Codice Civile art. 1453 - Risolubilità del contratto per inadempimento.Risolubilità del contratto per inadempimento. [I]. Nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l'altro può a sua scelta chiedere l'adempimento [2930 ss.] o la risoluzione del contratto [2907, 2908], salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno [1223 ss.]. [II]. La risoluzione può essere domandata anche quando il giudizio è stato promosso per ottenere l'adempimento; ma non può più chiedersi l'adempimento quando è stata domandata la risoluzione. [III]. Dalla data della domanda di risoluzione l'inadempiente non può più adempiere la propria obbligazione. InquadramentoLa risoluzione del contratto è un rimedio giudiziale diretto a far valere le disfunzioni dell'autoregolamento, e segnatamente l'alterazione del sinallagma, sicché si inserisce tra le impugnative negoziali (Scognamiglio, in Tr. G. S.-P., 1980, 269). Il presidio risolutorio contemplato dall'ordinamento interviene a protezione della parte in ordine ad eventi sopravvenuti che riguardano la fase attuativa del contratto, ossia lo svolgimento del rapporto giuridico. Infatti, a fronte di un contratto valido ed efficace possono presentarsi in sede di attuazione alterazioni dell'equilibrio originariamente previsto tra le reciproche attribuzioni patrimoniali, come l'inadempimento della prestazione, la sua impossibilità sopravvenuta non imputabile, l'eccessiva onerosità nei contratti di durata, in ordine alle quali la legge appresta gli adeguati strumenti di risposta. Sicché il fondamento economico dell'attribuzione non è viziato sin dall'origine, ma viene ad alterarsi in seguito (Bigliazzi Geri, Breccia, Busnelli, Natoli, 862). In particolare, la risoluzione per inadempimento presuppone la mancata, inesatta, parziale o tardiva esecuzione di un obbligo contrattuale, ossia l'inadempimento relativo (Mirabelli, in Comm. UTET, 1984, 610), e la riconducibilità di tale evento al contraente (Luminoso, Carnevali, Costanza, 19), oltre all'ulteriore presupposto della gravità dell'inadempimento ex art. 1455 c.c. Il rapporto tra il rimedio risolutorio e la causa petendi dell'inadempimento è da alcuni ricondotto ad un'esigenza di reazione avverso un'anomalia funzionale della causa (Scognamiglio, in Tr. G. S.-P., 1980, 269), da altri ad una prospettiva sanzionatoria contro il debitore inadempiente, che si affianca alla domanda di risarcimento dei danni (Auletta, 137), sebbene a tale prospettiva non sia sottesa una finalità afflittiva o repressiva in senso stretto (Bianca, 1994, 263). La risoluzione per inadempimento può essere giudiziale o di diritto: nella prima ipotesi, l'effetto risolutorio del contratto consegue alla pronuncia costitutiva di risoluzione (Cass. VI-II, n. 36918/2021; Cass. II, n. 966/1983), a seguito della corrispondente domanda giudiziale proposta dalla parte non inadempiente; nella seconda, la risoluzione si realizza in via stragiudiziale per effetto di diffida ad adempiere, clausola risolutiva espressa o termine essenziale, cosicché all'esito dell'integrazione dei presupposti previsti da tali fattispecie l'eventuale pronuncia giudiziale si limiterà ad accertare un effetto risolutorio già avvenuto (Cass. II, n. 4776/1980) Il campo applicativoLa norma fa espresso riferimento ai contratti con prestazioni corrispettive. La corrispettività si realizza non solo quando, a fronte di un'obbligazione in senso tecnico, vi sia un'altra obbligazione, ma anche quando, a fronte di un'obbligazione in senso tecnico, si ponga comunque un'attribuzione patrimoniale, poiché il termine prestazione è indicativo in modo generico di qualsiasi sacrificio di natura patrimoniale (Sacco, De Nova, in Tr. Res., 1988, 512). Le prestazioni il cui inadempimento consente la risoluzione devono essere legate da un nesso sinallagmatico con altre prestazioni. Il sinallagma può essere genetico o funzionale: nel primo caso ricorre un'interdipendenza iniziale delle prestazioni, nel senso che l'impossibilità originaria dell'una rende non dovuta l'altra; nel secondo l'interdipendenza delle prestazioni sussiste nella fase di svolgimento del rapporto. Il sinallagma funzionale assume rilievo ai fini della risoluzione per inadempimento e per impossibilità sopravvenuta, nonché legittima l'opponibilità dell'eccezione di inadempimento (Bianca, 1997, 460). Entro certi limiti, l'interdipendenza delle prestazioni può anche essere superata dalle parti, ad es. attraverso la pattuizione della clausola solve et repete (art. 1462 c.c.) o tramite l'assunzione del rischio dell'impossibilità sopravvenuta, come nella cd. vendita a sorte (vedi sub art. 1472 c.c.). L'esclusione del diritto alla risoluzione per inadempimento incontra, invece, il limite dell'art. 1229 c.c. (Bianca, 1997, 461), sicché è nullo il patto con il quale si convenga la rinuncia preventiva all'azione di risoluzione per inadempimento (Auletta, 490; Bianca, 1994, 260; Luminoso, Carnevali, Costanza, 109; Sacco, De Nova, in Tr. Res., 1988, 513; contra Belfiore, 1309). Si dubita, in dottrina, che la risoluzione sia rimedio esclusivo dei contratti con prestazioni corrispettive, sia perché l'ordinamento ammette espressamente la possibilità di risoluzione di attribuzioni patrimoniali unilaterali, come accade per la disciplina della donazione modale, sia perché la risoluzione può derivare anche dalla mancata attuazione di elementi secondari del rapporto, come può desumersi dalla disciplina della clausola risolutiva espressa (Mirabelli, in Comm. UTET, 1984, 600). Sicché il rimedio si ritiene applicabile a tutti i contratti a titolo oneroso (in cui rientrano quelli a prestazioni corrispettive), quando l'obbligazione inadempiuta sia obiettivamente rilevante nell'economia dell'affare: in tal senso, si impone l'esigenza di tutelare l'interesse della parte di liberarsi da un vincolo contrattuale che l'altra parte ha gravemente violato; nonché ai contratti a titolo gratuito per inadempimento del beneficiario che non esegua gli obblighi di carattere accessorio o strumentale a suo carico, quando tali obblighi abbiano un rilievo determinante: si pensi al contratto di mandato, quando il mandante non provveda a somministrare al mandatario i mezzi necessari per l'esecuzione del mandato (Bianca, 1994, 264; contra Luminoso, Carnevali, Costanza, 40). Anche il contratto risolutorio, con il quale le parti dispongono consensualmente la risoluzione del precedente contratto tra esse concluso, può costituire oggetto di risoluzione. Medesima conclusione vale per il contratto modificativo. Il nesso di corrispettività fra le prestazioni sussiste anche nell'ipotesi di contratti funzionalmente collegati, con la conseguenza che è possibile non solo sollevare l'eccezione di inadempimento, ma altresì ottenere una pronuncia di risoluzione per inadempimento di un contratto che comporti l'automatica inefficacia del contratto ad esso collegato (Luminoso, Carnevali, Costanza, 44). Secondo la giurisprudenza, la risoluzione del contratto risolutorio fa rivivere gli effetti del precedente contratto (Cass. L, n. 1616/2004; Cass. III, n. 1655/1973; contra Cass. II, n. 1950/1978). È altresì risolubile la situazione originata dalla sentenza esecutiva dell'obbligo di concludere il contratto, quando detta sentenza abbia subordinato l'effetto traslativo al pagamento del residuo prezzo (Cass. II, n. 8250/2009; Cass. II, n. 690/2006; Cass. II, n. 11850/1997). Anche nel caso di collegamento negoziale è ammessa la risoluzione in ragione del nesso sinallagmatico che si può determinare tre le prestazioni contemplate dai contratti collegati, nonostante ciascuno dei contratti mantenga la propria individualità giuridica (Cass. I, n. 20726/2014). La disciplina della risoluzione per inadempimento trova, altresì, applicazione in tema di disposizioni testamentarie, ove vi sia l'inadempimento del legatario (Cass. II, n. 2569/2003) ovvero l'inadempimento dell'onere stabilito a carico dell'erede (Cass. II, n. 11906/2013), nonché nel caso di contratto atipico avente ad oggetto la cessione di quote di proprietà su un immobile verso un corrispettivo rappresentato sia da una prestazione mensile pecuniaria che da una prestazione di assistenza morale per la durata della vita del beneficiario (Cass. VI-II, n. 13232/2017), ed in ordine alle singole operazioni di investimento mobiliare, a prescindere dalla risoluzione del contratto quadro (Cass. I, n. 16861/2017). In giurisprudenza si è poi precisato che il principio secondo il quale i rimedi generali dettati in tema di inadempimento contrattuale non sono utilizzabili nel diverso ambito dei contratti societari (per essere questi ultimi caratterizzati non già dalla corrispettività delle prestazioni dei soci, bensì dalla comunione di scopo, sì che i rimedi invocabili sono quelli del recesso e dell'esclusione del socio) non si applica alle società cooperative, nelle quali il rapporto (ulteriore rispetto a quello relativo alla partecipazione all'organizzazione della vita sociale) attinente al conseguimento dei servizi o dei beni prodotti dalla società ed aventi ad oggetto prestazioni (di collaborazione o) di scambio tra socio e società è indiscutibilmente caratterizzato non dalla comunione di scopo, bensì dalla contrapposizione tra quelle prestazioni e (la retribuzione o) il prezzo corrispettivo (Cass. I, n. 694/2001). In particolare, con riguardo alle cooperative edilizie, tale rapporto economico-giuridico, distinto da quello sociale, instaurandosi (tra società e socio prenotatario) nella fase della successiva attribuzione dell'unità immobiliare costruita, caratterizza tale attribuzione come vero e proprio atto traslativo della proprietà a titolo oneroso, sicché riprendono vigore i rimedi generali volti a mantenere o ristabilire l'equilibrio sinallagmatico tra la prestazione traslativa e la controprestazione economica (Cass. I, n. 26222/2014) L'imputabilità dell'inadempimentoLa dottrina è divisa sui requisiti che deve rivestire l'inadempimento rilevante per la risoluzione. Un primo indirizzo, assegnando una natura sanzionatoria alla risoluzione, ritiene che la relativa declaratoria presupponga un inadempimento colpevole (Luminoso, Carnevali, Costanza, 28). In forza di una diversa opinione, la risoluzione rappresenterebbe un rimedio posto contro l'oggettiva mancata attuazione del vincolo contrattuale, indipendentemente dall'imputabilità del relativo comportamento al contraente (Mirabelli, in Comm. UTET, 1984, 603). In dottrina si evidenzia, altresì, che la giurisprudenza, a fronte dell'assegnazione di un ruolo preminente all'imputabilità dell'inadempimento, ai fini di poter evocare la risoluzione ha altresì elaborato una nozione di incolpevolezza, che si identifica in una serie di esimenti tipiche, come la tolleranza del creditore verso precedenti inadempimenti, l'ostacolo frapposto dal creditore all'adempimento, ecc. (Sacco, De Nova, in Tr. Res., 1988, 517). Il rifiuto della controparte di adempiere non legittima la richiesta di risoluzione quando, nonostante la comunicazione di tale rifiuto da parte del debitore, questi sia ancora in termini per adempiere, sicché il rifiuto non precluderebbe un adempimento tempestivo (Mirabelli, in Comm. UTET, 1984, 620). Secondo la giurisprudenza, invece, la risoluzione può essere pronunciata solo quando l'inadempimento dedotto sia imputabile almeno a colpa della parte inadempiente; ove l'inadempimento non sia imputabile, ricorrono piuttosto i presupposti per chiedere la risoluzione per impossibilità sopravvenuta (Cass. III, n. 2553/2007; Cass. I, n. 567/2001). Tuttavia, la colpa della parte inadempiente è presunta sino a prova contraria e tale presunzione è superabile solo da risultanze positivamente apprezzabili, dedotte e provate dal debitore, le quali dimostrino che, nonostante l'uso della normale diligenza, egli non è stato in grado di eseguire tempestivamente le prestazioni dovute per cause a lui non imputabili, come, ad es., nel caso di ingiustificato rifiuto della controparte di ricevere la prestazione (Cass. III, n. 2853/2005), senza che l'esito positivo di tale dimostrazione sia condizionato all'avvenuta offerta reale di cui agli artt. 1209 ss. c.c. (Cass. III, n. 12760/1999). Pertanto, secondo giurisprudenza ormai costante, la parte che agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno ovvero per l'adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi poi ad allegare la circostanza dell'inadempimento o inesatto adempimento della controparte, mentre al debitore convenuto spetta la prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'avvenuto adempimento ovvero dalla non imputabilità del proprio inadempimento (Cass. VI-I, n. 16324/2021; Cass. III, n. 3996/2020; Cass. II, n. 1080/2020 ; Cass. VI, n. 25584/2018; Cass. III, n. 826/2015; Cass., S.U., n. 13533/2001). Il medesimo principio è applicabile anche alle obbligazioni di risultato (Cass. II, n. 13685/2019, in relazione all'acquisto di un software applicativo) . La causa non imputabile si ha quando l'inadempimento sia stato determinato da un impedimento oggettivo e non dall'erronea convinzione di non dover adempiere (Cass. L, n. 9212/1997; Cass. II, n. 3711/1989) o dalla convinzione del consenso della controparte (Cass. III, n. 3516/1985). Ad es., è stato ritenuto non imputabile l'inadempimento giustificato dal rispetto di una norma costituzionalmente illegittima, ma non ancora dichiarata tale dalla Corte costituzionale (Cass. III, n. 5579/1982). Inoltre, ai fini della risoluzione è sufficiente che l'inadempimento, in quanto condizione dell'azione, sussista al momento della decisione, anche se insussistente all'epoca della domanda giudiziale (ad es. perché la prestazione era inesigibile) (Cass. I, n. 3378/2004). La parte non inadempiente conserva il diritto a chiedere la risoluzione anche quando abbia concesso una proroga del termine fissato nel contratto per l'esecuzione dell'obbligazione (Cass. II, n. 914/1981). L'eccezione di non imputabilità dell'inadempimento costituisce non mera difesa, ma eccezione in senso lato, rilevabile d'ufficio e, quindi, non soggetta alla decadenza ex art. 167 c.p.c., sempre che il fatto emerga dagli atti, dai documenti o dalle altre prove ritualmente acquisite al processo, atteso che consiste nell'allegazione non riservata all'iniziativa della parte - per legge o perché collegata alla titolarità di un'azione costitutiva - di un fatto diverso, non compreso tra quelli dedotti dalla controparte e dotato normativamente di idoneità impeditiva, in via immediata e diretta, del diritto azionato in giudizio (Cass. VI-III, n. 12980/2020). L'azione di risoluzioneIn caso di inadempimento contrattuale la parte non inadempiente può chiedere in via giudiziale, oltre al risarcimento del danno, la condanna all'adempimento della prestazione della controparte ovvero la pronuncia della risoluzione del contratto. L'azione di adempimento è diretta a ottenere l'esecuzione del contratto; tramite il suo esercizio la parte non inadempiente si procura un titolo esecutivo nonché idoneo ad iscrivere ipoteca giudiziale. Per converso, l'azione di risoluzione è volta a determinare lo scioglimento del vincolo contrattuale, con effetti restitutori. Ciascuno di tali diritti, configurandosi in termini di diversità ed autonomia rispetto a ciascun altro, può legittimamente costituire oggetto di rinuncia senza che, per ciò solo, gli effetti di tale rinuncia debbano automaticamente estendersi anche agli altri, a meno che l'atto abdicativo non si atteggi, in concreto, come rinuncia tout court a far valere tutti i diritti conseguenti al fatto dell'inadempimento della controparte (Cass. III, n. 32126/2019 ; Cass. I, n. 9926/2005; Cass. II, n. 13598/2000). Per quanto attiene alla prescrizione, si è precisato, in tema di compravendita, che il termine di prescrizione del diritto dell'acquirente alla risoluzione del contratto e al risarcimento del danno, derivante dalla consegna di aliud pro alio, decorre, ai sensi dell'art. 2935 c.c., non dalla data in cui si verifica l'effetto traslativo, ma dal momento in cui, rispettivamente, ha luogo l'inadempimento e si concreta la manifestazione oggettiva del danno, avendo comunque riguardo all'epoca di accadimento del fatto lesivo, per come obiettivamente percepibile e riconoscibile (Cass. II, n. 1889/2018) ), atteso che, ai fini della sospensione del termine di prescrizione, rileva l'impossibilità che derivi da cause giuridiche, non anche impedimenti soggettivi o ostacoli di mero fatto, tra i quali devono annoverarsi l'ignoranza del fatto generatore del diritto, il dubbio soggettivo sull'esistenza di esso e il ritardo indotto dalla necessità del suo accertamento (Cass. II, n. 996/2022). La legittimazione ad agire per la risoluzione spetta al contraente non inadempiente. Ne consegue che è esclusa sia la legittimazione in via surrogatoria del creditore del contraente non inadempiente (contra Mosco, 228), sia quella del cessionario del credito, che possono solo agire per l'esecuzione del contratto e il risarcimento del danno (Luminoso, Carnevali, Costanza, 46). La legittimazione spetta invece al cessionario nell'ipotesi di cessione del contratto (Bianca, 1994, 283; Luminoso, Carnevali, Costanza, 48; in senso contrario Auletta, 440; Mosco, 228). Nel caso di contratto a favore di terzo, e in genere di obbligazioni soggettivamente complesse, lo stipulante non può chiedere la risoluzione senza il consenso del terzo, salvo che il contratto non produca effetti divisibili, occorrendo il consenso unanime di tutti i soggetti interessati (Sacco, De Nova, in Tr. Res., 1988, 513). Può agire in risoluzione anche chi non sia in grado di restituire la prestazione ricevuta (Sacco, De Nova, in Tr. Res., 1988, 515), poiché deve escludersi che la possibilità di restituzione sia una condizione dell'azione (Dalmartello, 145). La domanda può essere formulata, purché tempestivamente, anche in via riconvenzionale, ma non come semplice eccezione (Bianca, 1994, 283). L'azione di risoluzione è invece preclusa dall'acquiescenza all'inadempimento (Sacco, De Nova, in Tr. Res., 1988, 519) e dalla rinuncia successiva all'azione (Auletta, 489), che può essere anche tacita (Luminoso, Carnevali, Costanza, 111). Secondo la giurisprudenza, la volontà di risolvere un contratto per inadempimento non deve necessariamente risultare da una domanda espressamente proposta dalla parte in giudizio, ben potendo essere implicitamente contenuta in un'altra domanda, eccezione o richiesta, sia pure di diverso contenuto, che presupponga una domanda di risoluzione, come, ad es., la domanda del venditore relativa al riconoscimento del diritto di trattenere un acconto a seguito dell'inadempimento del compratore all'obbligo di versare il residuo prezzo oppure la domanda di restituzione della somma corrisposta per una prestazione inadempiuta (Cass. II, n. 19575/2021; Cass. VI, n. 24947/2017; Cass. II, n. 21113/2013; Cass. II, n. 21230/2009). Tuttavia, la domanda di risoluzione del contratto non può ritenersi implicitamente contenuta nella richiesta, formulata dalla parte convenuta per l'adempimento del contratto, di rigetto della domanda attorea e di condanna della controparte al risarcimento del danno (Cass. III, n. 6926/2012; Cass. III, n. 23820/2010). Ne consegue che, ad es., nel contratto d'opera intellettuale, qualora il committente non abbia chiesto la risoluzione per inadempimento, ma solo il risarcimento dei danni, il professionista mantiene il diritto al corrispettivo della prestazione eseguita, in quanto la domanda risarcitoria non presuppone lo scioglimento del contratto e le ragioni del committente trovano in essa adeguata tutela (Cass. II, n. 6886/2014; Cass. II, n. 29218/2017, in ordine all'appalto ed al compenso spettante al progettista ed al direttore dei lavori). Per quanto attiene ai rapporti tra risoluzione giudiziale e risoluzione di diritto, mentre nella proposizione di una domanda di risoluzione di diritto per l'inosservanza di una diffida ad adempiere può ritenersi implicita, in quanto di contenuto minore, anche quella di risoluzione giudiziale di cui all'art. 1453 c.c., non altrettanto può dirsi nell'ipotesi inversa, nella quale sia stata proposta soltanto quest'ultima domanda, restando precluso l'esame di quella di risoluzione di diritto, a meno che i fatti che la sostanziano siano stati allegati in funzione di un proprio effetto risolutivo (Cass. VI-II, n. 23193/2020; Cass. I, n. 11493/2014). La risoluzione può essere chiesta anche in caso di inadempimento parziale, purché grave, e di inadempimento di prestazioni accessorie (Mirabelli, in Comm. UTET, 1984, 610). Non è invece possibile, secondo la dottrina, la risoluzione parziale del contratto, almeno nel caso di inadempimento totale; in tal caso, ove la parte non inadempiente abbia comunque interesse al mantenimento del contratto, vivrebbe una nuova figura negoziale, connotata da uno spirito di liberalità, non già l'originario contratto risolto parzialmente (Luminoso, Carnevali, Costanza, 35). Nell'ipotesi di inesecuzione parziale, invece, si afferma l'ammissibilità di una risoluzione parziale anche per i contratti che non siano ad esecuzione continuata o periodica, qualora l'oggetto del contratto non sia una sola cosa caratterizzata da una particolare unicità e non frazionabile, ma si presenti come più cose aventi una propria individualità (Bianca, 1994, 302; Gentili, La risoluzione parziale, Napoli, 1990, 129; contra Rubino, in Tr. dir. C. M., 1962, 815). La giurisprudenza reputa, invece, ammissibile la risoluzione parziale del contratto, esplicitamente prevista dall'art. 1458 c.c. in riferimento ai contratti ad esecuzione continuata o periodica, anche nell'ipotesi di contratto ad esecuzione istantanea, quando l'oggetto di esso sia rappresentato non da una sola prestazione, caratterizzata da una sua unicità e non frazionabile, ma da più cose aventi una distinta individualità, il che si verifica allorché ciascuna di esse, separata dal tutto, mantenga una propria autonomia economico-funzionale che la renda definibile come un bene a sé stante e come possibile oggetto di diritti o di autonoma negoziazione (Cass. II, n. 16556/2013; Cass. II, n. 25157/2010; Cass. II, n. 10700/2005). La risoluzione, secondo la dottrina, non presuppone la previa costituzione in mora (Smiroldo, 363). Tuttavia, alcuni autori hanno sostenuto che nelle obbligazioni senza termine il debitore non può essere considerato inadempiente fino alla costituzione in mora, sicché, se questa manca all'atto della domanda di risoluzione, è sempre ammissibile l'adempimento successivo alla domanda (Mosco, 232; Bianca, 1994, 280). In senso contrario, altro autore ha rilevato che il presupposto della risoluzione, la quale postula che sia già avvenuto l'inadempimento, non può essere rappresentato dalla costituzione in mora, bensì dall'accertamento che è decorso il termine derivante dagli usi o dalla natura della prestazione, accertamento affidato al giudice (Mirabelli, in Comm. UTET, 1984, 615). L'azione di risoluzione si prescrive nel termine ordinario decennale (Luminoso, Carnevali, Costanza, 113). Anche secondo la Suprema Corte, la risoluzione può essere chiesta senza che occorra la previa costituzione in mora del debitore, la quale è prescritta dalla legge per l'effetto preminente dell'attribuzione al debitore medesimo del rischio riguardante la sopravvenuta impossibilità della prestazione per causa a lui non imputabile, basandosi, viceversa, l'azione di risoluzione sulla sola obiettiva esistenza dell'inadempimento di non scarsa importanza di una delle parti (Cass. II, n. 17489/2012; Cass. II, n. 28647/2011; Cass. II, n. 8199/1991). La costituzione in mora è, tuttavia, necessaria se la risoluzione si basa sulla mora in senso stretto, ossia su di un inadempimento non definitivo che riguardi una prestazione che deve essere eseguita al domicilio del debitore; in tal caso, è la stessa domanda di risoluzione a valere come atto di costituzione in mora, con la conseguenza che non è impedita l'esecuzione della prestazione fino alla prima udienza di comparizione e trattazione, in deroga al principio generale dettato dall'art. 1453, ult. comma, c.c. (Cass. II, n. 15993/2018; Cass. II, n. 385/1982; Cass. III, n. 2602/1971). La possibilità di domandare la risoluzione non è poi condizionata ad una preventiva diffida ad adempiere (Cass. II, n. 3446/1987). È possibile rinunziare, espressamente o tacitamente, al diritto di domandare la risoluzione; in particolare, la rinunzia tacita consiste in un comportamento che esprima la volontà che il contratto continui ad avere esecuzione (Cass. I, n. 7108/2017; Cass. I, n. 18224/2002), come nel caso di accettazione della prestazione ritardata da parte del creditore che non sollevi contestazioni o riserve (Cass. III, n. 845/1977). Anche la violazione della clausola generale di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. può assumere rilevanza ai fini della risoluzione del rapporto, ma solo se, incidendo sulla condotta sostanziale che le parti sono obbligate a tenere per preservare il reciproco interesse all'esatto adempimento delle rispettive prestazioni, pregiudica gli effetti economici e giuridici del contratto (Cass. III, n. 11437/2002). Invece, la violazione del dovere di buona fede in sede di stipulazione del contratto non può essere dedotta a fondamento della domanda di risoluzione contrattuale, ma può dar luogo solo a responsabilità precontrattuale ai sensi degli artt. 1337,1338,1427 c.c. (Cass. III, n. 9802/1994). La risoluzione del contratto per inadempimento produce effetti liberatori ex nunc e restitutori ex tunc (Cass. III, n. 4442/2014): se questi ultimi non possono essere disposti in forma specifica, il giudice deve ordinarli per equivalente, ancorché questa forma di restituzione non sia stata esplicitamente chiesta dalla parte interessata (Cass. III, n. 3539/1976). Inoltre, l'obbligo restitutorio (da far valere con azione di ripetizione d'indebito oggettivoex art. 2033 c.c.: Cass. II, n. 738/2007; Cass. I, n. 17558/2006) relativo all'originaria prestazione pecuniaria, anche in favore della parte non inadempiente, ha natura di debito di valuta, come tale non soggetto a rivalutazione monetaria, se non nei termini del maggior danno ex art. 1224 c.c. — da provarsi dal creditore — rispetto a quello soddisfatto dagli interessi legali (Cass. II, n. 14289/2018; Cass. III, n. 5639/2014), e sempre che tale ulteriore risarcimento non rimanga assorbito da quello accordato per il danno derivante dall'inadempimento, dovendosi evitare ingiustificate duplicazioni (Cass. I, n. 15708/2018) Il mutamento della domanda di adempimento in domanda di risoluzioneLa norma in esame, in considerazione della circostanza che il protrarsi dell'inadempimento può determinare la perdita di interesse della parte non inadempiente all'esecuzione del contratto, stabilisce che, in deroga al divieto di mutatio libelli e alle preclusioni processuali, la risoluzione può essere domandata anche quando il giudizio sia stato promosso per ottenere l'adempimento: si tratta di una disposizione volta a facilitare la posizione processuale della parte non inadempiente, ma che non incide sulla sua posizione sostanziale, poiché la persistente possibilità di risolvere il contratto, anche dopo un'eventuale sentenza di condanna, sia pure passata in giudicato, deriva dalla persistenza del rapporto contrattuale. Tale facoltà non contrasta con il principio di preclusione o di eventualità che governa il processo civile. Infatti, consentire la possibilità di esercitare in tutto il corso del giudizio lo ius variandi contemplato dall'art. 1453, comma 2, oltre a non contrastare con gli interessi sottostanti la riforma del '90, risponderebbe anche ad esigenze di economia processuale (Gili, Rapporti tra diritto di mutare la domanda di adempimento in domanda di risoluzione,ex art. 1453, comma 2, c.c. e nuovo regime delle preclusioni nel processo civile di primo grado, in Giur. it., 1999, 1865). Secondo l'orientamento giurisprudenziale, la mutatio può essere esercitata non solo nel giudizio di primo grado fino all'udienza di precisazione delle conclusioni, ma anche in appello (senza che sia necessaria impugnazione incidentale della parte appellata che intenda operare la mutatio) e nel giudizio di rinvio, sempre che non siano allegati nuovi fatti costitutivi (Cass. VI, n. 8048/2020; Cass. II, n. 12238/2011; Cass. II, n. 13003/2010; Cass. II, n. 8234/2009), nonché nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo (Cass. II, n. 9941/2006). Anche di recente si è precisato che la facoltà di poter mutare nel corso del giudizio di primo grado, in appello e persino in sede di rinvio la domanda di adempimento in quella di risoluzione, in deroga al regime delle preclusioni processuali, postula che si resti nell'ambito dei fatti posti a base della inadempienza originariamente dedotta, senza introdurre un nuovo tema di indagine, sicché il contraente, che abbia posto a base della domanda introduttiva del processo l'inadempimento dei promittenti alienanti alla stipulazione del contratto definitivo, non può, in sede di appello, addurre il pignoramento dell'immobile alla base della domanda di riduzione del prezzo e, poi, chiedere, con la precisazione delle conclusioni, la risoluzione del contratto preliminare per sostanziale difformità dal titolo ad aedificandum, così mutando due volte i fatti posti a base dell'inadempimento (Cass. II, n. 28912/2022). La domanda di risoluzione può essere proposta anche in un separato giudizio, pure all'esito del passaggio in giudicato della pronuncia di condanna all'adempimento, ove il creditore non abbia intrapreso l'esecuzione o l'esecuzione intrapresa sia rimasta infruttuosa, non risultando in tal caso nemmeno configurabile l'ipotesi del contrasto di giudicati, atteso che la condanna del debitore all'adempimento attribuisce alla parte il diritto all'esecuzione del contratto, non negandole tuttavia il diritto di ottenerne viceversa lo scioglimento, laddove l'inadempimento si protragga ulteriormente rispetto a quello già accertato e posto a fondamento della decisione passata in cosa giudicata (Cass. II, n. 15290/2011; Cass. II, n. 19826/2004). Tale facoltà spetta solamente alla parte che abbia chiesto l'adempimento e non anche a quella che in giudizio ad esso si opponga, la quale è pertanto tenuta a spiegare tempestivamente eventuale domanda di risoluzione (Cass. II, n. 10927/2005). Sotto il profilo processuale, non è necessaria una diversa o nuova procura del difensore nel caso di mutamento della domanda di adempimento in domanda di risoluzione, vertendosi in tema, non di atto di disposizione del diritto in contesa, ma di attività processuale che di tale diritto costituisce soltanto una modalità di esercizio e che rientra pertanto nei poteri del procurator ad litem, abilitato a proporre, in aggiunta o in sostituzione di quelle proposte con l'atto di citazione, tutte le domande che siano ricollegabili con l'originario oggetto, salva la sua responsabilità per l'eventuale inosservanza delle istruzioni del mandante (Cass. III, n. 1698/1993). Inoltre, unitamente alla domanda di risoluzione (o, in ogni caso, nel medesimo grado di giudizio rispetto alla domanda risolutoria) è possibile proporre, in sostituzione dell'originaria domanda di adempimento, anche la domanda di restituzione (Cass. II, n. 22983/2017; Cass. II, n. 15461/2016) e la domanda di risarcimento del danno, quali domande accessorie e consequenziali rispetto alla domanda di risoluzione (Cass. I, n. 212/2020 ; Cass. I, n. 16682/2018; Cass., S.U., n. 8510/2014;). Non è invece proponibile la sola domanda di risarcimento dei danni in sostituzione di quella di adempimento (Cass. L, n. 13953/2009); analogamente, non può essere proposta in corso di causa la domanda di risoluzione ove la domanda originaria sia stata solo quella di risarcimento dei danni derivanti dall'inadempimento, sicché la domanda di risoluzione dev'essere dichiarata inammissibile, non rilevando in contrario nemmeno che all'atto della proposizione della domanda risarcitoria si fosse fatta espressa riserva di chiedere la risoluzione del contratto, giacché tale riserva equivale alla mancata proposizione della relativa domanda (Cass. III, n. 17144/2006). La proposizione della domanda di adempimento produce l'effetto interruttivo della prescrizione anche con riferimento al diritto di chiedere la risoluzione, e viceversa, nell'ipotesi in cui la domanda di risoluzione fosse disattesa o rinunciata (Cass. III, n. 2822/2014; Cass. II, n. 15171/2001; Cass. II, n. 11825/1992). Anche la proposizione di una domanda volta a ottenere la restituzione di somme fondata sulla risoluzione o sull'annullamento del contratto vale a interrompere la prescrizione del diritto alla restituzione per effetto della nullità dello stesso, essendo medesimo il bene della vita che la parte ha inteso tutelare (Cass. II, n. 21418/2018). In ogni caso, intervenuta la risoluzione del contratto, sia legale che giudiziale, la parte a favore della quale si sono prodotti gli effetti risolutivi non può rinunciarvi, restando altrimenti leso l'affidamento legittimo del debitore sulla dissoluzione del contratto (Cass. II, n. 7313/2017; Cass. VI-III, n. 20768/2015; contra Cass. II, n. 5734/2011; Cass. III, n. 23824/2010) Gli effetti preclusivi della domanda di risoluzioneLa proposizione della domanda di risoluzione preclude, da un canto, alla parte inadempiente di adempiere e, dall'altro, alla parte non inadempiente di chiedere l'adempimento, secondo il brocardo electa una via, non datur recursus ad alteram. Si tratta di una regola di carattere sostanziale che attribuisce alla parte non inadempiente il diritto potestativo unilaterale di modificare il rapporto, impedendo alla controparte l'adempimento della prestazione all'esito della proposizione della domanda di risoluzione che, per esigenze di certezza del debitore, costituisce una scelta irrevocabile (Sacco, De Nova, in Tr. Res., 1988, 520). Infatti, con la domanda di risoluzione la parte non inadempiente dimostra di non avere più interesse alla prestazione e deve ormai assumersi la responsabilità di tale decisione, senza pentimenti che sarebbero d'intralcio a una chiara definizione dei conflitti tra le parti (Bigliazzi Geri, Breccia, Busnelli, Natoli, 865). Tali effetti preclusivi sono collegati, in base alla lettera della norma in esame, solo alla proposizione della domanda di risoluzione (Bianca, 1994, 288). Tuttavia, una dottrina ne ammette l'estensione, in base al principio di buona fede oggettiva, anche alla richiesta stragiudiziale di risoluzione (Sacco, De Nova, in Tr. Res., 1988, 520; contra Mirabelli, in Comm. UTET, 1984, 614). L'effetto preclusivo della domanda di risoluzione viene meno in caso di estinzione del giudizio (Bianca, 1994, 287) ovvero quando il giudizio si concluda in rito o, in ultimo, quando la domanda di risoluzione sia disattesa nel merito o sia dichiarata la cessazione della materia del contendere per rinuncia all'azione (Auletta, 458). Anche secondo la giurisprudenza la preclusione in esame opera solo ove la risoluzione sia stata richiesta in via giudiziale, mentre non opera qualora la stessa sia stata domandata in via stragiudiziale (Cass. II, n. 837/1979), oppure nel caso in cui sia stato estinto il giudizio inerente alla domanda risolutoria (Cass. II, n. 7078/1983). Secondo la dottrina, non è però preclusa la possibilità di proporre la domanda di adempimento in subordine a quella di risoluzione, poiché l'effetto preclusivo sancito dalla norma è riferito solo alla proposizione di una domanda di risoluzione fondata (Bianca, 1994, 285). In senso contrario, altri autori rilevano che in tal modo viene disattesa la ratio della norma, che è quella di impedire che il debitore debba tenersi pronto ad adempiere per un tempo indefinito (Luminoso-Carnevali-Costanza, 91; Dalmartello, 140; Smiroldo, 329). Secondo un'ulteriore tesi, questa interpretazione è giustificata nei limiti in cui venga meno nell'inadempiente, a favore del quale il divieto è posto, l'interesse ad eccepire l'improponibilità dell'azione di adempimento (Mirabelli, in Comm. UTET, 1984, 614). In giurisprudenza, si è affermato che l'eccezione di improponibilità della domanda di adempimento, in ragione della precedente proposizione della domanda di risoluzione del contratto, essendo fondata su una norma posta nell'esclusivo interesse dell'altra parte contraente, può essere sollevata solo da quest'ultima, nel rispetto delle previste preclusioni, e si deve pertanto escludere che possa essere rilevata d'ufficio ovvero dedotta per la prima volta in sede di legittimità (Cass. III, n. 5460/2006; Cass. II, n. 5964/2004; Cass. II, n. 15969/2000). Anche l'avvenuta risoluzione di diritto per effetto della scadenza del termine previsto nell'inviata diffida ad adempiere impedisce di richiedere successivamente l'adempimento (Cass. S.U., n. 553/2009). È ritenuta poi ammissibile la possibilità di proporre la domanda di adempimento in subordine a quella di risoluzione, poiché il divieto non deve essere inteso in senso assoluto, ma è operante soltanto nei limiti in cui esiste l'interesse attuale del contraente che ha chiesto la risoluzione alla cessazione del rapporto, per modo che, quando tale interesse viene meno, per essere stata rigettata o dichiarata inammissibile la domanda di risoluzione, la preclusione non opera, essendo cessata la ragione del divieto (Cass. III, n. 20899/2013, secondo cui la proposizione, in via subordinata, della domanda di adempimento può avvenire alla prima udienza di trattazione ex art. 183 c.p.c., trattandosi di mera emendatio; Cass. II, n. 12637/2020 e Cass. II, n. 26152/2010, in relazione al nuovo decorso del termine prescrizionale della domanda di adempimento; Cass. II, n. 1077/2005; Cass. II, n. 6672/1988). È invece vietata la proposizione contestuale delle due domande formulate in forma congiunta, anziché subordinata (Cass. III, n. 12943/1995). Si è, altresì, precisato che il divieto di proposizione della domanda di adempimento una volta domandata la risoluzione riguarda solo le prestazioni già scadute e non anche quelle ancora da scadere (Cass. II, n. 19559/2009). Inoltre, il giudicato di rigetto di una domanda di risoluzione per inadempimento contrattuale non impedisce la proposizione di una nuova domanda di risoluzione fondata su ulteriori successivi inadempimenti (Cass. II, n. 5227/1983). Nel giudizio arbitrale, invece, non può trovare applicazione il principio della non mutabilità della domanda di risoluzione in domanda di adempimento del contratto, atteso che tale principio opera solo dopo la proposizione della domanda giudiziale, prima della quale la parte adempiente è sempre facoltizzata a mutare la richiesta di risoluzione in richiesta di adempimento (Cass. I, n. 4463/2003). Nel caso di inadempimento dell'appaltatore, il divieto di cui al comma 2 della norma in esame impedisce al committente, che abbia proposto domanda di risoluzione, di mutare tale domanda in quella di adempimento, ma non anche di chiedere la riduzione del prezzo (Cass. II, n. 2037/2019). In ordine alla possibilità per il conduttore di sanare, in sede giudiziale, la morosità nel pagamento dei canoni, vedi art. 55 l. n. 392/1978 (Cass. I, n. 21836/2014) L'adempimento tardivoLo strumento della risoluzione può essere utilizzato per l'inadempimento definitivo e per il ritardo. L'adempimento è tardivo per effetto del decorso del termine stabilito dalle parti nel contratto ovvero per il venir meno dell'interesse del creditore al conseguimento della prestazione. In ragione della maturazione di tali condizioni, occorre distinguere due ipotesi: quella in cui l'offerta tardiva della prestazione sia avanzata successivamente alla proposizione della domanda di risoluzione; quella in cui l'adempimento tardivo sia offerto prima che sia proposta detta domanda. La norma prevede espressamente che dalla data della domanda di risoluzione l'inadempiente non può più adempiere la propria obbligazione. L'interpretazione letterale della disposizione lascia intendere che l'adempimento tardivo non ha efficacia liberatoria per il debitore né paralizza l'azione di risoluzione. La regola, quindi, rappresenta il corollario del principio che individua nella proposizione della domanda di risoluzione un'inequivoca manifestazione da parte del creditore di non avere più interesse alla prestazione (Smiroldo, 340). Tuttavia, si è ritenuto che l'adempimento effettuato dopo la domanda produce i suoi effetti, in quanto può essere preso in esame dal giudice al fine di valutare l'importanza dell'inadempimento (Mirabelli, in Comm. UTET, 1984, 620). Ove invece l'adempimento tardivo preceda la domanda di risoluzione, le soluzioni proposte sono le seguenti: un primo orientamento sostiene che, per un verso, la parte che non ha ancora richiesto la risoluzione non potrebbe rifiutarne il ricevimento e, per altro verso, sarebbe preclusa la risoluzione del contratto (Sacco, De Nova, in Tr. Res., 1988, 518); secondo altra opinione, la parte potrebbe comunque rifiutare la prestazione tardiva e resterebbe ferma la valutazione del giudice in ordine alla rilevanza dell'inadempimento, con la conseguente possibilità di pronunciare comunque la risoluzione (Luminoso, Carnevali, Costanza, 93). Anche in giurisprudenza non si registra concordia di opinioni. In base ad un primo indirizzo, una volta proposta la domanda giudiziale di risoluzione, e sino a quando non intervenga il giudicato, il convenuto non può più adempiere la propria obbligazione, in tal modo negandosi qualsiasi efficacia ad un siffatto adempimento, senza distinzioni o limiti di sorta (Cass. III, n. 18500/2012; Cass. II, n. 4317/2000). Secondo altra tesi, l'adempimento effettuato dopo la domanda di risoluzione, pur non arrestando gli effetti di tale domanda, deve essere tuttavia preso in considerazione dal giudice al fine di valutare l'importanza dell'inadempimento, potendo condurre ad escluderne la gravità e, quindi, a rigettare la suddetta domanda (Cass. II, n. 14011/2017; Cass. III, n. 10490/2004). Quanto all'ipotesi dell'adempimento tardivo offerto prima della domanda di risoluzione, il verificarsi di un inadempimento di non scarsa importanza attribuisce al contraente non inadempiente, ancora prima della proposizione della domanda giudiziale, il diritto potestativo ad ottenere la risoluzione giudiziale del rapporto, rendendo così legittimo il rifiuto opposto ad un adempimento tardivo offerto dalla parte inadempiente (Cass. II, n. 11653/2018; Cass. II, n. 2153/1998; Cass., S.U., n. 6224/1997; Cass., S.U., n. 5086/1997; contra Cass. II, n. 5235/1999) Gli inadempimenti reciprociIl codice civile non contiene una disciplina specifica dell'ipotesi in cui le parti si contestino reciprocamente degli inadempimenti allo scopo di ottenere la risoluzione del contratto. L'unica disposizione codicistica in materia è rappresentata dall'art. 1551, comma 2 c.c. in tema di riporto, a norma del quale, se entrambe le parti non adempiono le proprie obbligazioni nel termine stabilito, il riporto cessa di avere effetto e ciascuna di esse ritiene ciò che ha ricevuto al tempo della stipulazione del contratto: trattasi, secondo la dottrina, di norma speciale, con l'effetto che ad essa non si può riconoscere portata generale (Luminoso, Carnevali, Costanza, 78). Secondo la dottrina, quando siano dedotte inadempienze reciproche, il giudizio sulla colpevolezza presuppone una valutazione unitaria e comparativa della condotta di entrambi i contraenti; si tratta di un accertamento di fatto demandato al giudice di merito, da effettuarsi sulla base dei criteri cronologico, eziologico e quantitativo, che devono essere valutati congiuntamente al fine di stabilire quale dei due inadempimenti debba considerarsi prevalente (Sacco, De Nova, in Tr. Res., 1988, 520). Ove non si riesca a stabilire a quale dei due contraenti sia addebitabile l'inadempimento devono essere respinte entrambe le domande, in quanto non è consentito pronunciare la risoluzione del contratto in favore di entrambe le parti (Carresi, in Tr. C. M., 1987, 909). Ma, in senso contrario, si osserva che la risoluzione del contratto fondata su inadempimenti bilaterali, che siano indipendenti, coevi e di pari importanza, non contrasta con i presupposti e la funzione dell'istituto (Luminoso, Carnevali, Costanza, 28), e che in questo caso le parti avrebbero manifestato un mutuo dissenso tacito che giustifica la pronuncia di risoluzione (Bianca, 1994, 281 ss.). Anche secondo la giurisprudenza, il giudice adito con contrapposte domande di risoluzione per inadempimento del medesimo contratto può accogliere l'una e rigettare l'altra, ma non anche respingere entrambe e dichiarare l'intervenuta risoluzione consensuale del rapporto, implicando ciò una violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, mediante una regolamentazione del rapporto stesso difforme da quella perseguita dalle parti (Cass. VI-I, n. 14314/2018; Cass. I, n. 2984/2016; Cass., S.U., n. 329/1983). Secondo altro orientamento, invece, quando i contraenti richiedano reciprocamente la risoluzione del contratto, ciascuno attribuendo all'altro la condotta inadempiente, il giudice deve comunque dichiarare la risoluzione del contratto, atteso che le due contrapposte manifestazioni di volontà, pur estranee ad un mutuo consenso negoziale risolutorio, in considerazione delle premesse contrastanti, sono tuttavia dirette all'identico scopo dello scioglimento del rapporto negoziale (Cass. II, n. 19569/2021 ; Cass. III, n. 767/2016; Cass. III, n. 26907/2014). Si è, altresì, sostenuto che non è consentito al giudice del merito, in caso di inadempienze reciproche, di pronunciare la risoluzione, ai sensi dell'art. 1453 c.c., o di ritenere la legittimità del rifiuto di adempiere, a norma dell'art. 1460 c.c., in favore di entrambe le parti, in quanto la valutazione della colpa dell'inadempimento ha carattere unitario, dovendo lo stesso addebitarsi esclusivamente a quel contraente che, con il proprio comportamento prevalente, abbia alterato il nesso di interdipendenza che lega le obbligazioni assunte mediante il contratto e perciò dato causa al giustificato inadempimento dell'altra parte (Cass. II, n. 3455/2020; Cass. II, n. 14648/2013). In ogni caso, non pronunzia ultra petita il giudice che dichiari risolto il contratto per impossibilità sopravvenuta di esecuzione derivante dalle scelte risolutorie di entrambe le parti ex art. 1453, comma 2 c.c., ancorché le due contrapposte manifestazioni di volontà non configurino un mutuo consenso negoziale risolutorio (Cass. II, n. 11466/2020 ; Cass. I, n. 6480/2020; Cass. III, n. 6675/2018; ma vedi Cass. III, n. 6866/2018). In particolare, qualora siano dedotte reciproche inadempienze, la valutazione comparativa del giudice intesa ad accertare la violazione più grave, incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivata, deve tenere conto non solo dell'elemento cronologico ma anche degli apporti di causalità e proporzionalità esistenti tra le prestazioni inadempiute e della loro incidenza sulla funzione del contratto ( Cass. I, n. 11264/2020 ;Cass. II, n. 27513/2019), al fine di stabilire quale di esse, in relazione ai rispettivi interessi ed all'oggettiva entità degli inadempimenti, si sia resa responsabile delle violazioni maggiormente rilevanti, perché l'inadempimento deve essere addebitato esclusivamente a quel contraente che, con il proprio comportamento colpevole prevalente, abbia alterato il nesso di reciprocità che lega le obbligazioni assunte con il contratto, dando causa al giustificato inadempimento dell'altra parte (Cass. II, n. 3273/2020); sicché, ove manchi la prova sulla causa effettiva e determinante della risoluzione, entrambe le domande vanno rigettate per insussistenza dei fatti costitutivi delle pretese azionate (Cass. II, n. 3455/2020 ; Cass. III, n. 17590/2018; Cass. II, n. 13627/2017; Cass. III, n. 18320/2015; Cass. III, n. 13840/2010; Cass. II, n. 20614/2009); il giudice, a tal fine, deve tener conto anche delle obbligazioni secondarie, cui le parti abbiano attribuito carattere di essenzialità sul piano sinallagmatico (Cass. I, n. 10668/1999). In generale, ai fini della pronuncia di risoluzione, il giudice non può isolare singole condotte di una delle parti per stabilire se costituiscano motivo di inadempienza a prescindere da ogni altra ragione di doglianza dei contraenti, ma deve, invece, procedere alla valutazione sinergica del comportamento di questi ultimi, attraverso un'indagine globale ed unitaria dell'intero loro agire, anche con riguardo alla durata del protrarsi degli effetti dell'inadempimento, perché l'unitarietà del rapporto obbligatorio a cui ineriscono tutte le prestazioni inadempiute da ognuno non tollera una valutazione frammentaria e settoriale della condotta di ciascun contraente ma esige un apprezzamento complessivo (Cass. II, n. 25888/2022; Cass. I, n. 336/2013). Pertanto, nel delibare la fondatezza della domanda di risoluzione contrattuale per inadempimento, il giudice deve tener conto, anche in difetto di formale eccezioneex art. 1460 c.c., delle difese con cui la parte convenuta opponga, a sua volta, l'inadempienza dell'altra (Cass. II, n. 27085/2021). Peraltro, il rifiuto di adempiere, come reazione al primo inadempimento, oltre a non contrastare con i principi generali della correttezza e della lealtà, deve risultare ragionevole e logico in senso oggettivo, trovando concreta giustificazione nella gravità della prestazione ineseguita, alla quale si correla la prestazione rifiutata (Cass. L, n. 6564/2004) La domanda di risarcimento del dannoSi tratta di domanda indipendente sia dalla domanda di adempimento sia dalla domanda di risoluzione, che può essere proposta anche come domanda a sé stante. La parte non inadempiente, qualora abbia interesse alla manutenzione del contratto, ha diritto ad un'azione autonoma di risarcimento per equivalente, non solo nel caso in cui la prestazione dovuta dalla controparte sia divenuta definitivamente impossibile, ma anche nel caso di semplice ritardo o di adempimento inesatto; inoltre, il risarcimento può essere chiesto quando, pur essendo possibile domandare l'adempimento, la parte preferisca non farlo, poiché la prestazione dovuta è insuscettibile di esecuzione forzata in forma specifica (Luminoso, Carnevali, Costanza, 127). Il danno è riparabile anche nel caso in cui, essendo l'inadempimento di scarsa importanza, non può essere pronunciata la risoluzione (Dalmartello, 133). A tale ultima conclusione è pervenuta anche la giurisprudenza, la quale ha statuito che il rigetto della domanda di risoluzione contrattuale determinato dalla scarsa importanza dell'inadempimento non comporta necessariamente il rigetto della contestuale domanda di risarcimento, giacché anche un inadempimento inidoneo ai fini risolutori può aver cagionato un danno risarcibile (Cass. II, n. 12466/2016); inoltre, il risarcimento può essere chiesto anche quando le conseguenze dell'inadempimento siano ancora eliminabili o fattualmente eliminate (Cass. II, n. 6887/1994). In generale, la domanda di risarcimento dei danni da inadempimento contrattuale non deve essere necessariamente correlata alla richiesta di risoluzione del contratto, perché l'art. 1453 c.c., facendo salvo “in ogni caso” il risarcimento del danno, ha voluto evidenziare l'autonomia dell'azione risarcitoria rispetto a quella di risoluzione (Cass. I, n. 11348/2020; Cass. III, n. 23820/2010). L'autonomia della domanda risarcitoria, rispetto a quella risolutoria, comporta, poi, che, ai sensi dell'art. 2935 c.c., il termine di prescrizione, in relazione al risarcimento di ogni danno da inadempimento, inizia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere, indipendentemente dalla data della pronuncia risolutiva (Cass. III, n. 20067/2008). In particolare, in tema di responsabilità professionale, ai fini dell'individuazione del momento iniziale di decorrenza del termine prescrizionale, si deve avere riguardo all'esistenza di un danno risarcibile ed al suo manifestarsi all'esterno come percepibile dal danneggiato alla stregua della diligenza da quest'ultimo esigibile ai sensi dell'art. 1176 c.c., secondo standards obiettivi e in relazione alla specifica attività del professionista (Cass. III, n. 22059/2017, relativa a responsabilità di un notaio). Il risarcimento ha ad oggetto l'interesse positivo (Belfiore, 1326), ragion per cui, se la domanda di risarcimento si affianca a quella di risoluzione, la parte avrà diritto ad ottenere una somma pari alle spese eventualmente necessarie al fine di preparare il proprio adempimento nonché al vantaggio patrimoniale che sarebbe derivato dall'esecuzione del contratto; pertanto, al risarcimento del danno emergente si unisce quello del lucro cessante (Bigliazzi Geri, Breccia, Busnelli, Natoli, 867). Ne consegue, altresì, che deve escludersi che la norma in esame fornisca la possibilità di un cumulo del risarcimento dell'interesse positivo con quello dell'interesse negativo, poiché altrimenti la parte risolvente conseguirebbe un arricchimento ingiustificato (Luminoso, Carnevali, Costanza, 222). Tuttavia, quando il contraente fedele subisca la sola lesione dell'interesse negativo, o quando l'entità di questo superi quella del danno ancorato all'interesse positivo, sarà possibile il risarcimento nella misura dell'interesse negativo, in applicazione del principio generale desumibile dagli artt. 1337,1338 e 1398 c.c. (che non opera esclusivamente in tema di responsabilità precontrattuale), secondo cui la parte inadempiente deve risarcire le spese affrontate in vista della realizzazione dell'affare (Luminoso, Carnevali, Costanza, 381). Nel caso, invece, in cui la domanda di risarcimento sia proposta unitamente alla domanda di adempimento, il danno da risarcire consiste nella differenza tra le conseguenze economiche dell'esatta e tempestiva esecuzione del contratto e le conseguenze economiche dell'esecuzione inesatta e tardiva (Bigliazzi Geri, Breccia-Busnelli, Natoli, 867). Quando la parte non inadempiente si avvalga dell'eccezione di inadempimento, il risarcimento del danno dovrà essere calcolato tenendo conto delle utilità che ad essa sono derivate per aver potuto continuare a godere del bene a sua volta dovuto, in applicazione del principio della cd. compensatio lucri cum damno (Luminoso, Carnevali, Costanza, 124). La giurisprudenza afferma che l'azione di risoluzione del contratto per inadempimento e la relativa azione risarcitoria hanno differenti presupposti applicativi, perché la prima esige che l'inadempimento di una delle parti non sia di scarsa importanza, avuto riguardo all'interesse dell'altra, mentre l'azione risarcitoria presuppone che l'inesatta esecuzione della prestazione abbia prodotto al creditore un danno (Cass. III, n. 18515/2009). Quando un contratto viene risolto dal giudice per inadempimento di entrambe le parti, nessuna di esse ha, però, diritto al risarcimento dei danni per l'inadempimento dell'altra (Cass. I, n. 18932/2016; Cass. III, n. 2279/1977). Nell'ipotesi di inadempimento contrattuale, la parte non inadempiente ha diritto al ristoro di tutti i pregiudizi subiti a causa della condotta della controparte inadempiente, compreso il rimborso delle spese affrontate in vista del proprio adempimento (Cass. II, n. 25351/2014; Cass. II, n. 17562/2005); i danni vanno commisurati all'incremento patrimoniale netto che la parte non inadempiente avrebbe conseguito mediante la realizzazione del contratto, escluso il pregiudizio che lo stesso danneggiato avrebbe potuto evitare con l'ordinaria diligenza (Cass. II, n. 7520/2022; Cass. L, n. 3598/1994); è possibile anche una condanna generica, in quanto la risoluzione del contratto per inadempimento è un evento di per sé potenzialmente generatore di danno (Cass. III, n. 10482/2001). Il pregiudizio deve, inoltre, essere risarcito facendo riferimento al momento in cui avviene la liquidazione e non a quello in cui si realizza la violazione contrattuale (Cass. II, n. 3940/2016). Altro arresto precisa che le spese erogate in adempimento di un obbligo contrattuale non possono rappresentare, in caso di risoluzione, un danno, trovando la loro causa non già nell'inadempimento, ma unicamente nel contratto, salvo il caso in cui dette spese, per effetto dell'inadempimento di controparte e della risoluzione, si rivelassero in tutto o in parte inutili e non suscettibili di un qualunque proficuo risultato (Cass. III, n. 14744/2002). Il danno da risarcire, ove sia accolta la domanda di risoluzione per inadempimento del promittente venditore, non può comprendere i frutti della cosa promessa in vendita successivi alla domanda di risoluzione perché questa, comportando la rinuncia definitiva alla prestazione del promittente venditore, preclude anche al promittente compratore di lucrare i frutti che dalla cosa avrebbe tratto dopo la rinuncia (Cass. VI-II, n. 11012/2018). Sempre in tema di preliminare di vendita immobiliare, si è precisato che al promittente venditore che agisca per la risoluzione del contratto e per il risarcimento del danno, per il caso di inadempimento del promissario acquirente, deve essere liquidato il pregiudizio per la sostanziale incommerciabilità del bene nella vigenza del preliminare, la cui sussistenza è in re ipsa e non necessita di prova, mentre, laddove le domande risolutoria e risarcitoria siano proposte dal promissario acquirente, a causa dell'inadempimento del promittente venditore, il risarcimento spetta solo se i danni lamentati siano conseguenza immediata e diretta del dedotto inadempimento e sempre che il danneggiato, anche se invochi l'esercizio del potere discrezionale del giudice di liquidare il danno in via equitativa, ex art. 1226 c.c., fornisca la prova della loro effettiva esistenza (Cass. II, n. 13792/2017). In particolare, il risarcimento del danno, imputabile al promittente venditore per la mancata stipulazione del contratto definitivo di vendita di un bene immobile, si liquida nella misura pari alla differenza tra il valore commerciale del bene medesimo, al momento in cui l'inadempimento è divenuto definitivo (che, in caso di vendita a terzi, coincide con la trascrizione dell'atto), ed il prezzo pattuito (Cass. III, n. 22979/2015; Cass. II, n. 14714/2012). Sebbene anche il risarcimento del danno derivante da responsabilità contrattuale costituisca debito di valore (sicché deve essere quantificato tenendo conto, anche d'ufficio, della svalutazione monetaria sopravvenuta fino alla data della liquidazione: Cass. III, n. 13225/2016), gli interessi dovuti sulla relativa somma non decorrono dalla data in cui il danno si è verificato (come avviene nel caso di responsabilità extracontrattuale da fatto illecito, in base al principio della mora ex re di cui all'art. 1219, comma 2 c.c.), bensì dalla domanda giudiziale, in quanto atto idoneo a porre in mora il debitore (Cass. I, n. 20883/2019; Cass. III, n. 6545/2016; Cass. III, n. 2654/2005) ovvero da una messa in mora antecedente; tuttavia, tale decorrenza deve essere diversamente individuata qualora in giudizio sia stata accertata la verificazione del colpevole inadempimento in un momento successivo alla domanda (Cass. II, n. 26226/2009) Ulteriori profili processualiLa domanda diretta ad ottenere la risoluzione per inadempimento di un contratto con pluralità di parti deve essere proposta nei confronti di tutti i contraenti (litisconsorzio necessario), non potendo un contratto unico essere risolto nei confronti soltanto di uno dei soggetti che vi hanno partecipato e rimanere in vita per l'altro o gli altri stipulanti (Cass. II, n. 2969/2019; Cass. II, n. 9042/2016; Cass. II, n. 27302/2005). Qualora nel medesimo procedimento le parti abbiano avanzato contrapposte domande rispettivamente per l'adempimento e per la risoluzione del medesimo contratto, le questioni e le domande inerenti alla risoluzione si pongono, rispetto alle questioni e alle domande inerenti all'adempimento, in rapporto di priorità logica e debbono essere esaminate e decise con precedenza, non potendosi dare esecuzione a un contratto che sia o debba essere risolto (Cass. II, n. 237/1986). Per stabilire il foro competente, ai sensi dell'art. 20 c.p.c., a decidere una domanda di risoluzione per inadempimento di contratto o di risarcimento del danno, occorre aver riguardo al luogo ove doveva esser adempiuta l'originaria obbligazione rimasta inadempiuta o non esattamente adempiuta, e non già quella derivata e sostitutiva (Cass. III, n. 15012/2005; Cass. II, n. 1026/2003; Cass. II, n. 5832/1999), e ciò anche quando il convenuto contesti in radice l'esistenza della obbligazione stessa (Cass. VI-III, n. 6762/2014). Tra la causa di risarcimento danni per inadempimento contrattuale e la causa di risoluzione del medesimo contratto per inadempimento, proposta dal medesimo attore nei confronti del medesimo convenuto dinanzi ad un diverso giudice, non sussiste né accessorietà, né subordinazione, né pregiudizialità logico-giuridica (Cass. I, n. 15779/2000). Il giudice ha il potere-dovere di rilevare d'ufficio, sulla base dei fatti allegati e provati (o emergenti ex actis) la nullità del contratto anche qualora sia stato investito da una domanda di risoluzione, annullamento o rescissione dello stesso, senza, per ciò solo, negarsi la diversità strutturale di queste ultime sul piano sostanziale, poiché tali azioni sono disciplinate da un complesso normativo autonomo e omogeneo, non incompatibile, strutturalmente e funzionalmente, con la diversa dimensione della nullità contrattuale (Cass. II, n. 21418/2018; Cass., S.U., n. 26242/2014). Il giudicato di rigetto della domanda di risoluzione del contratto per inadempimento preclude la proposizione di una nuova domanda di risoluzione fondata su altri inadempimenti conosciuti o conoscibili alla data di proposizione della prima domanda e non fatti valere con essa, in quanto il giudicato, coprendo il dedotto e il deducibile, esclude la possibilità di riesumare profili diversi e più risalenti di inadempimento (Cass. III, n. 4003/2020). Non è, invece, preclusa la proposizione di una nuova domanda di risoluzione fondata su ulteriori successivi inadempimenti (Cass. II, n. 5227/1983). 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