Codice Civile art. 1597 - Rinnovazione tacita del contratto.

Gian Andrea Chiesi

Rinnovazione tacita del contratto.

[I]. La locazione si ha per rinnovata se, scaduto il termine di essa, il conduttore rimane ed è lasciato nella detenzione della cosa locata o se, trattandosi di locazione a tempo indeterminato [1574], non è stata comunicata la disdetta a norma dell'articolo precedente [1596 2].

[II]. La nuova locazione è regolata dalle stesse condizioni della precedente, ma la sua durata è quella stabilita per le locazioni a tempo indeterminato [1574].

[III]. Se è stata data licenza, il conduttore non può opporre la tacita rinnovazione, salvo che consti la volontà del locatore di rinnovare il contratto (1).

(1) V. art. 80 r.d. 16 marzo 1942, n. 267.

Inquadramento

La locazione è il contratto con il quale una parte si obbliga a far godere all'altra una cosa mobile o immobile per un dato tempo, verso un determinato corrispettivo: come ampiamente chiarito nel commento all'art. 1571 c.c., si assiste, dunque, ad uno scambio, protratto nel tempo, tra la concessione in godimento di una cosa ed il pagamento di un corrispettivo (il cd. canone o pigione), i cui predicati – come detto – portano a discorrerne in termini di contratto a) consensuale, b) ad effetti meramente obbligatori, c) a prestazioni corrispettive, d) oneroso e e) di durata (ovvero, seguendo le definizioni codicistiche, ad esecuzione continuativa o periodica).

La protrazione “per un dato tempo” (v. l'art. 1571 c.c.) del rapporto rappresenta, cioè, una condizione essenziale affinché il contratto possa realizzare la sua stessa funzione: dalla riconduzione della locazione a tale categoria di contratti conseguono, poi, alcuni effetti, quali 1) la non retroattività degli eventi che producono scioglimento del vincolo rispetto all'esecuzione già avvenuta, 2) la risolubilità per eccessiva onerosità sopravvenuta, 3) la sospensione della controprestazione nel caso di non esecuzione parziale della prestazione per causa non imputabile, 4) la decorrenza della prescrizione, nell'ipotesi di prestazione reiterata, dalle singole scadenze, 5) l'applicabilità della rinnovazione tacita e della proroga.

Sulla configurazione in tal senso del contratto di locazione è chiara anche la giurisprudenza (Cass. III, n. 3019/1996), la quale ha evidenziato che la locazione ha natura di contratto ad esecuzione continuata, non concretandosi il contratto locatizio nella mera corresponsione del canone, ma integrandosi anche nel godimento del bene (protrattosi nel tempo), rivelandosi inconferente a tale riguardo la circostanza che i canoni vengano corrisposti quando ormai è stata pronunziata la risoluzione della locazione.

Si è però a più riprese chiarito che l'art. 1573 c.c. (il quale riproduce l'art. 1571 del codice civile del 1865) contiene una norma di chiusura, stabilendosi ivi che, salvo diverse norme di legge, la locazione non può stipularsi per un tempo eccedente i trenta anni e che, se la stessa è stata stipulata per un periodo più lungo o in perpetuo, è ridotta entro il rispetto di tale termine massimo.

È, dunque, da escludere una locazione perpetua (Cass. III, n. 434/1978).

La previsione di tale durata massima palesa, con evidenza, il disvalore che il legislatore nutre per i contratti costitutivi di diritti personali, di durata tale da determinare forme di godimento perpetuo o, comunque, di carattere rilevante (Tabet 1982, 1009), la ratio di tale limitazione dovendosi rinvenire nella volontà di evitare che, attraverso la previsione di una durata eccessiva, venga sacrificata la libertà di iniziativa economica del locatore (Guarino, 32).

Sempre l'art. 1573 c.c., peraltro, facendo applicazione del principio per cui la legge speciale deroga alla norma di carattere generale, sottrae alla propria operatività i casi in cui il legislatore espressamente consente la stipulazione di contratti di locazione di durata ultratrentennali, ipotesi ricondotte alle fattispecie disciplinate dagli artt. 1607 c.c. (che consente, nell'ipotesi di case per abitazione, la stipulazione di contratti di locazione per tutta la durata della vita dell'inquilino e per i due anni successivi alla sua morte) e 1629 c.c. (che prevede, nel caso di affitto di fondi rustici destinati al rimboschimento, un termine massimo di novantanove anni).

Affronta il problema della durata della locazione dal lato prospettico – inverso rispetto a quello testé esaminato – del tempo minimo di godimento del bene, nel caso in cui le parti non indichino una durata convenzionale del rapporto negoziale, il successivo art. 1574 c.c.

La norma è diretta a preservare la validità del contratto privo dell'elemento essenziale della durata, con funzione evidentemente integrativa della volontà delle parti (Tabet 1982, 1011): in tal senso si è detto che la norma, più che porre una presunzione legale, introduce autoritativamente l'elemento essenziale della durata (Tabet 1982, 1011). Contra, però, si è chiarito (Guarino, 35) per cui “i termini fissati dagli artt. 1574 e 1630 c.c. non possono considerarsi suppletivi di un elemento essenziale, che sarebbe nella specie il termine convenzionale tralasciato dalle parti. A prescindere dalle difficoltà che solleva la costruzione della clausola terminale come elemento essenziale (o sia pure, come altri dicono, naturale) del contratto, basta riflettere che l'apposizione del termine non è certamente ritenuta indispensabile nell'affitto (non di fondi rustici) e che, d'altro canto, il legislatore non è affatto contrario a che la locazione in senso stretto e l'affitto di fondi rustici possano essere tacitamente prorogati. Più consono al sistema sembra il considerare i termini degli artt. 1574 e 1630 c.c. come presunzioni legali”.

In sostanza, “il legislatore del 1942 ha capovolto la disciplina previgente ed ha inteso regolamentare la mancata individuazione del termine finale della locazione attraverso la predeterminazione della cadenza temporale raccordata alle diverse tipologie del rapporto. Insomma, il codice civile non conosce più locazioni senza determinazione di tempo, giacché queste, attraverso l'art. 1574 c.c., si convertono anch'esse in locazioni a tempo determinato. Un'analoga soluzione è stata introdotta per l'affitto di fondi rustici (art. 1630 c.c.), mentre la disciplina dell'affitto in generale ammette il recesso dal contratto previo congruo avviso (art. 1616 c.c.)” (così Di Marzio, Falabella, 217).

La disciplina suppletiva in commento ha, in ogni caso, una rilevanza limitata e residuale, dovuta all'introduzione di inderogabili previsioni contenute, per le locazioni ad uso abitativo, dapprima nella l. n. 392/1978 ed ora nella l. n. 431/1998 e, per le locazioni ad uso diverso, nell'art. 27 della l. n. 392 citata.

Su tale complessivo impianto si innesta l'art. 1597 c.c., disposizione che, disciplinando il fenomeno della rinnovazione tacita del rapporto e muovendo dall'idea che, se il conduttore viene lasciato nella detenzione dell'immobile ovvero se non vi è una disdetta, le parti intendono proseguire nel rapporto, agevola tale volontà, escludendo la necessità di una nuova stipula.

La rinnovazione del contratto

Il comma 1 dell'art. 1597 c.c. pone la regola per cui la locazione si ha per rinnovata se a) scaduto il termine di essa, il conduttore rimane ed è lasciato nella detenzione della cosa locata ovvero b) se, trattandosi di locazione a tempo indeterminato, non è stata comunicata la disdetta a norma dell'articolo 1596 c.c.

La norma, dunque, fissa una doppia regola, a seconda che si tratti di locazioni a tempo determinato o indeterminato.

È stato in proposito rilevato, però, che – in fondo – tutti i contratti di locazione sono o divengono – per effetto delle regole suppletive fissate dall'art. 1574 c.c. – a tempo determinato (Mirabelli, 553) e che la distinzione tra locazioni a tempo determinato e non riguarda solo la fonte (convenzionale o legale) per la determinazione del termine. Più precisamente, nel caso in cui la durata del rapporto locatizio sia fissata convenzionalmente la locazione: a) cessa alla scadenza senza necessità di disdetta; b) si ha per rinnovata se il godimento prosegue dopo la scadenza. Al contrario, nel caso in cui si tratti di termine fissato ex lege, il contratto non cessa, ma si rinnova, ovvero nasce un nuovo rapporto di uguale contenuto rispetto al precedente (Mirabelli, 553): in particolare, in questa ipotesi, la mancata rinnovazione consegue ad una fattispecie complessa, derivante dalla combinata azione della disdetta intimata e dello spirare del termine legale per la durata del contratto (Provera, 400).

Per le sole locazioni disciplinate dal codice civile, poi, si è affermato, in dottrina (Provera, 404) che le parti possono convenire – tramite apposite clausole e osservando, ove occorra, le formalità previste dall'art. 1341 c.c.modalità convenzionali di regolamentazione dell'effetto di tacita rinnovazione del negozio come, ad esempio, nel caso in cui riconosca il diritto potestativo di provocare la rinnovazione del contratto ad una sola delle parti contrattuali ovvero si lega l'efficacia della disdetta al suo esercizio entro un termine stabilito. Si è però anche osservato che, nell'ipotesi in cui la facoltà di rinnovare il contratto oltre il trentennio venga vincolata alla volontà di una sola parte, si devono ritenere operanti le ragioni alla base del divieto posto dall'art. 1573 c.c., con conseguente nullità della relativa clausola (Tabet 1972, 280) – si rinvia, per l'approfondimento dell'argomento, al commento all'art. 1573 c.c..

Il comma 3 dell'art. 1597 c.c. detta, infine, una regola di chiusura, alla cui stregua se è stata data “licenza”, il conduttore non può opporre la tacita rinnovazione, salvo che consti la volontà del locatore di rinnovare il contratto: sicché, se prima dello scadere del termine viene data “licenza”, il contratto non si rinnova, anche se il godimento prosegue dopo la scadenza.

Consegue da quanto precede, dunque, che il consenso alla rinnovazione del rapporto può derivare da una dichiarazione espressa o da un comportamento concludente.

A tale riguardo, e con precipuo riferimento al valore da riconoscere all'inerzia del locatore nel pretendere la restituzione del bene, la giurisprudenza ha evidenziato che la norma di cui all'art. 1597, comma 1, c.c. va interpretata nel senso che non è lecito desumere dal solo fatto della permanenza del conduttore dell'immobile oltre la scadenza del termine (contrattuale o legale) la verificazione della fattispecie normativa della rinnovazione tacita prevista dal succitato articolo, e questo anche nel caso in cui il locatore abbia accettato i canoni per il periodo successivo alla scadenza, occorrendo che detti fatti siano corroborati dall'univoco comportamento tenuto da entrambe le parti successivamente alla scadenza del contratto, dal quale possa desumersi la loro inequivoca volontà di mantenere in vita il rapporto locativo (Cass. III, n. 22234/2014) Così, non può ravvisarsi una tacita volontà di prorogare il contratto nella condotta del locatore che, dopo avere intimato licenza per finita locazione, ometta di iscrivere a ruolo l'atto di intimazione (Cass. III, n. 5464/2006), giacché la volontà di prorogare tacitamente il contratto di locazione pervenuto a scadenza può essere, sì, manifestata tacitamente, ma deve essere inequivoca. In sostanza, il semplice fatto della permanenza del conduttore nell'immobile non vale a realizzare la fattispecie della rinnovazione, essendo necessario un concorde comportamento di entrambe le parti, dal quale desumere la loro implicita, ma inequivoca, volontà di mantenere in vita il rapporto locativo (Cass. III, n. 13886/2011; Cass. III, n. 22734/2012). Del pari, Cass. III, n. 9917/1997 ribadisce che, qualora sia stato intimato lo sfratto, non è sufficiente a provare la rinnovazione tacita del contratto di locazione la successiva permanenza del conduttore nella detenzione della res, né il pagamento e l'accettazione dei canoni e neanche il ritardo con cui sia stata promossa l'azione di rilascio, occorrendo altri elementi idonei a far desumere in modo univoco la sopravvenienza di un accordo pattizio in tal senso, dimostrando che il locatore abbia inteso estrinsecare, seppure in modo tacito, la propria volontà, nuova e contraria a quella precedentemente manifestata, di rinunciare agli effetti prodotti con l'intimazione.

Molto si è discusso, invero, in ordine al concetto di detta “licenza”, richiamato dall'art. 1597, comma 3, c.c.: se essa debba essere intesa in senso stretto, quale atto notificato dall'ufficiale giudiziario al conduttore su impulso del locatore, ovvero in senso più ampio, quale sinonimo di disdetta.

In giurisprudenza la questione è stata risolta a favore di quest'ultima impostazione, essendosi ritenuto – Cass. III, n. 14453/2001 – che per la configurabilità della “licenza”, impeditiva della rinnovazione tacita del contratto di locazione, ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 1597 c.c., non è necessario che il locatore intimi giudizialmente al conduttore il rilascio, essendo al medesimo fine idonea la manifestazione della volontà negoziale di non rinnovare il contratto, ossia l'intimazione della disdetta, la quale, pertanto, si rileva giuridicamente equipollente all'espressione letterale “licenza” usata nella predetta norma. In motivazione, la Corte chiarisce, infatti, che la distinzione tra “licenza” e “disdetta” non ha alcun fondamento, giacché, secondo la comune opinione (confermata, peraltro, dall'art. 4 della l. n. 203/1982, che correttamente qualifica l'atto idoneo a produrre l'effetto ostativo alla rinnovazione del rapporto di affitto in termini, per l'appunto, di “disdetta”), l'espressione “licenza”, contenuta nell'ultimo comma dell'art. 1597 c.c., va intesa nel senso di “disdetta”, e non vuole quindi affatto alludere all'istituto processuale dell'intimazione di licenza per finita locazione, atta a promuovere il procedimento di convalida (art. 657, comma 1, c.p.c.), o, in genere, all'atto introduttivo della causa civile di rilascio. In altri termini, nessuna differenza sostanziale sussiste tra la disdetta di cui all'art. 1596 c.c. e la licenza di cui parla l'ultimo comma dell'art. 1597 c.c., la quale, al pari della prima, ha come effetto di impedire la rinnovazione tacita del contratto.

Laddove, dunque, il locatore abbia manifestato, con la disdetta, la sua volontà di porre termine al rapporto, la rinnovazione tacita non può desumersi da una manifestazione tacita di consenso alla permanenza del locatario nell'immobile locato, occorrendo invece un suo comportamento positivo idoneo ad evidenziare una nuova volontà, contraria a quella precedentemente manifestata per la cessazione del rapporto (Cass. III, n. 10946/2003; Cass. III, n. 14810/2004; Cass. III, n. 5464/2006): la permanenza del conduttore nel bene locato ha, infatti, valenza differente a seconda che sia stata data o meno la disdetta alla scadenza contrattuale giacché, in tale seconda ipotesi, essendovi già una manifestazione di volontà del locatore volta alla risoluzione contrattuale, la volontà di rinnovare il contratto deve essere manifestata, se non espressamente, con comportamenti di segno univoco (Cass. III, n. 8159/1995) – e tali non sono la percezione dei canoni per i periodi di occupazione dopo la scadenza contrattuale ovvero il mancato esercizio dell'azione di rilascio, anche per un periodo di tempo considerevole dopo detta scadenza (Cass. III, n. 269/1998). In altri termini, si deve desumere in non equivoco la volontà delle parti di mantenere in vita il rapporto locativo con rinuncia tacita, da parte del locatore, agli effetti prodotti dalla scadenza del contratto (Cass. III, n. 4679/2016; Cass. III, n. 2234/2014).

Segue. La disdetta

La norma – come detto – fa riferimento, quale elemento cui è collegata la cessazione degli effetti negoziali delle locazioni a tempo indeterminato e, in ogni caso, la cessazione della locazione cui sia stata intimata la “licenza” – all'istituto della disdetta; esso, già contemplato dal precedente art. 1596 c.c., è stato, poi, ripreso dalla legislazione speciale in relazione alla locazione degli immobili urbani, tanto ad uso abitativo quanto ad uso diverso, che ne ha però radicalmente mutato l'ambito di operatività, prevedendo l'obbligo di disdetta anche in relazione alle locazioni a termine, pena la rinnovazione automatica del contratto.

Si tratta di un atto negoziale unilaterale recettizio, concretantesi in una manifestazione di volontà che, al di fuori dei casi di forma legale o convenzionale (v. l'art. 1352 c.c.), può essere comunicata anche verbalmente: essa deve essere inequivocabilmente idonea a manifestare (alla controparte) la volontà di non rinnovare il contratto alla scadenza. Può essere contenuta anche in un atto processuale (quale, ad esempio, l'atto di intimazione di licenza per finita locazione) che tale volontà presupponga, con la conseguenza che, in tal caso, il mandato alle liti conferito al difensore va riferito non solo alla rappresentanza processuale, ma anche alla rappresentanza negoziale dell'istante, la cui sottoscrizione non è pertanto necessaria perché l'atto consegua altresì l'effetto di una disdetta. Trattandosi di atto unilaterale recettizio, essa soggiace – quanto alla sua conoscenza – alla disciplina dell'art. 1335 c.c.

Nel sistema del codice civile, inoltre, la disdetta può essere intimata da entrambe le parti del rapporto, mentre nella legislazione speciale, al potere di disdetta del locatore si contrappone la facoltà di recesso del conduttore.

La dottrina è concorde nel ricostruire la disdetta in termini di atto avente natura unilaterale e recettizia, che produce, quale effetto, la mancata rinnovazione del rapporto locatizio alla scadenza; secondo un orientamento (Tabet, 1972, 725; contra, però, Provera, 398), inoltre, l'intimazione della disdetta andrebbe ricondotta alla figura dell'onere. Nella disciplina codicistica – si rinvia infra, per l'analisi della normativa speciale – non è previsto un termine entro il quale essa debba essere inviata (cosicché la congruità del preavviso potrà esser sindacata in sede giudiziale) e, soprattutto, ricevuta dal conduttore, con la conseguenza che se ne è tratta per cui la notifica al conduttore può essere eseguita anche nell'imminenza della scadenza del termine legale della locazione (Provera, 377).

Sostanzialmente conforme è la posizione della giurisprudenza, per la quale la disdetta relativa al contratto di locazione costituisce atto negoziale unilaterale e recettizio, espressione di diritto potestativo attribuito ex lege, concretantesi in una manifestazione di volontà diretta ad impedire la prosecuzione o la rinnovazione tacita del rapporto locativo (Cass. III, n. 409/2006; Cass. III, n. 263/2011). Trattandosi di atto unilaterale, dunque, essa è soggetta all'applicazione tanto dell'art. 1399 c.c. (Cass. III, n. 2510/2005. Nei casi in cui proviene dal falsus procurator, la disdetta del contratto di locazione, quale atto unilaterale di natura negoziale, può essere pertanto ratificata dal soggetto interessato, ai sensi dell'art. 1399 c.c., applicabile, in virtù del rinvio contenuto nell'art. 1324 c.c., anche agli atti unilaterali, con effetto retroattivo nei confronti del conduttore, il quale non è terzo estraneo al rapporto e non può, quindi, avvalersi della disposizione del secondo comma dell'art. 1399 c.c., che, facendo salvi i diritti dei terzi, si riferisce solo ai soggetti estranei al rapporto tra rappresentante rappresentato e controparte; v. anche Cass. III, n. 6075/1995), quanto dell'art. 1424 c.c. (per cui una disdetta nulla in relazione alla scadenza oggetto di intimazione, ben può convertirsi in una disdetta valida per la successiva scadenza contrattuale, recando il contenuto inequivocabile della manifestazione di volontà contraria alla prosecuzione e alla rinnovazione del rapporto; arg. da Cass. III, n. 13641/2004). In virtù del principio generale di libertà della forma, la disdetta – salvo l'ipotesi di particolari formalità richieste dalla legge o pattuite contrattualmente (art. 1352 c.c.) – può essere indifferentemente comunicata per iscritto o verbalmente e, pertanto, in un'ipotesi di contestata validità della comunicazione della disdetta per difetto di sottoscrizione dal locatore spetta al giudice accertare con ogni mezzo se, sul piano della prova, la manifestazione negoziale, quale che sia il mezzo adoperato, abbia comunque raggiunto lo scopo di mettere a conoscenza il conduttore dell'intenzione inequivocabile del locatore di porre fine al contratto, senza che possa a tal fine rilevare la disciplina della scrittura privata (art. 2702 c.c.) e la mancanza di sottoscrizione (Cass. III, n. 9916/1994). Del pari, la disdetta può essere contenuta anche in un atto processuale (quale l'atto di intimazione di licenza o sfratto per finita locazione, o la citazione in giudizio, v. Cass. III, n. 4036/2013 e Cass. III, n. 26526/2009; nella giurisprudenza di merito, Trib. Salerno 13 febbraio 2013), giacché in tale atto si esprime la volontà del locatore contraria ad un'eventuale proroga o rinnovazione del rapporto; Cass. III, n. 19410/2016 si spinge, anzi, finanche ad affermare che la richiesta giudiziale di cessazione del rapporto è idonea a costituire disdetta del contratto anche se proposta in alternativa ad altra domanda di rilascio del cespite perché occupato sine titulo, atteso che tale circostanza non vale ad escludere, ove ritenuta persistente la locazione, l'inequivoca volontà di riottenere la disponibilità del bene manifestata dal locatore nell'atto processuale. In simili ipotesi, peraltro, il mandato alle liti conferito al difensore va riferito non solo alla rappresentanza processuale, ma anche alla rappresentanza negoziale dell'istante, la cui sottoscrizione non è pertanto necessaria perché l'atto consegua altresì l'effetto di una disdetta: sicché, in ultima analisi, la procura al difensore concessa per l'intimazione di sfratto può contenere anche la successiva richiesta di disdetta, in quanto da essa si trae l'inequivoca volontà del locatore di non rinnovare il contratto (così Cass. VI/III, n. 28471/2017). Ne consegue che gli effetti della disdetta sul piano sostanziale permangono anche ove fosse dichiarata l'estinzione del processo (Cass. III, n. 26526/2009; Cass. III, n. 9666/1997).

Segue. Profili disciplinari della disdetta

La disdetta – come detto – è un atto recettizio, che produce i propri effetti, dunque, solo dal momento in cui perviene al destinatario, salva una diversa pattuizione delle parti: ne consegue che deve ritenersi tardiva la disdetta spedita prima del termine contrattualmente previsto per l'esercizio della relativa facoltà, ma pervenuta al destinatario successivamente a tale data (Cass. III, n. 8006/2009).

Essa ha, dunque, la funzione di impedire la prosecuzione o la rinnovazione del contratto di locazione: quest'ultima caratteristica è particolarmente evidente nell'ambito della legislazione speciale sugli immobili urbani, laddove gli artt. 3 della l. n. 431/1998 e 29 della l. n. 392/1978 espressamente ricollegano tale conseguenza alla mancanza di disdetta (eventualmente motivata, ove si tratti di prima scadenza contrattuale).

La disdetta intimata per una scadenza che si riveli erronea o invalida (Cass. III, n. 7352/1997; Cass. III, n. 14486/2008), ovvero quella priva dei motivi di diniego quando previsti (Cass. III, n. 7927/2004), vale anche – in difetto di specifici ed univoci elementi contrari, quali una condotta successiva non equivoca (v. infra quanto alla rinnovazione del rapporto locatizio) – per la prima scadenza ad essa successiva, che si riveli corretta e non bisognosa della specificazione di motivi. Anzi, è stato altresì chiarito che il giudice, ove accerti che, per erronea indicazione ovvero per avvenuta rinnovazione del contratto, l'effettiva data di scadenza dello stesso sia posteriore a quella indicata nell'atto di intimazione di licenza per finita locazione o di sfratto, può dichiarare la cessazione del contratto per una data successiva, senza, per questo, incorrere nel vizio di extra o ultra petizione (Cass. III, n. 684/2010).

Essa, invece, non determina lo scioglimento del contratto in corso (Cass. III, n. 8006/2009, cit.): sicché, ricevuta regolare e tempestiva disdetta dal locatore, non può riconoscersi al conduttore la facoltà di decidere unilateralmente di far cessare il rapporto anticipatamente, sottraendosi, senza il consenso del locatore medesimo, alle proprie obbligazioni; in tale ipotesi, infatti, il suo interesse a non perdere le occasioni che gli fossero date in epoca anteriore alla scadenza (in relazione alla quale era stato esercitato il diniego di rinnovo) non può essere perseguito addossandone il costo al locatore, ma può essere soddisfatto, in base alle valutazioni di convenienza dello stesso conduttore, con la “perdita” costituita dalla immanenza dell'obbligazione del medesimo conduttore di pagare il canone fino alla scadenza (ovvero fino alla data anteriore alla quale il locatore accetti la restituzione), alla quale maturerà, peraltro, il suo diritto alla corresponsione dell'indennità per la perdita dell'avviamento commerciale, con il relativo onere a carico del locatore (così Cass. III, n. 17681/2011, sia pure in tema di locazione ad uso diverso. Nell'occasione, peraltro, la Corte prosegue osservando che la diversa scelta del conduttore di non versare più il canone locativo integra inadempimento e – nel caso in cui il locatore abbia promosso un giudizio di sfratto per morosità – la causa dell'effetto risolutivo ad una data anteriore rispetto alla scadenza non è riconducibile alla volontà del locatore, bensì all'inadempimento dello stesso conduttore che, perciò, non può vantare – in dipendenza della disciplina dettata dall'art. 34 della citata l. n. 392/1978 – più alcun diritto alla corresponsione dell'indennità di avviamento alla scadenza, essendosi il contratto risolto, in dipendenza di una condotta a lui addebitabile, prima di quella data).

L'efficacia della disdetta è collegata al rispetto del termine di sua ricezione da parte del conduttore, quale previsto dalla normativa codicistica o speciale.

Una disdetta che non sia idonea, per inosservanza di tale termine, a produrre la cessazione della locazione per la scadenza voluta dal locatore, conserva, però, l'efficacia di produrre la cessazione del rapporto per la successiva scadenza (Cass. III, n. 12607/2018). In caso di contratto di locazione senza determinazione di tempo, la disdetta dovrà essere inoltrata – salva diversa pattuizione – nel termine fissato dagli usi che, ai sensi dell'art. 1574, n. 3) c.c., va individuato nell'unità di tempo a cui è commisurato il corrispettivo (Trib. Bari 4 ottobre 2006).

Per concludere sul punto, infine, gli effetti collegati ad una valida e tempestiva disdetta possono essere oggetto di rinunzia da parte del locatore, sì da determinare la prosecuzione del rapporto negoziale con il conduttore. Si riconosce pacificamente, cioè, che l'efficacia solutoria della locazione conseguente alla tempestiva ricezione della disdetta possa essere oggetto di rinunzia, con l'effetto di ritenere il rapporto rinnovato o proseguito come se la disdetta non fosse mai stata inviata

A tal fine, però, non è sufficiente che il locatore non abbia agito in giudizio per il rilascio ed abbia continuato a percepire i canoni di locazione, occorrendo piuttosto una volontà contraria a quella manifestata, sì da evitare che la permanenza del conduttore nell'immobile costituisca occupazione di fatto dello stesso (Cass. III, n. 269/1998): occorre, in altri termini, il concorso della volontà del locatore e del conduttore, non essendovi alcuna norma che riconosca al locatore un potere unilaterale di revoca della disdetta che abbia già prodotto i propri effetti (in termini, Pret. Vicenza 6 febbraio 1988, per cui nelle locazioni a tempo indeterminato, a togliere validità ed efficacia alla disdetta non basta la revoca della stessa da parte del disdettante, ma occorre il consenso della controparte, la quale per il solo fatto di aver ricevuto regolare comunicazione della disdetta stessa, che essa non ha bisogno di accettare con dichiarazione alcuna, è legittimata a valersene, avendo acquistato il diritto alla cessazione del contratto). Così, Cass. III, n. 10542/2014 evidenzia come tale volontà possa manifestarsi a) attraverso un negozio formale, nel quale le parti si danno atto che la disdetta deve intendersi priva di effetti, se la cessazione si sia verificata, ovvero inidonea a determinare la cessazione, se la relativa scadenza (per cui è stata inviata) non si sia ancora verificata e che, dunque, il rapporto si deve o si dovrà considerare tacitamente rinnovato come lo sarebbe stato se la disdetta non fosse (mai) stata inviata e fosse scattata la tacita rinnovazione ai sensi della previsione di legge regolatrice oppure b) attraverso comportamenti significativi di natura negoziale tacita, implicanti la concorde volontà delle parti di determinare quello stesso effetto (nella specie, la Corte ha escluso che la richiesta del locatore, successiva alla ricezione della disdetta ad opera del conduttore, sebbene in prossimità della scadenza, di aggiornamento del canone sia un atto di per sé compatibile con il perdurare dell'effetto di cessazione dell'originario rapporto, in quanto lo stesso è diretto unicamente ad assicurare al locatore che, qualora il conduttore non rilasci alla scadenza, nell'indennità di occupazione dovuta ai sensi dell'art. 1591 c.c. sia compreso detto aggiornamento). Del pari Cass. III, 2373/2016, muovendo dalla premessa per cui la rinnovazione tacita del contratto di affitto agrario non è desumibile dal solo fatto della permanenza dell'affittuario nel fondo oltre la scadenza del termine, occorrendo anche che manchi una manifestazione di volontà contraria da parte del concedente, ha osservato – con principio estensibile al di la dell'ipotesi di affitto agrario – che, qualora questi abbia manifestato con la disdetta la volontà di porre fine al rapporto, la rinnovazione non può desumersi dalla perdurante permanenza nel fondo da parte dell'affittuario o dalla circostanza che il concedente abbia continuato a percepire il canone senza proporre tempestivamente azione di rilascio, occorrendo, invece, un comportamento positivo idoneo ad evidenziare una nuova volontà, contraria a quella precedentemente esternata per la cessazione del rapporto.

Segue. L'incidenza della rinnovazione tacita sulla natura della locazione

L'art. 1572, comma 1, c.c. dispone che il contratto di locazione per una durata superiore a nove anni è atto eccedente l'ordinaria amministrazione: è dubbio se rientrino in tale ambito le ipotesi in cui, per effetto del meccanismo di rinnovazione tacita del rapporto, la durata complessiva di questo (proroga inclusa, quindi) superi i nove anni (ipotesi connessa a quella, prospettata in apertura, di preventiva rinunzia del locatore alla disdetta).

Si ritiene comunemente che ciò a cui debba guardarsi sia la iniziale previsione di durata del rapporto, giacché “la rinnovazione non si pone quale evento ineluttabile, bensì quale sviluppo riconducibile alla volontà delle parti, le quali abbiano scelto di non intimare disdetta” (Di Marzio, Falabella, 131).

Conforme è l'orientamento della giurisprudenza di legittimità (Cass. III, n. 1137/1956; Cass. III, n. 599/1982) per cui ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 320, comma 3, c.c., locazioni ultranovennali sono soltanto quelle stipulate inizialmente per un periodo superiore ai nove anni, e non anche quelle convenute per un tempo inferiore, ma suscettibili di protrarsi per un tale periodo in virtù di clausola di tacito rinnovo od in conseguenza della soggezione a proroga legale, poiché, per la qualificazione del contratto, occorre aver riguardo alla volontà originaria delle parti, e non alla potenziale maggior durata del medesimo, sia per tacito rinnovo, sia per una proroga derivante dalla volontà della legge, che si sovrapponga d'imperio alla volontà dei contraenti

Segue. Rinnovazione e novazione

La rinnovazione, poi, non va confusa con la novazione, che si verifica allorché i contraenti sostituiscono all'originaria obbligazione una nuova avente titolo od oggetto diverso e risulti altresì, in modo non equivoco, la volontà di estinguere la precedente obbligazione. In sostanza, mentre la rinnovazione tacita del contratto di locazione dà luogo ad un altro rapporto di contenuto identico a quello già in vigore, la novazione dà vita ad un rapporto diverso da quello cessato, le cui clausole non possono intendersi riportate nel nuovo rapporto se non espressamente richiamate.

Animus e causa novandi sono requisiti estranei alla rinnovazione tacita della locazione, la quale si concreta nella conclusione di un nuovo contratto e non nella semplice proroga di quello originario, mentre le sole garanzie prestate da terzi non si estendono alle obbligazioni derivanti dal contratto rinnovato (Cass. III, n. 11830/2013).

L'accertamento circa la volontà delle parti – diretta alla rinnovazione ovvero alla novazione – è demandato al giudice del merito, la cui valutazione è insindacabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione immune da vizi logici e da errori di diritto sulla seconda parte.

Così, ad esempio, la variazione della misura del canone o del termine di scadenza non è sufficiente ad integrare novazione del contratto, trattandosi di modificazioni accessorie, occorrendo, invece, oltre al mutamento dell'oggetto o del titolo della prestazione (e rimanendo irrilevante, per contro, la successione di un soggetto ad un altro nel rapporto, come verificatosi nella specie), che ricorrano gli elementi dell'animus e della causa novandi, il cui accertamento costituisce compito proprio del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità se logicamente e correttamente motivato (Cass. III, n. 14620/2017). Nel medesimo senso Cass. III, n. 5665/2010 afferma che la novazione oggettiva del rapporto obbligatorio postula il mutamento dell'oggetto o del titolo della prestazione, ai sensi dell'art. 1230 c.c., mentre non è ricollegabile alle mere modificazioni accessorie di cui all'art. 1231 c.c., e deve essere connotata non solo dall'aliquid novi, ma anche dall'animus novandi (inteso come manifestazione inequivoca dell'intento novativo) e dalla causa novandi (intesa come interesse comune delle parti all'effetto novativo): sicché, la sola variazione di misura del canone e la modificazione del termine di scadenza non sono di per sé indice della novazione di un rapporto di locazione, trattandosi di modificazioni accessorie della correlativa obbligazione o di modalità non rilevanti ai fini della configurabilità della stessa (conforme Cass. III, n. 11672/2007).

La rinnovazione dei contratti conclusi con la P.A.

Come noto, gli organi e gli enti dello Stato-apparato sono dotati, oltre che della speciale capacità di diritto pubblico, anche della comune autonomia e capacità negoziale (giuridica, prima ancora che di agire) di diritto comune appartenente a tutti gli altri soggetti: sicché – detto in altri termini – le amministrazioni, gli enti pubblici ed i loro organi sono legittimati non solo ad emettere atti e provvedimenti amministrativi, ma anche a concludere atti di diritto comune, alla stregua delle regole contenute nel codice civile ed in altre leggi.

Allorché agisca iure privatorum, tuttavia, la P.A. è soggetta ad alcune penetranti limitazioni riassumibili nel principio espresso da Cass. II, n. 20033/2016, per cui i requisiti di validità dei contratti posti in essere dalla P.A. – il cui difetto esclude la sussistenza stessa di un contratto, configurandosi, invero, un comportamento di fatto, privo di rilievi di sorta sul piano giuridico per l'assenza in radice dell'accordo tra le parti, richiesto dall'art. 1321 c.c., anche per la costituzione di un contratto invalido e non opponibile ai terzi – attengono essenzialmente alla manifestazione della volontà ed alla forma: la prima deve provenire dall'organo al quale è attribuita la legale rappresentanza (previe eventuali delibere di altri organi), mentre la forma deve essere, a pena di nullità, scritta, al fine precipuo di consentire i controlli cui l'azione amministrativa è sempre soggetta.

Quanto, specificamente, al requisito della forma, costituisce ius receptum il principio per cui i contratti conclusi dalla P.A. devono essere consacrati in un unico documento, ciò che esclude il loro perfezionamento attraverso lo scambio di proposta ed accettazione tra assenti (salva l'ipotesi eccezionale, prevista ex lege, di contratti conclusi con ditte commerciali, v. Cass. I, n. 25631/2017), mentre tale requisito di forma deve ritenersi soddisfatto nel caso di cd. elaborazione comune del testo contrattuale, e cioè mediante la sottoscrizione – sebbene non contemporanea, ma avvenuta in tempi e luoghi diversi – di un unico documento contrattuale il cui contenuto (Cass. III, n. 12540/2016). Del pari, non si ritiene sufficiente che la forma scritta investa la sola dichiarazione negoziale della Amministrazione né, ancora, che la conclusione del contratto avvenga per facta concludentia, con l'inizio dell'esecuzione della prestazione da parte del privato, attraverso l'invio della merce e delle fatture, secondo il modello dell'accettazione tacita previsto dall'art. 1327 c.c. (Cass. I, n. 12316/2015), né, infine, che l'esistenza del contratto debba trarsi da atti scritti (normalmente, fatture) “a valle”, donde risultino comportamenti attuativi di un accordo, “a monte”, solo verbale (Cass. I, n. 5263/2015).

Si pone, conseguentemente, con prepotenza il tema della compatibilità, con le prescrizioni di forma richiese dal r.d. n. 2240/1923, di una rinnovazione tacita dei contratti stipulati dalla P.A. e, più in particolare, dei contratti di locazione stipulati da quest'ultima.

L'orientamento costante della giurisprudenza di legittimità è nel senso per cui, essendo necessaria, ai fini della valida stipulazione dei contratti ad opera della P.A., la forma scritta, deve escludersi la possibilità di una loro rinnovazione tacita per facta concludentia, posto che, diversamente ragionando, si perverrebbe all'effetto di eludere, attraverso il meccanismo del rinnovo silente, il requisito formale suddetto (Cass. III, n. 8000/2010): tanto, si badi, indipendentemente dall'eventuale protrarsi, per anni, di un mero comportamento che la persistenza di quel vincolo pure presupporrebbe (Cass. III, n. 22994/2015). Donde la conclusione, più nello specifico, per cui nei riguardi della P.A. non è radicalmente ipotizzabile, in relazione al disposto dell'art. 1597 c.c., la rinnovazione tacita del contratto di locazione (Cass. III, n. 1223/2006) occorrendo, al contrario, la forma scritta anche per l'esternazione della volontà tesa a “proseguire” il rapporto negoziale giunto a scadenza.

Il rigore interpretativo di cui si è detto patisce una deroga allorché la rinnovazione dell'originario contratto stipulato in forma scritta sia prevista da apposita clausola negoziale e sia subordinata al mancato invio della disdetta del contratto entro un termine prestabilito.

In simile ipotesi, infatti, la giurisprudenza di legittimità reputa ammissibile la rinnovazione tacita conseguente all'omesso invio della disdetta, in quanto la previsione contenuta all'interno di tale clausola, per un verso, non elude la necessità della forma scritta e, per altro, attesa la predeterminazione della durata del periodo di rinnovazione, consente agli organi della P.A. di considerare l'opportunità di disdire o meno nel termine contrattuale il contratto stesso (v., ex multis, Cass. VI-3, n. 18107/2014).

Rinnovazione e proroga

Diversa dalla rinnovazione del rapporto negoziale – comunque rimessa ad un atto volitivo delle parti – è, infine, la proroga, istituto che, prevedendo un differimento ex lege del termine di esecuzione dei provvedimenti di rilascio, sia pure indirettamente, influisce sulla durata complessiva del rapporto negoziale (per ciò che concerne, in particolar modo, le locazioni ad uso abitativo).

In particolare, per effetto dei continui provvedimenti di sospensione e blocco dell'esecuzione degli sfratti di immobili adibiti ad uso abitativo si era venuto a creare, negli anni antecedenti al 1989, un enorme accumulo di provvedimenti da porre in esecuzione. Preso atto di tale situazione, fu emanato il d.l. n. 551/1988, convertito con modifiche nella l. n. 61/1989, che, pur disponendo un'ulteriore sospensione degli sfratti sino al 30 aprile 1989 (termine fissato sino al 31 dicembre 1989 per i Comuni terremotati della Campania e Basilicata), permise, allo scadere, la ripresa dell'esecuzione degli stessi, attribuendo al Prefetto di ogni provincia il compito di autorizzare l'assistenza della forza pubblica all'ufficiale giudiziario, previo parere delle Commissioni prefettizie appositamente istituite. La predetta legge fissava, inoltre, criteri di priorità nell'assegnazione della forza pubblica.

Intervenuta sul punto Cass. S.U., n. 5223/1998 ha chiarito che la prestazione della forza pubblica si configurava come un vero e proprio atto dovuto da parte dell'amministrazione di polizia, che si inseriva nel procedimento giurisdizionale di sfratto.

La l. n. 431/1998 ha completamente riscritto l'istituto della proroga, regolando, all'art. 6, tempi e modalità di esecuzione dei provvedimenti di rilascio degli immobili ad uso abitativo pronunciati a seguito di finita locazione, con esclusione, dunque, dei provvedimenti di rilascio conseguenti a sfratto per morosità, altro inadempimento di parte conduttrice, ovvero a verbale di conciliazione giudiziale (casi nei quali lo sfratto, scaduto il termine ex art. 56 della l. n. 392/1978, va eseguito osservando le sole norme del codice di rito).

La giurisprudenza di legittimità ha però chiarito che la possibilità di ottenere dal giudice la fissazione di una nuova data dell'esecuzione, riconosciuta al conduttore dall'art. 6, comma 4, della l. n. 431/1998, si riferisce ai soli provvedimenti esecutivi di rilascio per finita locazione emessi entro il termine di centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della detta legge, e cioè entro il 27 giugno 1999 (Cass. III, n. 11961/2010).

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