Codice Civile art. 1345 - Motivo illecito.InquadramentoAi sensi dell'art. 1418, comma 2 c.c., il contratto è nullo quando, tra l'altro, la causa è illecita. Se l'art. 1343 c.c. chiarisce quand'è che tale illiceità si verifica, specificando che la causa è illecita quando è contraria a norme imperative, ordine pubblico e buon costume e l'art. 1344 c.c. disciplina un'ipotesi specifica di causa illecita — e, cioè, quella che colora di sé il contratto, che rappresenta il mezzo per eludere l'applicazione di una norma imperativa (cd. contratto in frode alla legge) — l'art. 1345 c.c. riconosce rilevanza, al medesimo fine, al motivo illecito, che sia comune alle parti coinvolte nella vicenda negoziale. Alla nozione di «motivo» corrisponde, in realtà, un duplice significato, da un lato dovendosi fare riferimento alla rappresentazione psicologica a fondamento dell'azione umana, diretta al soddisfacimento di un bisogno — in quanto tale, del tutto irrilevante per l'ordinamento giuridico — e, dall'altro, agli interessi ed ai bisogni particolari che le parti intendono soddisfare mediante la conclusione del contratto, ulteriori rispetto agli effetti tipici dell'operazione giuridico-economica in concreto posta in essere (Roppo, 1977, 180): è a questo ambito che si riferisce l'art. 1345 c.c., norma che, integrata dalle due che immediatamente la precedono porta a definire il motivo illecito quando si traduce in una finalità vietata dall'ordinamento, poiché contraria a norma imperativa ovvero ai parametri dell'ordine pubblico o del buon costume, o quando è connotato da uno scopo diretto ad eludere una norma imperativa, in ragione della stipulazione del contratto Conforme è l'orientamento di legittimità: in tal senso Cass. I, n. 20576/2010, per cui il motivo illecito che, se comune e determinante, determina la nullità del contratto, si identifica con una finalità vietata dall'ordinamento perché contraria a norma imperativa, ai principi dell'ordine pubblico o del buon costume, ovvero poiché diretta ad eludere, mediante detta stipulazione, una norma imperativa. In tal modo intesi, però, i motivi finiscono per diluirsi nella causa concreta: con il che si comprende la ragione per cui la previsione in esame sia sempre meno dotata di rilevanza pratica. Sotto il profilo disciplinare, poi, i motivi, per rilevare nel senso indicato dall'art. 1345 c.c., devono essere a) comuni a tutte le parti coinvolte nell'operazione negoziale, b) esclusivi e c) illeciti L'illiceità del motivoPartendo dall'ultimo dei requisiti innanzi indicati, il motivo, come anticipato, deve essere anzitutto illecito: ciò avviene allorché esso si traduca in una finalità vietata dall'ordinamento, poiché contraria a norma imperativa ovvero ai parametri dell'ordine pubblico o del buon costume, o quando è connotato da uno scopo diretto ad eludere una norma imperativa, in ragione della stipulazione del contratto. Costante è, sul punto, l'orientamento della giurisprudenza, la quale precisa, altresì, che la valutazione compiuta, al riguardo, dal giudice di merito è insindacabile in sede di legittimità, se congruamente e correttamente motivata: cfr., ex multis, Cass. III, n. 16130/2009 e Cass. S.U., n. 10603/1993. Ciò implica, ad esempio, che, ove non sia riconducibile ad una di tali fattispecie, esula dall'ambito di operatività della norma il negozio che sia stato stipulato al fine di frodare i creditori, di vanificare un'aspettativa giuridica tutelata o di impedire l'esercizio di un diritto, non rinvenendosi nell'ordinamento una norma che sancisca in via generale (come per il contratto in frode alla legge) l'invalidità del contratto in frode dei terzi, per il quale, invece, l'ordinamento accorda rimedi specifici (quale, ad esempio, l'azione revocatoria o l'azione volta a far dichiarare la natura simulata dell'atto), correlati alle varie ipotesi di pregiudizio che essi possano risentire dall'altrui attività negoziale. Ancor più chiara Cass. III, n. 23158/2014, la quale osserva come, in assenza di una norma che vieti, in via generale, di porre in essere attività negoziali pregiudizievoli per i terzi, il negozio lesivo dei diritti o delle aspettative dei creditori non è, di per sé, illecito, sicché la sua conclusione non è nulla per illiceità della causa, per frode alla legge o per motivo illecito determinante comune alla parti, apprestando l'ordinamento, a tutela di chi risulti danneggiato da tale atto negoziale, dei rimedi speciali che comportano, in presenza di particolari condizioni, l'applicazione della sola sanzione dell'inefficacia. La casistica giurisprudenziale è comunque varia: a) dal sistema di garanzie apprestate dalla l. n. 223/1991 — evidenziano Cass. L, n. 6969/2013 e Cass. L, n. 10108/2006 — non è possibile enucleare un precetto che vieti, ove siano in atto situazioni che possano condurre agli esiti regolati dalla legge, di cedere l'azienda, ovvero di cederla solo a condizione che non sussistano elementi tali da rendere inevitabili quegli esiti; né un divieto del genere è desumibile dalle altre disposizioni che regolano la cessione di azienda (art. 2112 c.c.; art. 47 l. n. 428/1990). Conseguentemente, non è in frode alla legge, né concluso per motivo illecito — non potendo ritenersi tale il motivo perseguito con un negozio traslativo, di addossare ad altri la titolarità di obblighi ed oneri conseguenti — il contratto di cessione dell'azienda a soggetto che, per le sue caratteristiche imprenditoriali e in base alle circostanze del caso concreto, renda probabile la cessazione dell'attività produttiva e dei rapporti di lavoro; b) del pari, il licenziamento intimato in ragione esclusiva della mancata adesione alla proposta di proseguire il rapporto di lavoro come socio lavoratore non rientra nell'area di tutela del licenziamento discriminatorio, dovendo escludersi la contrarietà del motivo, di carattere determinante, a norme imperative, all'ordine pubblico o al buon costume ovvero ad altri scopi espressamente proibiti dalla legge (così Cass. II, n. 16155/2009); c) nel caso di controversia concernente la legittimità del licenziamento di un lavoratore sindacalmente attivo, per affermare il carattere ritorsivo e, quindi, la nullità del provvedimento espulsivo, in quanto fondato su un motivo illecito, Cass. L, n. 7188/2001 osserva come occorra specificamente dimostrare, con onere a carico del lavoratore, che l'intento discriminatorio e di rappresaglia per l'attività svolta abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso (di recente, nel medesimo senso, Cass. lav., n. 6838/2023); d) il contratto con cui una parte attribuisca al proprietario di un fondo vicino — dichiarato inedificabile dal piano regolatore — il diritto di costruire, promettendo di risarcire i danni in caso di eventuale proposizione di un'azione civile o amministrativa, e con cui il vicino, in corrispettivo, costituisca una servitus altius non tollendi, è nullo per illiceità dei motivi, comuni ad entrambe le parti e consistenti nell'intenzione di eludere le norme imperative, ossia il divieto di edificare, del piano regolatore (Cass. II, n. 3606/1978); e) non può ritenersi concluso per motivo illecito il contratto di cessione dell'azienda a soggetto che, per le sue caratteristiche imprenditoriali ed in base alle circostanze del caso concreto, renda probabile la cessazione dell'attività produttiva e dei rapporti di lavoro, non potendo ritenersi tale il motivo, perseguito con un negozio traslativo, di addossare ad altri la titolarità di obblighi ed oneri conseguenti (Cass. n. 6969/2013; Cass. n. 10108/2006); f) il patto parasociale che impegna i soci a votare in assemblea contro l'eventuale proposta di intraprendere l'azione di responsabilità sociale nei confronti degli amministratori è contrario agli artt. 2392 e 2393, che sono norme imperative inderogabili, con conseguente nullità del patto, in quanto avente motivi comuni illeciti, perché la clausola mira a far prevalere l'interesse di singoli soci che per regolamentare i propri rapporti si sono accordati a detrimento dell'interesse generale della società al promovimento della detta azione, dal cui esito positivo avrebbe potuto ricavare benefici economici (Cass. I, n. 10215/2010). Il motivo illecito assume rilevanza anche: 1) nel caso di rappresentanza: in tale ipotesi, il motivo illecito rilevante è quello imputabile al rappresentato, sicché la norma si applicherà quando il rappresentante agisce, oltre che nel nome, anche nell'interesse del rappresentato (Cass. III, n. 3179/1958); 2) nell'ambito del rapporto di lavoro presso le P.A. soggetto alle norme di diritto privato, poiché l'atto del datore di lavoro incidente sulla prestazione lavorativa è un atto paritetico, ancorché espressione del potere di supremazia gerarchica, privo dell'efficacia autoritativa propria del provvedimento amministrativo (Cass. sez. lav., n. 11589/2003). Peculiare è, poi, il contratto caratterizzato da motivo illecito, perché in contrasto con norme imperative, e per il quale sia tuttavia espressamente prevista una sanzione diversa dalla nullità assoluta (cfr., ad es., l'art. 15 l. n. 10/1977): si ritiene in tal caso che, non potendo concorrere una doppia sanzione in relazione al medesimo negozio, la sanzione diversa prevalga — quasi a mo di lex specialis — sulla nullità, dovendosi per l'effetto considerare il motivo illecito come giuridicamente irrilevante (Cass. II, n. 8561/1996). Una volta acclarata, inoltre, l'oggettiva impossibilità che il negozio possa realizzare il motivo illecito, detto negozio, venendo a mancare la ragione della comminata nullità, resti indenne da quella (Cass. n. 2861/1955) L'esclusività del motivoIl motivo, oltre ad essere illecito, deve altresì essere esclusivo e, cioè, il solo a determinare la conclusione del contratto. Ciò implica che, ove una ovvero tutte le parti siano addivenute alla conclusione del contratto sulla base di molteplici motivi, anche uno solo dei quali non sia comune a quello illecito delle altre parti, va esclusa la nullità del vincolo negoziale, in applicazione del principio per cui utile per inutile non vitiaur (Cass. sez. lav., n. 4333/1987): si è infatti precisato, in tale occasione, che il prestarsi ad assecondare l'altro contraente non equivale affatto a condividere lo stesso motivo, perché a tal fine occorre che la volontà di entrambi tenda — in via esclusiva — al raggiungimento di un medesimo scopo rispondente per entrambi ad un interesse patrimoniale o no. La conclusione che precede è stata sostenuta anche in dottrina, essendosi affermato che, qualora il contratto sia stipulato da una delle parti per più motivi, basta che anche uno solo di essi non sia comune con il motivo illecito della controparte affinché il contratto non sia nullo (Carresi, 348). Chiarisce inoltre Cass. I, n. 8337/1987 che, allorché si tratti di negozi plurilaterali, la nozione di esclusività (e di comunanza) va riferita a tutte le parti del rapporto: con riguardo alla deliberazione di assemblea di società, avente ad oggetto il promuovimento dell'azione di responsabilità contro l'amministratore, ai sensi dell'art. 2393 c.c., non può essere invocata, come ragione di nullità, la circostanza che attraverso la deliberazione medesima un socio persegua lo scopo di liberarsi da una propria obbligazione, tenuto conto che tale situazione non è riconducibile fra le ipotesi di nullità contemplate dall'art. 2379 c.c., e che inoltre il motivo illecito, per spiegare effetti invalidanti, deve essere comune a tutti i soci e determinativo della loro volontà La comunanza del motivoIl motivo, illecito ed esclusivo, per rendere nullo il contratto deve essere comune ad entrambe le parti, nel senso che entrambe devono essere addivenute alla volontà di stipulare il contratto per la medesima ragione: se ne trae pertanto la conclusione che il motivo soggettivo inespresso, anche se noto all'altro contraente, non fa parte del contenuto del negozio ed è dunque irrilevante. Del pari, la mera esteriorizzazione del motivo, ancorché elevata a contenuto di una premessa delle condizioni generali di contratto, non è sufficiente a far acquistare allo stesso rilevanza, qualora sia da escludere che esso sia stato inserito nella struttura negoziale (Cass. I, n. 2323/1970): occorre, piuttosto, che i motivi (illeciti) siano espressamente indicati ed elevati a condizioni di efficacia del negozio (Cass. II, n. 9840/1999). Ne consegue che: a) il soggettivo scopo illecito di una parte, ove non sia comune all'altra parte, rimane irrilevante (Cass. sez. lav., n. 9111/2005); b) per render il motivo comune occorre che i due contraenti si siano ispirati al perseguimento della stessa finalità illecita (Cass. II, n. 4921/1980) e, dunque, che il motivo abbia determinato nello stesso modo la volontà delle parti (Cass. S.U., n. 4521/1980). Si è sostenuto, in dottrina, che si versa in ipotesi di motivo comune quando rappresentazioni del medesimo contenuto determinano in modo identico i contraenti (Ferrando, 38); secondo altra impostazione, invece, la comunanza del motivo non potrebbe essere intesa come piena consapevolezza e condivisione, in capo ad entrambi i contraenti, dell'illiceità dell'operazione posta in essere, quanto piuttosto come volontà comune di procedere allo sfruttamento, sia pure per finalità diverse, di un interesse messo al bando dal diritto (Roppo, 1977, 181). Non è sufficiente, dunque, che uno dei soggetti sia animato subiettivamente da un motivo illecito, né che questo sia semplicemente noto alla controparte, potendo la mera conoscenza del motivo determinare la nullità del contratto — fuori dall'ambito dell'art. 1345 c.c. — unicamente quando il motivo stesso si sia concretato nella consumazione di un reato, rispetto al quale la prestazione del consenso alla conclusione del contratto costituisca una partecipazione al reato stesso. Segue. Il motivo illecito e gli atti unilaterali Il codice civile, come noto, non si impegna nella definizione del negozio giuridico, fornendo al contrario la definizione di «contratto» (quale archetipo del primo, ove a contenuto patrimoniale) e prevedendo, all'art. 1324 c.c. che le norme dettate per questo si applichino, in quanto compatibili, anche agli atti (negoziali) unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale: tra le previsioni applicabili rientra, per l'appunto l'art. 1345 c.c., tenendo ovviamente conto della peculiarità della fattispecie, in cui la volontà determinante per la produzione dell'effetto giuridicamente rilevante proviene da un solo centro di imputazione. Si è così osservato, in dottrina, che proprio il requisito della comunanza del motivo non viene necessariamente meno negli atti unilaterali, traducendosi piuttosto nella rilevanza giuridica dell'affidamento riposto nell'atto dal suo destinatario, indipendentemente dalla natura recettizia dell'atto stesso; in altri termini, il motivo illecito può rilevare quale causa di nullità dell'atto unilaterale a) se ed in quanto si faccia previamente riferimento alla comprensione e ponderazione di tali motivi a cura del destinatario dell'atto oppure b), ove non ricorra tale affidamento, purché esso risulti dal contenuto dell'atto stesso, in maniera non dissimile da quanto espressamente previsto dagli artt. 626 e 788 c.c., rispettivamente per il testamento e la donazione (Breccia, 298). L'accertamento di tali circostanze è rimesso al giudice di merito e non è censurabile in sede di legittimità se non per vizi di motivazione (Cass. sez. lav., 11191/2002). Pacifica è, in giurisprudenza, l'applicabilità dell'art. 1345 c.c. agli atti unilaterali, laddove — non dissimilmente da quanto previsto per i contratti — essi siano finalizzati esclusivamente al perseguimento di scopi riprovevoli ed antisociali, rinvenendosi l'illiceità del motivo, al pari della illiceità della causa, a mente dell'art. 1343 c.c., nella contrarietà dello stesso a norme imperative, all'ordine pubblico o al buon costume (Cass. II, n. 20197/2005): sicché, ad esempio, sussistendone le condizioni di fatto, deve qualificarsi affetto da motivo illecito e quindi nullo, ai sensi dell'art. 1418, comma 2 c.c., l'atto di recesso da un rapporto di agenzia che, diretto nei confronti di un agente costituito in forma di società di persone, risulti ispirato dalla sola finalità di rappresaglia e di ritorsione nei confronti del comportamento sindacale tenuto dai soci di quest'ultima, dovendosi ritenere un siffatto motivo contrario alle norme imperative poste a tutela delle libertà sindacali dei lavoratori, norme che, in ragione del valore e della tutela che lo stesso dettato costituzionale assegna al « lavoro «, nella sua accezione più ampia, appaiono estensibili, al di fuori dei rapporti di lavoro subordinato, a tutti coloro che svolgono attività lavorativa, anche se in forma parasubordinata o autonoma. La casistica è, anche in tal caso, vasta. Così, ad esempio, con riferimento al contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato il recesso senza preavviso di ciascun contraente forma oggetto di un diritto potestativo, il cui legittimo esercizio è esclusivamente condizionato all'esistenza di una giusta causa, senza che rilevino i motivi alla base della decisione di recedere dal contratto, non sindacabili dal giudice ai fini della decisione sull'indennità sostitutiva del preavviso, salvo che gli stessi non siano illeciti od esprimano lo sviamento della causa contrattuale allo scopo di eludere l'applicazione di una norma imperativa, e sempreché non sia configurabile una simulazione dell'atto (Cass. L., n. 9116/2015); né può considerarsi ritorsivo un licenziamento palesemente (anche se erroneamente) basato sull'inosservanza di direttive aziendali, qualora manchi la prova, il cui onere incombe sul lavoratore, della sussistenza di un motivo illecito determinante (Cass. L, n. 3986/2015). A contrario, il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta — assimilabile a quello discriminatorio — rappresenta un'ingiusta ed arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione, con conseguente nullità del licenziamento, quando il motivo ritorsivo sia stato l'unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni (Cass. L, n. 6575/2016). Sempre in tema di licenziamento ritorsivo si veda da ultimo Trib. Torino lav., n. 3313/2025. Infine, nell'ambito dell'autonoma disciplina dell'invalidità delle deliberazioni dell'assemblea delle società per azioni — nella quale, con inversione dei principi comuni (artt. 1418,1441 c.c.), la regola generale è quella dell'annullabilità (art. 2377 c.c.) — la previsione della nullità è limitata ai soli casi, disciplinati dall'art. 2379 c.c., di impossibilità o illiceità dell'oggetto, che ricorrono quando il contenuto della deliberazione contrasta con norme dettate a tutela degli interessi generali, che trascendono l'interesse del singolo socio, risultando dirette ad impedire deviazioni dallo scopo economico-pratico del rapporto di società. Deve pertanto escludersi che — operando una scissione tra «oggetto» e «contenuto» della delibera (il primo sottoposto alla disciplina di cui all'art. 2379 c.c., il secondo alle regole generali in tema di invalidità dei negozi giuridici) — possa dichiararsi la nullità di una deliberazione assembleare ai sensi degli artt. 1324 e 1345 c.c., in quanto determinata da motivo illecito: rientrando tale ipotesi nella categoria dell'annullabilità di cui all'art. 2377 c.c. (con conseguente applicabilità del relativo regime in tema di legittimazione attiva e del termine di decadenza per l'esperimento dell'azione), la quale comprende qualunque altra inosservanza di norme inderogabili attinenti al procedimento di formazione della volontà dell'assemblea. 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