Codice Civile art. 1373 - Recesso unilaterale.

Gian Andrea Chiesi
aggiornato da Nicola Rumìne

Recesso unilaterale.

[I]. Se a una delle parti è attribuita la facoltà di recedere dal contratto, tale facoltà può essere esercitata finché il contratto non abbia avuto un principio di esecuzione [1671, 2227, 2237].

[II]. Nei contratti a esecuzione continuata o periodica, tale facoltà può essere esercitata anche successivamente, ma il recesso non ha effetto per le prestazioni già eseguite o in corso di esecuzione [1671, 2227].

[III]. Qualora sia stata stipulata la prestazione di un corrispettivo per il recesso, questo ha effetto quando la prestazione è eseguita [1386].

[IV]. È salvo in ogni caso il patto contrario.

Inquadramento

Il recesso rappresenta l'atto unilaterale con il quale una parte comunica all'altra la propria volontà di sciogliersi da un vincolo contrattuale in precedenza assunto. Si tratta di un negozio causale e di cd. secondo grado, rinvenendo la propria funzione nel fare cessare gli effetti di un negozio già concluso tra le parti.

Esso costituisce esercizio di un diritto potestativo (Cass. II, n. 6558/2010), che trova la propria fonte nella legge ovvero in una specifica previsione negoziale e che consente eccezionalmente, ex uno latere, di risolvere il contratto (Cass. II, n. 2759/1984). L'attribuzione, convenzionalmente ovvero ope legis, della facoltà di recesso ad una delle parti ovvero ad entrambe non costituisce violazione dell'art 1372 c.c., posto che in tale norma si prevede appunto che il contratto può essere sciolto per mutuo dissenso o per cause ammesse dalla legge e che, tra queste ultime, rientra anche il recesso unilaterale, espressamente disciplinato dal successivo art 1373 c.c. (Cass. II, n. 10/1962).

L'istituto è stato generalizzato nell'ordinamento italiano solamente con l'entrata in vigore del codice del 1942, posto che la previgente codificazione del 1865 conosceva solo casi specifici di recesso ma non ne dettava una disciplina unitaria; così, ad esempio: 1) l'art. 1165 regolava la «condizione risolutiva» — che peraltro richiedeva, per la sua operatività, una pronuncia giudiziale avente carattere costitutivo e «corrispondeva all'attuale risoluzione per inadempimento»; 2) l'art. 1641, la risoluzione del contratto di locazione, d'opera, d'appalto secondo l'«arbitrio» del committente — sostanzialmente corrispondente all'attuale recesso ad nutum; 3) gli artt. 1757-1761, la «rivocazione» del mandato o la rinunzia del mandatario.

Nel codice del 1942, invece, la norma di riferimento è rappresentata dall'art. 1373 c.c. cui va, però, aggiunta la disposizione contemplata dall'art. 1385, comma 2 c.c., alla cui stregua «se la parte che ha dato la caparra è inadempiente, l'altra può recedere dal contratto, ritenendo la caparra; se inadempiente è invece la parte che l'ha ricevuta, l'altra può recedere dal contratto ed esigere il doppio della caparra».

Sulla scorta delle menzionate previsioni, la più moderna ricostruzione dottrinaria dell'istituto (Luminoso, 34 ss.) tende, poi, ad attribuire allo stesso una funzione unitaria e «tridimensionale», distinguendo le ipotesi di (I) recesso ordinario ovvero c.d. determinativo, quale termine finale nei contratti di durata (normalmente subordinato alla previsione di un lasso temporale di preavviso — cfr. infra), da quella di (II) recesso c.d. straordinario, quale scioglimento del rapporto a seguito di impugnazione per vizi genetici (cfr., ad es., l'art. 1893, comma 1 c.c.) o sopravvenuti ovvero oppure a causa di un inadempimento imputabile alla controparte, e recesso come espressione del diritto di pentirsi (ius poenitendi) della regola contrattuale originariamente concordata

La disciplina giuridica

In conseguenza dell'esercizio del recesso (il quale produce i suoi effetti secondo il regime proprio degli atti recettizi e, dunque, può essere revocato fino a quando non pervenga a conoscenza del destinatario) una volta trascorso il termine di preavviso legalmente o convenzionalmente fissato, si produce l'effetto di scioglimento automatico del vincolo contrattuale: sennonché il recesso può riguardare sia i contratti ad esecuzione istantanea (cfr. art. 1373, comma 1 c.c.) che quelli ad esecuzione periodica o continuativa (cfr. art. 1373, comma 2 c.c.), con la conseguenza che resta da individuare il regime temporale di produzione dei suoi effetti. In proposto, mentre per i contratti di durata — analogamente rispetto a quanto disposto in tema di risoluzione del contratto per inadempimento dall'art. 1458, comma 1 c.c. ovvero in tema di avveramento della condizione dall'art. 1360, comma 2 c.c. — è lo stesso codice civile a chiarire che il recesso non ha effetto per le prestazioni già eseguite o in corso di esecuzione (art. 1373, comma 2), per i contratti ad esecuzione istantanea si è chiarito che, per quelli che non abbiano ancora avuto un inizio di esecuzione, la questione è assolutamente irrilevante mentre, laddove un inizio di esecuzione vi sia stato, difettando una indicazione univoca del legislatore, appare comunque coerente con la finalità perseguita dalle parti ritenere l'efficacia retroattiva del recesso — analogamente a quanto avviene in caso di avveramento della condizione risolutiva meramente potestativa.

Contraria è la posizione di parte della dottrina, secondo la quale il recesso produce effetti ex nunc, la retroattività essendo consentita solo ove le parti l'abbiano convenzionalmente stabilita (Gabrielli, 91; contra, però, Mirabelli, 297).

La stessa giurisprudenza (Cass. III, n. 2504/1974) opta per la tesi della efficacia ex nunc, in ciò individuando la differenza tra recesso e condizione potestativa risolutiva: deve pertanto ravvisarsi la ipotesi della condizione risolutiva potestativa solo se risulti che la caducazione della efficacia di un contratto sia stata accettata, al momento della pattuizione, da entrambe le parti con efficacia ex tunc.

È comunque fatto salvo il patto contrario (art. 1373, comma 4 c.c.), mentre, talvolta, è lo stesso legislatore a dettare regole peculiari, rispetto a determinate tipologie di contratti: così, ad esempio, nell'appalto il committente può recedere pur se sia iniziata l'esecuzione dell'opera o la prestazione del servizio, purché tenga indenne l'appaltatore delle spese sostenute, dei lavori eseguiti e del mancato guadagno (art. 1671 c.c.); vi sono, poi, i casi di recesso del compratore dal contratto di vendita, a misura o a corpo, per sproporzione del prezzo, ai sensi degli artt. 1537, comma 2, e 1538, comma 2 c.c. 13., in cui il compratore recede da un contratto che ha già prodotto i suoi effetti reali.

Il recesso, inoltre, può essere a titolo oneroso (cfr. art. 1373, comma 3 c.c.), come gratuito, a seconda che per l'esercizio del diritto in commento venga pattuito un corrispettivo: si discute, in particolare, di multa poenitentialis, di cui la arrha poenitentialis (ovvero caparra penitenziale) contemplata dall'art. 1386 c.c. rappresenta una applicazione pratica.

Pacifico che, tanto la multa, quanto la caparra penitenziale assolvono alla sola finalità di indennizzare la controparte nell'ipotesi di esercizio del diritto di recesso da parte dell'altro contraente (Cass. II, n. 6558/2010. In tali casi, peraltro, diversamente da quanto avviene in tema di caparra confirmatoria o di risoluzione per inadempimento, non è richiesta alcuna indagine sull'addebitabilità del recesso), la differenza fra le due ipotesi è piuttosto da rinvenire nella circostanza per cui la disciplina generale di cui all'art. 1373, comma 3 c.c. non prevede, al momento della conclusione del contratto, alcun esborso, diversamente da quanto avviene nel caso di caparra penitenziale, che viene materialmente versata da un contraente nelle mani dell'altro al momento della conclusione del contratto. Così Cass. II, n. 10056/2013 chiarisce che la caparra (sia confirmatoria che penitenziale) è una clausola che ha lo scopo di rafforzare il vincolo contrattuale; il relativo patto contrattuale ha natura reale, e, come tale, è improduttivo di effetti giuridici ove non si perfezioni con la consegna della relativa somma: ciò tuttavia non esclude che le parti, nell'ambito della loro autonomia negoziale, possano differire la dazione della caparra in tutto o in parte ad un momento successivo alla conclusione del contratto, come previsto dall'art. 1385, comma 1 c.c., purché anteriore alla scadenza delle obbligazioni pattuite. Tale possibilità non comporta anche quella di escludere la natura reale del contratto e ad attribuire all'obbligazione della sua prestazione gli effetti che l'art. 1385, comma 2 c.c. ricollega alla sua consegna (conformemente si è pronunziata Cass. II, n. 4661/2018). La giurisprudenza (Cass. II, n. 6506/1990) è, peraltro, molto rigida nell'interpretazione della volontà contrattuale, precisando che la caparra ha normalmente carattere confirmatorio e tale natura deve essere ad essa riconosciuta, qualora non risulti che le parti si siano convenzionalmente riservate il diritto di recesso, attraverso la sua stipulazione, non rilevando in senso contrario la mera definizione di penitenziale adottata dai contraenti, giacché si richiede per la configurabilità della caparra di cui all'art. 1386 c.c. la esplicita conclusione del patto di recesso verso il pagamento di un corrispettivo.

A proposito del “prezzo” del recesso occorre dare atto della recente pronuncia di Corte giust. UE IV, n. 410/2025, secondo cui dall'art. 3, par. 7, della direttiva CE n. 72/2009 deriva che lo stesso deve essere proporzionato: “L'articolo 3, paragrafo 7, e l'allegato I, paragrafo 1, lettera a), della direttiva n. 72/2009/CE, relativa a norme comuni per il mercato interno dell'energia elettrica e che abroga la direttiva 2003/54/CE, letti alla luce del considerando 51 della direttiva n. 72/2009/CE, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale in forza della quale, in caso di recesso anticipato, da parte di un cliente civile, da un contratto di fornitura di energia elettrica concluso a tempo determinato e a un prezzo fisso, tale cliente è tenuto al pagamento della penale contrattuale prevista nel contratto, purché tale normativa, da un lato, garantisca che una simile penale contrattuale sia equa, chiara, comunicata in anticipo e liberamente stipulata e, dall'altro, preveda una possibilità di ricorso, amministrativo o giurisdizionale, nell'ambito del quale l'autorità adita possa valutare il carattere proporzionato di tale penale alla luce di tutte le circostanze del caso di specie e, se del caso, imporne la riduzione o l'eliminazione. Tale interpretazione non pregiudica i diritti che un cliente del genere potrebbe, se del caso, trarre dalla normativa dell'Unione sulla tutela dei consumatori, e in particolare dalla direttiva n. 13/1993/CEE, qualora tale cliente rientri anche nella nozione di «consumatore», ai sensi dell'articolo 2, lettera b), di quest'ultima direttiva”.

Ove si versi in presenza di un recesso oneroso, la relativa previsione rientra tra quelle che, ai sensi dell'art. 1341, comma 2 c.c., necessitano di una specifica approvazione per iscritto.

Sennonché noto essendo che, secondo la costante giurisprudenza, l'elencazione contenuta nella richiamata disposizione ha carattere tassativo, non suscettibile di interpretazione analogica (cfr. il commento all'art. 1341 c.c.) sicché può concludersi nel senso per cui a) l'esclusione della facoltà di recesso da un contratto non costituisce clausola vessatoria, ai sensi dell'art. 1341, comma 2 c.c., e, pertanto, non è necessaria, per la sua efficacia, la specifica approvazione per iscritto (Cass. III, n. 14038/2013). Nel medesimo senso Cass. VI-3, n. 17759/2015, per cui la clausola di durata del contratto con divieto di recesso anticipato, pur inserita nelle condizioni generali predisposte da una delle parti in relazione ad un rapporto ad esecuzione continuata o periodica, non è particolarmente onerosa ai sensi dell'art. 1341, comma 2 c.c., poiché non sancisce la tacita proroga o rinnovazione del contratto, né limita la facoltà di opporre eccezioni, concernendo la pattuizione di un termine, anche non suscettibile di deroga, alla normale disciplina dei contratti di durata.) e b) la previsione della facoltà di recesso, quando sia accordata ad entrambe le parti in un contratto stipulato mediante moduli o formulari predisposti da uno dei contraenti, non concreta una clausola vessatoria (Cass. sez. lav., n. 6314/2006).

Inoltre la Corte di giustizie UE, Grande sezione, n. 38/2023, interpretando l'art. 14, par. 2, della direttiva UE n. 48/2008, ha precisato che il termine per il recesso del consumatore dal contratto di credito al consumo non decorre in caso che a queste non siano state rese informazioni obbligatorie, non potendo valutare la portata dei propri diritti e obblighi.

Segue. Ancora sulle caratteristiche disciplinari del recesso

Ai fini della sua validità può occorrere che il recesso sia motivato o meno (cd. recesso ad nutum. cfr. art. 27, ultimo comma l. n. 392/1978): nel primo caso, poi, può accadere che la motivazione debba essere eventualmente vincolata (cfr. art. 3, comma 1 l. n. 431/1998).

Quanto, poi, alla forma, secondo taluni, trattandosi sostanzialmente di un contrarius actus, esso rimane soggetto alle stesse garanzie di forma prescritte per il contratto costitutivo del rapporto alla cui risoluzione è preordinato (in questo senso cfr. anche, in giurisprudenza, Cass. II, n. 5059/1986), mentre secondo un'altra impostazione, anche che, in virtù del principio posto dall'art. 1350 c.c., la forma del recesso prescinde da quella imposta dalla legge per il negozio interessato dallo stesso e sarebbe, pertanto, libera.

Una terza impostazione, infine, seguita soprattutto dalla giurisprudenza in materia locatizia, pur nelle ipotesi in cui la legge prescrive una forma particolare, ammette un recesso in forma cd. equipollente (Cass. III, n. 549/2012).

Trattandosi di un atto negoziale, la sua valida manifestazione richiede la capacità di agire, sebbene nel passato vi sia stato chi (Rescigno, 85 ss.), ritenendo versarsi in presenza di un atto giuridico in senso stretto, ha ritenuto sufficiente la capacità di intendere e di volere.

Allorquando si tratta di recesso convenzionale, poi, l'efficacia della clausola che lo contempla è normalmente alla previsione di un termine massimo ovvero di preavviso fissato per il suo esercizio: ciò sulla duplice considerazione 1) dell'immanenza del principio di buona fede e correttezza (in senso oggettivo) e 2) della necessità di non danneggiare eccessivamente la controparte in seguito ad un improvviso scioglimento del vincolo negoziale.

Segue. Recesso e contratti dei consumatori

Una disciplina particolare è dettata per il recesso del consumatore dall'art. 33 d.lgs. n. 206/2005, il cui comma 2 presume vessatorie, fino a prova contraria, le clausole che hanno per oggetto, o per effetto, di 1) consentire al professionista di trattenere una somma di denaro versata dal consumatore se quest'ultimo non conclude il contratto o recede da esso, senza prevedere il diritto del consumatore di esigere dal professionista il doppio della somma corrisposta se è quest'ultimo a non concludere il contratto oppure a recedere (lett. e), ovvero 2) riconoscere al solo professionista e non anche al consumatore la facoltà di recedere dal contratto, nonché consentire al professionista di trattenere anche solo in parte la somma versata dal consumatore a titolo di corrispettivo per prestazioni non ancora adempiute, quando sia il professionista a recedere dal contratto (lett. g), ovvero, ancora 3) consentire al professionista di recedere da contratti a tempo indeterminato senza un ragionevole preavviso, tranne nel caso di giusta causa (lett. h) oppure 4) stabilire un termine eccessivamente anticipato rispetto alla scadenza del contratto per comunicare la disdetta al fine di evitare la tacita proroga o rinnovazione (lett. i).

Sempre in materia consumeristica, poi, si segnalano: I) la facoltà di recesso riconosciuta in favore del consumatore nel caso di contratti e proposte contrattuali a distanza (quali per esempio le vendite telefoniche) ovvero negoziati fuori dai locali commerciali: in questa ipotesi, infatti, il consumatore ha diritto di recedere senza alcuna penalità e senza specificarne il motivo, entro il termine di quattordici giorni lavorativi (relativo capo del codice del consumo è stato di recente novellato dal d.lgs. n. 21/2014; II) la facoltà del consumatore, nei casi previsti dagli artt. 64, 73, 67-duodecies cod. cons. e art. 1 l. n. 40/2007 nonché 125 TUB, di sciogliersi unilateralmente dal negozio anche se tale diritto non sia stato previsto dal contratto, se non espliciti la causa del recesso e se il contratto abbia avuto un principio di esecuzione (in chiara deroga a quanto esplicitamente previsto dall'art. 1373 c.c.); III) la facoltà di recesso riconosciuta al consumatore che abbia acquistato un pacchetto turistico, ai sensi degli artt. 40 e 41 cod. turismo (d.lgs. n. 79/2011)

Recesso e figure affini: caratteristiche distintive

Il recesso si differenzia, anzitutto dal mutuo dissenso (cfr. art. 1372, comma 2 c.c.), per la propria struttura di atto unilaterale: in quanto tale, infatti, il recesso non necessita della accettazione della controparte la quale — una volta ricevuta la relativa comunicazione (art. 1335 c.c.) — dovrà semplicemente soggiacere al conseguente effetto estintivo che ne deriva.

Diversi sono anche: a) l'oggetto, giacché, mentre il recesso presuppone l'esistenza di un vincolo negoziale, il mutuo dissenso può riguardare anche un vincolo derivante da sentenza e, in specie, da sentenza ex art. 2932 c.c.; b) l'ambito di applicazione. Il mutuo dissenso, in quanto espressione di un potere riconosciuto ex lege ai contraenti e fondando su di un incontro di volontà, non necessità di una specifica previsione all'interno del contratto i cui effetti è destinato a caducare mentre, a contrario, il recesso non è liberamente esercitabile, se non nei limiti in cui sia stato convenzionalmente pattuito ovvero riconosciuto dal legislatore (in tal caso con finalità evidentemente e chiaramente protettive per uno dei contraenti); c) gli effetti. Se medesimo, nel caso di recesso come di mutuo dissenso, è l'effetto principale, consistente nello scioglimento dal vincolo, controversa è, invece, l'efficacia con cui tale scioglimento si produce: se essa avvenga ex tunc ovvero ex nunc. Mentre il recesso, infatti, ha una propria compiuta disciplina nell'art. 1373 c.c., per quanto concerne il mutuo dissenso nulla è espressamente detto. Sicché, a fronte di chi ritiene che la retroattività, come fenomeno di natura del tutto eccezionale, non rientra nella competenza dispositiva dei privati e, dunque, necessita di un'espressa previsione normativa (nel caso mancante: donde l'efficacia ex nunc del mutuo dissenso), v'è chi, al contrario, evidenziando come che la retroattività sia fenomeno squisitamente giuridico, un particolare modo con cui il diritto dispone il contenuto degli effetti giuridici, conclude nel senso diametralmente opposto: per cui così come è consentito alle parti di differire o sospendere l'efficacia di un negozio giuridico, non si vede per quale motivo sarebbe loro precluso di stabilire che un effetto debba retroagire ad un momento anteriore alla prestazione del consenso (in tale ottica, si è argomentato in senso positivo rispetto alla soluzione che ammette l'efficacia ex tunc prendendo le mosse dalla condizione risolutiva, disciplinata dall'art. 1353 c.c.: si è infatti osservato che se la legge consente ai contraenti, in virtù di un accordo contestuale, accessorio e pur sempre accidentale, di risolvere il contratto, ponendolo nel nulla con efficacia retroattiva, non è dato comprendere il motivo per cui ciò non possa avvenire se l'accordo sopraggiunga dopo che l'originario contratto abbia prodotto, in tutto o in parte, i suoi effetti).

Il recesso si differenzia, poi, anche da altri atti aventi carattere abdicativo.

Anzitutto esso va distinto dalla rinuncia: quest'ultima è rimessa ad un atto di autonomia del soggetto, indipendentemente da una previsione legale o convenzionale. Essa, inoltre, non è indirizzata a nessuno: nel senso che chi rinuncia dismette puramente e semplicemente un diritto (una facoltà o un potere), senza tuttavia trasferirlo ad altri. In tale prospettiva è possibile concludere nel senso che la rinuncia produce i propri effetti diretti unicamente nella sfera giuridica di chi la esercita e, solo indirettamente ed in maniera riflessa, nella sfera giuridica di altri soggetti (si pensi, ad esempio, alla rinunzia all'eredità).

Diversa dal recesso è la revoca: analogamente a quanto avviene in materia di recesso, chi «revoca» sostanzialmente rinuncia a far valere gli effetti di una volontà già in precedenza manifestata. Sennonché, come la rinuncia, anche la revoca prescinde dall'esistenza di una conforme previsione contrattuale ovvero legale, fondando unicamente sulla volontà della parte che la esprime; a ciò aggiungasi che la revoca agisce su di un volere che è necessario per la costituzione di un rapporto il quale ultimo, però, non è ancora sorto (es.: revoca della proposta o dell'accettazione), mentre il recesso incide su di un rapporto già esistente; la revoca, infine, proviene dallo stesso autore dell'atto unilaterale revocando, mentre il recesso colpisce l'atto bilaterale, che può essere stato formato anche da persona diversa dal recedente.

Il recesso diverge, ancora, dalla clausola risolutiva espressa in quanto, benché l'effetto sia analogo, la modalità di funzionamento dei due istituti è diversa: mentre nel caso del recesso è la sola manifestazione di volontà di chi lo esprime a determinare la cessazione del vincolo, nel caso contemplato dall'art. 1456 c.c. al verificarsi dell'inadempimento specificamente previsto dalla clausola risolutiva espressa, il debitore può comunque evitare la risoluzione eseguendo la prestazione prima che il creditore receda.

In ultima analisi, infine, il recesso va tenuto distinto dalla condizione risolutiva meramente potestativa: posta la legittimità della previsione che faccia dipendere dalla mera volontà di un contraente la cessazione degli effetti del contratto (cfr., in proposito, Cass. II, n. 9840/1999, la quale chiarisce che la condizione risolutiva meramente potestativa, in sostanza, conferirebbe ad una parte la facoltà di recesso unilaterale, di cui all'art. 1373 c.c.; ovvero... costituirebbe un (anticipato) mutuo consenso (art. 1372 c.c.) allo scioglimento del contratto, rimesso, per la sua concreta operatività, a discrezionale iniziativa di una delle parti), si è osservato come la condizione, una volta avverata, è destinata a produrre i propri effetti con efficacia reale ed anche rispetto agli acquisti compiuti dai terzi

Recesso e risoluzione per inadempimento

Come chiarito in precedenza, si parla di recesso straordinario allorquando si vuole far riferimento alle ipotesi di scioglimento del vincolo contrattuale per vizi genetici ovvero sopravvenuti alla conclusione del contratto ovvero per inadempimento imputabile alla controparte.

Soffermando l'attenzione su tali ultime due ipotesi, può darsi anzitutto il caso che, nei contratti sinallagmatici, la prestazione di una parte sia divenuta parzialmente impossibile e che la controparte perda ogni interesse apprezzabile all'adempimento per il residuo, così acquistando la facoltà di recedere ai sensi dell'art. 1464 c.c.

Decisamente più controversa è la questione se, nel caso di inadempimento imputabile da parte di un contraente, l'altro possa avvalersi del recesso ex art. 1373 c.c., oltre che degli altri mezzi di tutela apprestati dal codice e anzitutto della risoluzione di cui agli artt. 1453 ss., anche quando il recesso non sia previsto dal contratto né da una specifica disposizione di legge.

A tale riguardo si può osservare che indici rivelatori di una differenza sostanziale tra recesso e risoluzione possono riscontrasi nella duplice considerazione per cui: a) l'azione di risoluzione del contratto per inadempimento ex artt. 1453 e 1455 c.c. diverge dal recesso negli effetti in quanto il suo accoglimento ha efficacia costitutiva e retroagisce al momento di proposizione della domanda giudiziale, mentre la sentenza che, in caso di contestazione giudiziaria, accerta la validità del recesso, ha efficacia dichiarativa con effetto risalente al momento in cui la dichiarazione del recedente fu resa nota al destinatario; b) il recesso diverge strutturalmente anche dall'eccezione di inadempimento (art. 1460 c.c.), che rende legittimo il rifiuto di eseguire la propria prestazione di fronte all'inadempimento della controparte, ma a differenza del primo, lascia comunque in vita il rapporto: con la conseguenza per cui l'eccipiente non può poi sottrarsi all'adempimento, se la controprestazione venga eseguita.

Sennonché, la giurisprudenza (Cass. III, n. 6347/1985), pur senza indugiare eccessivamente sulla giustificazione normativa di tale soluzione, ha dato risposta positiva al quesito che precede mentre la dottrina chiarisce che, probabilmente, in questi casi il recesso altro non rappresenta che un adattamento, giustificato dai caratteri obiettivi del rapporto, del potere di risoluzione extragiudiziale che si attua con la diffida ad adempiere, con la conseguente possibilità di applicazione analogica dell'art. 1454 c.c.

Ancor più controversa nel passato — ma risolta da un recente arresto delle Sezioni Unite — la questione circa la sovrapponibilità tra recesso e risoluzione, nel caso di pattuizione di una caparra confirmatoria.

Rinviando per l'approfondimento del tema al commento all'art. 1385 c.c., può in questa sede evidenziarsi che Cass. S.U., n. 553/2009, chiamata a pronunciarsi sulla fungibilità dei due rimedi caducatori predetti in caso di inadempimento e, per l'effetto, sulla «contaminabilità» della risoluzione per inadempimento (cui naturaliter conseguirebbe il risarcimento del danno, ex art. 1453, ultimo comma c.c.), con il trattenimento della caparra versata dalla controparte ovvero la restituzione del doppio di essa, ha affermato che in tema di contratti cui acceda la consegna di una somma di denaro a titolo di caparra confirmatoria, qualora il contraente non inadempiente abbia agito per la risoluzione (giudiziale o di diritto) ed il risarcimento del danno, costituisce domanda nuova, inammissibile in appello, quella volta ad ottenere la declaratoria dell'intervenuto recesso con ritenzione della caparra (o pagamento del doppio), avuto riguardo — oltre che alla disomogeneità esistente tra la domanda di risoluzione giudiziale e quella di recesso ed all'irrinunciabilità dell'effetto conseguente alla risoluzione di diritto — all'incompatibilità strutturale e funzionale tra la ritenzione della caparra e la domanda di risarcimento: la funzione della caparra, consistendo in una liquidazione anticipata e convenzionale del danno volta ad evitare l'instaurazione di un giudizio contenzioso, risulterebbe infatti frustrata se alla parte che abbia preferito affrontare gli oneri connessi all'azione risarcitoria per ottenere un ristoro patrimoniale più cospicuo fosse consentito — in contrasto con il principio costituzionale del giusto processo, che vieta qualsiasi forma di abuso processuale — di modificare la propria strategia difensiva, quando i risultati non corrispondano alle sue aspettative..

Bibliografia

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