia nell'esattezza dei successivi adempimenti (Baldi — Venezia, 77 ss.; Venezia, 133).

Sono generalmente ritenuti applicabili alla concessione di vendita, seppur con alcuni correttivi, anche gli artt. 1567 e 1568 c.c., i quali prevedono la possibilità di pattuire una clausola di esclusiva in favore di una o di entrambe le parti.

L'obbligo di promozione in capo al concessionario è infatti ritenuto elemento naturale del contratto (Cass. I, n. 11960/1990).

Parimenti ritenute applicabili sono le norme della somministrazione in tema di sospensione della fornitura di cui all'art. 1565 c.c., nonché quelle sul patto di preferenza, ai sensi dell'art. 1566 c.c., per la stipula di nuovi contratti.

L'art. 1565 c.c., nello specifico, permette alla parte adempiente di sospendere la fornitura in caso di inadempimento dell'altra anche di lieve entità, previa comunicazione con congruo preavviso.

L'art. 1566 c.c. disciplina invece il c.d. patto di preferenza, attraverso il quale le parti concordano che il concessionario abbia il diritto di stipulare i successivi contratti con il fornitore, purché aventi lo stesso oggetto e purché la durata del patto non ecceda il termine di legge di cinque anni.

È infine ritenuta applicabile alla concessione di vendita l'art. 1569 c.c., il quale prevede la facoltà di recesso dal contratto a tempo indeterminato, con preavviso, se previsto dalle parti o in applicazione di usi o di una valutazione di congruità che faccia riferimento alla natura del contratto.

La disciplina applicabile alla concessione di vendita a livello internazionale

Quando il contratto di distribuzione coinvolge imprenditori di diverso paesi, ovvero ha ad oggetto un territorio diverso da quello in cui è stabilito il distributore, si parla di contratto di distribuzione internazionale.

In una nota pronuncia la Corte di Giustizia dell'Unione europea ha chiarito che per configurare un contratto come contratto di distribuzione internazionale è necessario l'impegno attivo del distributore ad ampliare la rete di vendita del concedente, nonché la previsione di un corrispettivo, non necessariamente in denaro, ben potendo essere rappresentato da differenti vantaggi economici, quali, ad esempio, la concessione della distribuzione dei prodotti del fornitore in esclusiva in un determinato territorio, la possibilità di godere di periodi di formazione (così da avere accesso al know-how del concedente), oppure agevolazioni di pagamento per l'acquisto dei prodotti del concedente (Corte di Giustizia dell'Unione Europea del 19/12/2013 in C 9/12, Corman-Collins/La Maison du Whisky).

Altro aspetto rilevante è quello della legge applicabile al contratto di distribuzione. Si pensi, a mero titolo di esempio, che in Portogallo e in Belgio è previsto l'obbligo del fornitore di corrispondere al distributore un'indennità di fine rapporto in seguito alla cessazione del contratto, intendendosi valorizzare l'impegno del concessionario nel periodo di vigenza contrattuale e l'effetto promozionale realizzato.

Non sorgono quindi problemi interpretativi se le parti indicano la legge che intendono applicare al rapporto giuridico all'interno di un contratto scritto.

Se invece niente è previsto il regolamento n. 593/2008/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 17 giugno 2008, relativo alla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (c.d. regolamento Roma I), stabilisce che in mancanza di scelta la legge applicabile è quella del distributore.

Le medesime questioni riguardano il foro competente a conoscere le eventuali controversie tra imprenditori di paesi diversi (per un'applicazione recente si veda Cass. S.U., n. 29176/2020): infatti, nel caso in cui un contratto internazionale di distribuzione non preveda espressamente la scelta del foro competente, esso è sottoposto alla giurisdizione del paese nel quale i beni forniti giungono nell'effettiva disponibilità del distributore (normalmente, lo stesso paese in cui ha sede il distributore, a prescindere dal termine di resa prescelto), così come sancito a livello comunitario dal regolamento n. 1215/2012/UE.

In ambito comunitario il contratto di concessione di vendita rileva anche sotto il profilo della tutela della concorrenza, essendo detto schema negoziale in grado di incidere in maniera rilevante sul mercato.

Al riguardo occorre fare menzione del regolamento n. 461/2010/UE in materia di accordi verticali, specificamente rivolto al settore della distribuzione degli autoveicoli (Venezia, 139-140).

Gli obblighi del concedente

Per quanto concerne gli obblighi del concedente, questi è tenuto innanzitutto a fornire al concessionario i prodotti oggetto del contratto, secondo le modalità e tempistiche stabilite contrattualmente.

Al riguardo si discute in dottrina se l'obbligo del concedente di vendere i prodotti al concessionario debba qualificarsi o meno come imprescindibile.

Da una parte, infatti, autorevole dottrina si è espressa in senso affermativo, rilevando l'essenzialità di tale elemento (Cartella, 298 ss.).

Altre (e prevalenti) opinioni dottrinali rilevano invece che l'obbligo del concedente di vendere i propri prodotti al concessionario può difettare e che infatti talvolta le parti non determinano inizialmente la misura della fornitura, ma rinviano tale determinazione a un futuro accordo (Cagnasso-Irrera, 17 ss.; Pardolesi, 230 ss.).

Ulteriore obbligo del concedente è quello di garantire il concessionario in caso di vizi della cosa.

Il concessionario, infatti, si occupa della rivendita dei beni del produttore e pertanto risponde verso l'acquirente finale per i vizi degli stessi.

È quindi interesse di entrambe le parti pattuire le modalità operative della predetta garanzia, lo scambio di informazioni, la formazione del personale del concessionario, ecc. (Cavandoli, 394; Costanza, 1814).

Del resto anche la giurisprudenza di merito ha rilevato che la concessione in vendita di un veicolo attribuisce al concessionario, non solo il diritto derivante dalla vendita esclusiva del prodotto in una determinata zona, ma anche l'obbligo di offrire assistenza agli acquirenti dello stesso, mettendo a disposizione la necessaria organizzazione per le verifiche del veicolo durante il periodo di garanzia.

Il titolare dell'obbligazione dedotta nella garanzia, pertanto, resta il produttore venditore che continua a garantire i vizi della cosa vendita e il suo buon funzionamento tramite l'opera del concessionario, obbligato sì, ma nei confronti del produttore, a mettere a disposizione gli strumenti necessari per rendere operante la garanzia di buon funzionamento del veicolo compravenduto (Giudice di Pace di Taranto, 6 febbraio 2005).

Come si è visto la concessione di vendita può avere ad oggetto diversi settori merceologici e in riferimento a ciascuno di essi può essere pattuito l'utilizzo dei diritti di proprietà industriale del concedente, ovvero marchi, brevetti e know-how.

Ovviamente tali diritti possono essere utilizzati dal concessionario solo in relazione ai beni del concedente.

Inoltre il concessionario non può registrare a suo nome, anche limitatamente alla zona ove si svolge la sua attività, i diritti di proprietà industriale del concedente, neppure per settori merceologici diversi, né tantomeno può produrre prodotti simili.

All'interno dei contratti di distribuzione viene generalmente inserita una clausola risolutiva espressa, ma potrebbe anche trovare applicazione la disciplina generale in materia di concorrenza sleale di cui all'art. 2598, comma 1, c.c. (Cavandoli, 394-395).

La giurisprudenza ha chiarito che la clausola contenuta nelle condizioni generali di un contratto di concessione di vendita, la quale preveda l'obbligo della concessionaria di non riprodurre direttamente o indirettamente, in tutto o in parte, i disegni e/o i prodotti forniti dalla concedente, è di dubbia validità, considerata la genericità dell'oggetto e l'assenza di un corrispettivo o altro vantaggio a favore di chi si obbliga a non compiere un atto altrimenti lecito, fermo restando che la mera condotta di imitazione servile è illecita di per sé in ragione dell'art. 2598, 1° co., c.c., e non è concepibile un patto di non concorrenza che vieti la concorrenza sleale già vietata dalla legge (Trib. Bologna, 3 maggio 2001).

Gli obblighi del concessionario

Tre sono le obbligazioni principali che gravano sul concessionario:

1) l'obbligo di acquistare in proprio i beni forniti dal concedente;

2) l'obbligo di rivenderli;

3) l'obbligo di svolgere attività promozionale e di commercializzare i prodotti (su cui di recente Cass. II, n. 29053/2022).

A proposito dell'obbligo di acquisto in capo al concessionario, resta fermo quanto detto sopra a proposito della sua essenzialità.

È comunque ricorrente la clausola che impone al concessionario l'acquisto di quantitativi minimi di prodotti dal concedente, in un arco di tempo predeterminato (in genere un anno) e che, in caso di violazione, attribuisce al fornitore il diritto di recedere dal contratto (Mirra, 302).

Nei contratti in esame è poi ricorrente la clausola che costringe il concessionario ad applicare il prezzo imposto dal concedente. La clausola è ritenuta lecita quando destinata a operare entro limiti di durata del rapporto cui accede e quando non opera in contrasto con la libertà di scelta del consumatore.

Il concedente stabilisce spesso incentivi al raggiungimento di determinati target di vendita, ad esempio sconti sugli acquisti successivi (Mirra, 301-302; Cavandoli, 387).

In ordine all'obbligo promozionale può poi notarsi che è regolato caso per caso dalle parti, che ne individuano dettagliatamente le modalità attuative (Mirra, 301; Cavandoli, 387).

Il contenuto dell'obbligo di svolgere attività promozionale è di difficile identificazione, comprendendo attività dirette a incrementare le vendite e la rinomanza dei segni distintivi del concedente, da porre in essere mediante attività strumentali determinate da entrambe le parti, o anche dal solo concedente, in relazione alla zona e al settore merceologico.

A titolo esemplificativo rientrano nell'attività promozionale la pubblicità a livello locale, le aperture del concessionario in orari particolari o in giorni festivi, l'offerta di una particolare assistenza tecnica, l'organizzazione e la sponsorizzazione di eventi locali.

Peraltro i concessionari sono di regola obbligati a comunicare le proprie strategie commerciali al concedente, così rinunciando in parte alla propria autonomia imprenditoriale, per seguire le indicazioni commerciali del concedente, che è dunque titolare di un potere di supremazia e coordinamento dell'intera rete distributiva.

Come si è visto, quale corrispettivo della situazione di soggezione in cui viene a trovarsi nei confronti del concedente, spetta al concessionario il privilegio di far parte della sua rete distributiva e, dunque, la possibilità di ottenere beni a prezzi vantaggiosi, di sfruttare i segni distintivi del concedente, di godere delle campagne pubblicitarie e delle sponsorizzazioni del concedente, ecc.

È evidente, infatti, la differenza tra la posizione privilegiata del concessionario di vendita rispetto al rivenditore autorizzato, oltre che per l'effetto attrattivo sul pubblico, anche per le condizioni di favore negli acquisti dal produttore che spettano al primo (Cavandoli, 388).

Ulteriore obbligo a carico del concessionario ma in realtà gravante anche sul concedente, è quello della buona fede nell'esecuzione del contratto, al quale proposito è interessante evocare un noto precedente della giurisprudenza di legittimità, che era stata infatti chiamata a giudicare della domanda risarcitoria avanzata da un concessionario in conseguenza delle plurime forniture di autoveicoli difettosi.

La Suprema Corte ha osservato che l'obbligo del concedente di non pregiudicare il prestigio del proprio marchio, al fine di evitare pregiudizi per il concessionario, è connaturato alla concessione di vendita (Cass., II, n. 1469/1999).

È frequentemente oggetto di pattuizione anche l'obbligo di segretezza del concessionario, ovvero di non divulgare e di non utilizzare, neanche dopo la scadenza del contratto, le notizie riservate, nonché quanto altrimenti conosciuto nell'esecuzione del contratto.

L'obbligo di segretezza riguarda i documenti interni (bollettini di servizio, circolari), quelli di carattere tecnico e i documenti di natura commerciale.

Peraltro secondo parte della giurisprudenza tale obbligo, anche se non espressamente pattuito, può ritenersi ricompreso nel generale obbligo di buona fede nell'esecuzione del contratto di cui all'art. 1375 c.c. (Trib. Monza, 17 aprile 2000).

Le clausole più ricorrenti nei contratti di distribuzione

La clausola di esclusiva può essere prevista nell‘interesse del concedente, del distributore o di entrambi e rinviene il proprio fondamento normativo negli artt. 1567 e 1568 c.c., relativi al contratto di somministrazione, applicabili analogicamente.

Quando tale clausola è posta nell'interesse del concedente, il concessionario assume l'obbligo di non vendere prodotti concorrenti nella zona assegnata.

Se invece è pattuita nell'interesse del concessionario, il concedente si impegna a vendere i prodotti contrattuali nella zona assegnata soltanto al concessionario.

Nel terzo caso, ossia quando la clausola è posta nell'interesse di entrambe le parti, gli impegni sono reciproci (Simonini, 113).

In proposito la giurisprudenza di legittimità ha rilevato che l'esclusiva è un elemento meramente accessorio del contratto di concessione di vendita e la mera assegnazione dell‘esclusiva di zona non fa presumere di per sé l'esclusiva del prodotto in capo al concessionario.

Infatti la pattuizione dell'esclusiva è autonoma rispetto alla determinazione della zona di riferimento, per cui l'assegnazione di una determinata zona per lo svolgimento dell'attività del concessionario non implica il conferimento anche dell'esclusiva per quella zona (Trib. Milano VII, n. 348/2018; Cass. III, n. 6819/1994).

Sul medesimo assunto la giurisprudenza ha chiarito anche che alla clausola di esclusiva non si applica il disposto dell'art. 2596 c.c., con le sue limitazioni in termini di forma, durata e contenuto e, in particolare, non trova applicazione il divieto di limitare la concorrenza per un tempo superiore a cinque anni, atteso che la clausola di esclusiva è da reputarsi accessoria al più ampio rapporto di distribuzione (Cass. III, n. 1238/2000, seppure con riferimento al contratto di somministrazione).

Come già in parte detto la clausola di esclusiva deve essere prevista espressamente e chiaramente e non può essere ricavata implicitamente dalla predeterminazione di una zona al concessionario, non essendovi alcun necessario collegamento tra zona ed esclusiva (Trib. Milano, VII, n. 348/2018; Cass. III, n. 6819/1994).

Sono poi frequenti le clausole con cui si impone al distributore di raggiungere obiettivi minimi di fatturato, trasformando l‘obbligazione di mezzi del concessionario in obbligazione di risultato.

Restano tuttavia molte perplessità circa la validità di dette clausole, tanto che non infrequentemente, per evitare che piccole differenze possano determinare lo scioglimento del contratto, specialmente in presenza di un comportamento diligente del distributore, sono previste fasce di tolleranza.

Tra l'altro accade spesso che il deficit prestazionale sia ascrivibile a elementi esterni al concessionario e dunque dal medesimo non controllabili, ad esempio una contingenza economica negativa (Simonini, 113 ss.).

È poi frequente che le parti fissino, almeno in termini generali, i prezzi di rivendita.

Al concessionario, in tal caso, è richiesto di applicare i prezzi del listino clienti fornito dal concedente.

Il prezzo di acquisto del distributore è generalmente calcolato sul prezzo di listino. Sono poi di regola previste clausole c.d. di price protection, nel caso di eccessiva oscillazione dei listini al ribasso.

Il concedente, infatti, non può fissare direttamente o indirettamente i prezzi della rivendita perché in tal modo si limiterebbe l‘autonomia del concessionario e di conseguenza la concorrenza intrabrand.

La fissazione di un prezzo minimo è stata ritenuta fortemente anticompetitiva poiché suo tramite il produttore cerca di ridurre ogni possibilità di concorrenza tra i distributori, limitando la possibilità di sconto e aumentando la possibilità di creare cartelli (Simonini, 113 ss.).

A proposito del c.d. patto di riservato dominio, di esso si è discusso dopo che la Corte di legittimità aveva ritenuto il contratto di concessione di vendita meramente programmatico, con la conseguenza che le clausole di riserva di proprietà dei beni venduti ivi contenute non potevano essere opposte al fallimento del distributore, essendo necessaria la riproduzione della clausola anche nelle vendite esecutive.

Attualmente, il problema può porsi in termini diversi, a seguito dell‘introduzione dell‘art. 11 del d.lgs. 231/02, il quale prevede che la clausola di riserva di proprietà deve essere preventivamente concordata per iscritto e trasposta nelle fatture.

È vero che la fattura nel nostro ordinamento ha mero valore fiscale, ma nella richiamata normativa sembra di cogliere l'esigenza di una speditezza dei traffici commerciali e della semplicità e uniformità delle procedure.

Il ricorso alle formalità richieste dalla normativa richiamata appare necessario, poi, per opporre la clausola ai terzi, ad esempio ai clienti del distributore, non essendo pensabile che questi debbano consultare le fatture di acquisto del medesimo (Simonini, 113 ss.).

A proposito del patto di riservato dominio e della necessità della previa individuazione del bene si veda Trib. Padova II, n. 487/2024: “Ciò che la Corte di legittimità statuisce è che è necessario "non confondere" i due differenti piani della "determinazione o la determinabilità dei beni oggetto del contratto ai fini della sua validità (art. 1346 c.c.)" che avviene al momento della stipulazione del contratto quadro (nel caso di specie, un contratto di concessione di vendita, e quello dell'"individuazione dei beni al momento della consegna e successivamente, ai fini della conservazione della proprietà in testa al concessionario fino all'integrale pagamento" (così Cass. civ. 28 agosto 1995, n. 9035 ). In questo quadro, "il requisito della determinabilità" (che, si noti, serve esclusivamente a rendere valido il contratto quadro, rendendo palese l'oggetto del contratto medesimo) è soddisfatto "quando siano indicate il tipo, le qualità o le quantità dei beni ovvero i metodi per la loro determinazione", mentre ai fini dell'opponibilità ai terzi creditori del compratore è necessaria l'individuazione dei beni "che non attiene alla validità del contratto, ma all'operatività della clausola di riserva" e "si esplica con la determinazione del bene nella sua singolarità e dal mantenimento di detta determinazione in concreto fino al pagamento integrale" (cfr. Cass. civ. 28 agosto 1995, n. 9035)”.

In base, invece, alla c.d. clausola inglese, l‘acquirente è tenuto a riferire al fornitore la facoltà di allinearsi ad offerte commerciali più vantaggiose ricevute dal cliente.

La c.d. availability clause consente invece al distributore di disporre, per la vendita, dell‘intera gamma di prodotti del fornitore.

La c.d. location clause, infine, obbliga il distributore a non trasferire la sede esistente al momento della conclusione del contratto (Simonini, 113 ss.).

La durata del contratto

Qualora l'efficacia del contratto di concessione sia limitata temporalmente, le parti non possono recedere prima della scadenza, salve diverse pattuizioni e salvo il diritto di risolvere il contratto per inadempienze di gravità tale da far venir meno la fiducia nei successivi adempimenti (Spinozzi, 293).

Nel caso in cui le parti non abbiano pattuito espressamente le condizioni della collaborazione, può apparire concessionario chi in realtà è mero cliente abituale.

In tale situazione non vi è alcun obbligo del venditore di concedere un termine di preavviso nel caso di interruzione della fornitura, a meno che non si configuri un'ipotesi di interruzione arbitraria delle relazioni commerciali e dunque l'abuso di dipendenza economica di cui all'art. 9 l. 192/1998 (Bortolotti, 3).

Laddove invece il contratto sia stato concluso a tempo indeterminato, alle parti è data la possibilità di recedere in ogni tempo, purché ne diano congruo preavviso all'altra parte.

Il recesso unilaterale esercitato in violazione del principio di buona fede concretizza un inadempimento e fa sorgere la responsabilità contrattuale del recedente (Spinozzi, 293).

Non fa sorgere alcun obbligo risarcitorio, invece, il recesso esercitato dal concedente sulla scorta di apposita clausola contrattuale - a meno che non sia stato concesso il preavviso -, non avendo il concessionario alcuna pretesa a un periodo di ammortamento, tanto più se il contratto di concessione è a tempo indeterminato e privo di un termine minimo (Trib. Torino, n. 3751/2020). Per un caso recente, relativo alla previsione convenzionale del diritto di recesso, si veda Cass. I, n. 8585/2022, chiamata precisamente a verificare la sua abusività, poi esclusa.

Le parti possono poi pattuire che il preavviso non sia necessario qualora sussista una giusta causa di recesso, come ad esempio in ipotesi di violazione della clausola di esclusiva.

In caso di scioglimento anticipato del contratto di concessione di vendita, concluso a tempo indeterminato, è da escludersi l'estensione in via analogica dell'art. 1751 c.c., non ritenendosi che al concessionario, a differenza dell'agente, possa essere riconosciuta un'indennità all'atto della cessazione del rapporto (Baldassarri; 2156; Cagnasso, 388; Cartella, 348; Ciccarelli, 231).

Un noto caso giurisprudenziale ha visto protagonista la casa automobilistica Renault, che aveva deciso di recedere dal contratto stipulato con diverse concessionarie di automobili in Italia.

La motivazione del recesso, consentita dal contratto, era costituita dal rifiuto delle concessionarie di modificare le condizioni contrattuali, così come imposte dalla casa madre, in senso sfavorevole alle concessionarie stesse.

I giudici del merito, che avevano rigettato la domanda delle concessionarie, ritennero fondamentale l'espressa previsione negoziale del recesso ad nutum in favore della casa madre e dunque superfluo ogni controllo sull'esercizio di tale diritto.

La questione giunse però all'attenzione della Suprema Corte, la quale individuava quali principi generali quelli secondo cui le parti di un rapporto contrattuale devono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e secondo cui l'esecuzione dei contratti deve avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.), per cui il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere l'esecuzione del contratto, alla sua formazione e all'interpretazione dello stesso.

Si affermava pertanto che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore, nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 c.c.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.).

L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica, trattandosi di una specificazione degli inderogabili doveri di solidarietà sociale di cui all'art. 2 Cost.

La rilevanza di tale obbligo si concretizza inoltre nell'imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge.

In questa prospettiva si è infine pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento atto a controllare lo statuto negoziale, anche in senso modificativo o integrativo e in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi (Cass. III, n. 20106/2009;  e, da ultimo, Cass. III, n. 10549/2020). 

Quanto alla risoluzione del contratto per inadempimento di una delle parti, è doveroso il riferimento all'art. 1564 c.c., il quale prevede che in caso di inadempimento di una delle parti, l'altra può chiedere la risoluzione del contratto se l'inadempimento ha notevole importanza ed è tale da menomare la fiducia nei successivi adempimenti.

La risoluzione del negozio in parola, in ossequio a quanto disposto dall'art. 1568 c.c. in tema di rapporti contrattuali a esecuzione continuata o periodica, non si estende alle prestazioni già eseguite dalle parti.

Allo stesso modo, appare applicabile alla concessione di vendita anche la norma di cui all'art. 1565 c.c., la quale prevede la possibilità per il somministrante, previo congruo preavviso, di sospendere l'esecuzione del contratto qualora la parte che ha diritto alla somministrazione sia inadempiente, e sempre che l'inadempimento sia di lieve entità (Spinozzi, 293-295; Cagnasso, 226).

A tal proposito si è affermato che l'inadempimento del concedente potrebbe riguardare il difetto di assistenza, la consegna di beni difettosi, la violazione della clausola di esclusiva, l'omessa comunicazione di informazioni, il mancato compimento di altre attività indispensabili per il buon funzionamento del punto vendita oppure, infine, il rifiuto sistematico di dar corso ai singoli ordini, se contrario al principio di buona fede.

L'inadempimento del concessionario, invece, potrebbe concernere una non corretta utilizzazione dei segni distintivi, il mancato rispetto degli standard previsti, la violazione dell'esclusiva, ma soprattutto l'obbligo di promuovere la commercializzazione dei prodotti del concedente o un mancato pagamento di notevole entità (Zuddas, 236).

L'abuso di dipendenza economica ex art. 9 l. 192/1998

L'istituto dell'abuso di dipendenza economica è disciplinato dall'art. 9 della l. n. 192/1998 (c.d. legge sulla subfornitura) e connota anche i contratti di distribuzione quali la concessione di vendita e il franchising.

Infatti, malgrado la citata normativa faccia riferimento soltanto al contratto di subfornitura, si è precisato che l'abuso di dipendenza economica configura una fattispecie di applicazione generale, che presuppone la situazione di dipendenza economica di un'impresa nei confronti di un'altra e l'abuso (Scognamiglio, 1049).

Lo nucleo della norma è infatti costituito dal riferimento allo stato di dipendenza economica di un'impresa nei confronti di un'altra, tale da determinare un eccessivo squilibrio dei diritti e degli obblighi tra le parti.

Tuttavia la normativa anzidetta non fornisce una definizione di dipendenza economica, limitandosi a individuare un parametro di valutazione consistente nell'impossibilità, per l'impresa dipendente, di reperire alternative soddisfacenti sul mercato.

Questa situazione di fatto può determinare l'insorgere di un rapporto di inferiorità dell'impresa dipendente rispetto a quella dominante, nel senso che le decisioni di quest'ultima sono in grado di incidere anche profondamente sull'attività della prima, la cui autonomia negoziale risulta condizionata in maniera rilevante.

Inoltre il 2° co. del citato art. 9 della l. n. 192/1998 indica una serie di comportamenti dell'impresa dominante che costituiscono indici sintomatici della sussistenza della situazione di abuso, tra i quali spiccano il rifiuto di vendere o di comprare, l'imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie, l'interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto.

Nel caso in cui il rapporto negoziale risulti squilibrato, ma sussistano delle alternative di mercato per l'impresa dipendente, è lecito supporre una consapevole accettazione di tali limiti da parte dell'impresa dipendente e quindi una corretta formazione della volontà negoziale.

Ad ogni modo l'impresa dipendente ha a disposizione diversi strumenti di tutela: a) l'azione di nullità del patto che integra l'abuso; b) l'azione inibitoria del comportamento vietato; c) l'azione di risarcimento del danno (Nervi, 147 ss.).

Peraltro, laddove l'abuso di dipendenza economica comporti un'alterazione dell'assetto concorrenziale del mercato, l'impresa dominante potrebbe essere soggetto a un ulteriore vaglio.

Infatti, qualora l'autorità di vigilanza del settore, ossia l'Autorità garante della concorrenza e del mercato, riscontri una alterazione degli equilibri concorrenziali del mercato, potrà comminare una sanzione di natura pecuniaria a carico dell'impresa dominante.

In definitiva può dirsi che l'Autorità in questione opera su un piano macroeconomico, mentre l'autorità giudiziaria su quello microeconomico, ovvero del rapporto contrattuale intercorrente tra due imprese (Nervi, 167).

Bibliografia

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