Le prove atipiche: onere della prova ed onere di contestazione
30 Ottobre 2019
Le prove
Nell'ordinamento processuale civile (costituito dal c.p.c., integrato nella disciplina probatoria dal c.c.) al quale rinvia dinamicamente l'art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992, con il limite della compatibilità (conclamando in tal guisa la propria specialità), non esiste una regola generale, quale quella prevista dall'art. 189 c.p.p. per il processo penale, ove il giudice può assumere una prova «se essa risulta idonea ad assicurare l'accertamento dei fatti», al fine di maturare quel “libero convincimento” di cui all'art. 192, c.p.p.. Il giudice civile, infatti, deve valutare l'attendibilità di ogni circostanza ritualmente allegata e dedotta*, insieme a tutti gli altri elementi con efficacia probatoria emersi nel processo (“nel vigente ordinamento processuale opera il principio dell' acquisizione delle prove, in forza del quale il giudice è libero di formare il suo convincimento sulla base di tutte le risultanze istruttorie, quale che sia la parte ad iniziativa della quale sia avvenuto il loro ingresso nel giudizio, con l'unico limite, riguardo alla configurabilità di domande implicitamente subordinate, che vi sia la necessità di svolgere, in relazione ad esse, indagini su diversi temi di fatto non introdotti ritualmente in giudizio”. Cass. Civ., n. 25028/2008), tra i quali gli indizi gravi, precisi e concordanti (c.d. presunzioni semplici**), “secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti”, ex art. 116,comma 1, c.p.c., come nel caso delle c.d. prove legali (Le presunzioni legali; assolute: “iuris et de iure”, che non ammettono prova contraria, ovvero relative: “iuris tantum” che costituiscono un'inversione dell'onere probatorio) ex art. 2728 c.c. sono tipiche perché previste per legge, quelle semplici (praesumptiones hominis o iudicis ) ex art. 2729 c.c. sono innominate. “Contrapposte alle presunzioni legali si trovano le cosiddette presunzioni non previste dalla legge: si tratta di presunzioni che, pertanto, operano (rectius: possono operare) ai fini probatori, non in forza dell'espresso richiamo del Legislatore, ma in quanto al soggetto che procede alla valutazione dei fatti e delle relative prove, appaiano convincenti e degne di considerazione. Ne deriva che, laddove le presunzioni in argomento, tradizionalmente considerate un quid minus rispetto a quelle legali e, a fortiori, rispetto alle prove dirette o rappresentative, risultino gravi, precise e concordanti, il giudice ben potrà porle a fondamento della propria decisione”. G. LUDOVICI, Codice di procedura civile, a cura di L. Viola, II, pagg. 361 e ss.), quali le prove documentali*** (atto pubblico e scrittura privata autenticata o riconosciuta), la confessione (vds. 228 e ss.), il giuramento (vds. 233 e ss.) e la testimonianza (vds. 244 e ss.), la cui efficacia è predeterminata per legge ed al giudice civile ne è impedita ogni valutazione contenutistica.
Prova indiziaria e prova rappresentativa
Per prova indiziaria (o critica), che si contrappone alla prova rappresentativa (o dichiarativa), si intende un ragionamento (“Quello eseguito dall'organo giurisdizionale è un ragionamento qualificato come inferenziale, in quanto si compone di due fasi: la prima, induttiva (l'ermeneuta trae da una serie di casi conosciuti la regola che sembra regnarne la fenomenologia – ragionamento che, criticato da Karl Popper in ragione di una ontologica incapacità di offrire risultati assolutamente certi, potrebbe essere associato al modus cogitandi di Platone) e, la seconda, deduttiva (l'ermeneuta applica la regola generale, così individuata, al caso speciale sottoposto al suo esame – metodo di pensiero associabile al ragionamento di Aristotele). Il criterio che sostiene il procedimento logico inferenziale è quello dell'id quod plerumque accidit, ovvero di quello che generalmente accade nel mondo reale; ciò non esclude che tale criterio interpretativo possa essere sostituito di volta, in volta, a seconda della tipologia dei casi da esaminare, da una specifica legge regolatrice (ad es. una legge scientifica, una legge sociale, etc. ...)” G. LUDOVICI, Codice di procedura civile, a cura di L. Viola, II, pagg. 361 e ss.) che attribuisca significato ad un atto e/o fatto assunto come certo (c.d. circostanza indiziante o indizio), al fine di ricavare un atto e/o fatto ignoto (c.d. fatto principale), oppure un'altra circostanza indiziante (c.d. fatto secondario), dalla quale è possibile successivamente ricavare l'atto e/o il fatto da provare (c.d. fatto principale).
Gli indizi sono precisi «solo quando risultano non generici e non suscettibili di diversa e antitetica interpretazione e, perciò, non equivoci nonché quando sono considerati certi i relativi elementi indiziari (...); sono gravi solo quando risultano dotati di un alto grado di fondatezza e, quindi, di un'elevata intensità persuasiva di ogni singolo strumento gnoseologico indiziario; sono concordanti solo quando i loro risultati, basati su singoli elementi indiziari (...) confluiscono verso una ricostruzione unitaria del fatto cui si riferiscono» (A. Gaito, Le prove, in AA. VV. Manuale di procedura penale, op. cit., p. 249). Il giudice, dovendo esercitare la propria discrezionalità nell'apprezzamento e nella ricostruzione dei fatti, in modo da rendere evidente il criterio logico adottato nella selezione delle risultanze probatorie poste a fondamento del proprio convincimento, è tenuto all'analisi di ciascun elemento indiziario (per scartare quelli ritenuti irrilevanti e valorizzare invece quelli con una potenziale efficacia probatoria, sia pur parziale), per arrivare poi ad una valutazione (Attendibilità ed affidabilità dell'impianto probatorio vanno commisurate al canone di giudizio proprio del processo civile, che è quello di una valutazione probabilistica della fondatezza della domanda giudiziale, a differenza di quello del processo penale, ove il giudice deve decidere secondo il canone della responsabilità penale oltre ogni ragionevole dubbio) dell'intero impianto probatorio al fine di verificarne ogni concordanza ed idoneità complessiva volte a costituire una efficace prova presuntiva, pur non riconoscibile con una considerazione meramente atomistica. Ne consegue che deve ritenersi censurabile in sede di legittimità la decisione in cui il giudice si sia limitato a negare valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio senza accertare se essi, quand'anche singolarmente sforniti di valenza indiziaria, non fossero in grado di acquisirla ove valutati nella loro sintesi, nel senso che ognuno avrebbe potuto rafforzare e trarre vigore dall'altro in un rapporto di vicendevole completamento. (Cass. Civ. nn. 9059/2018 e n. 5374/2017).
Il giudice ha l'obbligo di decidere “iuxta allegata et probata, non secundum conscientiam”, e l'ammissibilità della prova viene presidiata dai criteri di legalità, pertinenza e rilevanza. Relativamente alla “legalità” della prova, la questione si biforca in: prove "illegittime", acquisite in violazione di una legge processuale, e prove "illecite", acquiste in violazione di una legge sostanziale. Mentre l'inutilizzabilità (Nel processo tributario -ed in quello civile- manca una disposizione analoga a quella dell'art. 191, cc. 1 e 2, e 240, c. 2, c.p.p.); purtuttavia, nel processo tributario vale la medesima regola. (Vds. Francesco Tesauro, Manuale del processo tributario, Torino, 2014, pag. 168). Inoltre, secondo un risalente e costante orientamento della Corte di cassazione, espresso con le sentenze nn. 8344/2001, 22984/2010 e 27149/2011, i documenti acquisiti in violazione di diritti fondamentali di rango costituzionale (ad esempio: la libertà personale o l'inviolabilità del domicilio), come quando non è stato osservato quanto disposto dagli artt. 33, d.P.R. 600/1973, nonchè 52 e 63, d.P.R. 633/1972, sono inutilizzabili nel processo tributario. Secondo Cass. Civ., n .631/2012, l'illegittimità di un atto istruttorio prodromico è foriera di illegittimità derivata atta ad «interrompere il necessario collegamento funzionale con l'atto terminale del procedimento impositivo», con la conseguenza che lo stesso configura un «vizio di invalidità del procedimento amministrativo idoneo a determinare l'annullamento per illegittimità derivata dell'atto consequenziale impugnato».) è -quasi- pacifica per le prove illegittimamente acquiste (mala capta, mala retenta*), quelle acquisite illecitamente lo sono nella misura in cui la loro acquisizione leda un interesse da tutelare. A differenza delle nullità, previste espressamente per legge e quindi costituenti un numerus clausus, l'inutilizzabilità si eccepisce nei casi di difformità tra il mezzo probatorio (o la sua formazione) e quanto previsto in proposito dalla legge. La "pertinenza" consiste nella riconducibilità della prova al thema decidendum** e quindi al thema probandum, mentre la "rilevanza" consiste nella potenzialità della prova a far ricostruire un fatto o un atto determinante per il giudizio.
Dottrina e giurisprudenza
Secondo unanime dottrina e costante giurisprudenza, ormai ampiamente consolidate, l'assenza normativa di un numerus clausus delle prove, l'ampio concetto di produzione documentale, il diritto alla prova ed il correlato canone del prudente apprezzamento probatorio del giudice civile, a corollario dell'art. 24, cost. fanno ritenere ammissibili con l'efficacia probatoria delle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c. (probatio inferior), prove atipiche (per un approfondimento sulle prove atipiche nel processo civile vedasi: M. CONTE, Le prove civili, Padova, 2009; G. MAERO, Le prove atipiche nel processo civile, Padova, 2001, e G. LUDOVICI, Codice di procedura civile, a cura di L. Viola, Padova, 2013) o innominate [intendendo come tipiche, ad esempio: interrogatorio formale (volto alla confessione), testimonianza, consulenza tecnica d'ufficio (se percipiente), ispezione, esperimento giudiziale, ordine di esibizione, produzione documentale di parte (atto pubblico e scrittura privata.)] quelle regolate espressamente dalla legge), quali: gli scritti provenienti da terzi a contenuto sostanzialmente testimoniale (secondo Cassazione Civile, sez. III, n. 12763 del 26 settembre 2000, manca una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova per cui il giudice civile (nonchè quello tributario, in virtù del già citato rinvio dinamico) può legittimamente porre a base del proprio convincimento una prova innominata, idonea a fornire elementi di giudizio sufficienti, se ed in quanto non smentita dal raffronto critico — riservato al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato — con le altre risultanze del processo. In particolare, gli scritti provenienti da terzi, pur non avendo efficacia di prova testimoniale, non essendo stati ritualmente raccolti nell'ambito del giudizio, sono rimessi alla libera valutazione del giudice del merito, e possono, in concomitanza con altre circostanze desumibili dalla stessa natura della controversia, fornire utili elementi di convincimento, specie ove di essi sia stata provata (nella specie, mediante l'autentica della sottoscrizione apposta alle dichiarazioni in atti) la veridicità formale. “Il dibattito giurisprudenziale sulla dichiarazione dei terzi nel processo tributario: la valenza indiziaria di tale dichiarazione rientra nei principi del giusto processo” (Cass. Civ., n. 6616/2018).); gli atti dell'istruttoria penale, amministrativa o contabile; i verbali di prove assunte in altri giudizi (Il Giudice civile, può fondare il proprio convincimento anche in base a prove raccolte in un altro giudizio, tra le stesse o tra altre parti, fornendo adeguata motivazione della relativa utilizzazione, senza che rilevi la divergenza delle regole, proprie di quel procedimento, relative all'ammissione e all'assunzione della prova (Cass. Civ., nn. 840/2015; 4652/2011; 5440/2010; 11555/2013 e SSUU n. 9040/2008).); i provvedimenti emessi da altre giurisdizioni; le perizie stragiudiziali; le CTU depositate in altri giudizi etc.. (Cass. nn. 5695/2004 e 4666/2003). Prove atipiche
Nel processo tributario, quindi, in assenza di divieti di legge è possibile acquisire prove atipiche seguendo i canoni propri della prova per presunzioni (Cass. Civ. n. 17183/2015); rimane, in ogni caso, escluso che tali prove “atipiche” possano valere ad aggirare preclusioni o divieti dettati da disposizioni sostanziali o processuali, così introducendo surrettiziamente (Secondo Cass. Civ., n. 5440/2010, è “in ogni caso, escluso che tali prove "atipiche" possano valere ad aggirare preclusioni o divieti dettati da disposizioni sostanziali o processuali, così introducendo surrettiziamente elementi di prova che non sarebbero altrimenti ammessi o la cui ammissione richieda il necessario ricorso ad adeguate garanzie formali”) elementi di prova che non sarebbero altrimenti ammessi o la cui ammissione richiederebbe il necessario ricorso ad adeguate garanzie formali.
L'onere della prova* processuale tributaria costituisce mera regola decisoria per il giudice (Il giudice adito, non può denegare giustizia ricorrendo ad una pronuncia di “non liquet” (i.e. non è chiaro) perché, ai sensi dell'art. 12 delle Disposizioni sulla legge in generale, preposte al Codice civile (c.d. Preleggi), deve comunque emettere una sentenza secondo la regola processuale dell'onere della prova. Qualora l'attore non riesca a provare i fatti dedotti a fondamento del proprio diritto, il giudice deve respingerne la domanda; in mancanza della regola della soccombenza di cui all'art. 2697 c.c., l'assenza di prova del fatto costitutivo del diritto conteso non consentirebbe al giudice di pervenire ad alcuna decisione) affinchè, in caso di prova mancante o insufficiente, possa mettere a carico di una parte la carente dimostrazione dei fatti dedotti (costitutivi, impeditivi, modificativi o estintivi), al fine di pervenire a una decisione di merito. L'irrilevanza della provenienza dell'allegazione probatoria (art. 115 c.p.c.), fa sì che il giudice possa trarre il proprio convincimento (art. 116, comma 2, c.p.c.) dagli elementi di prova forniti da qualsiasi parte in causa, fermo restando che le regole generali sull'onere della prova vanno coordinate, nella materia tributaria, col limite dei criteri di valutazione utilizzati dall'ente fiscale nella formulazione dell'avviso di accertamento (Cass. Civ. n. 11420/1998).
I mezzi istruttori tipici del giudice tributario
I mezzi istruttori tipici del giudice tributario sono indicati dall'art. 7, D.Lgs. n. 546/1992 (“Il processo tributario è fondamentalmente e quasi esclusivamente un processo documentale in quanto l'art. 7 del D.Lgs. n. 546/1992 vieta il giuramento e la prova testimoniale. Sono invece ammissibili l'interrogatorio libero (e, secondo alcuni, l'interrogatorio formale), la consulenza tecnica, l'ordine di esibizione di documenti, la richiesta di informazioni alla P.A. e l'ispezione. … Lo stato attuale del complesso sistema normativo sull'accertamento dei tributi prevede ampiamente l'utilizzo di presunzioni sia legali relative (con la necessaria conseguenza di un'inversione dell'onere della prova) sia semplici a mero valore indiziario se non gravi precise e concordanti. (Claudio Sacchetto, Dialoghi di diritto tributario tra attualità e prospettive, Torino, 16 gennaio 2015); perimetrati dai fatti dedotti dalle parti (ex multis Cass. Civ., n. 15214/2000), possono essere diretti ed immediati, quando coincidono con i poteri istruttori già attribuiti agli enti fiscali (con l'espressione “ente fiscale” s'intendono e si comprendono indistintamente tutte le agenzie fiscali, gli agenti della riscossione, gli enti locali, i soggetti gestori iscritti nell'albo di cui all'art. 53 del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, che esercitano le attività di liquidazione, accertamento e riscossione dei tributi di Province e Comuni, e qualsiasi altro soggetto dotato di poteri impositivi, sanzionatori ed esattivi relativamente a tributi di ogni genere e specie, comunque denominati, nonché di accertamento catastale, come previsto dall'articolo 2, commi 1 e 2) per i propri accertamenti amministrativi (Pertanto, il potere istruttorio di acquisizione dati, informazioni e chiarimenti richiesti ex art. 32, d.P.R. n. 600/1973 a terzi estranei al rapporto d'imposta in contestazione, resi in via stragiudiziale, senza giuramento né contradittorio con la controparte processuale, è attribuito anche dal giudice tributario nell'esercizio dei propri poteri istruttori di cui all'art. 7, D.Lgs. n. 546/1992); oppure indiretti e mediati quando sono costituiti da relazioni conoscitive ottenute -a richiesta- da organi tecnici dell'amministrazione dello Stato o di altri enti pubblici, compreso il Corpo della Guardia di finanza (se estraneo al fatto di causa), ovvero da consulenti tecnici all'uopo incaricati. L'art. 7, comma 4, D.Lgs. n. 546/1992 dispone che, tra le prove tipiche, “non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale” (vedi tab. 1); tale divieto di prova testimoniale, tuttavia, secondo recente giusprudenza, si riferisce solamente a dichiarazioni assunte sotto giuramento dal giudice, con le garanzie del contraddittorio, e non riguarda l'acquisizione agli atti processuali delle dichiarazioni di terzi (Dichiarazioni false, assunte senza giuramento ed in via stragiudiziale, non possono integrare il reato di falsa testimonianza ex art. 372 c.p.. perchè trattasi di reato proprio, ascrivibile unicamente a chi, rivestendo la qualifica giuridica di testimone in sede civile o penale, abbia la consapevolezza e la volontà di affermare il falso, negare il vero o tacere, prescindendo dalle ragioni di tale condotta.) che gli enti fiscali sono autorizzati a sollecitare a controparte ed a terzi, come acquisite nella fase amministrativa di accertamento e raccolte nelle forme di dichiarazione sostitutiva di atto notorio o di processo verbale (vedi tab. 2). Si è anche posta la questione della valenza indiziaria della confessione e del provvedimento del Garante del contribuente, dei quali si dirà più avanti.
Le dichiarazioni rese dal terzo
Le dichiarazioni rese dal terzo, acquisite dall'ente fiscaledurante le attività istruttorie, hanno valore di mero indizio e concorrono a formare il convincimento del giudice solo se vengono confermate da altri elementi di prova (cfr. Cass. Civ., n. 9876/2011); il loro valore meramente indiziario non cambia con la trasposizione nel processo verbale di constatazione [Cass. Civ. n. 10261/2008, ha precisato che come le dichiarazioni raccolte dall'ente fiscale“non hanno natura di prova testimoniale bensì di meri indizi … utilizzabili per la formazione del convincimento del giudice di merito”, al contribuente è parimenti assicurato il medesimo diritto di difesa consentendogli di “produrre documenti contenenti dichiarazioni rese da terzi in sede extra-processuale con il medesimo valore probatorio”, nel pieno rispetto del principio del giusto processo costituzionalmente garantito. (cfr anche Cass. nn. 25291 e 7271 del 2017)].
Esse non hanno natura di prova testimoniale, bensì di mere informazioni acquisite nell'ambito di indagini amministrative, che possono essere utilizzate quando abbiano trovato riscontro nelle risultanze dell'accesso diretto degli operanti verbalizzanti e negli atti del processo penale, e non siano specificamente ed idoneamente smentite dalla controparte (Cass. nn. 16033/2005 e 3526/2002). Così cass. 21809/5/2016, nel solco giurisprudenziale (Cass. nn. 9080/2017, 8639/2013 e 5748/2010) recentemente confermato da Cass. ordinanze nn. 13174 del 16 maggio 2019, 13495 del 18 maggio 2019 e 13979 del 23 maggio 2019. Riprodotte nell'avviso di accertamento, tali dichiarazioni concorrono a formare il convincimento del giudice anche se non rese in contraddittorio con il contribuente, senza necessità di ulteriori indagini da parte dell'ente fiscale. (Vds. Cass. Civ., n. 17810/2016).
Principi del giusto processo
Al fine di dare concreta attuazione ai principi del giusto processo [(Art. 6 della Convenzione dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali – CEDU.)(Cass. ordinanza 6616/2018)], come novellati nell'art. 111 Cost, per garantire il principio della parità delle parti processuali nonché l'effettività del diritto di difesa (Cass. nn. 5018/2015 e 11785/2014), la Cassazione (Cass. Civ. n. 18065/2016), richiamando quanto precedentemente espresso dalla C. Cost. con sent. n. 18/2000 ha ritenuto che l'utilizzo di dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale, con valore indiziario atto a concorrere nella formazione del convincimento del giudice, già riconosciuto all'ente fiscale, debba essere parimenti riconosciuto anche al contribuente*.
La relativa efficacia probatoria si distingue in base alla natura confessoria* o meno di tali dichiarazioni. Affinchè una dichiarazione abbia natura confessoria, ex art. 2730, 1° comma, c.c. deve far emergere una responsabilità del dichiarante, tale da provocargli conseguenze sfavorevoli; anche una confessione stragiudiziale -quale quella assunta a verbale o in un atto notorio- forma “piena prova contro colui che l'ha resa” ai sensi degli artt. 2733 ed “ha la stessa efficacia probatoria di quella giudiziale”, ai sensi dell'art. 2735 c.c.. La confessione è una mera dichiarazione di scienza -e non un atto negoziale- resa con la consapevolezza e la volontà di ammettere come vero un fatto a sé sfavorevole e favorevole a controparte (animus confitendi); non occorre, pertanto, che il dichiarante ne conosca ed accetti gli effetti. Ex art. 2735, c.2, c.c.“La confessione stragiudiziale non può provarsi per testimoni, se verte su un oggetto per il quale la prova testimoniale non è ammessa dalla legge”. Una confessione ritenuta attendibile e confortata dai requisiti di gravità, precisione e concordanza, può essere ex se idonea a motivare un'avviso di accertamento; una dichiarazione priva di tale natura confessoria, invece, rappresenta solo un mero indizio, da corroborare con ulteriori elementi per essere prudentemente apprezzata del giudice. L'utilizzabilità delle dichiarazioni autoindizianti** rese dal contribuente durante il procedimento amministrativo d'accertamento ai sensi degli artt. 51, comma 2, d.P.R. 633/1972, e 32, comma 1, d.P.R. n. 600/1973. e la possibile valorizzazione probatoria, consegue al potere dell'ente fiscale di rivolgere e verbalizzare richieste di chiarimenti, informazioni e delucidazioni al soggetto interrogato, nonché di acquisirne osservazioni e richieste spontaneamente formulate.
Sottoscrizione del verbale di constatazione
Secondo Cass. nn. 20979 e 20980 del 2015, la firma* del verbale di constatazione da parte del soggetto sottoposto -in contraddittorio- ad indagini amministrative fiscali, può già contenere un'accettazione avente valore (vds. Cass. Civ., n. 5628/1990) di confessione stragiudiziale ai sensi degli artt. 2733 e 2735 c.c. -che costituisce piena prova contro chi l'ha resa - ove alla firma del verbale manchi la formalizzazione di contestazioni, ovvero di circostanziate riserve. Sempre secondo tale orientamento di legittimità, ove il contribuente verificato intendesse contestare la “materialità dei fatti e non considerazioni tecniche o giuridiche”, dovrebbe tempestivamente formulare, ai sensi dell'art. 12: comma 4: osservazioni e rilievi (da assumere nel verbale giornaliero delle operazioni) e comma 7: osservazioni e richieste (da assumere nel p.v.c. conclusivo del controllo o, comunque, da comunicare nei 60 giorni successivi alla “legale scienza”: per consegna o notifica, del p.v.c.), della L. 212/2000; infatti, “la partecipazione alle operazioni di verifica senza contestazioni equivale sostanzialmente ad accettazione delle stesse e dei loro risultati. Non occorre per questo un'accettazione espressa, ma soltanto la mancanza di contestazioni”. (vds. Cass. 1286/2004).
Poichè, non può revocarsi in dubbio che osservazioni, rilievi e richieste sono gli strumenti procedimentali previsti dalla legge per le contestazioni del soggetto sottoposto a controlli fiscali (accessi, ispezioni e verifiche extra moenia -- Diverso potrebbe essere il caso di controlli fiscali c.d “intra moenia”, “in ufficio” o “a tavolino”, non espressamente contemplati dall'art. 12, L. n. 212/2000, nonostante la portata generale dell'art. 24, L. n. 4/1929: “Le violazioni delle norme contenute nelle leggi finanziarie sono constatate mediante processo verbale”), in caso di rifiuto alla propria richiesta verbalizzazione, il contribuente che partecipa alle operazioni di verifica può rivolgersi al Garante del contribuente ai sensi del comma 6, stesso articolato, chiedendo che questi proceda ai sensi dell'art. 12, cc. 9 (richiami) e 11 (avvio procedimento disciplinare) stessa legge, oppure, ove ravvisi estremi di reato, alla Procura della Repubblica. Senza neppure volere qui affrontare il caso di un contribuente che partecipi solamente alla prima parte della verifica, rendendosi assente (Non esiste un onere generalizzato di partecipazione (nel senso di essere presenti) ai controlli fiscali) alla parte conclusiva di redazione del verbale, e quindi rendendo necessaria la notifica - anziché la consegna - del PVC, la ritenuta valenza confessoria potrebbe avere ingresso limitatamente alle ipotesi di cui all'art. 12, comma 4, L. n. 212/2000 (osservazioni e rilievi durante l'attività ispettiva partecipata), rimanendo inconciliabile con le ipotesi di cui ai successivi commi 6 (esposti al Garante del contribuente) e, soprattutto, 7 (osservazioni e richieste formulabili nei 60 giorni - spatium adimplendi per il contribuente e periodo di improcedibilità per l'ente fiscale - successivi alla consegna/notifica del verbale). Pertanto, la valenza della firma del contribuente al verbale di constatazione, andrebbe funzionalmente collegata e limitata alla specifica efficacia giuridica del processo verbale: la pubblica fede per i fatti e gli atti ivi attestati dall'ufficiale rogante; la sottoscrizione (nel caso di consegna a mani) del soggetto sottoposto a controllo, esattamente come nel caso di notifica, varrebbe soltanto ai fini della legale scienza, per il seguito a praticare. La consulenza tecnica di parte
La consulenza tecnica di parte (perizia stragiudiziale), quale prova atipica, pur non avendo piena efficacia probatoria ha comunque un residuale valore meramente indiziario (Trib. Piacenza, sent. 598 del 21 settembre 2009). “Nel vigente ordinamento, dominato dal principio del libero convincimento del giudice, non è a questi vietato di porre a fondamento della decisione una perizia stragiudiziale, anche se contestata dalla controparte (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3677 del 07/06/1980), purché fornisca adeguata motivazione di tale sua valutazione (Cass, Sez. L, Sentenza n. 2574 del 03/03/1992)”. Cass. Civ. n. 26550/2011.
“Il giudice di merito può legittimamente tenere conto, ai fini della sua decisione, delle risultanze di una consulenza tecnica acquisita in un diverso processo, anche di natura penale (“Per la formazione del proprio convincimento il giudice di merito può utilizzare anche le prove e gli accertamenti raccolti in diverso giudizio tra le stesse parti o tra altre parti e, quindi, può trarre elementi di convincimento anche da una perizia svolta in un procedimento penale” - Cass. 18131/2004, in Guida al Diritto, 2004, pagg. 46 ed 85, massima) ed anche se celebrato tra altre parti, atteso che, se la relativa documentazione viene ritualmente acquisita al processo civile, le parti di quest'ultimo possono farne oggetto di valutazione critica e stimolare la valutazione giudiziale su di essa” Cass. 28855/2008.
“Nell'ordinamento processuale vigente manca una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova. Ne consegue che il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove cosiddette atipiche, purché idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti, se ed in quanto non smentite dal raffronto critico -riservato al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato- con le altre risultanze del processo. In particolare, il giudice del merito può trarre elementi di convincimento anche dalla parte della consulenza d'ufficio eccedente i limiti del mandato, ma non sostanzialmente estranea all'oggetto dell'indagine in funzione della quale è stata disposta”. Cass. Civ., n. 5965/2004. La consulenza di parte, ancorché confermata sotto il vincolo del giuramento*, costituisce una semplice allegazione difensiva di carattere tecnico, priva di autonomo valore probatorio, con la conseguenza che il giudice di merito, ove di contrario avviso, non è tenuto ad analizzarne e a confutarne il contenuto, quando ponga a base del proprio convincimento considerazioni con esso incompatibili e conformi al parere del proprio consulente. (Cass. Civ., n. 2063/2010). Relativamente alla consulenza tecnica d'ufficio, secondo Cass. Civ., n. 13401/2005, “se al consulente è conferito l'incarico dì accertare fatti non altrimenti accertabili che con l'impiego di tecniche particolari, il consulente è percipiente, la consulenza costituisce fonte diretta di prova ed è utilizzabile al pari di ogni altra prova ritualmente acquisita al processo”; in senso conforme ex plurimis: Cass. Civ., nn. 1512/2003, 11332/2003 e 9522/1996. Continua Cass. Civ., n. 2663/2013, secondo cui: “La consulenza tecnica d'ufficio [...] rappresenta una fonte oggettiva di prova quando si risolve nell'accertamento di fatti rilevabili unicamente con l'ausilio di specifiche cognizioni o strumentazioni tecniche”.
Provvedimento del Garante del contribuente
Tra le c.d. prove atipiche (quantomeno per l'accertamento della responsabilità processuale aggravata), rara avis è il provvedimento del Garante del contribuente, che si può ritenere prossimo alla consulenza tecnica nella forma del parere pro veritate. “Accade spesso che alcuni contribuenti, che hanno già impugnato dinanzi alla giurisdizione tributaria l'atto impositivo o si accingano ad impugnarlo, chiedano l'intervento del Garante, non tanto per sollecitare l'intervento in autotutela per l'annullamento dell'atto quanto per munirsi di un parere del Garante sulla questione sottoposta all'esame del Giudice tributario, che sia poi destinato ad incidere, nella loro prospettazione, sulla decisione* del Giudice. …L'autotutela, invero, può essere esercitata dall'amministrazione anche in pendenza di controversia giurisdizionale e persino in presenza di giudicato, con il solo limite che esso non sia favorevole nel merito all'amministrazione: il Garante, dotato, ai sensi dell'art. 13 dello Statuto, di poteri di “attivazione delle procedure di autotutela”, può quindi legittimamente rilasciare il proprio parere”**. (Antonio Simone, Garante del contribuente in Lombardia. Diritto e Pratica Tributaria, fasc. 3/2019, pag. 1191).
Processo tributario e processo penale
Il procedimento/processo tributario non può essere sospeso per la pendenza del processo penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipenda la relativa definizione (art. 20, d.lgs. 74/2000), e viceversa. A tale separatezza* fa eccezione la c.d. circolazione della prova (vds. Ctr Lomb. nn. 0954/26/2018, 2711/26/2018 e 3005/26/2019**), in virtù della quale le informazioni raccolte nell'uno possono essere utilizzate nell'altro ambito, per essere poste a fondamento delle relative decisioni, secondo le diverse proprie autonome discipline.
Secondo Cass. nn. 28174/2017, 16262/2017, 8129/2012 e 9109/2002, "nel processo tributario da un lato vigono limiti legali in materia di prova (non essendo ammessa quella per testimoni ed il giuramento ex art. 7comma quarto D.Lgs.vo 546/92 e, in precedenza, ex art. 35 comma quinto d.P.R. n. 636/1972) e dall'altro trovano ingresso, con rilievo probatorio, in materia di determinazione del reddito d'impresa e nel ricorso di specifiche circostanze - fra le quali la complessiva inattendibilità delle scritture contabili - anche presunzioni semplici (art. 39 comma secondo d.P.R. n. 600/1973). Rilevano, cioè, delle presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, il cui simultaneo ricorrere è invece indispensabile ai fini di una rituale formazione di siffatta prova così nel processo civile (art. 2729 comma primo c.c., con riguardo alle presunzioni non legali) come nel processo penale (l'art. 192 comma secondo c.p.p. prevede infatti che l'esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi non siano gravi, precisi e concordanti). Sicché l'orientamento di legittimità ormai costante e che il Collegio pienamente condivide è nel senso che il Giudice tributario non può limitarsi a rilevare l'esistenza di una sentenza irrevocabile di condanna o di assoluzione dell'imputato in materia di reati tributari e ad estendere automaticamente gli effetti della stessa con riguardo all'azione accertatrice del singolo Ufficio tributario, ma, nell'esercizio dei propri autonomi poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti (art. 116 c.p.c.), deve in ogni caso verificarne la rilevanza nell'ambito specifico in cui il compendio probatorio è appunto destinato ad operare”.
Secondo recente giurisprudenza della sezione tributaria della Suprema Corte, Ordinanza n. 17536 del 28/06/2019: “nel processo tributario, la sentenza penale irrevocabile di assoluzione dal reato tributario, emessa con la formula "perchè il fatto non sussiste", come pure quella di condanna (Cass. 8129/2012, 2938/2015, 10945/2005), non spiega automaticamente efficacia di giudicato, ancorchè i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l'Amministrazione finanziaria ha promosso l'accertamento nei confronti del contribuente, ma può essere presa in considerazione come possibile fonte di prova dal giudice tributario, il quale nell'esercizio dei propri poteri di valutazione, deve verificarne la rilevanza nell'ambito specifico in cui detta sentenza è destinata ad operare (Cass. Civ., n. 10578/2015), sicchè tale sentenza rappresenta un semplice elemento di prova, liberamente valutabile in rapporto alle ulteriori risultanze istruttorie, anche di natura presuntiva (Cass., 24 novembre 2017, n. 28174; Cass., 13 febbraio 2015, n. 2938; Cass., 27 febbraio 2013, n. 4924; Cass., 28 ottobre2016, n. 21873)” ...”la denuncia di violazione o falsa applicazione dell'art 2729 c.c. può essere, poi, prospettata sotto più profili (Cass.Civ., sez. un., 24 gennaio 2018, n. 1785). Il giudice di merito può affermare che un ragionamento presuntivo può basarsi anche su presunzioni che non siano gravi, precisi e concordanti, incorrendo in un errore di diretta violazione della norma. Il Giudice di merito può, poi, fondare la presunzione su un fatto storico privo di gravità o di precisione o di concordanza ai fini della inferenza dal fatto noto alla conseguenza ignota, sì che la censura ricade ancora nell'art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c.” …ove “la critica al ragionamento presuntivo del giudice di merito si concreta in una attività diretta solo ad evidenziare che le circostanze di fatto avrebbero dovuto essere ricostruite in altro modo, allegando una inferenza probabilistica diversa da quella applicata dal giudice… in tal caso la censura impinge in un apprezzamento di merito, che riguarda la quaestio facti e si pone nel solco del vizio della motivazione ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass.Civ., sez.un., 8053 e 8054 del 2014).
In conclusione
Concludendo, è bene rilevare come, correlato all'onere della prova a carico di parte processuale attrice e parte convenuta - di cui in premessa - l'art. 115, c.1, c.p.c., preveda l'onere di contestazione (l'art. 115 non prevede una nuova ipotesi di prova legale - artt. 2700, 2702, 2705, 2709, 2712, 2713, 2714, 2715, 2720, 2733, 2734, 2735, 2738 c.c., nonchè art. 239 c.p.c.), che vincola il giudice in ordine all'efficacia, né un'ipotesi di presunzione legale (art. 2727 c.c.), che incide sulla diversa distribuzione dell'onere della prova, ma una “valutazione della non contestazione”, impugnabile con ricorso in cassazione per error in procedendo. La mancata contestazione dei fatti allegati da controparte, produce un triplice effetto: 1) esonero dall'onere probatorio per il deducente; 2) valore di ammissione implicita per il contestatore; 3) obbligo di ritenere il fatto provato -senza alcuna istruttoria al riguardo- per il giudice, sanzionabile per ultrapetizione ex art. 112, c.p.c. (Cass. 1540/2007).
L'effetto probatorio del fatto non contestato, non è neppure una “sanzione” processuale, perchè resta superabile dall'ordinario bilanciamento con eventuali prove contrarie, esattamente come ogni altra prova consegnata al giudice, che ne apprezzerà prudentemente ogni valenza), disponendo che, fatti "salvi i casi previsti dalla legge [c.c. 2736; c.p.c. 117, 118, 213, 240, 241, 257, 258, 317, 439 e 464]*, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita", per i quali ogni mancata contestazione costituisce una relevatio ab onere probandi (c.d. fatti pacifici. L'equiparazione del fatto non contestato al fatto pacifico vale anche per i fatti fondanti le eccezioni del convenuto, che l'attore deve tempestivamente contestare; analogo ragionamento vale anche per l'eventuale intervento del terzo che, dopo essersi costituito, può autonomamente contestare ogni allegazione di controparte, quant'anche non contestata dalle altre parti avverse, già costituite. Il potere officioso non può riguardare fatti pacifici, sottratti, come tali, all'istruttoria, così come non può esplicarsi mediante una prova atipica o non voluta dalle parti, né per sminuire una prova già espletata. (Cass., Sez. Un., nn. 11353/2004 e 8202/2005). L'art. 115 c.p.c. (relevatio ab onere probandi)fa testualmente riferimento alla non contestazione della “parte costituita”; a contrariis, tale principio non trova applicazione per il “non costituito” (la cui equivalente condizione “contumaciale” del c.p.c. non è una ficta confessio ma bensì una ficta litis contestatio). Secondo alcuni autori, anche la confessione è una relevatio ab onere probandi, come la mancata contestazione di cui all'art. 115, c.p.c.. e non un mezzo di prova in senso stretto), escludendo tali fatti dal thema probandum.
Secondo Ctr Lomb. Sent. n° 309/1/2017: «L'art. 23, c.3, D.Lgs. n. 546/1992, prevedendo che: “nelle controdeduzioni la parte resistente espone le sue difese prendendo posizione sui motivi dedotti dal ricorrente e indica le prove di cui intende valersi, proponendo altresì le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio ...” è compatibile con il principio di non contestazione, deducibile dagli art. 167, 416, 186-bis, nonchè 115 c.p.c., trattandosi di un principio generale applicabile anche al processo tributario in forza del rinvio dinamico di cui all'art.1, c.2, D.Lgs. n. 546/1992 (Cass. 16345/2013). Ctr Lombardia, n. 309/1/2017, continua:…“Nel vigente ordinamento processuale i fatti allegati da una delle parti vanno considerati "pacifici" -e quindi possono essere posti a fondamento della decisione- quando siano stati esplicitamente ammessi dalla controparte oppure quando questa pur non avendoli espressamente contestati abbia tuttavia assunto una posizione difensiva assolutamente incompatibile con la loro negazione, così implicitamente ammettendone l'esistenza.” Cass. 5488/2006.» Per le parti che possono liberamente disporre del diritto controverso, l'onere di contestazione ne è un effetto naturale e quindi tale onere non può trovare applicazione nei casi di: 1) diritti indisponibili, appunto perché le parti non ne possono disporre [Nel processo tributario, le parti resistenti - attrici sostanziali del giudizio - non possono disporre dell'obbligazione tributaria; pertanto, la loro mancata contestazione acquisirebbe il diverso gradiente di qualsiasi altro argomento di prova, se a tale principio non fosse indistintamente riconosciuto carattere generale dall'art. 115 c.p.c., in virtù del rinvio dinamico di cui all'art. 1, c. 2, D.lgs. n. 546/1992; ne va riconosciuta, quindi, l'applicazione anche al processo tributario. (vds. Cass. Civ. n. 5488/2006)] 2) forma scritta ad substantiam, perché il giudice deve rilevare d'ufficio la nullità; 3) contumacia, perché la ficta confessio è incompatibile con l'effettiva facoltà di contestazione. In caso di contumacia del convenuto, infatti, i fatti allegati e dedotti non specificamente contestati, non restano esclusi dal "thema probandum", perché il sistema processuale non riconosce a tale condizione alcuna valenza confessoria (Cass. Ord. 22461/2015). La mancata contestazione, fondata sulla volontà della parte, non può così presumersi, mancando un onere* alla costituzione; quindi, la neutralità della condizione contumaciale priverebbe di ogni significato la mancata negazione dei fatti dedotti. Peraltro, la contumacia non è neppure prevista** nel processo tributario, giudizio d'impugnazione-merito nel quale il resistente resta l'attore sostanziale –ancorché non costituito- che ha già motivato l'atto emesso e poi impugnato (la “vocatio in jus” del rito civile è sostituita nel rito tributario dalla “vocatio iudicis”). Infatti, investita della questione di legittimità dell'art. 23, D.lgs. n. 546/1992, la Corte Costituzionale ha stabilito con ordinanza n. 144/2006 che la costituzione tardiva del resistente nel processo tributario, può “dare luogo, se così prevede la legge e nei limiti in cui lo preveda, a decadenze sia di tipo assertivo che probatorio, ma mai a una irreversibile dichiarazione di contumacia, del tutto sconosciuta all'ordinamento”; ciò non configura un ingiustificato privilegio per la parte resistente, per la diversa posizione che assumono, in un processo di tipo impugnatorio -come quello tributario- il ricorrente ed il resistente. Ha precisato la Suprema Corte che “la costituzione tardiva comporta «la decadenza dalla facoltà di chiedere o svolgere attività processuali eventualmente precluse, dovendo in tal caso il convenuto o appellato accettare il processo nello stato in cui si trova»”. (La Suprema Corte, chiarito con Cass. 12363/2010 che la contestazione sarebbe un'eccezione in senso proprio e quindi soggetta a preclusioni, con Cass. nn. 7329/2003, 5191/2008, 13079/2008 e 12363/2010 ha puntualizzato che la costituzione tardiva comporta la preclusione a poter sollevare eccezioni -processuali e di merito- non rilevabili d'ufficio e con Cass. nn. 5191 e 13079 del 2008 (argomentando ex art. 167 c.p.c.) ha stabilito che l'onere di contestazione deve essere assolto nella prima difesa utile. Vedi anche Cass. nn. 21059/2007 e 20952/2008)
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