Codice Civile art. 1343 - Causa illecita.

Gian Andrea Chiesi
aggiornato da Nicola Rumìne

Causa illecita.

[I]. La causa è illecita quando è contraria a norme imperative, all'ordine pubblico o al buon costume [1418 2; 31 prel.; 412 Cost.].

Inquadramento

La causa rappresenta il profilo dinamico del contratto e «ne indica il momento di emersione degli interessi che, con riguardo alla singola operazione economica, le parti con quell'atto vogliono realizzare [...] la causa di un contratto non è la sua funzione economico-sociale, che si cristallizzerebbe per ogni contratto tipizzato dal legislatore (ciò che non spiegherebbe, a tacer d'altro, come un contratto tipico possa avere una causa illecita), ma è la sintesi degli interessi reali che il singolo, specifico contratto posto in essere è diretto a realizzare» (Gabrielli, 2780 ss.).

Ai sensi dell'art. 1418, comma 2 c.c., però, il contratto è nullo quando, tra l'altro, la causa è illecita; l'art. 1343 c.c. chiarisce, dunque, quand'è che tale illiceità si verifica, specificando che la causa è illecita quando è contraria a norme imperative, ordine pubblico e buon costume. Il concetto di illiceità esprime il massimo disvalore che l'ordinamento riconosce al risultato che le parti, mediante la conclusione del contratto, intendono raggiungere.

L'illiceità può riguardare il contratto, la sua causa o il suo oggetto, i motivi: si tratta di fenomeni diversi, soggetti a disciplina altrettanto differenziata. Così, ad esempio, il contratto nullo, perché contrario a norme imperative, non produce effetti «salvo che la legge disponga diversamente» (art. 1418, comma 1 c.c.), mentre il contratto con causa illecita non può mai produrre effetti, non essendo prevista in tal caso alcuna clausola di salvezza (art. 1418, comma 2 c.c.); altra è l'illiceità della causa, che attinge alla funzione economico individuale che il contratto, secondo la teoria della causa in concreto, è destinato a perseguire, altra l'illiceità dell'oggetto, che si determina allorché la cosa o il bene della vita, dedotti in contratto sono il prodotto o lo strumento di attività contrarie a norme imperative, ordine pubblico o buon costume ovvero allorché la prestazione dedotta in contratto è essa stessa illecita

La causa in concreto

La causa costituisce uno degli elementi essenziali del contratto (cfr. art. 1324 c.c.) e sulla sua portata si registrano orientamenti diversi.

Sia pur sinteticamente può ricordarsi che si suole distinguere, in dottrina, tra chi, seguendo lo schema della Relazione del Guardasigilli al Re, identifica nella causa la funzione economico sociale del contratto (cd. causa in astratto), per cui la causa non si identifica con lo scopo soggettivo perseguito dalle parti nel caso concreto, identificandosi, piuttosto, nella ragione giustificativa apprezzabile in base ai principi cui si ispira l'ordinamento giuridico (Osti, 506) e chi, al contrario, ritiene che la causa debba essere indagata in una prospettiva soggettiva, quale funzione economico individuale che le parti perseguono con la conclusione dello specifico contratto (cd. causa concreta): la causa consisterebbe, dunque, nella ragione pratica del contratto, sì da dare rilevanza giuridica al complesso delle finalità perseguite dai contraenti (Carresi, 251). L'adesione all'una ovvero all'altra delle evidenziate impostazioni reca con sé conseguenze diverse: per i fautori della causa in astratto, il giudizio in ordine alla liceità è risolto alla base dal legislatore, mediante la determinazione dei connotati caratterizzanti del tipo contrattuale, con la conseguenza che l'elencazione delle caratteristiche essenziali dei contratti normativamente disciplinati risolverebbe già, in via preventiva e legislativa, il problema della valutazione, in termini positivi, della liceità dell'operazione conclusa dalla parti, valutazione di liceità ex art. 1343 c.c. che, a questo punto, concernerebbe unicamente i contratti innominati (Santoro Passarelli, 187). Per i fautori della causa in concreto, invece, i concetti di causa e tipo vanno diversificati, dovendo la valutazione di liceità ex art. 1343 c.c. coinvolgere anche i contratti tipici. In tale prospettiva si evidenzia che il tipo legale si identifica con l'astratto schema regolamentare contenente la rappresentazione di un'operazione economica ricorrente nella pratica commerciale, mentre la causa del contratto va ricercata, piuttosto, negli interessi concreti che i privati mirano a raggiungere mediante la concreta operazione economica prescelta, di modo che mentre l'indagine sul tipo è essenzialmente astratta e statica, quella sulla causa è esclusivamente concreta e dinamica. L'indagine sulla liceità della causa va dunque riferita al contratto concluso in concreto, sia esso un negozio tipico ovvero atipico: l'integrazione della causa illecita può riguardare, infatti, anche i contratti tipici, qualora un determinato schema negoziale sia in concreto utilizzato per il perseguimento di finalità contrarie ai principi giuridici ed etici fondamentali dell'ordinamento.

Richiamando un risalente orientamento propugnato da Cass. S.U. , n. 63/1973, la quale sosteneva che la causa, come funzione economico-sociale del negozio, va intesa nei contratti tipici come funzione concreta obiettiva, che corrisponde ad una delle funzioni tipiche ed astratte determinate dalla legge, con la conseguenza che anche nei contratti tipici, avendo riguardo a detta funzione concreta, è concepibile una causa illecita, allorché le parti, con l'uso di uno schema negoziale tipico, abbiano direttamente perseguito uno scopo contrario ai principi giuridici ed etici fondamentali dell'ordinamento, conferma l'adesione alla impostazione dottrinaria da ultimo delineata anche la più recente giurisprudenza di legittimità, per la quale la causa del contratto costituisce la sintesi dei contrapposti interessi reali che le parti intendono realizzare con la specifica negoziazione, indipendentemente dall'astratto modello utilizzato (Cass. III, n. 8100/2013); causa del contratto — chiarisce ancora Cass. III, n. 23941/2009è lo scopo pratico del negozio, la sintesi, cioè, degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare (c.d. causa concreta), quale funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al di là del modello astratto utilizzato. Ne consegue che, qualora le parti perseguano il risultato vietato dall'ordinamento non attraverso la combinazione di atti di per sé leciti ma mediante la stipulazione di un contratto la cui causa concreta si ponga direttamente in contrasto con le disposizioni urbanistiche e, in particolare, con i vincoli di destinazione posti dal locale piano regolatore, il contratto stipulato è nullo ai sensi dell'art. 1343 c.c. (per violazione, appunto, di disposizioni imperative) e non ai sensi dell'art. 1344 c.c. (Cass. III, n. 24769/2008). Sicché il giudice, nel procedere all'identificazione del rapporto contrattuale, alla sua denominazione ed all'individuazione della disciplina che lo regola, deve procedere alla valutazione in concreto della causa, quale elemento essenziale del negozio, tenendo presente che essa si prospetta come strumento di accertamento per l'interprete della generale conformità a legge dell'attività negoziale posta effettivamente in essere, della quale va accertata la conformità ai parametri normativi dell'art. 1343, ossia la liceità della causa, e dell'art. 1322, comma 2, ossia la meritevolezza di tutela degli interessi dei soggetti contraenti secondo l'ordinamento giuridico (Cass. III, n. 1898/2000). Di recente, con riguardo alla giurisprudenza di merito, App. Ancona, n. 76/2024 e Trib. Vicenza, n. 262/2025. Con riguardo alla giurisprudenza della Suprema Corte si veda Cass. II, n. 9389/2025. 

Le differenti ipotesi di causa illecita: a) la contrarietà a norme imperative

La causa è illecita qualora contrasti, come detto, con a) norme imperative, b) ordine pubblico o c) buon costume.

Il riferimento ai parametri dell'ordine pubblico e del buon costume, che comunque costituiscono clausole generali passibili di valutazione elastica in relazione alle circostanze concrete del fatto, ha, però, valenza sussidiaria rispetto al referente rappresentato dalle norme imperative, giacché i primi due formanti sono applicabili solo qualora manchi nell'ordinamento un divieto espresso (Mirabelli, 164).

Prendendo dunque le mosse dalla contrarietà a norme imperative, il giudizio di illiceità della causa è in tal caso svolto rispetto a norme cogenti e precettive, restando al contrario irrilevante la contrarietà a legge nel caso di violazione di norme dispositive.

La violazione di una norma imperativa, peraltro, non dà luogo necessariamente alla nullità del contratto, giacché l'art. 1418, comma 1 c.c., con l'inciso «salvo che la legge disponga diversamente», impone all'interprete di accertare se il legislatore, anche nel caso di inosservanza del precetto, abbia consentito la validità del negozio predisponendo un meccanismo idoneo a realizzare gli effetti voluti della norma (Cass. I, n. 19196/2016). In particolare, l'area delle norme inderogabili di cui all'art. 1418, comma 1 c.c., ricomprende, oltre le norme relative al contenuto dell'atto, anche quelle che, in assoluto, oppure in presenza o in difetto di determinate condizioni oggettive e soggettive, direttamente o indirettamente, vietano la stipula stessa del contratto ponendo la sua esistenza in contrasto con la norma imperativa (Cass. sez. lav., n. 8066/2016).

Deve trattarsi, inoltre, di disposizioni previste dall'ordinamento statuale, in vigore al momento in cui si realizza il contrasto (Mirabelli, 162; Scognamiglio, 324). Il contrasto con norme imperative sussiste quando è possibile individuare un'incompatibilità tra il regolamento contrattuale così come posto in essere e la norma imperativa, onde l'attribuzione di efficacia a questo regolamento determini un insanabile contrasto con gli scopi in vista dei quali è stata prevista la disciplina normativa. La tematica è di chiara evidenza relativamente alla validità dei contratti posti in essere in violazione di norme penali; al riguardo si opera la distinzione tra contratti reato e contratti in reato, in base alla circostanza che rispettivamente la stessa conclusione del contratto sia oggetto del divieto penale ovvero rappresenti la conseguenza necessaria (ma tuttavia non oggetto di specifico divieto) del comportamento sanzionato penalmente: mentre nel primo caso — e solo in esso — il contratto è nullo per illiceità della causa, nel secondo, il comportamento volto alla conclusione del contratto costituisce reato e il contratto in tal modo perfezionato può essere anche annullabile.

L'illiceità della causa per contrarietà a norme imperative si realizza quando il negozio contemplato dalle parti comporta un'inaccettabile compressione dell'interesse, pubblico ed essenziale, assicurato dalle norme imperative, in quanto volto nel suo contenuto intrinseco al perseguimento di un risultato pratico contrario alle disposizioni preposte alla tutela di situazioni indisponibili, senza che abbiano rilievo, allo scopo di escludere tale invalidità, la possibilità di ricorrere eventualmente a rimedi di carattere amministrativo, quale la confisca dei beni, né la tipicità dello schema negoziale utilizzato o la buona fede soggettiva dei contraenti in ordine all'antigiuridicità dell'operazione economica compiuta (Cass. III, n. 21398/2013). Così, ad esempio, l'emissione di un assegno in bianco o postdatato, cui di regola si fa ricorso per realizzare il fine di garanzia — nel senso che esso è consegnato a garanzia di un debito e deve essere restituito al debitore qualora questi adempia regolarmente alla scadenza della propria obbligazione, rimanendo nel frattempo nelle mani del creditore come titolo esecutivo da far valere in caso di inadempimento — è contrario alle norme imperative contenute negli artt. 1 e 2 del r.d. n. 1736/1933 e dà luogo ad un giudizio negativo sulla meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti, alla luce del criterio della conformità a norme imperative, all'ordine pubblico ed al buon costume, enunciato dall'art. 1343 c.c., sicché, non viola il principio dell'autonomia contrattuale sancito dall'art. 1322 c.c. il giudice che, in relazione a tale assegno, dichiari nullo il patto di garanzia e sussistente la promessa di pagamento di cui all'art. 1988 c.c. (Cass. I, n. 10710/2016). Del pari, il contratto di locazione avente ad oggetto un locale seminterrato da adibire ad attività lavorativa (nella specie, di natura industriale) è nullo, ex art. 1343 c.c., per l'illiceità della causa concreta, in quanto diretto a realizzare un godimento del bene corrispondente ad un'attività vietata dall'ordinamento con norma imperativa, costituita dall'art. 8 d.P.R. n. 303/1956 (applicabile ratione temporis) (Cass. III, n. 19220/2015).

L'accertata nullità di un contratto (nella specie, di finanziamento stipulato in danno della P.A., da parte di un funzionario infedele), in conseguenza della illiceità della causa per violazione di norme imperative, non preclude, infine, l'autonoma valutazione dell'atto dal punto di vista della sua eventuale contrarietà anche al buon costume che, ove accertata, stante il disposto dell'art. 2035 c.c., impone di negare la ripetizione della prestazione (Cass. I, n. 25631/2017). Non si pone in tal caso, dunque, un problema di assorbimento del profilo inerente la «immoralità» del contratto, stante il risultato pratico ulteriore ottenibile dalla parte e consistente nella soluti retentio.

Segue. b) la contrarietà all'ordine pubblico

L'ordine pubblico rilevante ai fini dell'operatività della norma è quello cd. interno, il quale si identifica con il complesso dei principi e dei valori che informano l'organizzazione politica ed economica della società in una certa fase della sua evoluzione storica e perciò devono considerarsi immanenti nell'ordinamento giuridico che vige per quella società in quella fase storica.

Conforme è la giurisprudenza, che individua nell'ordine pubblico il complesso dei principi e dei valori che contraddistinguono l'organizzazione politica ed economica della società in un determinato momento storico (Cass. III, n. 4228/1999).

Rappresentano principi di ordine pubblico l'incommerciabilità del posto di lavoro (Cass. sez. lav., n. 2859/1974) nonché la libertà di voto (Cass. I, n. 1574/1971).

Segue. La contrarietà al buon costume

Più complessa delle precedenti è la nozione di buon costume, che impone un rinvio non già a norme positive ma a norme etiche ed extragiuridiche deducibili dalla coscienza sociale e dall'opinione pubblica diffusa nella società regolata dall'ordinamento (Mirabelli,).

Nel medesimo senso si è espressa la giurisprudenza di legittimità (Cass. L, n. 2014/2018), la quale ha evidenziato (ai fini dell'applicabilità della soluti retentio prevista dall'art. 2035 c.c.) che la nozione di buon costume non si identifica soltanto con le prestazioni contrarie alle regole della morale sessuale o della decenza, ma comprende anche quelle contrastanti con i principi e le esigenze etiche costituenti la morale sociale in un determinato ambiente e in un certo momento storico (nella specie, relativa ad un'ipotesi di simulazione assoluta di un rapporto di lavoro, la S.C. non ha ammesso la ripetizione delle somme versate a titolo di retribuzione ovvero di contribuzione, perché esclusivamente finalizzate a costituire il presupposto truffaldino per il conseguimento di benefici pensionistici indebiti). Peraltro, poiché la causa turpe deve essere apprezzata in relazione al momento in cui il negozio è stato compiuto, deve escludersi che sia contrario al buon costume un contratto diretto a violare norme imperative, ma non più sanzionate penalmente al momento della conclusione del contratto, in quanto lo stesso legislatore, escludendo la rilevanza penale di tali fatti, quanto meno pro tempore, attenua la valutazione negativa dei fatti stessi anche sotto il profilo etico e sociale (Cass. L, n. 4414/1981, cit.).

V'è da evidenziare, infine, come la linea di demarcazione tra ordine pubblico e buon costume non è tuttavia netta, essendo oggettivamente difficile stabilire, in alcuni casi, se l'illiceità della causa dipenda dall'una o dall'altra fattispecie: sicché in alcuni casi le due espressioni sono considerate tra loro equivalenti. La rilevanza della distinzione è, però, pratica, giacché solo nel caso di causa di illecità per contrarietà al buon costume trova applicazione la norma che nega la ripetibilità della prestazione a chi l'abbia eseguita per uno scopo che, anche da parte sua, costituisca offesa, per l'appunto, al buon costume, secondo l'antico adagio per cui in pari causa turpitudinis melior est condicio possidentis..

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