Codice Civile art. 1374 - Integrazione del contratto.

Gian Andrea Chiesi

Integrazione del contratto.

[I]. Il contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi e l'equità.

Inquadramento

Il contenuto del contratto non dipende solo dall'accordo delle parti (e, dunque, dall'autonomia negoziale), ma anche da una serie di fonti di provenienza eteronoma, specificamente indicate dall'art. 1374 c.c., quali la legge, gli usi e l'equità.

La norma (che trova applicazione anche relativamente ai contratti stipulati dalla P.A.: così Cass. I, n. 7550/1995) pone, dunque, una vera e propria gradazione delle fonti di integrazione, nel senso che gli usi e l'equità hanno un ruolo sussidiario e residuale, essendo destinati ad operare solo «in mancanza» di accordo delle parti o di specifiche previsioni di legge.

Il presupposto dell'integrazione di cui all'art. 1374 c.c. è l'incompleta o ambigua espressione della volontà dei contraenti e, pertanto, in caso di completa ed inequivoca espressione di tale volontà, non può farsi questione di integrazione del contratto ma, eventualmente, solo di invalidità totale o parziale dello stesso se in contrasto con disposizioni di legge (Cass. I, n. 6747/2014).

L'integrazione presuppone, dunque, una lacuna del contratto, tale da non renderne, però, l'oggetto indeterminabile: senza l'intervento integrativo a cura delle fonti indicate dall'art. 1374 c.c., il regolamento sarebbe, pertanto, inattuabile (Gazzoni, 295).

Conseguenza logica di tale conclusione è che la violazione degli obblighi conseguenti all'applicazione delle fonti eteronome di integrazione del contenuto negoziale determina responsabilità contrattuale, giacché l'aver contravvenuto a tali disposizioni equivale ad avere violato il vincolo contrattuale.

Così, in applicazione del principio predetto alla materia degli infortuni sul lavoro, Cass. sez. lav., n. 21590/2008 chiarisce che la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. è di carattere contrattuale, atteso che il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato per legge, ai sensi dell'art. 1374 c.c., dalla disposizione che impone l'obbligo di sicurezza e lo inserisce nel sinallagma contrattuale: ne consegue che il riparto degli oneri probatori nella domanda di danno da infortunio sul lavoro si pone negli stessi termini dell'art. 1218 c.c. circa l'inadempimento delle obbligazioni, da ciò discendendo che il lavoratore il quale agisca per il riconoscimento del danno differenziale da infortunio sul lavoro deve allegare e provare l'esistenza dell'obbligazione lavorativa, l'esistenza del danno ed il nesso causale tra quest'ultimo e la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare la dipendenza del danno da causa a lui non imputabile e, cioè, di aver adempiuto interamente all'obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno

Natura giuridica

Secondo parte della dottrina, l'integrazione ex art. 1374 c.c. opera sul piano degli effetti, nel senso che il contratto produce effetti ascrivibili non solo a quanto discende dalle clausole elaborate dalle parti, ma anche a quanto deriva dall'applicazione delle fonti integrative indicate dalla norma, ossia la legge, gli usi e l'equità, e inoltre dagli artt. 1339, 1340 e 1349 c.c. (Messineo, 936). Una diversa lettura della norma (Di Majo, 1967, 206), al contrario, negando rilevanza, nella specie, alla distinzione tra contenuto ed effetti, ritiene che l'integrazione operi già sul piano strutturale dell'atto, successivamente trasmettendosi sul piano funzionale degli effetti.

In giurisprudenza Cass. S.U., n. 3044/1963 afferma che l'art. 1374 trova applicazione soltanto in sede di integrazione degli effetti di una già manifestata volontà negoziale; siffatta funzione integrativa non modifica il contratto, con l'aggiungere ad esso qualcosa, in quanto le ulteriori conseguenze, che se ne fanno derivare secondo la legge, gli usi e l'equità, corrispondono all'intento voluto dalle parti

Le fonti di integrazione del contratto: a) la legge

L'art. 1374 c.c. fa riferimento alle norme, anche di carattere dispositivo, che formano il cd. contenuto legale del contratto, quelle norme (sia relativi ai contratti in generale che allo specifico tipo contrattuale) che, cioè, regolano diritti ed obblighi delle parti e che si applicano anche nel caso di mancato espresso richiamo ad opera dei contraenti.

Si tratta, in ordine gerarchico, della prima fonte di integrazione del contratto, avendo la legge un ruolo primario rispetto agli usi e all'equità.

Mentre, però, le norme dispositive o derogabili concorrono a determinare il contenuto del contratto, salva una diversa previsione delle parti, le norme imperative si applicano direttamente al rapporto contrattuale, nonostante l'eventuale diversa previsione delle parti (Bianca, 472), essendo le clausole difformi automaticamente colpite da nullità e sostituite, di diritto, dalle prime, in applicazione degli artt. 1339 e 1419, comma 2 c.c.

A tale ultimo proposito, occorre precisare che la previsione dell'art. 1339 c.c. riguarda esclusivamente le norme inderogabili, quand'anche non siano previste ulteriori sanzioni, il cui dettato si sostituisce all'eventualmente difforme volontà delle parti: in ciò essa si specifica rispetto all'art. 1374 c.c. che coinvolge sotto il proprio ambito di operatività anche le norme meramente dispositive e trova applicazione anche in assenza di una contraria volontà delle parti (Mirabelli, 124; Scognamiglio, 231).

La differenza tra le due normative è chiara in giurisprudenza, laddove si evidenzia che l'art. 1374 c.c., nel prevedere che il contratto obbliga le parti, non solo a quanto è dal medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo legge, si riferisce non solo alla legge in senso formale, ma anche a regolamenti (anche comunali) (Cass. I, n. 19531/2004).

In proposito è invece consolidata, in dottrina come in giurisprudenza, l'opinione per cui l'art. 1339 c.c. faccia riferimento alla legge in senso formale, con esclusione degli atti o provvedimenti aventi natura diversa, salvo che si tratti di atto da quella richiamato con rinvio integrativo (in termini cfr. anche Cass. I, n. 17746/2009, cit.). In sostanza, la norma si riferisce non solo alle clausole di diretta previsione legislativa, ma anche a quelle individuate da una fonte normativa da essa autorizzata (cfr. Cass. VI-3, n. 23184/2014, per la quale le deliberazioni adottate dall'Autorità per l'Energia Elettrica ed il Gas — A.E.E.G. — ai sensi dell'art. 2, comma 12, lett. h) l. n. 481/1995, possono integrare, ex art. 1339 c.c., il contenuto dei rapporti di utenza individuali (in relazione alle modalità di esecuzione della prestazione di entrambi i contraenti), perché la citata disposizione codicistica, nel menzionare le «clausole» imposte dalla legge, non si riferisce soltanto a quelle oggetto di diretta previsione legislativa, ma anche a quelle individuate da una fonte normativa da essa autorizzata).

Occorre, inoltre, che gli atti integrativi determinino specificamente e puntualmente le condizioni imposte e non abbiano un mero contenuto programmatico.

Così, ad esempio, Cass. III, n. 5209/2015 chiarisce che, in tema di somministrazione di acqua potabile da parte del Comune, l'addebito all'utente, non già in base al consumo effettivo, ma secondo il criterio del «minimo garantito», non può basarsi su di una previsione programmatica contenuta nel regolamento comunale con cui venga ammessa l'eterodeterminazione delle tariffe di utenza da parte dell'ente comunale, ma al contrario, richiede una specifica delibera comunale che ne fissi i parametri dell'an e del quantum, imprescindibili al fine di consentirne l'inserimento automatico ex art. 1339 c.c. nel contratto di fornitura.

L'inserzione automatica di clausole non altera la natura contrattuale del regolamento posto dalle parti, sicché l'eventuale violazione degli obblighi imposti attraverso l'eterointegrazione del contratto determina, a carico delle parti medesime, responsabilità contrattuale e non aquiliana (Cass. I, n. 7069/2004).

Non trova invece applicazione l'art. 1419, comma 1 c.c.

Il principio, condiviso in dottrina (Carresi, 583), è altresì pacifico in giurisprudenza, ove si esclude che la sostituzione delle clausole nulle, in quanto contrarie a norme imperative, possa determinare la nullità dell'intero contratto (Cass. III, n. 555/1978).

b) Gli usi

La norma fa riferimento ai cd. usi normativi o consuetudini, quali fonti sussidiarie del diritto previste dall'art. 8 disp. prel. c.c. Valgono per le materie non regolate dalla legge (praeterm legem) o, se da questa disciplinate, solo se dalla stessa espressamente richiamati (secundum legem): è invece escluso.

Si tratta di regole non scritte che un ambiente sociale osserva costantemente nel tempo (cd. diuturnitas), con la convinzione di osservare un precetto giuridico (cd. opinio iuris ac necessitatis) — (Bianca, 339). (Carresi, in Tr. C. M., 1987, 575; Mirabelli, in Comm. Utet, 1984, 307). In materia contrattuale numerose norme rinviano agli usi: art. 1326, comma 2, art. 1333, comma 2, art. 1454, comma 2, art. 1492, comma 2, art. 1498, comma 2, art. 1510, comma 2, art. 1709.

La S.C. aderisce alla nozione innanzi esposta di usi normativi, i quali esigono, oltre al requisito oggettivo o materiale o esteriore della reiterazione uniforme e costante di un certo comportamento, anche il requisito soggettivo o spirituale o psicologico consistente nella consapevolezza di prestare osservanza, operando in un certo modo, ad una norma giuridica, per la convinzione che il comportamento tenuto è giuridicamente obbligatorio, in quanto conforme ad una norma che già esiste o che si reputa debba fare parte dell'ordinamento giuridico (Cass. S.U., n. 21095/2004; Cass. n. 3096/1999; Cass. n. 4388/1985; Cass. n. 1079/1972; Cass. n. 183/1972).

La regola dell'integrazione del contratto secondo gli usi opera esclusivamente in relazione a quegli effetti del contratto in ordine ai quali le parti non hanno espresso la loro volontà ovvero vi hanno provveduto in maniera lacunosa e va quindi esclusa quando le parti hanno compiutamente e univocamente regolato gli effetti del contratto e il contenuto delle loro prestazioni (Cass. n. 1884/1983; Cass. n. 4093/1977).

Gli usi normativi vincolano le parti anche se queste non vi hanno fatto sia pure tacito riferimento e non ne hanno avuto conoscenza (Cass. n. 2147/1974; Cass. n. 2259/1964); infatti gli usi normativi obbligano le parti anche se da esse ignorati (in quanto l'applicazione degli stessi è esclusa soltanto ove risulti con certezza che i contraenti non abbiano voluto riferirsi ad essi) e prevalgono sulle stesse norme di legge aventi carattere dispositivo (Cass. n. 5135/2007). Avendo il giudice l'obbligo di conoscere la legge, ma non anche gli usi, questi ultimi, ove il giudice non ne sia a conoscenza, debbono essere provati (anche per quanto riguarda l'elemento dell'opinio iuris ac necessitatis) a cura della parte che li allega, e la relativa prova non può essere fornita per la prima volta nel giudizio di legittimità (Cass. n. 4853/2007; Cass. n. 864/1965).

La fonte eteronoma dell'equità

L'equità assume rilevanza come criterio concorrente nella determinazione degli effetti giuridici del contratto, mentre non vale ad attribuire al giudice un potere modificativo del contenuto contrattuale eventualmente iniquo, né interpretativo del medesimo, già completo in tutti i suoi elementi (Bianca, 492). L'equità non deve essere intesa come un richiamo a norme extragiuridiche, ossia come criterio metagiuridico di valutazione, bensì nel senso che il contratto deve essere valutato secondo criteri di logica giuridica (Mirabelli, in Comm. Utet, 1984, 307). Affinché possa operarsi un simile richiamo occorre un'espressa norma in tal senso, come accade nell'ipotesi regolata dall'art. 1384 (Bianca, 490). In base all'equità i singoli interessi devono essere contemperati in relazione all'economia dell'affare (Bianca, 578). Le clausole «secondo accordi a venire» e «a condizioni eque» implicano conseguenze diverse: nel primo caso, in difetto di accordo, il contratto è nullo per indeterminatezza dell'oggetto; nel secondo, si dà luogo all'integrazione ai sensi dell'art. 1374 (Sacco, in Tr. Vas., 1975, 561).

La funzione dell'equità è puramente suppletiva, nel senso che colma le lacune non coperte dagli usi o da altre legittime fonti, ma non è un canone interpretativo del contratto già completo in tutti i suoi elementi (Cass. n. 4626/1983). L'equità costituisce un elemento sussidiario per derivare dalle norme contrattuali elementi apprezzabili al fine di determinare i limiti e il contenuto delle obbligazioni contratte; essa va intesa non come richiamo di norme extragiuridiche per un giudizio secondo equità in luogo di una pronuncia secondo diritto, bensì nel senso che il contratto deve essere valutato secondo corretti criteri di logica giuridica per la determinazione di norme, ma integrativa o sussidiaria per un puntuale adattamento della norma al caso concreto; essa opera nell'ambito di quest'ultima e s'inquadra in un giudizio di diritto (Cass. n. 1189/1965).

Le clausole d'uso (anche dette usi negoziali) rappresentano elementi integrativi del contenuto del contratto e consistono nelle pratiche generalizzate degli affari: fanno cioè parte del contenuto del contratto anche quelle clausole d'uso non espressamente incluse dalle parti e — simmetricamente — non espressamente escluse dalle stesse e che, tuttavia, sono correnti, ossia abituali in un dato contratto, perché normalmente praticate dalla generalità degli interessati in quel certo settore e dunque preesistenti al contratto medesimo.

Non rientra nella nozione di uso negoziale, al contrario, la mera tolleranza esercitata di volta in volta secondo le circostanze, come nel caso in cui una banca abbia talora acconsentito al superamento del limite del fido (Cass. I, n. 3487/1998).

La vincolatività di tali clausole è, dunque, inscindibilmente legata all'applicazione costante e generalizzata che se ne fa in un dato luogo e relativamente ad un settore d'affari: essi, dunque, vincolano le parti non solo quando esse ne conoscano l'esistenza, ma anche — e soprattutto, verrebbe da dire — quando ne ignorino l'esistenza ovvero deroghino a norme dispositive di legge. In altri termini, le clausole d'uso si inseriscono nel contratto in modo automatico, indipendentemente tanto dalla manifestazione di una volontà tacita quanto dalla conoscenza o meno che i contraenti ne abbiano

Usi negoziali, normativi, individuali ed interpretativi: criteri discretivi.

Gli usi negoziali si distinguono, a) dagli usi normativi (o consuetudini), costituenti, come chiarito dall'art. 8 delle Preleggi, vere e proprie fonti del diritto e richiamati dall'art. 1374 c.c., b) dagli usi interpretativi e c) dagli usi individuali.

Quanto al rapporto tra usi negoziali ed usi normativi, attraverso l'elaborazione della dottrina è possibile enucleare una serie di tratti differenziali: 1) le clausole d'uso consistono in quelle pratiche che non abbiano ancora raggiunto la costante applicazione e la diffusione idonea a trasformarle in norme pienamente distaccate dalla volontà dei singoli contraenti e non siano idonee a conseguire una tale indipendenza dalla volontà di questi, perché, essendo contrarie a norme dispositive di legge, possono trarre efficacia solo da tale volontà (Osti, 530); 2) gli usi negoziali non si intendono inseriti nel contratto, qualora risulti che le parti non li abbiano voluti mentre, relativamente agli usi normativi, l'art. 1374 c.c., usando la locuzione «obbliga», ne presuppone l'imperatività e, quindi, l'inderogabilità (Messineo, 940); 3) le clausole d'uso influiscono sulla formazione del contratto mentre gli usi normativi incidono su un contratto già formato, integrandone gli effetti, non dissimilmente da quanto fanno la legge e l'equità; 4) la consuetudine ha un'applicazione generalizzata mentre l'uso negoziale ha un'applicazione più delimitata, ossia settoriale (Scognamiglio, 235; 5) gli usi negoziali mancano, diversamente da quelli normativi, dell'elemento soggettivo dell'opinio iuris ac necessitatis; 6) la violazione degli usi negoziali non consente il ricorso giudiziale in sede di legittimità, ammesso, al contrario, per la violazione degli usi normativi (Mirabelli, 126).

Conforme la giurisprudenza, per la quale (Cass. I, n. 12507/1999) la configurabilità di un uso normativo richiede due requisiti, l'uno — di natura oggettiva — consistente nella uniforme e costante ripetizione di un dato comportamento, l'altro — di natura soggettiva o psicologica — consistente nella consapevolezza di prestare osservanza, operando in un certo modo, ad una norma giuridica, di modo che venga a configurarsi una norma — sia pure di rango terziario, in quanto subordinata alla legge ed ai regolamenti — avente i caratteri della generalità e della astrattezza. L'esigenza del requisito soggettivo deve reputarsi imprescindibile, posto che altrimenti si ridurrebbe il fenomeno consuetudinario al rango della mera prassi. In termini anche Cass. I, n. 4498/2002. È invece discusso, in giurisprudenza, se gli usi normativi possano essere distinti dagli usi negoziali sulla base delle norme che, rispettivamente, li richiamano: in senso favorevole a tale soluzione Cass. I, n. 76/1988, mentre esclude tale possibilità Cass. sez. lav., n. 86/1986 per cui l'uso negoziale rileva anch'esso sotto il profilo dell'integrazione contrattuale.

Quanto agli usi interpretativi, previsti dall'art. 1368 c.c., con essi si fa riferimento a regole esegetiche che soccorrono nel caso di difficoltà interpretative.

Si registra una diversità di vedute tra chi ritiene che gli stessi possano essere assimilati agli usi negoziali, giacché al pari di questi fanno riferimento alle regole interpretative che si praticano nel luogo in cui il contratto è concluso e chi, al contrario, ritiene a un diverso orientamento ritiene che si tratti di fattispecie diverse.

Opta per la sostanziale equiparazione la giurisprudenza, per la quale (Cass. III, n. 3342/1968) la legge prevede due distinte categorie di usi, quelli normativi o giuridici, fonte sussidiaria di diritti nelle materie non regolate dalla legge e con funzioni integrative del contenuto delle norme scritte, e gli usi negoziali, interpretativi o integrativi della volontà dei contraenti incompletamente od ambiguamente espressa, in forza di clausole comunemente adottate nella località o nella zona in cui il contratto e concluso, e che possono, quindi, essere applicate normalmente ai negozi conclusi da contraenti che appartengano ad una determinata categoria di operatori economici, ove siano implicitamente od esplicitamente richiamati dalle parti. Analogamente si è osservato (Cass. I, n. 5942/1981) che gli usi interpretativi o negoziali costituiscono un mezzo di chiarimento e di interpretazione della volontà delle parti contraenti quando questa sia ambiguamente espressa o manchino i relativi patti.

Gli usi negoziali vanno infine distinti anche dagli usi individuali (o pratiche individuali) reiterati dalle parti contraenti, consistenti nelle prassi che si instaurano nei rapporti tra determinati contraenti; tali prassi potranno essere, al più, rappresentare elementi di interpretazione del contratto, in quanto incidenti sulla valutazione del comportamento complessivo delle parti, ma non di integrazione del contratto medesimo (Sacco, 796).

Quanto agli usi individuali, anche la giurisprudenza di legittimità evidenzia le differenze esistenti con gli usi normativi e con quelli negoziali, chiarendo come una prassi istituitasi tra le parti in occasione di precedenti contrattazioni non può essere identificata né con l'uso negoziale che, pur con le necessarie limitazioni, ha portata generale, né tanto meno con gli usi normativi (Cass. III, n. 3342/1968, cit.).

Una particolare ipotesi di uso negoziale: l'uso aziendale

Ipotesi particolare di uso negoziale, riconducibile, dunque, al paradigma dell'art. 1340 c.c., è l'uso aziendale o prassi aziendale, consistente nella pratica abitualmente seguita dal datore di lavoro all'interno di una determinata impresa.

Esso non è riconducibile né agli usi normativi — e quindi prescinde sia dal requisito della generalità (talché non deve necessariamente interessare la generalità delle aziende di un settore) sia dal requisito dell'opinio juris seu necessitatis — né agli usi interpretativi (quali le pratiche generali interpretative contemplate dall'art. 1368 c.c.), ma va inquadrato negli usi negoziali che — sul presupposto della accertata reiterazione di determinati comportamenti del datore di lavoro — si inseriscono non già nel contratto collettivo di lavoro, bensì in quello individuale ed hanno forza vincolante tra le parti sempre che il contenuto della prassi sia modificativo in melius della regolamentazione collettiva (Cass. sez. lav., 7864/1986). Conforme Cass. sez. lav., n. 8432/2010, per cui la reiterazione costante e generalizzata di un comportamento favorevole del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti, che si traduca in trattamento economico o normativo di maggior favore rispetto a quello previsto dai contratti (individuali e collettivi), integra di per sé gli estremi dell'uso aziendale il quale, in ragione della sua appartenenza al novero delle cosiddette fonti sociali — tra le quali vanno considerati sia i contratti collettivi sia il regolamento d'azienda e che sono definite tali perché, pur non costituendo espressione di funzione pubblica, neppure realizzano meri interessi individuali, in quanto dirette a conseguire un'uniforme disciplina dei rapporti con riferimento alla collettività impersonale dei lavoratori di un'azienda — agisce sul piano dei singoli rapporti individuali allo stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale. Occorre, inoltre, che il comportamento datoriale abbia il carattere della spontaneità; ne consegue che non può ritenersi sussistente un uso aziendale qualora si accerti che le erogazioni da parte del datore di lavoro, ancorché protratte nel tempo, non siano state espressione di un comportamento spontaneo e liberale, in quanto egli si riteneva obbligato a tali erogazioni sulla base di una erronea interpretazione del contratto collettivo (Cass. sez. lav., n. 7774/1998)

Il regime di efficacia degli usi negoziali

Come già chiarito in precedenza, gli usi negoziali vincolano le parti non solo quando esse ne ignorino l'esistenza, ma anche ove deroghino a norme dispositive di legge, salvo che le parti non li abbiano espressamente esclusi. Il loro inserimento nel contenuto contrattuale, cioè, può essere escluso dall'inequivoca manifestazione di una volontà contraria, concorde delle parti, sia pure tacitamente espressa.

Le clausole d'uso obbligano le parti anche se da esse ignorate, a meno che non risulti che le stesse abbiano espressamente inteso escluderle (Cass. sez. lav., n. 436/1986). L'onere della prova degli usi di fatto o contrattuali è a carico della parte che li allega (Cass. sez. lav., n. 5321/1987).

Stante, però, la loro natura sussidiaria, agli usi negoziali è precluso di prevalere su norme di legge, benché non cogenti (Mirabelli, 127).

Per quanto attiene alla loro interpretazione, gli usi negoziali sono soggetti alla disciplina degli artt. 1362 ss. c.c., mentre, per ciò che attiene alla perdita dell'efficacia, si ritiene che come un comportamento costante e reiterato porta al loro consolidamento, così, la ripetizione dell'inosservanza dell'uso, intesa come generale e costante abbandono della pratica, eventualmente seguita dal formarsi di un nuovo uso, implica la cessazione dell'uso medesimo per desuetudine.

Usi negoziali e clausole di stile

La «clausola di stile» è quella che si limita a riprodurre una costante prassi stilistica di determinati atti, senza alcun riscontro nella determinazione volitiva delle parti.

Si tratta di quella clausola che viene inserita nel documento comprovante la conclusione del contratto, senza che ad essa corrisponda in alcun modo la volontà dei contraenti (Cass. III, n. 1832/1980); si distingue, dunque, dalla clausola d'uso, in quanto quest'ultima viene inserita in particolari tipologie di contratti ed è pienamente produttiva di effetti giuridici, anche se in ordine ad essa non siano intervenute particolari trattative tra le parti, essendo la manifestazione di volontà desumibile dalla sottoscrizione del documento in cui la clausola è inserita (Cass. III, n. 2947/1969). Sotto altro profilo si osserva che le clausole di stile sono costituite soltanto da quelle espressioni generiche, frequentemente contenute nei contratti o negli atti notarili, che per la loro eccessiva ampiezza e indeterminatezza rivelano la funzione di semplice completamento formale, mentre non può considerarsi tale la clausola che abbia un concreto contenuto volitivo ben determinato, riferibile al negozio posto in essere dalle parti (Cass. III, n. 19876/2011). In mancanza di dati assertivi di una pratica stilistica, però, si è chiarito (Cass. III, n. 1832/1980, cit.) che la mera genericità ed equivocità della terminologia adoperata non è sufficiente a conferire natura solo stilistica alla clausola: sicché il giudice di merito, anche a fronte di una clausola estremamente generica ed indeterminata, deve comunque presumere che sia stata oggetto della volontà negoziale ed interpretarla in relazione al contesto, per consentire alla stessa di avere qualche effetto e solo se la vaghezza e la genericità siano tali da rendere impossibile attribuire ad essa un qualsivoglia rilievo nell'ambito dell'indagine volta ad accertare la sussistenza ed il contenuto dei requisiti del contratto, ovvero siano tali da far ritenere che la pattuizione in esame non sia mai concretamente entrata nella sfera dell'effettiva consapevolezza e volontà dei contraenti, può negare ad essa efficacia qualificandola come di clausola stile (Cass. III, n. 1950/2009)..

Bibliografia

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