Codice Civile art. 1596 - Fine della locazione per lo spirare del termine.

Gian Andrea Chiesi

Fine della locazione per lo spirare del termine.

[I]. La locazione per un tempo determinato dalle parti cessa con lo spirare del termine, senza che sia necessaria la disdetta.

[II]. La locazione senza determinazione di tempo non cessa, se prima della scadenza stabilita a norma dell'articolo 1574 una delle parti non comunica all'altra disdetta nel termine fissato [dalle norme corporative o, in mancanza, in quello determinato] (1) dalle parti o dagli usi.

(1) Le disposizioni richiamanti le norme corporative devono ritenersi abrogate in seguito alla soppressione dell'ordinamento corporativo.

Inquadramento

La locazione è il contratto con il quale una parte si obbliga a far godere all'altra una cosa mobile o immobile per un dato tempo, verso un determinato corrispettivo: come ampiamente chiarito nel commento all'art. 1571 c.c., si assiste, dunque, ad uno scambio, protratto nel tempo, tra la concessione in godimento di una cosa ed il pagamento di un corrispettivo (il cd. canone o pigione), i cui predicati – come detto – portano a discorrerne in termini di contratto a) consensuale, b) ad effetti meramente obbligatori, c) a prestazioni corrispettive, d) oneroso e e) di durata (ovvero, seguendo le definizioni codicistiche, ad esecuzione continuativa o periodica).

La protrazione “per un dato tempo” (v. l'art. 1571 c.c.) del rapporto rappresenta, cioè, una condizione essenziale affinché il contratto possa realizzare la sua stessa funzione: dalla riconduzione della locazione a tale categoria di contratti conseguono, poi, alcuni effetti, quali 1) la non retroattività degli eventi che producono scioglimento del vincolo rispetto all'esecuzione già avvenuta, 2) la risolubilità per eccessiva onerosità sopravvenuta, 3) la sospensione della controprestazione nel caso di non esecuzione parziale della prestazione per causa non imputabile, 4) la decorrenza della prescrizione, nell'ipotesi di prestazione reiterata, dalle singole scadenze, 5) l'applicabilità della rinnovazione tacita e della proroga.

Sulla configurazione in tal senso del contratto di locazione è chiara anche la giurisprudenza (Cass. III, n. 3019/1996), la quale ha evidenziato che la locazione ha natura di contratto ad esecuzione continuata, non concretandosi il contratto locatizio nella mera corresponsione del canone, ma integrandosi anche nel godimento del bene (protrattosi nel tempo), rivelandosi inconferente a tale riguardo la circostanza che i canoni vengano corrisposti quando ormai è stata pronunziata la risoluzione della locazione.

La disposizione in commento prevede, in particolare, un doppio regime di cessazione degli effetti negoziali, a seconda che la locazione abbia una durata predeterminato o meno: in tal senso la norma va coordinata il precedente art. 1574 c.c. che detta alcune regole suppletive per determinare la durata minima del rapporto negoziale, nel caso in cui le parti non vi provvedano convenzionalmente, onde prevenire declaratorie di nullità del contratto per difetto di un elemento essenziale.

Non esistono, infatti, vere e proprie locazioni a tempo indeterminato, poiché tutte le locazioni hanno, in realtà, una durata, fissata dai contraenti ovvero, in difetto, stabilita dall'art 1574 c.c. Sicché, quando il locatore convenga in giudizio il conduttore per far valere pretese connesse ad una locazione di durata indeterminata (e, cioè, legale) e il conduttore eccepisca invece una locazione di durata convenzionale, il locatore-attore non è tenuto a fornire alcuna prova in ordine alla scadenza del contratto, in quanto il rapporto locatizio rispetto al quale non risulti obbiettivamente dimostrata la fissazione di una data di scadenza è da ritenersi, ope legis, sottoposto alla durata legale e il conduttore-convenuto non può validamente resistere alla pretesa se non provando l'esistenza di un termine di scadenza negoziale diverso da quello stabilito dalla legge (Cass. III, n. 434/1978).

In sostanza, il doppio regime per le locazioni disciplinate dal codice civile può essere ricostruito nel senso per cui a) la locazione per un tempo determinato dalle parti cessa con lo spirare del termine, senza che sia necessaria la disdetta, mentre b) la locazione senza determinazione di tempo non cessa, se prima della scadenza stabilita a norma dell'art. 1574 c.c. una delle parti non comunica all'altra disdetta nel termine fissato dalle parti o dagli usi.

Nell'ambito della legislazione speciale concernente gli immobili urbani (e, dunque, della l. n. 431/1998, per le locazioni ad uso abitativo, e della l. n. 392/1978, per gli immobili ad uso diverso), invece, il regime è unitario, nel senso che, in mancanza di tempestiva disdetta, il contratto si rinnova automaticamente.

Locazioni a tempo determinato e locazioni senza determinazione di tempo nel sistema del codice civile

Prima di affrontare le tematiche specifiche relativa alla disposizione in esame, occorre qualche chiarimento in ordine alla durata delle locazioni, attingendo agli artt. 1573 e 1574 c.c.

L'art. 1573 c.c. (il quale riproduce l'art. 1571 del codice civile del 1865) contiene una norma di chiusura, stabilendosi ivi che, salvo diverse norme di legge, la locazione non può stipularsi per un tempo eccedente i trenta anni e che, se la stessa è stata stipulata per un periodo più lungo o in perpetuo, è ridotta entro il rispetto di tale termine massimo: è, dunque, da escludere una locazione perpetua (Cass. III, n. 434/1978).

La previsione di tale durata massima palesa, con evidenza, il disvalore che il legislatore nutre per i contratti costitutivi di diritti personali, di durata tale da determinare forme di godimento perpetuo o, comunque, di carattere rilevante (Tabet 1982, 1009), la ratio di tale limitazione dovendosi rinvenire nella volontà di evitare che, attraverso la previsione di una durata eccessiva, venga sacrificata la libertà di iniziativa economica del locatore (Guarino, 32).

La giurisprudenza ha, invero, ampliato l'ambito di operatività della norma, precisando che la nullità dalla stessa contemplata opera sia nel caso in cui la durata ultratrentennale derivi dal termine originariamente assegnato al contratto, sia nel caso in cui essa consegua all'imposizione di limiti più o meno stringenti all'esercizio del potere di recesso alla scadenza: così, ad esempio, è stata ritenuta nulla, per contrasto con l'art. 1573 c.c., la clausola del contratto di locazione relativo ad immobile adibito a cabina di trasformazione dell'energia elettrica, con cui si neghi la possibilità di recesso fino a quando il locatore usufruisca di energia derivante da detta cabina, trattandosi di condizione unilaterale risolutiva del rapporto, gravante sul solo locatore (Cass. III, n. 20985/2012). Principio che – a ben vedere – rinviene il proprio fondamento in un precedente intervento di legittimità (Cass. III, n. 2137/2006) per cui il limite massimo previsto dall'art. 1573 c.c. deve intendersi applicabile non solo quando sia stata pattuita sin dall'inizio una durata eccedente i trenta anni ma anche quando, pur pattuita una durata inferiore, sia stata in contratto altresì prevista la rinnovazione del rapporto per un numero indeterminato di volte, in quanto la pattuizione della rinnovazione è valida ed efficace soltanto nei limiti temporali del trentennio, altrimenti realizzandosi attraverso la pattuizione di successive rinnovazioni proprio ciò che la norma ha inteso escludere in occasione della prima stipulazione del rapporto, con conseguente elusione del divieto dalla stessa norma stabilito: sicché, qualora le parti abbiano inserito nel contratto la clausola secondo cui il locatore sia vincolato a non fare cessare il contratto alla scadenza se non per determinate proprie necessità, il decorso di un trentennio dal suo inizio comporta che, ove il rapporto alla scadenza si sia rinnovato per il periodo successivo, di esso ben può legittimamente darsi disdetta indipendentemente dal verificarsi delle indicate necessità.

Sempre l'art. 1573 c.c., peraltro, facendo applicazione del principio per cui la legge speciale deroga alla norma di carattere generale, sottrae alla propria operatività i casi in cui il legislatore espressamente consente la stipulazione di contratti di locazione di durata ultratrentennali, ipotesi ricondotte alle fattispecie disciplinate dagli artt. 1607c.c. (che consente, nell'ipotesi di case per abitazione, la stipulazione di contratti di locazione per tutta la durata della vita dell'inquilino e per i due anni successivi alla sua morte) e 1629 c.c. (che prevede, nel caso di affitto di fondi rustici destinati al rimboschimento, un termine massimo di novantanove anni).

L'art. 1574 c.c., invece, affronta il problema della durata della locazione dal lato prospettico – inverso rispetto a quello testé esaminato – del tempo minimo di godimento del bene, nel caso in cui le parti non indichino una durata convenzionale del rapporto negoziale.

La norma è diretta a preservare la validità del contratto privo dell'elemento essenziale della durata, con funzione evidentemente integrativa della volontà delle parti (Tabet 1982, 1011): in tal senso si è detto che la norma, più che porre una presunzione legale, introduce autoritativamente l'elemento essenziale della durata (Tabet 1982, 1011). Contra, però, si è chiarito (Guarino, 35) che “i termini fissati dagli artt. 1574 e 1630 c.c. non possono considerarsi suppletivi di un elemento essenziale, che sarebbe nella specie il termine convenzionale tralasciato dalle parti. A prescindere dalle difficoltà che solleva la costruzione della clausola terminale come elemento essenziale (o sia pure, come altri dicono, naturale) del contratto, basta riflettere che l'apposizione del termine non è certamente ritenuta indispensabile nell'affitto (non di fondi rustici) e che, d'altro canto, il legislatore non è affatto contrario a che la locazione in senso stretto e l'affitto di fondi rustici possano essere tacitamente prorogati. Più consono al sistema sembra il considerare i termini degli artt. 1574 e 1630 c.c. come presunzioni legali”.

In sostanza, “il legislatore del 1942 ha capovolto la disciplina previgente ed ha inteso regolamentare la mancata individuazione del termine finale della locazione attraverso la predeterminazione della cadenza temporale raccordata alle diverse tipologie del rapporto. Insomma, il codice civile non conosce più locazioni senza determinazione di tempo, giacché queste, attraverso l'art. 1574 c.c., si convertono anch'esse in locazioni a tempo determinato. Un'analoga soluzione è stata introdotta per l'affitto di fondi rustici (art. 1630 c.c.), mentre la disciplina dell'affitto in generale ammette il recesso dal contratto previo congruo avviso (art. 1616 c.c.)” (così Di Marzio, Falabella, 217).

L'art. 1574 c.c. prevede, in particolare, quattro diverse ipotesi, distinguendo a seconda della tipologia di contratto stipulato senza determinazione della durata minima; in particolare: a) se si tratta di case senza arredamento di mobili o di locali per l'esercizio di una professione, di una industria o di un commercio, il contratto si intende stipulato si per la durata di un anno, salvi gli usi locali; b) se si tratta di camere o di appartamenti mobiliati, il contratto si intende stipulato per la durata corrispondente all'unità di tempo a cui è commisurata la pigione; c) se si tratta di cose mobili, il contratto si intende stipulato per la durata corrispondente all'unità di tempo a cui è commisurato il corrispettivo; d) se si tratta di mobili forniti dal locatore per l'arredamento di un fondo urbano, il contratto si intende stipulato per la durata della locazione del fondo stesso.

La disciplina suppletiva in commento ha, in ogni caso, una rilevanza limitata e residuale, dovuta all'introduzione di inderogabili previsioni contenute, per le locazioni ad uso abitativo, dapprima nella l. n. 392/1978 ed ora nella l. n. 431/1998 e, per le locazioni ad uso diverso, nell'art. 27 della l. n. 392/1978.

L'estensione della portata di tali norme speciali – e, dunque, del carattere sostanzialmente recessivo della disciplina dell'art. 1574 c.c. – è consacrata in numerose decisioni della giurisprudenza di legittimità, ove si osservato che la scarsa rilevanza dell'art. 1574 c.c. è dovuta, per l'appunto, alla circostanza che pressoché tutte le locazioni, o per previsione contrattuale o per l'intervento normativo, hanno una determinata efficacia nel tempo (Cass. III, n. 434/1978; nella giurisprudenza di merito, in senso conforme, Trib. Bari, 19 febbraio 2008): sicché all'omessa pattuizione del termine finale della locazione, supplisce ancora, in linea di principio, l'art. 1574 c.c., ma in primo luogo per come integrato dalla legislazione speciale (e, in specie, dagli artt. 1, 26 e 27 della l. n. 392/1978: così Cass. III, n. 2022/1984).

Ad ulteriore riprova di quanto precede si consideri, ad esempio, quanto affermato da Cass. III, n. 13483/2011, per cui la disciplina di cui alla l. n. 431/1998 trova applicazione per tutte quelle locazioni che soddisfano il bisogno primario della disponibilità di un alloggio, indispensabile per la stessa estrinsecazione della persona umana, e le sole eccezioni sono quelle da essa stessa previste; sicché essa si applica anche alla locazione per abitazione ad uso di seconda casa, caratterizzata dalla protratta permanenza del conduttore per cospicui periodi dell'anno ed anzi dalla tendenziale fruizione dell'immobile secondo le disponibilità del tempo libero di quegli senza uno schema prefissato, in quanto finalizzata a soddisfare esigenze abitative certamente complementari, ma di rango uguale a quelle della prima casa, in quanto relative al tempo libero e quindi al soddisfacimento di interessi e passioni dell'individuo e quindi funzionali al pieno sviluppo della sua personalità. Analogamente, per le locazioni ad uso diverso, Cass. III, n. 24035/2009 afferma che l'applicabilità della disciplina di cui agli art. 27 ss. della l. n. 392/1978 deve essere affermata quando, pur in difetto di un rapporto pertinenziale (in senso proprio), risulti un collegamento funzionale di detto immobile con una delle attività contemplate dal citato art. 27, svolta in altro locale di cui il conduttore abbia la disponibilità a qualsiasi titolo (proprietà, locazione con altro locatore, comodato ecc.), e risulti altresì che tale collegamento, ancorché discendente da un'autonoma iniziativa del conduttore, debba considerarsi legittimo, sulla base delle originarie clausole contrattuali, ovvero del successivo comportamento delle parti, quale una cosciente tolleranza del locatore ai sensi dell'art. 80 della l. n. 392 citata.

La disdetta

La norma introduce, quale elemento cui è collegata, per le locazioni senza determinazione di durata, la cessazione degli effetti negoziali, l'istituto della disdetta; esso è stato, poi, ripreso dalla legislazione speciale in relazione alla locazione degli immobili urbani, tanto ad uso abitativo quanto ad uso diverso, che ne ha però radicalmente mutato l'ambito di operatività, prevedendo l'obbligo di disdetta anche in relazione alle locazioni a termine, pena la rinnovazione automatica del contratto.

Si tratta di un atto negoziale unilaterale recettizio, concretantesi in una manifestazione di volontà che, al di fuori dei casi di forma legale o convenzionale (v. l'art. 1352 c.c.), può essere comunicata anche verbalmente: essa deve essere inequivocabilmente idonea a manifestare (alla controparte) la volontà di non rinnovare il contratto alla scadenza. Può essere contenuta anche in un atto processuale (quale, ad esempio, l'atto di intimazione di licenza per finita locazione) che tale volontà presupponga, con la conseguenza che, in tal caso, il mandato alle liti conferito al difensore va riferito non solo alla rappresentanza processuale, ma anche alla rappresentanza negoziale dell'istante, la cui sottoscrizione non è pertanto necessaria perché l'atto consegua altresì l'effetto di una disdetta. Trattandosi di atto unilaterale recettizio, essa soggiace – quanto alla sua conoscenza – alla disciplina dell'art. 1335 c.c.

Nel sistema del codice civile, inoltre, la disdetta può essere intimata da entrambe le parti del rapporto, mentre nella legislazione speciale, al potere di disdetta del locatore si contrappone la facoltà di recesso del conduttore (v. infra).

La dottrina è concorde nel ricostruire la disdetta in termini di atto avente natura unilaterale e recettizia, che produce, quale effetto, la mancata rinnovazione del rapporto locatizio alla scadenza; secondo un orientamento (Tabet, 1972, 725; contra, però, Provera, 398), inoltre, l'intimazione della disdetta andrebbe ricondotta alla figura dell'onere. Nella disciplina codicistica – si rinvia infra. per l'analisi della normativa speciale – non è previsto un termine entro il quale essa debba essere inviata (cosicché la congruità del preavviso potrà esser sindacata in sede giudiziale) e, soprattutto, ricevuta dal conduttore, con la conseguenza che se ne è tratta per cui la notifica al conduttore può essere eseguita anche nell'imminenza della scadenza del termine legale della locazione (Provera, 377).

Sostanzialmente conforme è la posizione della giurisprudenza, per la quale la disdetta relativa al contratto di locazione costituisce atto negoziale unilaterale e recettizio, espressione di diritto potestativo attribuito ex lege, concretantesi in una manifestazione di volontà diretta ad impedire la prosecuzione o la rinnovazione tacita del rapporto locativo (Cass. III, n. 409/2006; Cass. III, n. 263/2011). Trattandosi di atto unilaterale, dunque, essa è soggetta all'applicazione tanto dell'art. 1399 c.c. (Cass. III, n. 2510/2005, nei casi in cui proviene dal falsus procurator, la disdetta del contratto di locazione, quale atto unilaterale di natura negoziale, può essere pertanto ratificata dal soggetto interessato, ai sensi dell'art. 1399 c.c., applicabile, in virtù del rinvio contenuto nell'art. 1324 c.c., anche agli atti unilaterali, con effetto retroattivo nei confronti del conduttore, il quale non è terzo estraneo al rapporto e non può, quindi, avvalersi della disposizione del comma 2 dell'art. 1399 c.c., che, facendo salvi i diritti dei terzi, si riferisce solo ai soggetti estranei al rapporto tra rappresentante rappresentato e controparte; v. anche Cass. III, n. 6075/1995), quanto dell'art. 1424 c.c. (per cui una disdetta nulla in relazione alla scadenza oggetto di intimazione, ben può convertirsi in una disdetta valida per la successiva scadenza contrattuale, recando il contenuto inequivocabile della manifestazione di volontà contraria alla prosecuzione e alla rinnovazione del rapporto; arg. da Cass. III, n. 13641/2004).

In virtù del principio generale di libertà della forma, la disdetta – salvo l'ipotesi di particolari formalità richieste dalla legge o pattuite contrattualmente (art. 1352 c.c.) – può essere indifferentemente comunicata per iscritto o verbalmente e, pertanto, in un'ipotesi di contestata validità della comunicazione della disdetta per difetto di sottoscrizione dal locatore spetta al giudice accertare con ogni mezzo se, sul piano della prova, la manifestazione negoziale, quale che sia il mezzo adoperato, abbia comunque raggiunto lo scopo di mettere a conoscenza il conduttore dell'intenzione inequivocabile del locatore di porre fine al contratto, senza che possa a tal fine rilevare la disciplina della scrittura privata (art. 2702 c.c.) e la mancanza di sottoscrizione (Cass. III, n. 9916/1994). Del pari, la disdetta può essere contenuta anche in un atto processuale (quale l'atto di intimazione di licenza o sfratto per finita locazione, o la citazione in giudizio – v. Cass. III, n. 4036/2013 e Cass. III, n. 26526/2009; nella giurisprudenza di merito, Trib. Salerno 13 febbraio 2013), giacché in tale atto si esprime la volontà del locatore contraria ad un'eventuale proroga o rinnovazione del rapporto Cass. III, n. 19410/2016 si spinge, anzi, finanche ad affermare che la richiesta giudiziale di cessazione del rapporto è idonea a costituire disdetta del contratto anche se proposta in alternativa ad altra domanda di rilascio del cespite perché occupato sine titulo, atteso che tale circostanza non vale ad escludere, ove ritenuta persistente la locazione, l'inequivoca volontà di riottenere la disponibilità del bene manifestata dal locatore nell'atto processuale. In simili ipotesi, peraltro, il mandato alle liti conferito al difensore va riferito non solo alla rappresentanza processuale, ma anche alla rappresentanza negoziale dell'istante, la cui sottoscrizione non è pertanto necessaria perché l'atto consegua altresì l'effetto di una disdetta: sicché, in ultima analisi, la procura al difensore concessa per l'intimazione di sfratto può contenere anche la successiva richiesta di disdetta, in quanto da essa si trae l'inequivoca volontà del locatore di non rinnovare il contratto (così Cass. VI/III, n. 28471/2017). Ne consegue che gli effetti della disdetta sul piano sostanziale permangono anche ove fosse dichiarata l'estinzione del processo (Cass. III, n. 26526/2009; Cass. III, n. 9666/1997).

È un atto recettizio, che produce i propri effetti – dunque – solo dal momento in cui perviene al destinatario, salva una diversa pattuizione delle parti: ne consegue che deve ritenersi tardiva la disdetta spedita prima del termine contrattualmente previsto per l'esercizio della relativa facoltà, ma pervenuta al destinatario successivamente a tale data (Cass. III, n. 8006/2009).

La disdetta ha, dunque, la funzione di impedire la prosecuzione o la rinnovazione del contratto di locazione: quest'ultima caratteristica è particolarmente evidente nell'ambito della legislazione speciale sugli immobili urbani, laddove gli artt. 3 della l. n. 431/1998 e 29 della l. n. 392/1978 espressamente ricollegano tale conseguenza alla mancanza di disdetta (eventualmente motivata, ove si tratti di prima scadenza contrattuale).

La disdetta intimata per una scadenza che si riveli erronea o invalida (Cass. III, n. 7352/1997; Cass. III, n. 14486/2008), ovvero quella priva dei motivi di diniego quando previsti (Cass. III, n. 7927/2004), vale anche – in difetto di specifici ed univoci elementi contrari, quali una condotta successiva non equivoca (v. infra quanto alla rinnovazione del rapporto locatizio) – per la prima scadenza ad essa successiva, che si riveli corretta e non bisognosa della specificazione di motivi. Anzi, è stato altresì chiarito che il giudice, ove accerti che, per erronea indicazione ovvero per avvenuta rinnovazione del contratto, l'effettiva data di scadenza dello stesso sia posteriore a quella indicata nell'atto di intimazione di licenza per finita locazione o di sfratto, può dichiarare la cessazione del contratto per una data successiva, senza, per questo, incorrere nel vizio di extra o ultra petizione (Cass. III, n. 684/2010).

Essa, invece, non determina lo scioglimento del contratto in corso (Cass. III, n. 8006/2009, cit.): sicché, ricevuta regolare e tempestiva disdetta dal locatore, non può riconoscersi al conduttore la facoltà di decidere unilateralmente di far cessare il rapporto anticipatamente, sottraendosi, senza il consenso del locatore medesimo, alle proprie obbligazioni; in tale ipotesi, infatti, il suo interesse a non perdere le occasioni che gli fossero date in epoca anteriore alla scadenza (in relazione alla quale era stato esercitato il diniego di rinnovo) non può essere perseguito addossandone il costo al locatore, ma può essere soddisfatto, in base alle valutazioni di convenienza dello stesso conduttore, con la “perdita” costituita dalla immanenza dell'obbligazione del medesimo conduttore di pagare il canone fino alla scadenza (ovvero fino alla data anteriore alla quale il locatore accetti la restituzione), alla quale maturerà, peraltro, il suo diritto alla corresponsione dell'indennità per la perdita dell'avviamento commerciale, con il relativo onere a carico del locatore (così Cass. III, n. 17681/2011, sia pure in tema di locazione ad uso diverso; nell'occasione, peraltro, la Corte prosegue osservando che la diversa scelta del conduttore di non versare più il canone locativo integra inadempimento e – nel caso in cui il locatore abbia promosso un giudizio di sfratto per morosità – la causa dell'effetto risolutivo ad una data anteriore rispetto alla scadenza non è riconducibile alla volontà del locatore, bensì all'inadempimento dello stesso conduttore che, perciò, non può vantare – in dipendenza della disciplina dettata dall'art. 34 della citata l. n. 392/1978 – più alcun diritto alla corresponsione dell'indennità di avviamento alla scadenza, essendosi il contratto risolto, in dipendenza di una condotta a lui addebitabile, prima di quella data).

L'efficacia della disdetta è collegata al rispetto del termine di sua ricezione da parte del conduttore, quale previsto dalla normativa codicistica o speciale.

Una disdetta che non sia idonea, per inosservanza di tale termine, a produrre la cessazione della locazione per la scadenza voluta dal locatore, conserva, però, l'efficacia di produrre la cessazione del rapporto per la successiva scadenza (Cass. III, n. 12607/2018). In caso di contratto di locazione senza determinazione di tempo, la disdetta dovrà essere inoltrata – salva diversa pattuizione – nel termine fissato dagli usi che, ai sensi dell'art. 1574, n. 3) c.c., va individuato nell'unità di tempo a cui è commisurato il corrispettivo (Trib. Bari 4 ottobre 2006).

Segue. La rinunzia alla disdetta

Per concludere sul punto, infine, gli effetti collegati alla ad una valida e tempestiva disdetta possono essere oggetto di rinunzia da parte del locatore, sì da determinare la prosecuzione del rapporto negoziale con il conduttore. Si riconosce pacificamente, cioè, che l'efficacia solutoria della locazione conseguente alla tempestiva ricezione della disdetta possa essere oggetto di rinunzia, con l'effetto di ritenere il rapporto rinnovato o proseguito come se la disdetta non fosse mai stata inviata.

Un referente normativo rispetto a tale conclusione si rinviene nel comma 3 dell'art. 1597 c.c., alla cui stregua se è stata data “licenza”, il conduttore non può opporre la tacita rinnovazione, salvo che consti la volontà del locatore di rinnovare il contratto: sicché, se prima dello scadere del termine viene data “licenza”, il contratto non si rinnova, anche se il godimento prosegue dopo la scadenza.

Molto si è discusso, invero, in ordine al concetto di detta “licenza”, richiamato dall'art. 1597, comma 3, cit.: se essa debba essere intesa in senso stretto, quale atto notificato dall'ufficiale giudiziario al conduttore su impulso del locatore, ovvero in senso più ampio, quale sinonimo di disdetta.

Pur rinviando per l'esame approfondita della relativa questione al commento all'art. 1597 c.c., va in questa sede chiarito che la questione è stata risolta a favore di quest'ultima impostazione, essendosi ritenuto – Cass. III, n. 14453/2001 – che per la configurabilità della “licenza”, impeditiva della rinnovazione tacita del contratto di locazione, ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 1597 c.c., non è necessario che il locatore intimi giudizialmente al conduttore il rilascio, essendo al medesimo fine idonea la manifestazione della volontà negoziale di non rinnovare il contratto, ossia l'intimazione della disdetta, la quale, pertanto, si rileva giuridicamente equipollente all'espressione letterale “licenza” usata nella predetta norma. In motivazione, la Corte chiarisce, infatti, che la distinzione tra “licenza” e “disdetta” non ha alcun fondamento, giacché, secondo la comune opinione (confermata, peraltro, dall'art. 4 della l. n. 203/1982, che correttamente qualifica l'atto idoneo a produrre l'effetto ostativo alla rinnovazione del rapporto di affitto in termini, per l'appunto, di “disdetta”), l'espressione “licenza”, contenuta nell'ultimo comma dell'art. 1597 c.c., va intesa nel senso di “disdetta”, e non vuole quindi affatto alludere all'istituto processuale dell'intimazione di licenza per finita locazione, atta a promuovere il procedimento di convalida (art. 657, comma 1, c.p.c.), o, in genere, all'atto introduttivo della causa civile di rilascio. In altri termini, nessuna differenza sostanziale sussiste tra la disdetta dì cui all'art. 1596 c.c. e la licenza di cui parla l'ultimo comma dell'art. 1597 c.c., la quale, al pari della prima, ha come effetto di impedire la rinnovazione tacita del contratto.

Consegue da quanto precede, dunque, che il consenso alla rinnovazione del rapporto può derivare da una dichiarazione espressa o da un comportamento concludente.

A tal fine, però, non è sufficiente che il locatore non abbia agito in giudizio per il rilascio ed abbia continuato a percepire i canoni di locazione, occorrendo piuttosto una volontà contraria a quella manifestata, sì da evitare che la permanenza del conduttore nell'immobile costituisca occupazione di fatto dello stesso (Cass. III, n. 269/1998): occorre, in altri termini, il concorso della volontà del locatore e del conduttore, non essendovi alcuna norma che riconosca al locatore un potere unilaterale di revoca della disdetta che abbia già prodotto i propri effetti (in termini, Pret. Vicenza 6 febbraio 1988, per cui nelle locazioni a tempo indeterminato, a togliere validità ed efficacia alla disdetta non basta la revoca della stessa da parte del disdettante, ma occorre il consenso della controparte, la quale per il solo fatto di aver ricevuto regolare comunicazione della disdetta stessa, che essa non ha bisogno di accettare con dichiarazione alcuna, è legittimata a valersene, avendo acquistato il diritto alla cessazione del contratto). Così, Cass. III, n. 10542/2014 evidenzia come tale volontà possa manifestarsi a) attraverso un negozio formale, nel quale le parti si danno atto che la disdetta deve intendersi priva di effetti, se la cessazione si sia verificata, ovvero inidonea a determinare la cessazione, se la relativa scadenza (per cui è stata inviata) non si sia ancora verificata e che, dunque, il rapporto si deve o si dovrà considerare tacitamente rinnovato come lo sarebbe stato se la disdetta non fosse (mai) stata inviata e fosse scattata la tacita rinnovazione ai sensi della previsione di legge regolatrice oppure b) attraverso comportamenti significativi di natura negoziale tacita, implicanti la concorde volontà delle parti di determinare quello stesso effetto (nella specie, la Corte ha escluso che la richiesta del locatore, successiva alla ricezione della disdetta ad opera del conduttore, sebbene in prossimità della scadenza, di aggiornamento del canone sia un atto di per sé compatibile con il perdurare dell'effetto di cessazione dell'originario rapporto, in quanto lo stesso è diretto unicamente ad assicurare al locatore che, qualora il conduttore non rilasci alla scadenza, nell'indennità di occupazione dovuta ai sensi dell'art. 1591 c.c. sia compreso detto aggiornamento. Del pari, Cass. III, 2373/2016, muovendo dalla premessa per cui la rinnovazione tacita del contratto di affitto agrario non è desumibile dal solo fatto della permanenza dell'affittuario nel fondo oltre la scadenza del termine, occorrendo anche che manchi una manifestazione di volontà contraria da parte del concedente, ha osservato – con principio estensibile al di la dell'ipotesi di affitto agrario – che, qualora questi abbia manifestato con la disdetta la volontà di porre fine al rapporto, la rinnovazione non può desumersi dalla perdurante permanenza nel fondo da parte dell'affittuario o dalla circostanza che il concedente abbia continuato a percepire il canone senza proporre tempestivamente azione di rilascio, occorrendo, invece, un comportamento positivo idoneo ad evidenziare una nuova volontà, contraria a quella precedentemente esternata per la cessazione del rapporto.

Segue. La disdetta in caso di parte locatrice plurisoggettiva

Applicazione particolare di quanto appena esposto, in relazione alla conclusione di un contratto di locazione da parte di più soggetti a latere locatoris, si rinviene con precipuo riferimento alla locazione di beni comuni.

L'art. 1102, comma 1, prima parte c.c. consente al comunista di servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto; la seconda parte del medesimo comma prevede, poi, la possibilità, per il singolo condomino/comunista, di apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il [proprio] migliore godimento della cosa.

Il rispetto della norma richiede, quindi, l'osservanza di una duplice condizione: a) non devono essere realizzate modificazioni (nel senso che il comunista non può da solo né stabilire, né alterare la destinazione originaria della cosa comune); b) deve essere rispettato il pari godimento degli altri condomini. A rendere illecito l'uso basta, pertanto, il mancato rispetto dell'una o dell'altra prescrizione (Cass. II, n. 14633/2012; Cass. II, n. 19205/2011; Cass. II, n. 3188/2011), mentre, ove tali limiti siano rispettati, il singolo condomino può servirsi del bene comune anche per fini esclusivamente propri, traendone ogni possibile utilità (Cass. II, n. 6458/2019).

In aggiunta (o, meglio, in sostituzione) all'utilizzazione ordinaria (siccome contestuale e perfettamente paritetica) dei beni comuni va dato conto dell'esistenza di modalità d'uso “alternative” di essi, sinteticamente descrivibili in termini di uso “frazionato”, “turnario” ed “indiretto”.

Con tale ultima locuzione, si intende indicare, in senso proprio, l'eventualità per cui i comunisti, considerata la natura della cosa comune (ad esempio, un appartamento, in cui, evidentemente, non si può pretendere che i contitolari del diritto abbiano la voglia o la possibilità di convivere), non possono godere direttamente del bene e, pertanto, addivengono ad una soluzione diversa, preferendo, piuttosto, una sua utilizzazione indiretta (così, nell'esempio proposto, i comunisti decidono di locare l'abitazione ad un terzo, dividendo tra di loro il provento della locazione in misura proporzionale al valore della quota di ciascuno). Detto in altri termini, l'impossibilità di uso diretto del bene comune da parte di tutti i comproprietari – anche attraverso frazionamenti spazio/temporali – rappresenta il presupposto giustificativo del ricorso a questa forma di uso dei beni comuni, che può essere disposto per consenso unanime dall'assemblea a maggioranza dei partecipanti alla comunione, o eventualmente, dall'autorità giudiziaria, cui ciascun comunista può ricorrere. L'uso indiretto ha, dunque, carattere residuale, nel senso che può essere disposto con deliberazione a maggioranza dei partecipanti alla comunione (o, in mancanza, dal giudice, cui ciascuno di questi può ricorrere) soltanto quando non sia possibile l'uso diretto dello stesso bene per tutti i partecipanti alla comunione, proporzionalmente alla loro quota, promiscuamente ovvero con sistema di turni temporali o frazionamento degli spazi, con conseguente nullità, ove assunta in mancanza di tali condizioni della delibera assembleare che, a semplice maggioranza, disponga l'uso indiretto della cosa in comunione (Cass. II, n. 22435/2011; Cass. II, n. 15460/2002; Cass. II, n. 4131/2001; Cass. II, n. 6010/1984), in quanto adottata in violazione dell'art. 1102 c.c. a mente del quale ciascun comproprietario ha diritto all'uso diretto del bene. Ove, al contrario, ricorrano i suddetti presupposti, la delibera può essere assunta a maggioranza – sempre che quello oggetto della delibera si configuri in termini di atto di ordinaria amministrazione (esempio: locazione infranovennale del bene comune: Cass. II, n. 4131/2001).

Caso classico di uso indiretto della cosa comune è rappresentato, per l'appunto, dalla locazione di essa ad uno solo dei comproprietario ovvero ad un terzo: in tale evenienza, trovando applicazione il dettato di cui all'art. 1108 c.c., ove si tratti di locazioni aventi durata ultranovennale, occorre il consenso di tutti i partecipanti alla comunione mentre per la conclusione di locazioni di durata infranovennale è stata ritenuta sufficiente anche la volontà di uno solo dei comproprietari, senza la necessità di alcun passaggio assembleare, in virtù del principio della concorrenza – in difetto di prova contraria – di pari poteri gestori da parte di tutti i comproprietari, sulla base della presunzione che ognuno di essi operi con il consenso degli altri (Cass. II, n. 1986/2016; Cass. II, n. 9113/1995), rispondendo, peraltro, a regole di comune esperienza che uno o alcuni dei comproprietari gestiscano, con il consenso degli altri, gli interessi di tutti, mentre l'eventuale mancanza di poteri o di autorizzazione rileva nei soli rapporti interni fra i comproprietari e non può essere eccepita alla parte conduttrice che ha fatto affidamento sulle dichiarazioni o sui comportamenti di colui o di coloro che apparivano agire per tutti.

Il principio ha trovato conferma, peraltro, anche in materia tributaria, essendosi chiarito che, in ipotesi di locazione stipulata da un solo comproprietario, alla richiesta di registrazione del contratto, nonché al pagamento della relativa imposta, sono tenuti, ai sensi degli artt. 3, comma 1, lett. a), 10, comma 1, lett. a), e 57, comma 1, del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, tutti i contraenti, in solido tra loro, dovendosi intendere per tali anche gli altri comproprietari dell'immobile concesso in locazione, presumendosi, fino a prova contraria, che la locazione sia stata stipulata con il consenso di tutti e, quindi, sia, ex latere locatoris, unitaria (Cass. V, n. 4580/2015). Ciò implica che l'unico limite alla libertà negoziale del singolo condomino va individuato nel rispetto di una diversa e contraria volontà della maggioranza dei compartecipi (Cass. II, n. 2363/1992).

Tale doppio regime si spiega, in particolare, attraverso il richiamo all'art. 1572 c.c., che individua nella locazione ultranovennale un atto eccedente l'ordinaria amministrazione: il che implica, mediante una lettura a contrario della norma, che la locazione infranovennale deve considerarsi quale atto di ordinaria amministrazione, con l'ulteriore conseguenza che ne discende per cui, in assenza di norme derogative, trova applicazione la disciplina dettata dall'art. 1105, comma 1, c.c. e, in virtù del quale tutti i partecipanti hanno diritto di concorrere nell'amministrazione della cosa comune.

Cionondimeno, sono stati comunque ritenuti efficaci i contratti di locazione stipulati dal singolo comunista, anche se con durata ultranovennale, con la precisazione, però, che seppure in tal caso la locazione della cosa comune sorge validamente, resa comunque salvo il diritto degli altri comproprietari ad agire per il risarcimento dei danni nei contri del condomino-locatore, ove la sua attività risulti pregiudizievole agli interessi della comunione (Cass. II, n. 5890/1982).

Può accadere, ancora, che il contratto di locazione di un bene comune venga concluso direttamente dall'amministratore, in assenza di specifico mandato assembleare: ove si tratti di locazione infranovennale e, dunque, di un atto di ordinaria amministrazione, la Suprema Corte ha concluso per l'efficacia e la validità del contratto, essendo possibile conseguire la finalità del miglior godimento delle cose comuni (art. 1106 c.c.) anche attraverso l'accrescimento dell'utilità del bene mediante la sua utilizzazione indiretta.

Peraltro, in materia condominiale (quale forma particolare di comunione) il principio è stato ulteriormente ove l'amministratore del condominio abbia locato il bene condominiale in assenza di un preventivo mandato che lo abilitasse a tanto, è valida la ratifica del suddetto contratto di locazione disposta dall'assemblea dei condomini con deliberazione adottata a maggioranza semplice e non qualificata (Cass. II, n. 10446/1998).

Può darsi, ancora, il caso che la stipulazione del contratto di locazione avvenga tra la comunione (ovvero il condominio) ed uno dei comproprietari (dunque, un soggetto che non può certamente considerarsi terzo rispetto alla parte locatrice).

In una simile evenienza, la giurisprudenza è estremamente chiara nel precisare che, quand'anche venga pronunciata risoluzione del contratto per scadenza del termine o inadempimento del conduttore, questi – avendo diritto al godimento dello stesso in proporzione della sua quota di proprietà – non può essere condannato al rilascio del bene medesimo agli altri comproprietari, restando, invece, ai comunisti la facoltà di disciplinare l'ordinaria amministrazione della cosa comune senza privare alcuno dei contitolari del bene delle sue facoltà di godimento (Cass. III, n. 6405/1999; Cass. III, n. 8110/1991).

Segue. La disdetta in caso di locazione che configuri una prestazione accessoria ad altro contratto: la casa del portiere

Regime giuridico particolare, infine, è quello che si delinea per la concessione al portiere (ma anche al guardiano o al custode, v. Cass. III, n. 3680/1984) di un alloggio sito all'interno dello stabile condominiale ed all'uopo destinato che, ove non appartenente in proprietà esclusiva ad alcuno dei condomini, si “presume” comune, exart. 1117, n. 2) c.c.

Lungi dal potersi configurare, in tal caso, un rapporto locatizio tipico, si ritiene comunemente essersi in presenza di una prestazione accessoria al contratto di portierato, del quale segue le sorti essendo a questo funzionalmente collegata, costituendone un parziale corrispettivo (Cass. lav., n. 18649/2012). Tale patto accessorio, dunque, non integra gli estremi di un autonomo contratto di locazione, ma segue le sorti del contratto cui accede, con conseguente obbligo di rilascio del'immobile al momento della cessazione del rapporto di lavoro (Trib. Milano 6 dicembre 2016; Trib. Firenze 13 gennaio 2015), potendo il condominio, in persona dell'amministratore pro tempore eventualmente agire con la speciale procedura prevista dall'art. 659 c.p.c. (Cass. III, n. 1768/2012; Cass. III, n. 7162/1991; Cass. III, n. 4780/1985).

In altri termini, la concessione in uso dell'alloggio per l'espletamento delle mansioni di portierato o di pulizia dello stabile costituisce una prestazione accessoria del rapporto di lavoro, la quale perde automaticamente la sua obbligatorietà e non è più dovuta con la cessazione del medesimo rapporto, che ne è il necessario presupposto (Celeste, 223).

Da tale peculiare inquadramento della fattispecie e dalla sua non riconducibilità allo schema della locazione (o del comodato) consegue l'inapplicabilità della relativa disciplina, anche per quanto concerne la fissazione della data dell'esecuzione del provvedimento di rilascio, ai sensi dell'art. 55 della l. n. 392/1978 (Pret. Salerno-Eboli 12 giugno 1997; Pret. Bologna 4 giugno 1981) o per la previa disdetta (Cass. III, n. 330/1973; Trib. Napoli 20 giugno 1985) o per le disposizioni dell'art. 1597 c.c. in tema di rinnovazione tacita (Cass. lav., n. 1674/1986): né ciò determina una possibile discriminazione rispetto agli altri tipi di rapporti locatizi, con conseguente profilarsi di una questione di legittimità costituzionale in relazione all'art. 3 Cost., giacché – come detto – il godimento trova la sua fonte nel contratto del lavoro e non in un contratto di locazione, sì che resta giustificata la diversità di trattamento assicurata delle rispettive normative.

La cessazione del rapporto, peraltro, può avvenire per qualunque causa, sia che si tratti, dunque, del licenziamento o del decesso del portiere (in questo caso l'azione di rilascio, in caso di mancata spontanea restituzione, andrà proposta contro gli eredi), che della soppressione del servizio di portierato o sostituzione con altro similare, al fine di destinare aliunde i relativi locali. In relazione al licenziamento, il relativo potere rientra tra le attribuzioni dell'amministratore, ai sensi dell'art. 1130, n. 2) c.c., con possibilità, per l'assemblea chiamata a ratificarne l'operato, di revocare il licenziamento. Il licenziamento, deciso dall'amministratore o deliberato dall'assemblea, va comunque comunicato per iscritto al portiere, e non posto direttamente in esecuzione con il suo allontanamento, altrimenti spettando al lavoratore stesso, che abbia continuato ad offrire la prestazione al condominio, le retribuzioni non percepite (Cass. lav., n. 14949/2000). Avuto riguardo alla soppressione del servizio, invece, la giurisprudenza è ondivaga, nel senso che, mentre in alcuni casi si è ritenuto che solo l'assemblea, con la maggioranza prevista dall'art. 1136, comma 5, c.c., possa deliberare la modificazione (o la soppressione) del servizio di portierato – nel rispetto, peraltro, dei principi fissati dall'art. 1120 c.c. per le innovazioni e senza arrecare a taluno dei condomini vantaggi o svantaggi diversi rispetto agli altri (Cass. II, n. 88/2002; Cass. II, n. 5083/1993; Cass. II, n. 4437/1985); in altri frangenti si è sostenuto che, qualora il servizio di portierato sia previsto nel regolamento di condominio, comportando la sua soppressione una modificazione del regolamento, occorre la maggioranza ex art. 1136, comma 2, c.c. (Cass. II, n. 12290/2001; Cass. II, n. 3708/1995).

Nel delineare il perimetro operativo dell'art. 659 c.p.c. la giurisprudenza ha avuto anzitutto modo di chiarire che sull'esecuzione della conseguente obbligazione restitutoria non può incidere il mancato adempimento, da parte del datore di lavoro, alla obbligazione, derivante da una particolare pattuizione che lo vincoli a concedere in locazione all'ex dipendente un'altra abitazione o, in caso di non disponibilità di alloggi, a corrispondergli un'indennità sostitutiva, giacché la mancata restituzione dell'alloggio di servizio non ha alcuna fonte di legittimazione, dato che il lavoratore può solo vantare il diritto alla stipulazione di un contratto di locazione relativamente ad un diverso immobile, mentre mancano i presupposti per la proposizione da parte sua di un'eccezione di inadempimento, poiché un nesso di corrispettività è configurabile solo nell'ambito di un medesimo rapporto contrattuale. D'altra parte, il godimento dell'abitazione rimarrebbe privo di causa e neanche potrebbe farsi valere un diritto di ritenzione, facoltà giuridica non rispondente ad un principio generale e prevista dalla legge, in via eccezionale, solo in fattispecie determinate (Cass. lav., n. 8477/1996). La particolare procedura ex art. 659 c.p.c. è, inoltre, applicabile anche quando il datore di lavoro conceda al lavoratore il godimento di un immobile con contratto distinto rispetto a quello di lavoro subordinato, purché sussista un collegamento tra i due contratti, il cui accertamento è riservato all'apprezzamento di fatto del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione concreta, coerente e completa (Cass. III, n. 6800/2003). È stato infine controverso, nel passato, se la speciale procedura monitoria potesse applicarsi in ogni caso di cessazione del rapporto, dovuto a qualunque motivo, o solo ai casi di scadenza del termine del contratto ovvero anche nel caso di licenziamento nel contratto a tempo indeterminato. Intervenuta sul punto, Corte cost., n. 238/1975 ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma, nella parte in cui non distingueva tra le varie ipotesi di cessazione del rapporto e, specificamente, tra quella di scadenza del termine e quella di licenziamento illegittimo, affermando che, “in entrambi i casi, il rilascio dell'immobile, osservandosi la procedura speciale dell'art. 659 c.p.c., può essere ordinato solo quando, relativamente allo scioglimento, non esista più contestazione»: il che, detto in altri termini, implica che, in ipotesi di licenziamento, prima di iniziare il procedimento ex art. 659 c.p.c. il rapporto deve essere dichiarato estinto irrevocabilmente in altra sede e, in particolare, l'inadempimento causa del licenziamento del portiere deve essere stato accertato. Così si è ritenuto che la pendenza, innanzi al giudice del lavoro, della controversia relativa alla legittimità del licenziamento, con richiesta di condanna del datore di lavoro alla “riassunzione entro 3 giorni o al risarcimento del danno”, non configuri in concreto elemento ostativo alla pronuncia provvisoria di rilascio, in quanto, anche in caso di accoglimento della domanda del lavoratore, questi non avrebbe diritto comunque alla reintegra nel posto di lavoro, dal momento che «la riassunzione sarebbe comunque alternativa al risarcimento del danno, con opzione in favore dello stesso datore di lavoro eventualmente soccombente” (Trib. Roma 31 gennaio 2005).

La disdetta nella legislazione speciale

Pur rinviando alla relativa trattazione per l'approfondimento delle inerenti tematiche, in questa sede occorre comunque svolgere qualche considerazione in merito alla legislazione speciale volta a regolare l'istituto della disdetta nel caso di locazioni ad uso abitativo e ad uso diverso.

Quanto alla prima macroarea (i.e. locazioni ad uso abitativo), l'istituto rinviene attualmente la propria disciplina negli artt. 2 e 3 della l. n. 431/1998 che rispettivamente si occupano, ai fini che in questa sede rilevano, della disdetta del rapporto alla seconda ed alla prima scadenza.

Muovendo dalla prima ipotesi, alla seconda scadenza contrattuale possono verificarsi tre possibilità: 1) rinnovo espresso del contratto a nuove condizioni, a seguito del fruttuoso esperimento della procedura di cui al secondo periodo del comma 4 dell'art. 2; 2) cessazione del rapporto, quando sia inviata la disdetta, oppure venga proposto un rinnovo a nuove condizioni e l'accordo non venga raggiunto; 3) rinnovazione tacita del rapporto, che quindi prosegue alle medesime condizioni, allorché nessuna delle parti invii tempestiva disdetta, né siano formulate proposte di rinnovo a nuove condizioni.

Avuto precipuo riguardo alla seconda ipotesi innanzi delineata è discusso se la disdetta, comportando l'estinzione di un contratto formale (quale oggi è la locazione ad uso abitativo), debba necessariamente rivestire, a pena di nullità, la forma scritta.

Contraria a tale soluzione è la conclusione della giurisprudenza di legittimità, la quale ha chiarito che l'art. 2, comma 1, della l. n. 431/1998, nel disporre che la disdetta al termine del secondo periodo di durata contrattuale sia effettuata in forma scritta ed inviata a mezzo raccomandata, non ne sanziona l'inosservanza con la nullità, sicché sono ammissibili forme equipollenti purché idonee ad evidenziare all'altra parte la volontà negoziale, derivandone altresì che, ove all'invio della lettera di disdetta provveda un rappresentante della parte, non è necessario il conferimento al medesimo di un mandato in forma scritta (Cass. III, n. 11808/2016).

Quanto, invece, al diniego di rinnovo del contratto alla prima scadenza, esso richiede l'invio di una disdetta motivata. L'art. 3 della l. n. 431/1998 indica, in modo tassativo (e, dunque, insuscettibile di interpretazione analogica) i motivi giustificativi del diniego di rinnovo, con la conseguenza che nella comunicazione di disdetta il locatore, a) a pena di decadenza, deve dichiarare la propria volontà di conseguire la disponibilità dell'immobile al fine di realizzare l'intento manifestato, nonché b) a pena di nullità (assoluta e, dunque, rilevabile d'ufficio), deve specificare la circostanza giustificativa del diniego (v. comma 2, ultima parte, art. 3). Trattandosi di una facoltà riconosciuta ex lege al locatore, non occorre che essa venga prevista nel contratto, con la conseguenza che non rileva come rinuncia implicita la mancata menzione in esso di detta facoltà di disdetta.

Ricade sul locatore l'onere di provare la serietà della dedotta intenzione (Cass. III, n. 10423/1994); l'effettiva destinazione dell'immobile all'uso allegato a fondamento del diniego di rinnovazione alla prima scadenza ex art. 3, comma 1, della l. n. 431/1998 costituisce, infatti, condizione per il valido ed efficace esercizio della corrispondente facoltà potestativa del locatore sul quale, pertanto, grava l'onere di dimostrare la realizzazione dell'indicata finalità (Cass. III, n. 19523/2019). Il giudice, dal canto suo, non deve sindacare la scelta operata dal locatore, né tantomeno compararla con le necessità del conduttore, dovendosi limitare ad accertare la corrispondenza dell'intendimento manifestato alle condizioni di cui all'articolo in commento, nonché l'attuabilità del medesimo. Appare estendibile anche a siffatta materia la tesi, elaborata con riferimento alle locazioni ad uso diverso, orientata a ritenere che sia inammissibi-le un cambiamento o una specificazione del motivo del diniego di rinnovo una volta scaduto il termine utile per la comunicazione della disdetta e, in ogni caso, nel corso del giudizio di rilascio del bene locato (Cass. III, n. 10208/1994; Cass. III, n. 8934/1998).

È consolidato, infine, l'orientamento per cui la disdetta priva della specificazione dei motivi di diniego, intimata per la prima scadenza benché inidonea ad impedire la rinnovazione contrattuale a tale data, è automaticamente valida per quella immediatamente successiva, salvo che dalla disdetta stessa o da un'opposta univoca volontà successiva dell'intimante non risulti una espressa indicazione in senso contrario (Cass. III, n. 27541/2014).

Per quanto concerne, infine, le locazioni ad uso diverso, la disciplina della disdetta – anch'essa modellata sula distinzione tra prima e seconda scadenza – essa rinviene la propria fonte negli artt. 28 e 29 della l. n. 392/1978.

Il recesso

Nel sistema del codice civile – si è detto – la disdetta può essere intimata da entrambe le parti del rapporto mentre, nella legislazione speciale, al potere di disdetta del locatore si contrappone la facoltà di recesso del conduttore.

Per doverosa precisione va, però, evidenziato che l'art. 1612 c.c. disciplina una ipotesi di recesso del locatore, stabilendo che, ove questi si sia riservato la facoltà di recedere dal contratto per abitare egli stesso nella casa locata, debba dare “licenza” (su tale concetto, quale sinonimo di disdetta, ci si è già dilungati nel precedente § 3.1) motivata nel termine stabilito dagli usi locali.

In dottrina v'è chi (Potenza, Chirico, Annunziata, 53) ha sostenuto che la previsione dell'art. 4 della l. n. 392/1978 avrebbe comportato l'abrogazione tacita della richiamata norma codicistica, consentendo il recesso al solo conduttore e chi (Bernardi, Coen, Del Grosso, 39), al contrario, ha limitato tale abrogazione ai contratti soggetti alla disciplina dell'equo canone, mediante una lettura coordinata dell'art. 4 con il precedente art. 1 ed il successivo art. 26 della medesima l. n. 392. Identiche soluzioni, ovviamente, sono state proposte in relazione all'analogo istituto del recesso disciplinato attualmente dall'art. 3, comma 6, della l. n. 431/1998 (che si ritiene abbia implicitamente abrogato l'art. 4, comma 2, della l. n. 329 citata).

Da un punto di vista contenutistico, il recesso (anch'esso negozio unilaterale recettizio), a differenza della disdetta (volta ad impedire la rinnovazione tacita del rapporto), ha la funzione di determinare direttamente – a prescindere, cioè, da una scadenza o dal diniego di rinnovazione (disciplinato dalla legge speciale) – la cessazione anticipata del rapporto negoziale, con la precisazione che i relativi effetti non si estendono alle prestazioni pregresse, che restano acquisite alle parti: si tratta di una applicazione, nella materia locatizia, dell'istituto disciplinato in linea generale dall'art. 1373 c.c. Il recesso del conduttore produce, invece, l'effetto risolutivo del contratto di locazione a far data dal compimento del periodo di preavviso, sicché fino a tale data, il conduttore è tenuto a versare i canoni contrattualmente dovuti, indipendentemente dal momento di materiale rilascio dell'immobile.

Il recesso rappresenta l'atto unilaterale recettizio con il quale una parte comunica all'altra la propria volontà di sciogliersi da un vincolo contrattuale in precedenza assunto: esso costituisce, dunque, esercizio di un diritto potestativo (Cass. II, n. 6558/2010), che trova la propria fonte nella legge ovvero in una specifica previsione negoziale e che consente, eccezionalmente, ex uno latere, di risolvere il contratto (Cass. II, n. 2759/1984). Esso si distingue dalla disdetta (anch'essa atto unilaterale recettizio, volto a determinare lo scioglimento anticipato del contratto) giacché, mentre il recesso impedisce al contratto di addivenire alla sua naturale scadenza, la disdetta impedisce unicamente la rinnovazione tacita del rapporto.

In dottrina (Scarpa 2012) è stato chiarito che la funzione del recesso legale attribuito dagli statuti locativi al conduttore è – evidentemente – quella di preservare quest'ultimo, specialmente tutelato dai precetti di durata minima del rapporto, dal rischio di soffocamento – opposto ma per certi versi equivalente – che la libertà contrattuale della parte debole subirebbe per effetto di un vincolo contrattuale temporaneamente ineliminabile. Proprio dalle condizioni normative poste alla facoltà di recedere del conduttore viene dunque tratta indiretta conferma dell'efficacia vincolante, pure per quest'ultimo, del termine finale del rapporto locativo in tutti gli altri casi, al punto da riconoscere al locatore la legittimazione a dedurre la nullità delle pattuizioni dirette a limitare la durata del contratto di locazione. La Corte Costituzionale, nel dichiarare infondata la questione di costituzionalità, per violazione dell'art. 3 Cost., dell'art. 4, commi 1 e 2, della l. 27 luglio 1978, n. 392, aveva ritenuto ragionevole il più favorevole trattamento serbato dalla legislazione speciale al conduttore, al quale dovrebbe assicurarsi una “sufficiente stabilità” in modo da evitare frequenti cambiamenti di alloggio e soggezione rispetto alle pressioni del locatore dirette ad aumenti del canone. La posizione del conduttore, per quel che attiene al recesso, appariva alla Corte sostanzialmente diversa da quella del locatore, per la notevole disparità di condizioni economiche tra l'uno e l'altro rispetto al mercato edilizio in caso di risoluzione del rapporto, avendo il locatore, nel termine di sei mesi occorrente per il preavviso di recesso del conduttore, agevole possibilità di trovare altro inquilino, che corrisponda lo stesso canone”.

Il diritto di recesso può rinvenire la sua fonte in una disposizione pattizia o legale. A tale riguardo, rinviando per l'approfondimento al relativo commento, il comma 6 dell'art. 3 della l. n. 431/1998, introducendo una forma di recesso legale per le locazioni ad uso abitativo ed implicitamente abrogando l'art. 4 comma 2, della legge sull'equo canone, autorizza il conduttore a recedere dal contratto in qualsiasi momento, purché ricorrano gravi motivi e venga dato preavviso di almeno sei mesi: per il principio dell'omogeneità della forma, nonché per esigenze di certezza e di equità di trattamento fra locatore e conduttore, il recesso va comunicato in forma scritta.

La pressoché totale corrispondenza della norma in esame a quella di cui al richiamato art. 4, comma 2, citato consente di reputare ancora attuale la giurisprudenza della Suprema Corte relativa all'individuazione dei gravi motivi giustificativi del recesso del conduttore i quali presuppongono l'esistenza di fatti estranei alla volontà del conduttore, sopravvenuti alla costituzione del rapporto locativo ed imprevedibili che rendano estremamente gravosa per il conduttore la persistenza del rapporto. La (im)prevedibilità (che può valutarsi limitatamente a quei requisiti del bene di cui le parti possono disporre e non – invece – con riguardo a quelli imposti da norme inderogabili di legge, quali sono le prescrizioni attinenti alla sicurezza degli edifici, v. Cass. III, n. 22886/2007), costituisce oggetto di un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, la cui valutazione è pertanto incensurabile in sede di legittimità ove sorretta da congrua e coerente motivazione (Cass. III, n. 13909/2002; Cass. III, n. 9689/2003). Così, Cass. III, n. 23639/2019 (sia pure in tema di locazione ad uso diverso) chiarisce che le ragioni che consentono al locatario di liberarsi in anticipo del vincolo contrattuale devono essere determinate da avvenimenti estranei alla volontà del conduttore, imprevedibili e sopravvenuti alla costituzione del rapporto, che ne rendano oltremodo gravosa la prosecuzione: la gravosità di tale prosecuzione, che deve avere una connotazione oggettiva, non potendo risolversi nella unilaterale valutazione effettuata dal medesimo conduttore in ordine alla convenienza o meno di continuare il rapporto locativo, deve non solo eccedere l'ambito della normale alea contrattuale, ma consistere, altresì, ove venga in rilievo l'attività di un'azienda, in un sopravvenuto squilibrio tra le prestazioni originarie idoneo ad incidere significativamente sull'andamento dell'azienda stessa globalmente considerata e, quindi, se di rilievo nazionale o multinazionale, anche nel complesso delle sue varie articolazioni territoriali. Del pari, Cass. III, n. 6553/2016 precisa che è illegittimo il recesso dal contratto di locazione se il conduttore non fornisce la prova dell'imprevedibilità dell'evento sopravvenuto integrante grave motivo, ai sensi dell'art. 3, comma 6, della l. n. 431/1998; Cass. III, n. 12291/2014, ancora, chiarisce che i gravi motivi che consentono il recesso del conduttore dal contratto di locazione, ai sensi degli artt. 4 e 27 della l. 27 luglio 1978, n. 392, devono essere determinati da fatti estranei alla sua volontà, imprevedibili e sopravvenuti alla costituzione del rapporto, tali da rendere oltremodo gravosa la sua prosecuzione, potendo consistere anche in molestie di fatto da parte di un terzo, in presenza delle quali il conduttore ha unicamente la facoltà, e non l'obbligo, di agire personalmente contro il terzo stesso ai sensi dell'art. 1585 c.c.. Nel medesimo senso, nella giurisprudenza di merito, Trib. Roma 9 maggio 2014, per cui le ragioni che consentono al locatario di liberarsi del vincolo contrattuale devono essere determinate da avvenimenti estranei alla sua volontà, che siano non solo imprevedibili e sopravvenuti alla costituzione del rapporto, ma anche tali da rendere oltremodo gravosa per il conduttore la sua prosecuzione della locazione: i fatti in questione, tali da rendere oltremodo gravosa la prosecuzione del contratto, devono presentare una connotazione oggettiva, non potendo risolversi nella unilaterale valutazione effettuata dal conduttore in ordine all'opportunità o meno di continuare a occupare l'immobile locato poiché in tal caso si ipotizzerebbe la sussistenza di un recesso ad nutum. Così, ad esempio, è stata ravvisata la sussistenza dei gravi motivi, idonei ad essere sottesi al recesso del conduttore, nella presenza, in alcuni ambienti dell'appartamento locato, di vistosi fenomeni di umidità e di condensa, per la cui consistenza è evidente la compromissione della salubrità dei predetti ambienti (Trib. Bari 30 novembre 2004); nel crollo di parte di intonaco dal soffitto (Trib. Reggio Calabria, 17 maggio 2005); in problemi di salute, purché non meramente transitori (Trib. Modena, 25 gennaio 2013).

Ai fini del recesso, dunque, si riconosce generalmente rilevanza ai soli motivi di natura “oggettiva”, relativi cioè all'oggetto della locazione, non dando invece ingresso ai motivi “soggettivi”, inerenti alla persona del conduttore o del locatore: viene prestata attenzione – cioè – esclusivamente ai presupposti oggettivi generali o specifici del contratto e, quindi alle condizioni di mercato e sociali che si riverberano sull'economia della locazione, come pure alle concrete circostanze cui le parti abbiano subordinato il vincolo negoziale.

Il recesso convenzionale – sempre in caso di locazioni ad uso abitativo – continua, invece, ad essere disciplinato dall'art. 4, comma 1, della l. n. 392/1978. I contraenti sono liberi di convenire che il conduttore possa recedere in qualsiasi momento dal contratto, addossandogli però l'onere di avvisare almeno sei mesi prima il locatore, mediante lettera raccomandata. Anche in tal caso opera una presunzione legale che individua in sei mesi (essendo tuttavia libere le parti di stabilirne uno maggiore) il periodo di tempo minimo occorrente al locatore per provvedere all'utilizzazione dell'immobile in seguito al recesso del conduttore. Essendo il termine semestrale di preavviso fissato dalla legge anche per il recesso convenzionale, rimane valida la comunicazione di recesso pur se priva di riferimento al momento in cui esso avrà esecuzione, laddove un avviso contenente una data di esecuzione del recesso inferiore ai sei mesi (o al maggiore periodo stabilito nel contratto) rimane valido, soltanto differendosene il momento di esecuzione alla scadenza del termine minimo legale convenzionale o a quello o di quello eventualmente pattuito.

Per le locazioni concluse sotto la vigenza della l. n. 431/1998, è però controverso se il termine semestrale di preavviso sia derogabile o meno, stante l'avvenuta contestuale abrogazione dell'art. 79 della l. n. 392/1978 (per la soluzione positiva, Nasini, 830).

Per le locazioni ad uso diverso, invece, la disciplina – sostanzialmente conforme a quella contenuta nell'art. 4 della medesima legge – è contenuta nell'art. 27 della l. n. 392/1978, al cui commento si rinvia.

Segue. Il recesso degli impiegati delle pubbliche amministrazioni

L'art. 1613 c.c. contiene una disposizione dettata specificamente per gli impiegati delle pubbliche amministrazioni in forza della quale questi possono, nonostante patto contrario, recedere dal contratto nel caso di trasferimento: la facoltà si esercita mediante disdetta motivata e il recesso ha effetto dal secondo mese successivo a quello in corso alla data della disdetta.

Si evidenzia in dottrina (Tabet 1972, 343) come si tratti di un'ipotesi di recesso unilaterale ex lege, consentita per le sole locazioni abitative o ad uso diverso, ma in tal caso solo se accessorie alle prime.

La norma è espressione di una tendenza legislativa di favore per la P.A.: nel senso che essa è dettata a tutela di uno specifico interesse della pubblica amministrazione, consistente nell'essere quest'ultima sempre in condizione di disporre il trasferimento dei propri dipendenti (quali, ad esempio, gli appartenenti ad alcuni corpi delle forze dell'ordine) ovunque lo richiedano esigenze organizzative; indirettamente, però, viene ad essere tutelato anche l'interesse del conduttore a non subire danni economici in conseguenza di un trasferimento impostogli dalla P.A.

È stato inoltre osservato (Tabet, 748) che i beneficiari della facoltà di recesso in questione non dovrebbero essere identificati solo negli impiegati pubblici, ma anche nei dipendenti degli enti locali e del privato; ciò, quantomeno, in relazione alle locazioni ad uso abitativo laddove, già ai sensi dell'abrogato art. 4, comma 2, della l. n. 382/1978 e, attualmente, in virtù di quanto previsto dall'art. 3, comma 6, della l. n. 431/1998, la facoltà di recesso è prevista per tutti i conduttori qualora ricorrano gravi motivi (in cui rientra, per l'appunto, il trasferimento.

Il trasferimento non determina, tuttavia, ipso iure l'estinzione anticipata del rapporto locativo, essendo tale effetto subordinato ad una discrezionale valutazione del conduttore il quale, indipendentemente dal trasferimento, potrebbe essere interessato a mantenere la propria famiglia nella medesima abitazione (Visco, 587).

Ne consegue la logicità della previsione contenuta nell'ultima parte del comma 1 dell'art. 1613 c.c., in base alla quale la norma non opera se il trasferimento avvenga dietro richiesta del conduttore.

La previsione è applicabile non solo ai casi di trasferimento d'ufficio, ma anche a quelli di trasferimento promanante dall'amministrazione e al quale il dipendente abbia prestato adesione (Trifone 1984, 546).

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