Codice Civile art. 1375 - Esecuzione di buona fede.InquadramentoL'art. 1375 c.c. viene comunemente collegato all'art. 1374 c.c., concorrendo la buona fede alla determinazione del contenuto cd. «legale» del contratto: anche la violazione del canone di buona fede nell'esecuzione del contratto dà luogo, infatti, a responsabilità contrattuale ed è idonea, di per sé, a determinare la risoluzione per inadempimento, oltre al risarcimento del conseguente danno. La buona fede cui fa riferimento la norma è quella oggettiva ed è la medesima che fonda le previsioni contenute agli artt. 1337 e 1366 c.c. Il principio di correttezza e buona fede — il quale, secondo la Relazione ministeriale al codice civile, «richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore» — deve essere inteso in senso oggettivo in quanto enuncia un dovere di solidarietà, fondato sull'art. 2 della Costituzione che, operando come criterio di reciprocità, esplica la sua rilevanza nell'imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge, sicché dalla violazione di tale regola di comportamento può discendere, anche di per sé, un danno risarcibile (Cass. III, n. 22819/2010). Tale conclusione si sostanzia in un ulteriore precipitato giurisprudenziale, per cui l'impegno solidaristico predetto trova il suo limite precipuo unicamente nell'interesse proprio del soggetto, tenuto pertanto al compimento di tutti gli atti giuridici e/o materiali che si rendano necessari alla salvaguardia dell'interesse della controparte, nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico (Cass. III, n. 10182/2009). Per una applicazione giurisprudenziale più recente si vedano Cass. II, n. 6390/2024 e Cass. III, n. 8277/2024. Secondo quest'ultima, che dà continuità alla già consolidata conclusione, la buona fede oggettiva - che, nell'esecuzione del rapporto contrattuale, è il nerbo delle regole di condotta, dal contenuto necessariamente elastico, ma ontologicamente etico - governa il comportamento dei contraenti, in modo tale che esso, mediante l'adempimento di tale basilare obbligo relazionale, sia collaborativo e sociale e sia diretto, quindi, a tutelare i legittimi interessi della controparte al pari dei propri. Natura giuridica della buona fedeCome anticipato poc'anzi, la buona fede cui si riferisce la norma è quella in senso oggettivo, quale sinonimo di correttezza e lealtà di comportamento e rappresenta un'applicazione, in sede contrattuale, del più generale dovere di correttezza sancito dall'art. 1175 c.c. in materia di adempimento dell'obbligazione. Essa si sostanzia, dunque, nella lealtà reciproca delle parti, nel rispetto dell'affidamento altrui secondo un generale dovere di «solidarietà sociale» evincibile dall'art. 2 Cost., che risponde al paradigma dell'honeste vivere ed il cui limite va ravvisato nell'apprezzabile sacrificio cui la parte sarebbe tenuta nel compiere atti volti a salvaguardare l'interesse dell'altro contraente; e va, perciò, distinta dalla buona fede in senso soggettivo, quale atteggiamento psicologico del soggetto consistente nell'ignoranza di ledere l'altrui diritto o, in senso positivo, nella consapevolezza di agire secundum ius. La buona fede in senso oggettivo è, dunque, fonte di obblighi integrativi di protezione e sicurezza, imponendo alle parti, nella fase attuativa, del rapporto, il rispetto di doveri integrativi e strumentali di avviso, informazione, solidarietà e protezione nei confronti della persona e dei beni della controparte (Bianca): sicché anche un mero contegno di inerzia può costituire violazione del canone di buona fede. La buona fede impone, dunque, di evitare il pregiudizio dell'interesse della controparte alla corretta esecuzione dell'accordo ed al conseguimento della relativa prestazione (Cass. III, n. 19879/2011): in virtù di essa, ciascuna parte è tenuta, da un lato, ad adeguare il proprio comportamento in modo da salvaguardare l'utilità della controparte e, dall'altro, a tollerare anche l'inadempimento della controparte che non pregiudichi in modo apprezzabile il proprio interesse (Cass. III, n. 5240/2004). Così intesa, peraltro, la nozione di buona fede di lega indissolubilmente a quella di abuso del diritto, figura che non ricorre per il sol fatto che una parte del contratto abbia tenuto una condotta non idonea a salvaguardare gli interessi dell'altra, quando tale condotta persegua un risultato lecito attraverso mezzi legittimi, essendo, invece, configurabile allorché il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà sono attribuiti (cfr. Cass. III, n. 10568/2013). La medesima nozione di buona fede rileva, peraltro, non solo nella fase esecutiva, ma anche nella fase di formazione (cfr. l'art. 1337 c.c.) e di interpretazione del negozio (art. 1366 c.c.). Quanto all'art. 1337 c.c., alcuni autori, muovendo dall'obbligo ivi imposto, di tenere un comportamento leale durante le trattative, hanno tratto la conclusione nel senso per cui, ad integrare la fattispecie della responsabilità contrattuale non concorrerebbe necessariamente un comportamento delle parti connotato da una condizione soggettiva di mala fede (quale volontà, cioè, di arrecare intenzionalmente pregiudizio alla controparte), essendo al contrario sufficiente anche una condotta non caratterizzata dal proposito di nuocere, sia essa anche meramente colposa, che abbia però portato ad interrompere senza giusto motivo le trattative, eludendo così le aspettative della controparte che, confidando nella conclusione del contratto, sia stata indotta a sostenere spese o a rinunziare ad occasioni più favorevoli. Di contrario avviso, invece, altra parte della dottrina, la quale collega la responsabilità in questione esclusivamente ad un comportamento doloso, negando che la culpa in contrahendo sia configurabile in caso di violazione colposa (cfr. per tutti Messineo, 918). Con riferimento, invece, all'art. 1366 c.c., l'interpretazione secondo buona fede ha carattere centrale nella teorica dell'interpretazione del contratto, imponendo che il contratto venga interpretato secondo la lettura che di esso ne darebbero i contraenti leali e corretti: ciò che, paradossalmente, può condurre finanche ad attribuire al contratto — o a sue singole clausole — un significato diverso da quello testuale delle espressioni che vi figurano, sì da superare atteggiamenti cavillosi o inutilmente oppositivi ad opera delle parti. Ricostruita quale clausola interpretativa trasversale alle regole dell'interpretazione soggettiva ed oggettiva, può dirsi che, ove correlata al primo gruppo di norme (artt. 1362-1365 c.c.) la buona fede va intesa nel senso che le dichiarazioni negoziali devono ritenersi provenienti da soggetti corretti e leali, secondo una sorta di presunzione di onestà che riguarderebbe chi emette la dichiarazione ed il destinatario mentre, ove relazionata al secondo gruppo di norme (artt. 1367-1371 c.c.), la buona fede va intesa come operazione ermeneutica che consente di valutare il contratto in termini di operazione economica utile ed equilibrata. La giurisprudenza negli ultimi anni ha attribuito alla buona fede anche la funzione di bilanciare gli interessi contrapposti, specialmente quando sussistano abusi di una delle due parti, come affermato da Cass. II, n. 656/2025: “Si è chiarito che i princìpi di correttezza e buona fede nell'esecuzione e nell'interpretazione dei contratti, di cui agli artt. 1175,1366 e 1375 cod. civ., rilevano sia sul piano dell'individuazione degli obblighi contrattuali, sia su quello del bilanciamento dei contrapposti interessi delle parti. Sotto il primo profilo, essi impongono alle parti di adempiere obblighi anche non espressamente previsti dal contratto o dalla legge, ove ciò sia necessario per preservare gli interessi della controparte; sotto il secondo profilo, consentono al giudice di intervenire anche in senso modificativo o integrativo sul contenuto del contratto, qualora ciò sia necessario per garantire l'equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l'abuso del diritto (Sez. 3, Sentenza n. 20106 del 18/09/2009, Rv. 610222 – 01; conf., ex multis, Cass. nn. 20106/2009)”. Segue. La «funzione» della buona fede Secondo un primo orientamento, la regola di buona fede rappresenta un elemento integrativo del regolamento contrattuale mediante il richiamo alla legge quale fonte di integrazione del contratto, sicché l'art. 1375 andrebbe necessariamente collegato al precedente art. 1374 c.c., che ne costituirebbe il fondamento giustificativo (Rodotà, 175). Per altri, invece, la buona fede in questione non assurgerebbe ad elemento integrativo del vincolo contrattuale quanto, piuttosto, di criterio di valutazione, da parte del giudice, del comportamento delle parti nella fase di attuazione del rapporto obbligatorio (Natoli, 1988, 170). Opta per la prima soluzione la giurisprudenza di legittimità, che attribuisce rilevanza primaria al ruolo della buona fede in sede di integrazione del rapporto. Così, ad esempio, Cass. sez. lav., n. 12563/2914, per cui nel rapporto di lavoro i principi di correttezza e buone fede rilevano, come norme di relazione con funzione di fonti integrative del contratto (art. 1374 c.c.), ove ineriscano a comportamenti dovuti in relazione ad obblighi di prestazione imposti al datore di lavoro dal contratto collettivo o da altro atto di autonomia privata; ne consegue che, in assenza di qualsiasi obbligo previsto dalla contrattazione collettiva, il datore di lavoro non ha l'onere di avvertire preventivamente il lavoratore della imminente scadenza del periodo di comporto per malattia al fine di permettere al lavoratore di esercitare eventualmente la facoltà, prevista dal contratto collettivo, di chiedere tempestivamente un periodo di aspettativa. Del pari, Cass. III, n. 8153/2014, per cui nel contratto di sponsorizzazione, in quanto rapporto caratterizzato da un rilevante carattere fiduciario, assumono particolare importanza i doveri di correttezza e buona fede, di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., contribuendo essi ad individuare obblighi, ulteriori o integrativi di quelli tipici del rapporto stesso, il cui inadempimento è patrimonialmente valutabile, ai sensi dell'art. 1174 c.c., e tale da giustificare una richiesta di risarcimento danni, purché siano specificati e provati i comportamenti pregiudizievoli e i loro concreti effetti lesivi. Ancora, nel medesimo senso, Cass. I, n. 17642/2012, la quale, in tema di fideiussione, afferma che il generale principio etico-giuridico di buona fede nell'esercizio dei propri diritti e nell'adempimento dei propri doveri, insieme alla nozione di abuso del diritto, che ne è un'espressione, svolge una funzione integrativa dell'obbligazione assunta dal debitore (nella specie, la banca), quale limite all'esercizio delle corrispondenti pretese, avendo ciascuna delle parti contrattuali il dovere di tutelare l'utilità e gli interessi dell'altra, nei limiti in cui ciò possa avvenire senza un apprezzabile sacrificio di altri valori Le conseguenze della violazione della buona fede in fase esecutivaLa violazione del canone di buona fede in fase esecutiva dà luogo, come detto, a responsabilità contrattuale ed è idonea, di per sé, a determinare la risoluzione per inadempimento, oltre al risarcimento del conseguente danno. Essa, inoltre può comportare l'invalidità dell'atto o la sua conservazione all'esito della sostituzione dei precetti che discendono dalla clausola di buona fede alla parte del contenuto contrattuale affetta da tale difformità (Rodotà, 182). Il principio di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto, espressione del dovere di solidarietà fondato sull'art. 2 Cost., impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra e costituisce un dovere giuridico autonomo a carico di entrambe, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da norme di legge; ne consegue che la sua violazione costituisce di per sé inadempimento e può comportare l'obbligo di risarcire il danno che ne sia derivato (Cass. I, n. 1618/2009) Buona fede e presupposizioneÈ controversa, infine, la riconducibilità all'art. 1375 c.c. della presupposizione. È stata infatti proposta, in dottrina, una ricostruzione dell'istituto quale clausola risolutiva tacita, implicitamente desumibile dal complesso di circostanze oggettive interessanti la formazione e l'esecuzione del contratto (Girino, 783). La tesi non ha, però avuto seguito, essendo prevalente quella che colloca la presupposizione nell'art. 1467 c.c., quale evento non prevedibile che, verificandosi nel corso del rapporto contrattuale, incide sulla situazione economica originariamente contemplata dai contraenti, consentendo l'esperimento del rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità. In questo senso si è pronunziata anche la giurisprudenza di legittimità. Specifica in proposito Cass. II, n. 5460/1993, che la presupposizione postula che una situazione di fatto considerata, ma non espressamente enunciata dalle parti in sede di stipulazione del contratto, venga successivamente mutata dal sopravvenire di circostanze non imputabili alle parti stesse, in modo che l'assetto che costoro hanno dato ai propri interessi si trovi a poggiare su una base diversa da quella in virtù della quale era stato concluso il contratto; per contro, nel caso in cui il mutamento della situazione presupposta sia ascrivibile alle parti stesse, l'eliminazione del vincolo non può trovare giustificazione, né prospettando un conflitto, per definizione inesistente, con la volontà negoziale, né adducendo il rispetto dei principi di correttezza e di buona fede che presiedono alla interpretazione e all'esecuzione dei negozi giuridici. Prosegue, nel medesimo senso, Cass. III, n. 6631/2006, per cui la presupposizione deve intendersi come figura giuridica che si avvicina, da un lato, ad una particolare forma di «condizione», da considerarsi implicita e, comunque, certamente non espressa nel contenuto del contratto e, dall'altro, alla stessa «causa» del contratto, intendendosi per causa la funzione tipica e concreta che il contratto è destinato a realizzare; il suo rilievo resta dunque affidato all'interpretazione della volontà contrattuale delle parti, da compiersi in relazione ai termini effettivi del negozio giuridico dalle medesime stipulato. Deve pertanto ritenersi configurabile la presupposizione tutte le volte in cui, dal contenuto del contratto, si evinca che una situazione di fatto, considerata, ma non espressamente enunciata dalle parti in sede di stipulazione del medesimo, quale presupposto imprescindibile della volontà negoziale, venga successivamente mutata dal sopravvenire di circostanze non imputabili alle parti stesse, in modo tale che l'assetto che costoro hanno dato ai loro rispettivi interessi venga a trovarsi a poggiare su una base diversa da quella in forza della quale era stata convenuta l'operazione negoziale, così da comportare la risoluzione del contratto stesso ai sensi dell'art. 1467 c.c.. 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