Codice Civile art. 1463 - Impossibilità totale.Impossibilità totale. [I]. Nei contratti con prestazioni corrispettive, la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta [1256] non può chiedere la controprestazione, e deve restituire quella che abbia già ricevuta, secondo le norme relative alla ripetizione dell'indebito [2033 ss.]. InquadramentoLa norma in esame disciplina le conseguenze dell'impossibilità definitiva e totale della prestazione per causa non imputabile alla parte nei contratti con prestazioni corrispettive a efficacia obbligatoria. Tale impossibilità estingue l'obbligazione, con la conseguenza che il debitore che era tenuto ad eseguirla è liberato. L'impossibilità non imputabile importa, altresì, il venir meno del fondamento giustificativo della controprestazione, legata alla prestazione divenuta impossibile da un nesso sinallagmatico, determinando l'effetto risolutorio del vincolo contrattuale, cosicché il debitore liberato, qualora non abbia ricevuto la controprestazione, non può pretenderla, mentre, ove l'abbia ricevuta, dovrà restituirla, secondo le norme sulla ripetizione dell'indebito (Bigliazzi Geri, Breccia, Busnelli, Natoli, 878). Viceversa, quando la prestazione sia divenuta impossibile per l'ingiustificato rifiuto del creditore di riceverla o di cooperare nell'adempimento, il rapporto si protrae, ma ciò dipende dalla condotta illecita della parte cui è imputabile la perdita della prestazione già offerta (Bigliazzi Geri, Breccia, Busnelli, Natoli, 878). In conseguenza della verificazione dell'impossibilità sopravvenuta non imputabile, la risoluzione del contratto a prestazioni corrispettive si produce ipso iure o di diritto, sicché la relativa pronuncia giudiziale avrà natura meramente dichiarativa di un effetto già integrato nel mondo esterno, e non costitutiva di tale effetto (Mirabelli, 646; Bianca, 1994, 373). Alla risoluzione per impossibilità sopravvenuta si applica la disciplina della risoluzione per inadempimento, con riferimento agli effetti retroattivi che ne derivano ex art. 1458 c.c. (Mirabelli, 645; Sacco, De Nova, in Tr. Res., 1988, 531). Proprio alla stregua della riconduzione automatica dell'effetto risolutivo ad un evento sopravvenuto non imputabile, si è posto in dubbio che tale ipotesi rientri nell'istituto della risoluzione in senso tecnico, la quale fa specifico riferimento alle fattispecie di risoluzione potestativa, dipendente cioè da un inadempimento imputabile ovvero da impossibilità parziale; in questa direzione, si è ritenuto che la risoluzione in senso tecnico sia propriamente riferibile alle sole risoluzioni potestative, mentre con riguardo alle conseguenze che discendono dalla fortuita impossibilità totale della prestazione sarebbe più corretta una qualificazione giuridica in termini di scioglimento in senso stretto o automatico per impossibilità sopravvenuta (Dalmartello, 128). Per effetto della risoluzione, la parte che ha eseguito la prestazione avrà diritto alla restituzione secondo le norme che regolano la ripetizione dell'indebito (Mirabelli, 646). La domanda di ripetizione potrà essere proposta congiuntamente a quella di accertamento della risoluzione (Mosco, 437). Secondo la giurisprudenza, la risoluzione per impossibilità sopravvenuta, analogamente a tutte le ipotesi (risoluzione per inadempimento, annullamento) in cui vengono meno, dopo la costituzione del rapporto, lo stesso fondamento e la causa dell'obbligazione, è pur sempre caratterizzata da un elemento sopravvenuto alla formazione del vincolo obbligatorio, il quale, impedendone l'attuazione ed incidendo sul sinallagma funzionale del rapporto, è riconducibile, negli effetti, alle suindicate ipotesi di sopravvenuta mancanza di causa dell'obbligazione (Cass. II, n. 2548/1982). Invero, mentre l'impossibilità giuridica dell'utilizzazione del bene per l'uso convenuto o per la sua trasformazione secondo le previste modalità, quando derivi da disposizioni inderogabili già vigenti alla data di conclusione del contratto, rende nullo il contratto stesso per l'impossibilità dell'oggetto, a norma degli artt. 1346 e 1418 c.c., nella diversa situazione in cui la prestazione sia divenuta impossibile per causa non imputabile al debitore, ai sensi degli artt. 1256 e 1463 c.c., l'obbligazione si estingue; con la conseguenza che colui che non può più rendere la prestazione divenuta, intanto, definitivamente impossibile, non può chiedere la relativa controprestazione, né può agire con l'azione di risoluzione allegando l'inadempimento della controparte (Cass. III, n. 23618/2004). La risoluzione per impossibilità sopravvenuta opera di diritto (Cass. II, n. 1037/1995; Cass. n. 1527/1948) ed alla stessa si applicano le norme sugli effetti retroattivi della risoluzione previste per la risoluzione per inadempimento (Cass. II, n. 1037/1995), e dunque le disposizioni sulla ripetizione di indebito (Cass. III, n. 17844/2007; Cass. I, n. 3066/1975), previa apposita domanda restitutoria dell'avente diritto (Cass. II, n. 3287/1999; Cass. II, n. 2973/1980). In sostanza, la pronuncia di risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta dell’esecuzione, in quanto fondata su un fatto estraneo alla sfera di imputabilità dei contraenti, dà luogo ai soli obblighi restitutori derivanti dallo scioglimento del vincolo contrattuale, essendo le prestazioni rese divenute indebite, ma non consente, ad es., di condannare il debitore al pagamento del doppio della caparra, atteso che questa costituisce una forma risarcitoria limitata nel quantum e correlata al diritto di recesso, che, in quanto strumento di risoluzione negoziale per giusta causa, presuppone l’inadempimento della controparte (Cass. II, n. 23209/2023). Attesa la diversità dei presupposti, incorre nel vizio di ultrapetizione la sentenza che, all'esito della proposizione di domanda di risoluzione per inadempimento, dichiari la risoluzione per impossibilità sopravvenuta, e viceversa (Cass. II, n. 23209/2023; Cass. III, n. 6866/2018; Cass. II, n. 1104/1996; Cass. III, n. 360/1992). Il debito di restituzione è di valuta (Cass. n. 3149/1952; contra Cass. n. 1126/1952, secondo cui si tratterebbe di debito di valore) I presuppostiL'impossibilità sopravvenuta con effetti liberatori per il debitore, ossia maturata successivamente alla conclusione del contratto, può aversi solo se concorrono l'elemento oggettivo dell'impossibilità di eseguire l'obbligazione e quello soggettivo dell'assenza di colpa nella realizzazione dell'evento che ha reso impossibile tale prestazione. Per converso, non è giustificato il contegno della parte che, pur essendo impossibilitata ad adempiere per causa non imputabile, poteva tuttavia prevedere l'impossibilità (Sacco, De Nova, cit., 531). L'impossibilità deve essere oggettiva, assoluta e definitiva. Ove l'impossibilità sia solo temporanea, si determina la sospensione dell'esecuzione del contratto (Mirabelli, 646), salvo che non venga meno l'interesse del creditore a ricevere la prestazione oltre il termine pattuito, nel quale caso può avere luogo la risoluzione. In particolare, può accadere che l'impossibilità temporanea cessi e di conseguenza la prestazione sarà esigibile e dovrà essere eseguita. Ove l'inesecuzione persista, essa diviene imputabile e costituisce inadempimento, anche agli effetti della risoluzione e del risarcimento del danno. Nel caso in cui l'impossibilità persista al di là dei limiti indicati dall'art. 1256 c.c., essa finisce per equivalere all'impossibilità definitiva, che determina nel contratto quello stesso scioglimento (automatico), che è proprio dell'impossibilità fin dall'origine definitiva (Dalmartello, 129). Secondo la giurisprudenza, la risoluzione è condizionata soltanto dalla presenza di un impedimento oggettivo e assoluto, da valutare in riferimento alla prestazione in sé e per sé considerata e non alle concrete possibilità del debitore (Cass. sez. lav., n. 4937/1985; Cass. II, n. 5496/1982); se, invece, l'impedimento ha natura temporanea, esso determina soltanto la sospensione (e non la risoluzione) del contratto stesso, ma non oltre i limiti dell'interesse del creditore al conseguimento della prestazione. L'impossibilità sopravvenuta della prestazione presuppone l'addebitabilità a fatto imputabile all'altro contraente o a ragioni obiettive (Cass. III, n. 23987/2019, in relazione alla sopravvenuta inagibilità dell’immobile locato per evento sismico; Cass. III, n. 3440/2006). Essa è esclusa ove l'evento sopravvenuto consista in una mera difficoltà, atteso che l'impossibilità deve far riferimento alla prestazione contrattuale in sé e per sé considerata, e non a comportamenti di soggetti terzi rispetto al rapporto (Cass. II, n. 25777/2013; Cass. sez. lav., n. 9645/2004; Cass. III, n. 1409/1975). Analogamente, perché l'impossibilità della prestazione costituisca causa di esonero del debitore da responsabilità, deve essere offerta la prova della non imputabilità, anche remota, del fatto che ha impedito l'esecuzione della prestazione dovuta, non essendo rilevante, in mancanza, la configurabilità o meno del factum principis (Cass. III, n. 10683/2023). Inoltre, può farsi ricorso all'istituto della risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta solo qualora la circostanza sopravvenuta non sia prevedibile al momento della conclusione del contratto, sì da escludere qualsiasi profilo di colpa imputabile (Cass. II, n. 4016/2004). Lo scioglimento per impossibilità presuppone, poi, che non vi sia stato un precedente inadempimento, applicandosi, altrimenti, l'art. 1221 c.c. (Cass. n. 2211/1954). Pertanto, nel caso in cui il debitore non abbia adempiuto la propria obbligazione nei termini contrattualmente stabiliti, egli non può invocare la predetta impossibilità con riferimento ad un ordine o divieto dell'autorità amministrativa (factum principis) sopravvenuto, e che fosse ragionevolmente e facilmente prevedibile, secondo la comune diligenza, all'atto della assunzione della obbligazione (Cass. I, n. 30435/2022). La risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta della prestazione può essere invocata da entrambe le parti del rapporto obbligatorio sinallagmatico, e cioè sia dalla parte la cui prestazione sia divenuta impossibile sia da quella la cui prestazione sia rimasta possibile. In particolare, l'impossibilità sopravvenuta della prestazione si ha non solo nel caso in cui sia divenuta impossibile l'esecuzione della prestazione del debitore, ma anche nel caso in cui sia divenuta impossibile l'utilizzazione della prestazione della controparte, quando tale impossibilità sia comunque non imputabile al creditore e il suo interesse a riceverla sia venuto meno, verificandosi in tal caso la sopravvenuta irrealizzabilità della finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto e la conseguente estinzione dell'obbligazione (Cass. III, n. 8766/2019, in relazione all’interruzione di uno spettacolo lirico per avverse condizioni atmosferiche; Cass. I, n. 20811/2014; Cass. III, n. 26958/2007; contra Cass. II, n. 9304/1994, secondo cui la sopravvenuta impossibilità che estingue l'obbligazione è quella che concerne direttamente la prestazione e non quella che pregiudica le possibilità della sua utilizzazione da parte del creditore). In dottrina, pur condividendosi tale ultimo principio, si è segnalato il rischio di confondere la situazione che attiene all'irrealizzabilità della causa del contratto con l'ipotesi di sopravvenuta irrealizzabilità del motivo in vista del quale il contratto è stato concluso (Tamponi, La risoluzione per inadempimento, in Tratt. Rescigno-Gabrielli, I, 2, 1550). Le condizioni applicative e gli effettiL'onere della prova della causa integratrice della risoluzione ricade sulla parte che rivendica tale impossibilità, ossia che sarebbe stata tenuta ad eseguire la prestazione impossibile. La disciplina legale è comunque derogabile in via convenzionale (Mirabelli, 646). La norma si riferisce ai contratti a prestazioni corrispettive, ma si ritiene che lo strumento della risoluzione per impossibilità sopravvenuta sia in generale applicabile ai contratti a titolo oneroso, siano essi commutativi o associativi (Mosco, 437). Con riferimento ai contratti aleatori, benché non vi sia una specifica disposizione che ne escluda l'applicazione, come invece è previsto in tema di risoluzione per eccessiva onerosità, si reputa che nel caso concreto occorrerà verificare la compatibilità della causa del contratto con tale possibilità di risoluzione. È controverso se, in ragione del rinvio effettuato dall'art. 1463 c.c. alla disciplina sulla ripetizione dell'indebito, sia applicabile alla risoluzione per impossibilità sopravvenuta la previsione specifica dell'art. 2038 c.c., con riguardo alle alienazioni a titolo gratuito poste in essere dalla parte tenuta alla restituzione della prestazione eseguita in forza del contratto risoluto, norma che impone un obbligo al terzo acquirente di rispondere verso colui che ha pagato l'indebito nei limiti dell'arricchimento del terzo stesso, posto che tale disposizione si pone in conflitto con l'art. 1458, comma 2 c.c., secondo cui la risoluzione non pregiudica i diritti dei terzi. Secondo un primo orientamento, prevale la norma specifica in tema di risoluzione, sicché il terzo acquirente a titolo gratuito non risponderà, pena un'ingiustificata disparità di trattamento tra gli acquirenti a titolo gratuito che abbiano tratto il loro diritto da un contratto risolto per inadempimento e gli acquirenti a titolo gratuito che abbiano tratto il loro diritto da un contratto risolto per impossibilità sopravvenuta (Mosco, 440; Sacco, De Nova, cit., 533). In base ad altro indirizzo, dovrebbe prevalere l'applicazione della disposizione in tema di ripetizione dell'indebito, allo scopo di non lasciare priva di tutela la parte già divenuta proprietaria del bene in forza di un contratto risolto, atteso che nella risoluzione per inadempimento la parte che ha diritto alla restituzione, se per un verso non recupera la prestazione di cui la controparte ha già disposto, per altro verso gode comunque del diritto al risarcimento dei danni verso la parte inadempiente, rimedio che è per definizione precluso quando la risoluzione sia riconducibile all'impossibilità sopravvenuta non imputabile (Bianca, 1994, 380). Secondo la giurisprudenza, la disciplina dedicata alla risoluzione per impossibilità sopravvenuta si applica anche ai contratti di lavoro (Cass. sez. lav., n. 37716/2022; Cass. sez. lav., n. 2496/2018; Cass. sez. lav., n. 15073/2009; Cass. sez. lav., n. 14871/2004; Cass. sez. lav., n. 12249/1991), ai contratti agrari (Cass. III, n. 19076/2006), nonché nell'ipotesi di collegamento negoziale (Cass. III, n. 8101/2012, in tema di leasing finanziario). Inoltre, l'impossibilità può riguardare anche i contratti preliminari (Cass. II, n. 4626/1979; Cass. n. 17/1955), con riferimento alle prestazioni che le parti hanno previsto quale contenuto del contratto definitivo (Cass. II, n. 167/1976). In tal caso, la risoluzione può estendersi al definitivo, purché le parti vengano a conoscenza dell'impossibilità della prestazione dopo la stipulazione del definitivo medesimo (Cass. II, n. 3734/1985). Ad es., la sopravvenienza di norme abolitive o limitative della facoltà, espressamente garantita in un preliminare di compravendita, di costruire sul terreno promesso, con determinate modalità edificatorie, produce la risoluzione del contratto, verificandosi, in tale ipotesi, un cambiamento essenziale del suo oggetto, che ne rende impossibile la utilizzazione in conformità della garanzia prestata dal promittente alienante (Cass. II, n. 5512/1984). Nel contratto di viaggio vacanza «tutto compreso» (c.d. «pacchetto turistico» o «package», disciplinato attualmente dagli artt. 32 ss. d.lgs. n. 79/2011, — c.d. codice del turismo), che si caratterizza per la prefissata combinazione di almeno due degli elementi rappresentati dal trasporto, dall'alloggio e da servizi turistici agli stessi non accessori (itinerario, visite, escursioni con accompagnatori e guide turistiche, ecc.) costituenti parte significativa di tale contratto, la «finalità turistica» (o «scopo di piacere») non è un motivo irrilevante ma si sostanzia nell'interesse che lo stesso è funzionalmente volto a soddisfare, connotandone la causa concreta e determinando, perciò, l'essenzialità di tutte le attività e dei servizi strumentali alla realizzazione del preminente scopo vacanziero. Ne consegue che l'irrealizzabilità di detta finalità per sopravvenuto evento non imputabile alle parti determina, in virtù della caducazione dell'elemento funzionale dell'obbligazione costituito dall'interesse creditorio (ai sensi dell'art. 1174 c.c.), l'estinzione del contratto per sopravvenuta impossibilità di utilizzazione della prestazione, con esonero delle parti dalle rispettive obbligazioni (Cass. III, n. 16315/2007). Secondo un arresto della giurisprudenza di merito la risoluzione ha luogo anche quando l'impossibilità derivi dalla mancata cooperazione della controparte, ove questa sia tenuta, in base al canone generale di buona fede, a tenere quei comportamenti necessari a rendere possibile l'adempimento (Trib. Napoli 15 luglio 1974, in Dir. e giurispr., 1977, 126). L'impossibilità liberatoria non è configurabile nelle obbligazioni negative poiché una siffatta evenienza è già inconcepibile sul piano logico (Cass. n. 1094/1951). Le norme sulla risoluzione per impossibilità sopravvenuta non hanno carattere cogente e inderogabile, con la conseguenza che le parti possono disporre una diversa disciplina degli effetti dell'evento che rende la prestazione impossibile (Cass. II, n. 5592/1977; Cass. I, n. 275/1976) oppure possono prevedere l'assunzione contrattuale dei rischi relativi all'adempimento (Cass. III, n. 3694/1984).. Impossibilità sopravvenuta e Covid-19In ordine alla pandemia da Covid-19, si è posta la questione di stabilire se la situazione di emergenza che ha colpito persone, beni e rapporti configuri, per i contratti in corso, una sopravvenuta impossibilità della prestazione tale da consentire l'accoglimento della domanda di risoluzione.In linea di principio, occorre considerare separatamente quei casi in cui, al momento di inizio della pandemia, si è già verificato l'inadempimento, con le relative conseguenze sul rischio. In particolare, è necessario distinguere i casi in cui la messa in mora sia antecedente al lockdownda quelli in cui essa non fosse ancora stata effettuata al momento dell'adozione delle misure di contenimento. Qualora la messa in mora sia precedente, invero, le conseguenze negative di tale evento (e, quindi, l'ulteriore ritardo nell'adempimento), non possono che ricadere sul debitore ex art. 1221, co. 1, c.c. Diversamente, qualora la messa in mora non sia stata antecedente al lockdown e, quindi, si versi in una situazione di tolleranza del ritardo nell'adempimento, occorre valutare quali siano gli effetti del rispetto delle misure di contenimento (qualora rendano l'adempimento tardivo momentaneamente impossibile) sul nesso di causalità giuridica nella produzione del danno ex art. 1223 c.c., anche alla luce del disposto di cui all'art. 3, co. 6bis, d.l. n. 6/2020. Che la pandemia da Covid-19 costituisca causa di forza maggiore e sia inquadrabile nel disposto dell'art. 1463 c.c. è concetto espressamente affermato dallo stesso legislatore, il quale, dapprima con l'art. 28, co. 3, d.l. n. 9/2020, in ordine al rimborso dei titoli di viaggio e dei pacchetti turistici, e poi con gli artt. 88 e 88bis d.l. n. 18/2020, conv., con modif., in l. n. 27/2020, in tema di rimborso dei titoli di viaggio e dei pacchetti turistici, nonché dei titoli di acquisto di biglietti per spettacoli, musei e altri luoghi della cultura, ha esplicitamente richiamato l'impossibilità sopravvenuta della prestazione ex art. 1463 c.c. Anche con l'art. 216, co. 3, d.l. n. 34/2020 (cd. Decreto Rilancio), è stato espressamente previsto che la sospensione delle attività sportive, disposta dalla normativa emergenziale, è sempre valutata, ai sensi degli artt. 1256,1464,1467 e 1468 c.c., e a decorrere dall'entrata in vigore degli stessi decreti attuativi, quale fattore di sopravvenuto squilibrio dell'assetto di interessi pattuito con il contratto di locazione di palestre, piscine e impianti sportivi di proprietà di soggetti privati, tale da giustificare il diritto del conduttore, limitatamente alle cinque mensilità marzo-luglio 2020, ad una corrispondente riduzione del canone locatizio nella misura presuntiva del 50%. L'espresso richiamo all'impossibilità sopravvenuta della prestazione è ravvisabile anche nel co. 4 dell'art. 216 cit., in relazione ai contratti di abbonamento per servizi offerti da palestre, piscine e impianti sportivi di ogni tipo. Al di fuori delle fattispecie tipizzate dal legislatore emergenziale, la pandemia da Covid-19 può generare una situazione di impossibilità sopravvenuta allorquando renda la prestazione oggetto del contratto non più eseguibile dal debitore oppure non più del tutto utilizzabile dal creditore. Si pensi, in relazione ai contratti di fornitura o di somministrazione di merci, all'ipotesi in cui l'acquisto non sia divenuto impossibile, ma, date le interruzioni dei commerci, l'imprenditore non abbia più interesse ad acquistare quei componenti o quelle materie prime (oppure non abbia più interesse ad acquistarle nei quantitativi pattuiti). Rientrano in quest'ultima casistica anche le problematiche delle locazioni commerciali, poichè mutano i presupposti in ragione dei quali le parti hanno concluso il contratto (lo sfruttamento dell'immobile al fine di esercitarvi un'attività resa temporaneamente impossibile in ragione del lockdown). In tale contesto, se le prescrizioni sanitarie impediscono l'esecuzione di una parte della prestazione, il debitore può sempre offrire la parte possibile e il creditore può rifiutarla, ma non può agire per la risoluzione o l'intero, proprio perché sussiste la causa eccezionale di giustificazione. Se poi il creditore sceglie parte della prestazione, può a sua volta sospendere parte della propria, l'importante è che venga rispettato il principio di proporzionalità sotteso all'art. 1460, co. 2, c.c. In particolare, l'emergenza epidemiologica, che ha generato l'adozione delle misure di contenimento, ha provocato la formazione di una situazione di disequilibrio nell'ambito del rapporto negoziale di locazione, nel quale una parte, quella conduttrice del bene locato, ha dovuto proseguire nell'adempimento delle obbligazioni di pagamento del canone, a fronte però della situazione creatasi che non ha permesso l'utilizzo dei locali oggetto del contratto conformemente alla destinazione degli stessi. Si pone, quindi, un problema di allocazione del rischio della sopravvenienza di eventi, non imputabili alle parti, imprevedibili al momento della conclusione del contratto, che rendano inservibile, totalmente o parzialmente, all'uso convenuto la prestazione di facere a carico del locatore, conseguentemente incidendo sull'equilibrio sinallagmatico del contratto. Secondo una prima tesi, con maggiore difficoltà entro l'alveo applicativo dell'art. 1464 c.c. possono ricondursi i contratti di locazione, anche di beni produttivi, incisi dallo scotto della pandemia, dal momento che la prestazione di concessione in godimento del bene rimane possibile e continua a essere eseguita quand'anche per factum principis le facoltà di godimento dello stesso risultino momentaneamente affievolite. In sostanza, nel contratto di durata, la prestazione del locatore continua ad essere resa benchè l'utilità che il conduttore ne ricava sia allo stato (anche sensibilmente) ridotta (relazione tematica Corte Cass. 8-7-2020, n. 56, 4). Secondo altra tesi, meno formalistica, per prestazione divenuta parzialmente impossibile, ex art. 1464 c.c., deve intendersi in senso lato quella del locatore, in quanto, se è vero che non viene meno la disponibilità dei locali in capo al conduttore, è altrettanto vero che le misure di contenimento impediscono a quest'ultimo di svolgere l'attività per la quale il contratto di locazione è stato stipulato, e ciò in considerazione del rilievo per cui l'impossibilità sopravvenuta della prestazione è configurabile qualora siano divenuti impossibili l'adempimento della prestazione da parte del debitore o l'utilizzazione della stessa ad opera della controparte, dovendosi in tal caso prendere atto che non può più essere conseguita la finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto, con la conseguente estinzione dell'obbligazione (per un excursus sulle varie tesi, TARASCHI, Responsabilità contrattuale e Covid-19, 2022, 62 ss.). Per consolidata giurisprudenza, l'impossibilità sopravvenuta della prestazione non è ravvisabile in relazione alle obbligazioni pecuniarie, le quali non sono esposte ad una materiale o giuridica oggettiva impossibilità (la prestazione, invero, è sempre possibile in ragione della normale convertibilità in denaro di tutti i beni presenti e futuri, con i quali il debitore risponde dell'adempimento delle obbligazioni ex art. 2740 c.c.), ma solo ad una soggettiva inattuabilità, connessa all'indisponibilità o alla penuria dei flussi di cassa (Cass. II, n. 25777/2013; Cass. II, n. 6594/2012; Cass. III, n. 2691/1987). D'altra parte, la pandemia in corso, seppur di carattere eccezionale, non influenza in via diretta l'adempimento di una prestazione pecuniaria, potendo le parti sempre procedere con pagamenti o bonifici on line, senza che sia richiesto loro un eccessivo sforzo. In ordine ai contratti di locazione ad uso diverso, si è registrato nella giurisprudenza di merito lo stesso contrasto già delineatosi in dottrina. Secondo un primo orientamento, va escluso che la grave situazione epidemiologica ed i provvedimenti limitativi della libertà di iniziativa economica emanati per effetto della diffusione del Covid-19 possano configurare un caso di impossibilità sopravvenuta, e ciò sia con riferimento all'obbligazione di pagamento del canone della conduttrice, in quanto un'obbligazione di pagamento non può diventare obiettivamente impossibile, attesa la natura di bene fungibile del denaro, sia con riferimento all'impossibilità per la stessa parte conduttrice di utilizzare, in tutto o in parte, la prestazione della locatrice (Trib. Roma 9-9-2020, in Pluris). Conforme Trib. Roma 25-2-2021 (in www.quotidianogiuridico.it 16-3-2021), secondo cui nella locazione rileva la sola dimensione materiale e non giuridica o produttiva dell'immobile, ragion per cui il locatore è tenuto a garantire solamente che l'immobile sia strutturalmente idoneo all'uso pattuito, ma non anche che tale uso sia sempre possibile e proficuo per il conduttore. Anche Trib. Roma 21 maggio 2021, n. 9457 (in De Jure), ha sostenuto che la causa del contratto di locazione, anche per le locazioni commerciali, non si estende mai alla garanzia della produttività dell'attività imprenditoriale che il conduttore si accinge a svolgere nei locali concessi. Persino la dichiarazione, resa nel contratto, dello specifico uso che il conduttore intende fare dell'immobile locato non impone al locatore la garanzia della effettiva possibilità di tale uso, ma rileva per il conduttore stesso in relazione all'obbligo, di cui all'art. 80 l. n. 392/78, di non modificare né alterare la destinazione dell'immobile. In definitiva, secondo tale impostazione, il rapporto di locazione non risentirebbe dei provvedimenti autoritativi che abbiano impedito l'uso programmato dell'immobile (potendo gli stessi al più legittimare un recesso anticipato ex art. 27, co. 8, l. n. 392/78), sicchè ricadrebbe sul conduttore il rischio connesso al factum principis. In senso contrario si è sostenuto che nell'ipotesi di chiusura, nel periodo del lockdown, dell'attività commerciale di ristorazione oggetto di un rapporto di locazione, risulta configurabile una fattispecie di impossibilità della prestazione del locatore di natura parziale e temporanea, attesa la sostanziale impossibilità di utilizzazione dei locali locati (se non nella più limitata funzione di fruizione degli stessi come magazzino e deposito di merci), idonea ad incidere sui presupposti alla base del contratto, e che dà luogo all'applicazione del combinato disposto degli artt. 1256 e 1464 c.c. (Trib. Roma 29-5-2020, in Corr. giur., 2020, 8-9, 1092), con la conseguenza che la riduzione del canone è destinata a cessare nel momento in cui la prestazione del locatore potrà tornare ad essere integralmente eseguita. Nello stesso senso anche Trib. Venezia 28-7-2020 (in De Jure), che pure configura una impossibilità temporanea parziale ex art. 1464 c.c. e assume che nel giudizio di merito, almeno con riferimento al periodo da marzo a maggio 2020, sarà necessario determinare l'an e il quantum della riduzione del canone di locazione. Anche secondo Trib. Milano 21-10-2020 (in De Jure), nell'ambito di una procedura di sfratto per morosità nei confronti di una società per il mancato pagamento dei canoni da marzo a maggio 2020 in relazione all'attività di ristorazione esercitata dalla conduttrice, quest'ultima, in forza di ordine dell'autorità, aveva subito una limitazione nel godimento del bene locato non sotto il profilo della sua detenzione (che era rimasta alla conduttrice), quanto piuttosto della sua utilizzazione secondo la destinazione negoziale. Dunque, secondo tale assunto, entrambe le prestazioni (detenzione e destinazione contrattuale) rientrerebbero nell'obbligo del locatore di mantenere la cosa locata, nel corso del rapporto, “in istato da servire all'uso convenuto” (art. 1575 n. 2 c.c.). 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