Codice di Procedura Civile art. 420 - Udienza di discussione della causa 1 .Udienza di discussione della causa1. [I]. Nell'udienza fissata per la discussione della causa il giudice interroga liberamente le parti presenti, tenta la conciliazione della lite e formula alle parti una proposta transattiva o conciliativa. La mancata comparizione personale delle parti, o il rifiuto della proposta transattiva o conciliativa del giudice, senza giustificato motivo, costituiscono comportamento valutabile dal giudice ai fini del giudizio [116, 117]. Le parti possono, se ricorrono gravi motivi, modificare le domande, eccezioni e conclusioni già formulate, previa autorizzazione del giudice 2 3 4. [II]. Le parti hanno facoltà di farsi rappresentare da un procuratore generale o speciale, il quale deve essere a conoscenza dei fatti della causa. La procura deve essere conferita con atto pubblico [2699 c.c.] o scrittura privata autenticata [2702 ss. c.c.] e deve attribuire al procuratore il potere di conciliare [183 3, 185] o transigere [1965 ss. c.c.] la controversia [84 2]. La mancata conoscenza, senza gravi ragioni, dei fatti della causa da parte del procuratore è valutata dal giudice ai fini della decisione [116 2]. [III]. Il verbale di conciliazione ha efficacia di titolo esecutivo [474 2 n. 1]. [IV]. Se la conciliazione non riesce e il giudice ritiene la causa matura per la decisione, o se sorgono questioni attinenti alla giurisdizione [37] o alla competenza5 [409, 413] o ad altre pregiudiziali la cui decisione può definire il giudizio [187 2, 420-bis], il giudice invita le parti alla discussione e pronuncia sentenza anche non definitiva [279 2 n. 4] dando lettura del dispositivo. [V]. Nella stessa udienza ammette i mezzi di prova già proposti dalle parti e quelli che le parti non abbiano potuto proporre prima, se ritiene che siano rilevanti, disponendo, con ordinanza resa nell'udienza, per la loro immediata assunzione 6. [VI]. Qualora ciò non sia possibile, fissa altra udienza, non oltre dieci giorni dalla prima, concedendo alle parti, ove ricorrano giusti motivi, un termine perentorio [153] non superiore a cinque giorni prima dell'udienza di rinvio per il deposito [in cancelleria] di note difensive7. [VII]. Nel caso in cui vengano ammessi nuovi mezzi di prova, a norma del quinto comma, la controparte può dedurre i mezzi di prova che si rendano necessari in relazione a quelli ammessi, con assegnazione di un termine perentorio [153] di cinque giorni. Nell'udienza fissata a norma del precedente comma il giudice ammette, se rilevanti, i nuovi mezzi di prova dedotti dalla controparte e provvede alla loro assunzione. [VIII]. L'assunzione delle prove deve essere esaurita nella stessa udienza o, in caso di necessità, in udienza da tenersi nei giorni feriali immediatamente successivi. [IX]. Nel caso di chiamata in causa a norma degli articoli 102, secondo comma, 106 e 107, il giudice fissa una nuova udienza e dispone che, entro cinque giorni, siano notificati al terzo il provvedimento nonché il ricorso introduttivo e l'atto di costituzione del convenuto, osservati i termini di cui ai commi terzo, quinto e sesto, dell'articolo 415. Il termine massimo entro il quale deve tenersi la nuova udienza decorre dalla pronuncia del provvedimento di fissazione. [X]. Il terzo chiamato deve costituirsi non meno di dieci giorni prima dell'udienza fissata, depositando la propria memoria a norma dell'articolo 416. [XI]. A tutte le notificazioni e comunicazioni [136, 137 ss.] occorrenti provvede l'ufficio. [XII]. Le udienze di mero rinvio sono vietate [151 att.].
[1] Articolo sostituito dall'art.1, comma 1, l. 11 agosto 1973, n. 533. [2] Comma così modificato dall'art. 31 l. 4 novembre 2010 n. 183. Il testo recitava: «Nell'udienza fissata per la discussione della causa il giudice interroga liberamente le parti presenti e tenta la conciliazione della lite. La mancata comparizione personale delle parti, senza giustificato motivo, costituisce comportamento valutabile dal giudice ai fini della decisione. Le parti possono, se ricorrono gravi motivi, modificare le domande, eccezioni e conclusioni già formulate, previa autorizzazione del giudice». [3] L' articolo 77, comma 1, lettera b), del d.l. 21 giugno 2013, n. 69, conv., con modif., in l. 9 agosto 2013, n. 98, ha aggiunto, sia nel primo sia nel secondo periodo, dopo la parola: «transattiva», le parole: «o conciliativa». [4] La Corte cost., con sentenza 14 gennaio 1977, n. 13, ha dichiarato non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale del presente comma, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. [5] V. ora l'art. 279, comma 1, per il quale le decisioni relative alle sole questioni di competenza sono assunte con ordinanza e non con sentenza. [6] La Corte cost., con sentenza 14 gennaio 1977, n. 13, ha dichiarato non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale del presente comma, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. [7] Comma così modificato dall'art. 3, comma 5, lett. e) , d.lgs. 31 ottobre 2024, n. 164, che ha soppresso le parole tra le parentesi quadre . Ai sensi dell’art. 7, comma 1, del medesimo decreto, le disposizioni di cui al d.lgs. n. 164/2024 cit. si applicano ai procedimenti introdotti successivamente al 28 febbraio 2023. InquadramentoL'art. 420 c.p.c. disciplina l'udienza di discussione, nella quale, trovano ingresso varie attività – conciliativa, istruttoria, decisoria – in un'ottica volta a privilegiare i caratteri di specialità propri del rito lavoristico, sul quale è modellato il rito locatizio, riassumibili nei principi di concentrazione, immediatezza ed oralità, rappresentando il c.d. fulcro dell'intero processo con le conseguenti inderogabili preclusioni per le attività processuali che vanno compiute nel momento temporale assegnato e non oltre. Nell'udienza di discussione, si realizza la comparizione delle parti ed il loro interrogatorio, la formulazione da parte del giudice alle stesse parti in causa, di una proposta transattiva o conciliativa, ovvero, se la causa è matura per la decisione, al termine della discussione, il giudice pronuncia sentenza dando lettura del dispositivo, altrimenti ammette i mezzi di prova ovvero, disponendo per la loro immediata assunzione, nella sola ipotesi in cui ciò non sia possibile, fissando altra udienza. Nel rito del lavoro, ogni udienza, a partire dalla prima, è destinata, oltre che all'assunzione di eventuali prove, alla discussione e, quindi, all'immediata pronuncia della sentenza mediante lettura del dispositivo sulle conclusioni che, salvo modifiche autorizzate dal giudice per gravi motivi, sono per l'attore quelle di cui al ricorso e per il convenuto quelle di cui alla memoria di costituzione. Nel rito lavoristico, come del resto in quello civile di cognizione, trova applicazione il divieto della mutatio libelli, non potendo le parti costituite proporre domande nuove rispetto a quelle già introdotte nei rispettivi atti introduttivi, e la chiamata in causa del terzo, ex art. 102, comma 2, c.p.c., nonché exartt. 106 e 107 c.p.c., dunque, anche nell'eventualità del litisconsorzio necessario. L'art. 420 c.p.c. disciplina altresì l'ipotesi della costituzione del terzo chiamato ai sensi degli artt. 102, comma 2, 106 e 107 c.p.c. prevedendo che le udienze di mero rinvio sono vietate. La giurisprudenza ha precisato che la disposizione contenuta nell'art. 420, comma 12, c.p.c., in cui si prevede il divieto di udienze di mero rinvio, è una norma di carattere meramente sollecitatorio, la cui previsione non risulta caratterizzata da alcun particolare supporto di carattere sanzionatorio per il caso di una sua disapplicazione (Cass. S.U., n. 363/1992). Il decreto integrativo e correttivo della Riforma Cartabia approvato nella bozza del Consiglio dei Ministri in data 15 febbraio 2024 ha espunto dalla norma i riferimenti a depositi da effettuare in cancelleria, dovendo essi essere eseguiti telematicamente. L'inattività delle parti all'udienza di discussioneNel processo del lavoro ovvero in quello locatizio, può verificarsi l'ipotesi in cui l'attore ed il convenuto non compaiano all'udienza di discussione. Inizialmente l'orientamento della giurisprudenza era contrario a ritenere ammissibile il rinvio dell'udienza da parte del giudice adito sulla falsariga di quanto stabilito dall'art. 309 c.p.c. nel processo civile ordinario, stante il divieto delle udienze di mero rinvio nello speciale processo disciplinato dal rito lavoristico. in dottrina, si è osservato che anche nel rito lavoristico, dovrebbero trovare ingresso nell'udienza di discussione disciplinata dall'art. 420 c.p.c. le attività preparatorie o preliminari che nel rito civile ordinario sono funzionali alla trattazione della causa ex art. 183 c.p.c. (Pezzano, 634; Vullo, 233), come ad esempio verificare se non vi sia un difetto di rappresentanza, assistenza o autorizzazione della parte, od un vizio che comunque determini la nullità della procura alle liti rilasciata al difensore (Consolo, 309). L'udienza di discussione è infatti la prima occasione di “confronto diretto” tra il giudice e le parti, in cui, il primo deve controllare il deposito del ricorso notificato con il decreto di fissazione dell'udienza alla controparte, e la presenza delle parti costituite, assistite dai rispettivi difensori, interrogarle liberamente, e procedere all'esame delle opposte domande, al fine di verificare la possibilità di una conciliazione della lite, ovvero, sottoponendo alle stesse parti una proposta transattiva. La questione sull'applicabilità al rito del lavoro della disciplina sull'inattività delle parti, dettata per il rito civile ordinario, sulla quale si era rinnovato il contrasto nella giurisprudenza di legittimità, che ha giustificato la rimessione del ricorso alle Sezioni unite, si è conclusa con l'affermazione del principio che la disciplina dell'inattività delle parti in primo e secondo grado prevista dal rito processuale civile ordinario si applica anche alle controversie regolate dalla l. n. 533/1973 (Cass. S.U., n. 5839/1993). Al riguardo, si è precisato che ad impedire l'estensione al processo del lavoro delle norme proprie del processo civile sull'inattività delle parti non può valere il divieto dell'udienza di mero rinvio contenuto nell'art. 420, comma 12, c.p.c. perché, come ha messo in risalto la dottrina (Tarzia, Dittrich, 210), il “mero rinvio” è quello privo di qualsiasi funzione nell'iter procedimentale, che viene richiesto dalle parti ingiustificatamente inerti, e, che lascia il processo all'udienza successiva nella stessa situazione nella quale si trovava all'udienza precedente. In tale senso, depone l'orientamento assunto dalla Consulta, investita della questione se il divieto di udienze di mero rinvio, precludendo il differimento dell'udienza di decisione della causa del lavoro, anche nel caso di trattative in corso per il bonario componimento della controversia, contrastasse con gli artt. 3, 24, 97 e 101 ost., ha escluso in radice la possibilità di siffatto contrasto, rilevando seccamente che la pendenza di trattative stragiudiziali costituisce motivo che giustifica il rinvio non mero dell'udienza di discussione (Corte cost., n. 302/1986). La disciplina dell'inattività delle parti nel processo civile ordinario, si applica dunque anche alle controversie di lavoro, non ostandovi la specialità del rito, né i principi cui essa si ispira, conseguendo che la mancata comparizione delle parti all'udienza di discussione non consente la decisione della causa nel merito, ma impone la fissazione di una nuova udienza, nella quale il ripetersi dell'indicato difetto di comparizione comporta la cancellazione della causa dal ruolo (Cass., sez. lav., n. 5643/2009). In dottrina, sulla questione sopra considerata, si era già formato un ampio consenso all'applicabilità delle norme del processo civile ordinario al processo del lavoro ex artt. 181 e 309 c.p.c. (Consolo, 309; Fabbrini, 114; Luiso, 219; Montesano, Vaccarella, 181; Poliseno, 244; Tarzia, Dittrich, 222). In precedenza, si era affermato l'orientamento opposto a quello innanzi citato, secondo cui nell'ipotesi di diserzione dall'udienza di entrambe le parti si deve disporre la cancellazione della causa dal ruolo (ex pluribus Cass., sez. lav., n. 12358/2003). La chiamata in causa del terzoIl sistema previsto dall'art. 420 c.p.c. per la chiamata in causa del terzo è quello in uso nel rito locatizio, e, si differenzia dalla chiamata del terzo effettuata direttamente – vale a dire senza necessità di autorizzazione del giudice – dalla parte convenuta nel rito civile ordinario ai sensi dell'art. 269, comma 2, c.p.c. In dottrina (Masoni, 124; Montesano, Arieta 2002, 207; Pezzano, 543), al riguardo si è infatti osservato che la chiamata del terzo, nel rito lavoristico e locatizio non può che essere disciplinata dall'art. 420, comma 9, c.p.c. che si riferisce all'intervento non volontario del terzo, disciplinato dagli artt. 102, comma 2, 106 e 107, c.p.c. che disciplinano rispettivamente il litisconsorzio necessario, l'intervento su istanza di parte e quello jussu judicis, per ordine del giudice. Aggiungasi che i limiti temporali in cui può procedersi alla chiamata in causa ex art. 106 c.p.c. (intervento su istanza di parte) o ex art. 107 c.p.c. (intervento per ordine del giudice) sono segnati in maniera chiara dal disposto dell'art. 420, comma 9, c.p.c., che attesta significativamente come il processo del lavoro sia caratterizzato tra l'altro dai criteri della immediatezza e della concentrazione. Infatti, come pure evidenziato in dottrina (Masoni, 124), la chiamata del terzo nel rito locatizio – modellato su quello lavoristico – richiede la preventiva autorizzazione del giudice, il quale deve dunque valutare nel merito i fatti di causa al fine di accogliere o rigettare l'istanza di chiamata del terzo, diversamente da quanto invece accade nel rito civile ordinario, in cui l'attività del giudice è limitata al mero differimento dell'udienza di prima comparizione che il convenuto costituitosi nel rispetto dei termini ex art. 166 c.p.c. ha l'onere di chiedere nella comparsa di costituzione depositata nella cancelleria del giudice adito. Il termine per chiedere la chiamata in causa del terzo per il convenuto è a pena di decadenza nella memoria difensiva (Luiso, 160; Montesano, Vaccarella, 176), in quanto non sembra conciliabile con la specialità del rito del lavoro la possibilità di avanzare l'istanza di chiamata in causa alla prima udienza, come previsto dall'art. 269, comma 2, c.p.c. La struttura del processo del lavoro, esige che alla prima udienza la res litigiosa debba essere già chiaramente delineata sulla base degli scritti difensivi anteriormente depositati dalle parti, perchè a quella stessa udienza si procede alla immediata trattazione della causa, all'esperimento del tentativo di conciliazione, all'interrogatorio delle parti, ed all'ammissione dei mezzi di prova, oltre, se possibile, all'assunzione degli stessi, come del resto è previsto dall'art. 420, comma 8, c.p.c., sicché ove l'istanza di chiamata venisse avanzata alla prima udienza, il meccanismo verrebbe alterato con l'introduzione di una questione pregiudiziale inaspettata dalla controparte e dal giudice, tale da modificare l'ambito della stessa materia in contestazione, quale determinato sulla scorta degli scritti difensivi precedentemente depositati. Inoltre, in relazione alla posizione del convenuto, se nella memoria difensiva ex art. 416 c.p.c., si deve prendere posizione precisa e non generica in ordine ai fatti affermati dall'attore, e se in essa devono essere contenute tutte le difese, tra queste non può non essere compresa l'istanza di chiamata del terzo, atteso che solo in quell'atto il medesimo convenuto può esporre le proprie ragioni a sostegno, prendere le conclusioni nei confronti del terzo, e dedurre prove a dimostrazione della fondatezza dell'istanza. Solo se l'istanza è contenuta nella memoria di costituzione, depositata dieci giorni prima dell'udienza, la controparte può rispondere tempestivamente ed il giudice può tempestivamente decidere sull'ammissibilità autorizzando alla prima udienza la chiamata, ovvero rigettando l'istanza, mentre, viceversa, una richiesta avanzata in udienza, costringerebbe necessariamente alla fissazione di altra udienza per consentire le difese del ricorrente e la delibazione del giudice, così vanificando l'obiettivo di concentrazione del processo perseguito dal legislatore. Pertanto, poiché la tempestività della richiesta di chiamata del terzo attiene alle esigenze del processo, ossia alla concentrazione e speditezza dello stesso, configurandosi come principio di ordine pubblico, e come presidio a tutela della difesa del chiamato, ne consegue che la tardività dell'istanza è rilevabile d'ufficio (Cass., sez. lav., n. 15080/2008; Cass., sez. lav., n. 19480/2008; Cass., sez. lav., n. 9800/1998). Qualora la chiamata in causa del terzo provenga invece dall'attore a seguito delle difese svolte dalla parte convenuta, il termine per chiederla coincide necessariamente con l'udienza di discussione (Proto Pisani, 97), mentre nel caso della chiamata del terzo disposta jussu judicis, si ritiene che possa essere disposta in ogni momento del giudizio di primo grado (Fabbrini, 95; Montesano, Vaccarella, 176; Proto Pisani, 97). Nel rito del lavoro, l'intervento di un terzo nel processo può essere ordinato dal giudice ex art. 107 c.p.c. anche in sede di discussione della causa (Cass., sez. lav., n. 5670/1984). L'integrazione del contraddittorio nei confronti del terzo, in caso di litisconsorzio necessario può essere disposta in ogni momento del giudizio di primo grado (Montesano, Vaccarella, 175), fino al momento di decisione della causa, comportando il rinvio di quest'ultima ad altra udienza (Tarzia, Dittrich, 149), con la precisazione che la stessa regola temporale, deve ritenersi applicabile anche nel caso dell'intervento volontario del litisconsorte pretermesso (Luiso, 156). Il giudice si esprime sull'ammissibilità della chiamata del terzo all'udienza di discussione (Masoni, 126; Pezzano, 545; Tarzia, 132). La giurisprudenza ha chiarito che in tema di controversie di lavoro, la disposizione dell'art. 420, comma 9, c.p.c. – relativa ai provvedimenti del giudice, nell'udienza di discussione di primo grado, nell'ipotesi di chiamata in causa a norma degli artt. 102, 106 e 107, c.p.c. – non implica un automatico obbligo di adozione dei suddetti provvedimenti richiesti dalla parte, in quanto il giudice, investito della domanda di chiamata in giudizio di un terzo ai sensi delle norme citate, non è sempre tenuto a fissare una nuova udienza e a disporre le relative notifiche, conservando, secondo i principi generali, il potere di valutare – con i margini di discrezionalità attribuitigli dagli artt. 106 e 107 ,c.p.c., art. 269, comma 2, c.p.c., ed art. 270 c.p.c. – la comunanza della causa e le ragioni d'intervento del terzo, restando configurabile un vizio del processo, tale da comportare il rinvio della causa al giudice di primo grado ai sensi dell'art. 383 c.p.c., solo quando il giudice, investito della domanda predetta, si sia sottratto al dovere di esaminarla od abbia comunque omesso di rilevare il difetto del contraddittorio nell'ipotesi di litisconsorzio necessario (Cass., sez. lav., n. 2522/2016; Cass., sez. lav., n. 6657/1999). L'art. 420, comma 9, c.p.c. dispone che nel caso di chiamata in causa a norma degli artt. 102, comma 2, 106 e 107 c.p.c., il giudice fissa una nuova udienza e dispone che, entro cinque giorni, siano notificati al terzo il provvedimento nonché il ricorso introduttivo e l'atto di costituzione del convenuto, osservati i termini di cui all'art. 415, comma 3, 5, 6, c.p.c. In ordine agli adempimenti previsti dalla chiamata in causa ex art. 420, comma 9, c.p.c. la quale richiede che al terzo siano notificati determinati atti, la giurisprudenza di legittimità non ha assunto una posizione univoca, avendo stabilito che può ritenersi sufficiente che, attraverso gli atti portati a legale conoscenza del terzo chiamato, quest'ultimo sia posto in grado di fare valere tutte le sue difese verso le parti originarie (Cass., sez. lav., n. 1735/1998), ed a ciò la notificazione del verbale d'udienza può essere ritenuta sufficiente se ne risultino con chiarezza le pretese del chiamante verso di lui (Cass., sez. lav., n. 10456/2000; conforme la giurisprudenza di merito, v. Trib. Isernia 15 febbraio 2018). L'inosservanza dell'art. 420, comma 9 e 11 c.p.c. – il cui combinato disposto prescrive all'ufficio di notificare al terzo chiamato in causa il ricorso introduttivo, la costituzione del convenuto e l'ordine giudiziale di chiamata – non comporta alcuna nullità (Cass., sez. lav., n. 2794/1979) ma solo l'obbligo del giudice di fissare un nuovo termine per il compimento degli atti omessi (Cass., sez. lav., n. 7338/1986). Il termine massimo entro il quale deve tenersi la nuova udienza decorre dalla pronuncia del provvedimento di fissazione dell'udienza di discussione. L'art. 420, comma 10, c.p.c. dispone altresì che il terzo chiamato deve costituirsi non meno di dieci giorni prima dell'udienza fissata, depositando la propria memoria a norma dell'art. 416 c.p.c. La dottrina (Masoni, 125; Montesano, Arieta 2002, 160; Pezzano, 544; Tarzia, Dittrich, 149) ritiene pacifico che il convenuto debba costituirsi depositando nel rispetto dei termini di costituzione, la memoria difensiva ex art. 416 c.p.c. nella quale, a pena di decadenza, deve formulare l'istanza di chiamata, con le conclusioni nei confronti del terzo, chiedendo altresì il differimento dell'udienza di discussione. In base alla struttura della norma, traspare in forma evidente che nel rito del lavoro e nei riti su di esso modellati per rinvio, come quello locatizio, la previsione dell'art. 420, comma 9, c.p.c., sembra preservare due esigenze: quella di interlocuzione del giudice sull'allargamento soggettivo del processo e quella di interlocuzione della controparte attrice e, dunque, il suo diritto di difesa contro allargamenti su chiamata di terzi del tutto ingiustificati e determinativi di inutili complicazioni di svolgimento del giudizio. La garanzia della posizione del terzo chiamato è affidata invece alla notificazione degli atti introduttivi delle difese delle parti con il rispetto dei termini di cui all'art. 415, comma 3, 5, 6, c.p.c.. L'interrogatorio libero delle partiNel rito del lavoro, l'espletamento del libero interrogatorio delle parti non è previsto a pena di nullità, in quanto non è preordinato a provocare la confessione della parte, ma a chiarire i termini della controversia, restando affidato al potere discrezionale del giudice di merito di valutare, anche in relazione agli assunti delle parti, se tale espletamento si configuri di qualche potenziale utilità, o sotto il profilo del buon esito del tentativo volto a conciliare la lite od al fine di acquisire elementi di convincimento utili per la decisione. In dottrina (Masoni, 121), si è evidenziata la circostanza che il codice di rito non indica quale sia il valore probatorio delle dichiarazioni rese dalle parti in sede di interrogatorio libero. Le ammissioni della parte rese in sede di interrogatorio libero, pur non assurgendo a prova legale, cioè ad efficacia formalmente confessoria, non può essere loro negata una qualche efficacia probatoria, e non ritenere che scopo dell'istituto sia proprio quello di individuare le questioni effettivamente controverse, di valutare in conseguenza le necessità istruttorie e di ricavare ove possibile, argomenti di prova circa i fatti controversi dalle risposte delle parti, anche perché resta valido il principio a mente del quale la prova è irrilevante ove abbia ad oggetto fatti pacifici per essere stati ammessi dalle parti o per avere la parte interessata basato il suo sistema decisivo su argomenti logicamente incompatibili con il loro disconoscimento. In questo senso, l'interrogatorio libero ex art. 420 c.p.c. si differenzia – per quanto concerne le modalità di assunzione ed i relativi effetti – rispetto all'interrogatorio libero ex art. 117 c.p.c. sia perché la sua collocazione nell'udienza di discussione a ridosso degli atti di costituzione delle parti, ne evidenzia anche la funzione integrativa dei medesimi, sia perché esso costituisce un adempimento doveroso per il giudice e non una semplice facoltà da esercitarsi in qualunque stato e grado del processo, per cui, in dottrina, si è parlato di centralità dell'interrogatorio libero ex art. 420 c.p.c. nel sistema di un processo orale, con la conseguenza che tale istituto non può essere considerato, come nel rito ordinario, alla stregua di uno strumento sussidiario per pervenire ad una decisione fondata sul prudente apprezzamento del giudice piuttosto che su regole legali ovvero, come mezzo complementare di convincimento atto a consentire la valutazione e l'integrazione del materiale probatorio già esistente in atti. In considerazione della centralità nel processo dell'interrogatorio libero, deve conferirsi rilievo all'indirizzo giurisprudenziale volto ad ammettere che le risposte rese dalle parti possano essere liberamente utilizzate dal giudice come elementi di convincimento, soprattutto se riguardano fatti che possono essere conosciuti soltanto dalle parti in causa o non siano contraddette da elementi probatori contrari (Cass., sez. lav., n. 4685/2002), considerato che le eventuali ammissioni fatte dalla parte in sede di interrogatorio libero o contenute in atti difensivi versati in causa non costituiscono prova piena in danno della parte medesima, ma hanno un valore soltanto indiziario (Cass., sez. lav., n. 7596/2003). La mancata ingiustificata comparizione personale delle parti costituisce comportamento valutabile dal giudice ai sensi dell'art. 116, comma 2, c.p.c. (Carrato, 466; Montesano, Arieta 2002, 205; Masoni, 121). L'omissione di tale adempimento nel giudizio di primo grado non incide sulla validità dello svolgimento del rapporto processuale, restando perciò ininfluente la mancata considerazione dell'omissione stessa, ove lamentata in sede d'appello, da parte del giudice del gravame (Cass., sez. lav., n. 16141/2004; Cass., sez. lav., n. 9908/2003; Cass., sez. lav., n. 8310/2002; Cass., sez. lav., n. 3380/2000). La dottrina (Luiso, 171; Montesano, Vaccarella, 164; Tarzia, Dittrich, 159) su tale questione ha sempre assunto una posizione critica rispetto all'orientamento giurisprudenziale, sottolineando l'importanza ed obbligatorietà dell'interrogatorio libero delle parti. La modifica delle domande, eccezioni e conclusioni.L'art. 420, comma 1, c.p.c. dispone che le parti possono, se ricorrono gravi motivi, modificare le domande, eccezioni e conclusioni già formulate, previa autorizzazione del giudice. La norma in commento vieta la mutatio libelli ma nel contempo ammette l'emendatio libelli, in presenza di due condizioni: i gravi motivi e l'autorizzazione del giudice. L'art. 420 c.p.c. dispone che le parti possono nel corso del processo modificare, se ricorrono gravi motivi, domande eccezioni e conclusioni già formulate previa autorizzazione del giudice, e non anche mutare - neppure con il consenso della controparte manifestato espressamente con la esplicita accettazione del contraddittorio od implicitamente con la difesa nel merito - la causa petendi od il petitum, la valutazione circa la sussistenza dei gravi motivi comportando un accertamento di fatto, che può implicitamente risultare dall'istruttoria, ed il cui esito positivo può essere manifestato per implicito, a quest'ultimo riservato (Cass. III, n. 6728/2019). Nel rito del lavoro, il divieto di mutatio libelli trova la sua ratio in esigenze di ordine pubblico attinenti al funzionamento del processo ed all'attuazione dei principi di immediatezza e concentrazione. Nel rito del lavoro, l'onere di contestazione tempestiva, deriva da tutto il sistema processuale di preclusioni, che comporta per entrambe le parti l'onere di collaborare, fin dalle prime battute processuali, a circoscrivere la materia controversa, e, soprattutto, dal generale principio di economia che deve informare il processo, avuto riguardo al novellato art. 111 Cost., il che non consente di avallare un comportamento inerte e tardivo. Ciò è peraltro coerente con lo scandirsi delle reciproche contestazioni che il convenuto, rispetto ai fatti dedotti dal ricorrente, deve sollevare subito con la comparsa di risposta, così come il ricorrente, rispetto ai fatti dedotti dal convenuto, deve muovere le contestazioni a pena di decadenza nell'ambito delle attività regolate dall'art. 420 c.p.c. In dottrina (Cerino Canova, 177), al fine di distinguere la mutatio dall'emendatio, si è fatto ricorso alla distinzione tra domande autodeterminate ed eterodeterminate. In particolare, nella domanda autodeterminata la causa petendi non assume un rilievo identificatore della domanda, ragione per cui, il mutamento di quest'ultima si risolve di fatto in una semplice emendatio libelli, da ritenersi consentita in presenza delle condizioni enunciate dall'art. 420, comma 1, c.p.c., a differenza di quanto si verifica nel caso della domanda eterodeterminata, in cui invece, la causa petendi assume un ruolo identificatore della pretesa azionata in giudizio, la cui alterazione determina una mutatio libelli, come tale, inammissibile nel rito speciale lavoristico e locatizio. La giurisprudenza ha, quindi, chiarito che si è in presenza di una domanda eterodeterminata quando la causa petendi svolge una funzione individuatrice al pari dei requisiti dei soggetti e dell'oggetto, di tal che ogni relativo mutamento comporta il sorgere di una nuova domanda, diversamente da quanto avviene per le domande autodeterminate, quelle per le quali il mutamento della causa petendi comporta soltanto emendatio e non mutatio libelli (App. Bari 6 ottobre 2009). La mutatio libelli si ha quando nel processo si introduce una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, mentre si ha una semplice emendatio libelli – consentita dall'art. 420, comma 1, c.p.c. se autorizzata dal giudice – quando si incide sulla causa petendi, modificando la qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto oppure sul petitum per renderlo più idoneo al soddisfacimento della pretesa azionata (App. Potenza 19 febbraio 2016). Pertanto, si ha mutatio libelli quando si formula una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un petitum diverso e più ampio oppure una causa petendi fondata su circostanze e situazioni giuridiche non prospettate prima, di modo che si ponga al giudice un nuovo tema d'indagine e si spostino i termini della controversia, con l'effetto di disorientare la difesa della controparte ed alterare il regolare funzionamento del processo (Cass., sez. lav., n. 17457/2009; Cass. II, n. 7579/2007; Cass. III, n. 6468/2007, in cui si è ritenuto costituisca una domanda nuova, perché fondata su una diversa causa petendi, comportante il mutamento dei fatti costitutivi del diritto fatto valere e l'introduzione nel processo di un nuovo thema decidendi, con alterazione dell'oggetto sostanziale dell'azione e dei termini della controversia, quella relativa all'attribuzione, in tema di locazione di immobili urbani, di determinati benefici economici a titolo di risarcimento del danno da ritardata restituzione dell'immobile ex art. 1591 c.c., rispetto alla richiesta fattane ab origine, per effetto della sospensione del provvedimento di rilascio, respinta dal giudice per inapplicabilità della normativa riguardante le locazioni ad uso abitativo e non anche le locazioni ad uso diverso; Cass. III, n. 7524/2005). Pertanto, qualora venga intimata licenza per finita locazione ad una certa data e l'intimato si opponga deducendo l'esistenza di altro contratto con scadenza posteriore, il locatore può proporre con la memoria integrativa, successiva all'ordinanza ex art. 426 c.p.c. che dispone la prosecuzione del giudizio secondo le regole della cognizione piena, la domanda di risoluzione alla stregua del secondo contratto, trattandosi di emendatio libelli, cioè di mera specificazione dell'originaria domanda di risoluzione avanzata in sede sommaria (Cass. III, n. 16635/2008). La legittimità di un siffatto argomentare trova preciso fondamento nella constatazione, ormai acquisita, della natura autodeterminata del diritto al rilascio, inteso quale diritto ad una prestazione specifica, consistente nella restituzione della cosa locata (Cass. III, n. 15021/2004). L'ordinamento processuale non conosce la memoria ex art.420 c.p.c., ma l'udienza di discussione di cui alla norma in parola. È vero che secondo una prassi largamente in uso presso i giudici che applicano il rito del lavoro, in vista dell'udienza di discussione il giudice può concedere alle parti termine per note scritte illustrative, ma, sia la discussione orale all'udienza di cui all'art.420 c.p.c., sia le note scritte eventualmente articolate in vista di essa su concessione del giudice, non possono evidentemente essere utilizzate né per mutare la domanda, che, ai sensi del comma 1 di detta disposizione, può essere solo emendata, previa autorizzazione del giudice, purché sussistano gravi motivi, né per produrre nuovi documenti, vigendo nel rito del lavoro le preclusioni di cui agli artt. 414 c.p.c. per l'attore e 416 c.p.c. per il convenuto. Tale produzione sarebbe possibile solo ove fossero ammessi nuovi mezzi di prova ai sensi del comma 5 dell'art. 420 c.p.c., previa richiesta di termine al riguardo ex art. 420, comma 7, c.p.c. (Cass. III, n. 13548/2024). L'ammissione dei mezzi istruttoriIl giudice non è tenuto ad ammettere i mezzi di prova dedotti dalle parti ove ritenga sufficientemente istruito il processo, e, di conseguenza può, nell'esercizio dei suoi poteri discrezionali, non ammettere la prova dedotta dalla parte quando, alla stregua di tutte le altre risultanze di causa, valuti la stessa come inconcludente. Al riguardo, è opportuno sottolineare come la specifica indicazione dei fatti non attiene al piano della validità della prova, ma a quello preliminare del giudizio di rilevanza, atteso che una testimonianza articolata non in fatti specifici, ma in valutazioni, è irrilevante dal punto di vista della sua efficacia probatoria. L'apprezzamento della rilevanza della prova attiene a sua volta, al potere del giudice di direzione del processo ed ha carattere ordinatorio processuale, considerato che alla base vi è l'esigenza di economia processuale di evitare un'attività che, in quanto relativa ad un mezzo di prova irrilevante, contrasta con esigenze di economia e di ragionevole durata del processo. A tale fine, è richiesta quindi la specificità nell'indicazione dei fatti, potendo ritenersi specifica l'indicazione che consente al giudice di stabilire, in relazione al thema probandum della lite, se i fatti indicati ad oggetto della prova sono rilevanti ai fini della decisione, mentre, non può ritenersi specifica l'indicazione che non consenta al giudice di formulare questo genere di valutazione. Pertanto, il giudice non ammette la prova quando non potendone valutare la rilevanza, non può fare altro che dichiararla irrilevante. La rilevabilità d'ufficio del difetto di specifica indicazione dei fatti discende allora dal fatto che tale elemento è previsto al fine di consentire al giudice la valutazione sulla rilevanza della prova, giacchè soltanto quando il giudice non ne abbia rilevato la mancanza, ed abbia quindi ammesso la prova, diventa decisivo il comportamento della controparte, che può limitarsi a dedurre la prova contraria, ovvero eccepire la violazione di regole di validità, come ad esempio, la stessa incapacità a testimoniare ex art. 246 c.p.c. Ciò nell'àmbito di quel più generale potere in tema di prova per il quale spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, assegnando prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti, nonchè la facoltà di escludere anche attraverso un giudizio implicito la rilevanza di una prova. Conseguentemente, si è quindi affermato che anche nello speciale rito del lavoro, la mancanza di un'indicazione specifica dei fatti nella deduzione della testimonianza, in quanto requisito di rilevanza della prova, è rilevabile d'ufficio dal giudice e rende inammissibile la testimonianza medesima (Cass. VI,n. 1294/2018; Cass., sez. lav., n. 13375/2009). Ciò premesso, l'art. 420, comma 5, c.p.c., dispone che il giudice nella stessa udienza fissata per la discussione della causa, ammette i mezzi di prova già proposti dalle parti e quelli che le parti non abbiano potuto proporre prima, se ritiene che siano rilevanti, disponendo, con ordinanza per la loro immediata assunzione. Nel rito del lavoro può farsi questione dell'inammissibilità di una prova non dedotta nell'atto introduttivo del giudizio, ma l'art. 420 comma 5 c.p.c., abilita le parti alla deduzione dei mezzi di prova che non abbiano potuto proporre prima, e tra dette prove ben può ricomprendersi la prova contraria rispetto a quella che la parte resistente abbia dedotto in memoria difensiva per suffragare i fatti allegati con tale atto. A ciò aggiungasi che l'art. 421 c.p.c. attribuisce al giudice rilevanti poteri istruttori esercitabili d'ufficio pur in presenza di decadenze o preclusioni già verificatesi e, in quest'ultima prospettiva, va richiamato il principio secondo cui l'uso dei poteri istruttori da parte del giudice exartt. 421 e 437 c.c. non ha carattere discrezionale, ma costituisce un potere-dovere del cui esercizio o mancato esercizio questi è tenuto a dare conto, anche se, al fine di censurare idoneamente l'inesistenza o la lacunosità della motivazione sulla mancata attivazione di detti poteri, occorre dimostrare di averne sollecitato l'esercizio. A tale sollecitazione va equiparata la richiesta di ammissione della prova, ove ad essa non sia seguito un provvedimento di rigetto: l'istanza in questione, in una situazione processuale caratterizzata dal silenzio del giudice, include ogni forma di acquisizione della prova resa possibile dalle norme che regolano il rito, non potendosi fare carico all'istante dell'onere di attribuire al detto silenzio, di per sé ambiguo, il significato di una statuizione reiettiva dell'istanza proposta. Pertanto, nel rito del lavoro, il giudice, in presenza della richiesta dell'ammissione di una prova, è tenuto a motivarne la mancata ammissione, a nulla rilevando l'ipotetica inammissibilità della stessa per l'intempestività della relativa richiesta, dal momento che, ove pure si sia prodotta una preclusione, egli, a fronte dell'iniziativa della parte che insista per l'esperimento della prova, è tenuto a dare conto del mancato esercizio del potere-dovere di fare uso dei poteri officiosi di cui all'art. 421 c.p.c. (Cass. I, n. 19948/2021). Al riguardo, occorre quindi coordinare il disposto degli artt. 414 e 416 c.p.c. con quello dell'art. 420, comma 5, c.p.c., il quale consente alle parti di proporre in udienza di discussione i mezzi di prova che non abbiano potuto proporre prima, dovendosi allora circoscrivere la sanzione della decadenza, exartt. 414 e 416 c.p.c., ai mezzi di prova, non dedotti dalle parti con il ricorso e con la memoria difensiva, e che peraltro le parti stesse avrebbero avuto modo di dedurre all'epoca del deposito di tali atti, non anche per i mezzi di prova, la cui deducibilità si è invece manifestata solo in epoca posteriore a quel deposito. Conseguentemente, l'art. 420, comma 5, c.p.c. dilaziona il termine perentorio di deduzione all'udienza fissata con il decreto di cui all'art. 415, comma 2, c.p.c. La locuzione dell'art. 420, comma 5, c.p.c. “mezzi di prova che le parti non abbiano potuto proporre prima” dell'udienza di discussione, deve intendersi nel senso che essa vale a designare anche i mezzi di prova che le parti avrebbero potuto bensì materialmente proporre, ma non abbiano ragionevolmente proposto in sede di ricorso o di memoria difensiva, in quanto l'interesse a proporli sia sopravvenuto nelle more dell'udienza di discussione, laddove, invece, per contro, sulla base di elementi oggettivi e nell'osservanza di criteri di lealtà processuale, essendo quei mezzi di prova inerenti a circostanze o fatti all'epoca presumibilmente pacifici, il ricorrente od il convenuto, nel momento del deposito o della memoria difensiva, potevano logicamente sentirsi dispensati dalla deduzione (Cass., sez. lav., n. 1509/1995). Secondo l'opinione emerse in dottrina (Luiso, 201), anche nel rito lavoristico, la modalità di assunzione delle prove è disciplinata dalle regole proprie del rito processuale civile ordinario. L'art. 420, comma 6, c.p.c. prevede che qualora non sia possibile ammettere i mezzi di prova nella stessa udienza, il giudice fissa altra udienza concedendo alle parti ove ricorrano giusti motivi, un termine perentorio per il deposito in cancelleria di note difensive. È dunque palese che in applicazione delle anzidette disposizioni, è onere delle stesse parti costituite dedurre, a pena di decadenza, i mezzi di prova che non abbiano potuto proporre prima, e giustificati dalle difese di controparte, nel corso della prima udienza, le quali, appunto perché meramente difensive, non possono contenere né nuove domande di merito, né, tantomeno, nuove istanze istruttorie. L'art. 420, comma 5, c.p.c. sancisce che nell'udienza di discussione il giudice ammette non solo i mezzi di prova già proposti dalle parti, ma anche i mezzi che le stesse parti non abbiano potuto proporre prima, dove il “prima” attiene logicamente alla fase anteriore all'udienza, nella quale, per l'attore, unico atto consentito è il ricorso, nel quale, non può dedurre la prova contraria a quella di controparte in un atto successivo, come la memoria di costituzione. In ordine ai nuovi mezzi di prova cui si riferisce l'art. 420, comma 7, c.p.c., la regola depone nel senso della loro immediata ammissione ed assunzione ai sensi dell'art. 420, comma 5, c.p.c., a meno che ciò non sia possibile come recita lo stesso art. 420, comma 6, c.p.c. e, debba quindi fissarsi un'altra udienza con la concessione, ricorrendo i giusti motivi, di un termine perentorio per il deposito di note difensive. Nel caso in cui alla prima udienza vengano ammessi i nuovi mezzi di prova, allora è prevista la concessione di un termine perentorio di cinque giorni alla controparte per opporre a sua volta unicamente la prova contraria. L'ipotesi considerata dall'art. 420, comma 6, c.p.c. è quindi quella che le parti abbiano dedotto all'udienza di discussione mezzi di prova che non abbiano potuto proporre “prima” ovvero con gli atti introduttivi, sicché, in via eccezionale – tale essendo il senso dei “giusti motivi” di cui alla stessa disposizione normativa citata – il giudice, per consentire alla parte l'esercizio del diritto di difesa, in ordine alla rilevanza ed ammissibilità della prova per la prima volta dedotta dall'altra parte, potrà fissare un termine per il deposito di memorie ed una nuova udienza nella quale decidere ed eventualmente provvedere alla relativa assunzione di essa. Secondo la dottrina (Tarzia, Dittrich, 176), l'impossibilità cui si riferisce l'art. 420, comma 6, c.p.c. riguarda la mancata presenza del teste o della persona da interrogare in aula, ovvero se la prova debba essere raccolta al di fuori della sede dell'ufficio giudiziario adito, oppure quando la prova debba essere acquisita con l'ausilio di terzi. Al riguardo, non va poi dimenticato che nel rito del lavoro, rientra tra i poteri del giudice quello previsto dall'art. 420, comma 5, c.p.c., di disporre, nell'udienza di discussione, l'ammissione e l'immediata escussione dei testi, con la conseguenza che grava su ogni parte l'onere di citare per tale udienza i testi di cui chiede l'ammissione, in quanto l'inosservanza di tale onere è causa di decadenza a carico della stessa parte istante, che, pur non essendo espressamente prevista, deriva dalla previsione del potere-dovere del giudice di procedere alla immediata assunzione dei mezzi di prova proposti dalle parti, salvo che ciò non sia possibile. Il carattere di oralità dell'udienza di discussione della causa, coniugato al principio di relativa libertà di forme degli atti processuali, comporta che non possa annettersi alcun effetto invalidante alla circostanza che l'audizione dei testi non sia stata preceduta da una formale ordinanza di ammissione della prova (Cass., sez. lav., n.5648/1990). In particolare, l'assunzione della prova nel contesto dell'udienza – con la presenza di tutti i soggetti legittimati a parteciparvi – non può che contenere e presupporre la sua stessa ammissione. Tale indirizzo giurisprudenziale è stato successivamente messo in discussione per effetto di una interpretazione maggiormente aderente alla reale esperienza giudiziaria, non senza non tenere conto che sarebbe irrazionale citare i testimoni dinanzi al giudice adito prima ancora che la loro audizione sia stata dichiarata ammissibile dal giudice (Luiso, 204; Montesano, Vaccarella, 195). La dottrina ha sempre mostrato una forte avversione per la tesi imperniata sull'assoluto rigore della modalità di ammissione delle prove, a cui fa capo l'orientamento di legittimità consolidatosi nel corso di molti anni (Luiso, 204; Montesano, Vaccarella, 195). Infatti, la regola per cui la parte ha l'onere di fare chiamare i testimoni nell'udienza fissata per la discussione, perché il giudice ha il potere di disporne l'assunzione nella stessa udienza, sebbene dotata di un'apparente logica ove postulata in riferimento all'originaria udienza di discussione, tutte le volte che l'anzidetta udienza subisce dei rinvii, si trasforma invece nella regola per cui la parte ha l'onere di fare citare i testimoni e quest'ultimi hanno l'obbligo di comparire per tutto l'arco del giudizio e per ciascuna delle successive udienze in cui questo finisca per articolarsi, ciò, senza che i testimoni sappiano se dovranno essere ascoltati e sino a quando il giudice, ascoltandoli o dichiarandone non necessario l'escussione, li liberi da tale soggezione. In buona sostanza, la regola finisce per tradursi in un rigido formalismo – giacché essa non può non ingenerare nei testimoni la resistenza a comparire inutilmente – a cui è ricollegata però una decadenza in grado di compromettere il riconoscimento del diritto a cui tende la parte interessata, ragione per cui si è giunti ad affermare il principio in base al quale – posto che l'art. 420, comma 5 e 6, c.p.c. prevede una regola ed il comportamento da osservare quando la stessa regola si riveli inapplicabile, le cui disposizioni, contenute nell'art. 420, comma 5 e 6, c.p.c. non devono essere lette in modo separato – nei giudizi che si svolgono secondo il rito speciale delle controversie di lavoro, il giudice che, nell'udienza fissata per la discussione, ammette la prova per testimoni ne dispone l'immediata assunzione in quanto ciò sia reso possibile dalla presenza delle persone da interrogare, diversamente fissa altra udienza a norma dell'art. 420, comma 6, c.p.c., per la quale la parte ha l'onere, sanzionato dalla decadenza preveduta dall'art. 104, comma 1, disp. att. c.p.c., di chiedere l'intimazione dei testimoni ammessi secondo la disposizione dettata dall'art. 250 c.p.c. (Cass. III, n. 3275/1997). Nel rito del lavoro, qualora la parte abbia, con l'atto introduttivo del giudizio, proposto capitoli di prova testimoniale, specificamente indicando di volersi avvalere del relativo mezzo in ordine alle circostanze di fatto ivi allegate, ma omettendo l'enunciazione delle generalità delle persone da interrogare, tale omissione non determina decadenza dalla relativa istanza istruttoria, ma concreta una mera irregolarità, che abilita il giudice all'esercizio del potere-dovere di cui all'art. 421, comma 1, c.p.c., con la conseguenza che, in sede di pronuncia dei provvedimenti istruttori di cui all'art. 420, il giudice, ove ritenga l'esperimento del detto mezzo pertinente e rilevante ai fini del decidere, deve indicare alla parte istante la riscontrata irregolarità, che allo stato non consente l'ammissione della prova, assegnandole un termine per porvi rimedio ed applicando, a tal fine la particolare disciplina dettata dal comma 6 della norma da ultimo citata, col corollario della decadenza nella sola ipotesi di mancata ottemperanza allo spirare di questo termine, espressamente dichiarato perentorio dal medesimo comma. Coerentemente con tale principio, si è ritenuto che, poiché nel rito del lavoro i fatti da allegare devono essere indicati in maniera specifica negli atti introduttivi, il giudice, nell'esercizio dei poteri di cui all'art. 421, comma 1, c.p.c., può assegnare alle parti un termine anche per rimediare alle irregolarità eventualmente rilevate nella capitolazione della prova testimoniale. Pertanto deve ritenersi che anche la riformulazione dei capitoli di prova, in quanto attività funzionale ad emendare una irregolarità che non consente allo stato l'ammissione della prova, possa essere consentita previa assegnazione del termine di cinque giorni prima dell'udienza di discussione previsto al comma 6 dell'art. 420 c.p.c., col corollario della decadenza della parte dalla prova nella sola ipotesi di mancata ottemperanza allo spirare di quel termine, ivi espressamente dichiarato perentorio (Cass., sez. lav., n.6470/2024). L'assunzione delle proveL'assunzione delle prove è disciplinata dall'art. 420, commi 5, 6, 7 e 8 c.p.c. In particolare, l'art. 420, comma 5, c.p.c. dispone che il giudice nella stessa udienza di discussione, ammette i mezzi di prova già proposti dalle parti e quelli che le parti non abbiano potuto proporre prima, se ritiene che siano rilevanti, disponendo, con ordinanza resa nell'udienza, per la loro immediata assunzione. Nel rito lavoro, per effetto del combinato disposto dell'art. 202, comma 1, c.p.c. - che prevede che il giudice fissi una udienza di assunzione delle prove che non abbia potuto assumere contestualmente alla loro ammissione - dell'art. 420, commi 5 e 6 c.p.c., che prevede nel processo del lavoro la concentrazione in una sola udienza dell'ammissione e della assunzione delle prove, ma consente in caso di necessità di fissare altra udienza, e dell'art. 250 c.p.c. - che consente alle parti di citare i testimoni a mezzo ufficiale giudiziario, solo in forza del provvedimento del giudice di ammissione della prova testimoniale e di fissazione dell'udienza di assunzione, vige il principio che il giudice provvederà nella stessa udienza di ammissione della prova testimoniale all'audizione dei testi, comunque presenti, ma non potrà dichiarare decaduta la parte dalla prova per la mancata presentazione di essi, essendogli consentito di poterli citare solo in forza del provvedimento di ammissione, con la conseguenza che il giudice dovrà fissare altre udienze per la prosecuzione della prova (Cass., sez. lav., 31293/2019). L'art. 420, comma 5, c.p.c., consente al giudice di primo grado di ammettere, nell'udienza di discussione della causa, i mezzi di prova che le parti non abbiano potuto proporre prima, se ritiene che siano rilevanti. La valutazione in ordine alla rilevanza, così come il fatto che la proposizione tempestiva non fosse altrimenti possibile – o perché la necessità della richiesta sorga per effetto di fatti addotti a difesa dalla controparte o a sostegno di domande riconvenzionali, ovvero in relazione ad una inaspettata contestazione sollevata dall'avversario su di una circostanza che poteva ragionevolmente considerarsi pacifica, od anche a seguito della contestazione della prova documentale allegata ab origine, e ritenuta dalla parte istante quale prova idonea a sostenere i fatti dedotti in giudizio – appartiene all'apprezzamento discrezionale del giudice di merito e non è preclusa ove si siano tenute precedenti udienze in cui non è stata svolta alcuna attività perché le parti avevano concordemente richiesto rinvii finalizzati al componimento della lite (Cass., sez. lav., n.1916/2018). Tale orientamento è stato confermato di recente (Cass. sez. lav., n.33393/2019) laddove si è statuito che l'acquisizione in causa di documenti successivamente al deposito del ricorso introduttivo, o, rispetto al convenuto, rispetto alla memoria di costituzione e risposta, può aversi soltanto a ben precise condizioni, essenziali al fine di assicurare tenuta al principio di preclusione che governa il rito del lavoro. Pertanto, viene ribadito il principio che la produzione tardiva può essere ammessa se si tratti di documenti formati o giunti nella disponibilità della parte solo dopo lo spirare dei termini preclusivi, oppure se la loro rilevanza emerga in ragione dell'esigenza di replicare a difese altrui che, in adeguamento agli sviluppi indotti dal contraddittorio, giustifichino l'ampiamento probatorio. In base a tale ultimo orientamento, trova altresì conferma il principio che l'acquisizione documentale potrebbe aversi d'ufficio, anche previa sollecitazione di parte, se i documenti risultino indispensabili per la decisione, e, quindi, necessari per integrare la dimostrazione dell'esistenza od inesistenza di un fatto. In sintesi, anche la più recente giurisprudenza di legittimità sopra richiamata ribadisce che le produzioni tardive per essere utilizzabili rispetto alla decisione, devono rispettare le regole di efficace ingresso nel processo, che postulano allegazioni giustificative ad opera delle parti o del giudice, se si tratti di acquisizione officiosa. Ciò tenendo sempre presente che nel rito lavoristico, le circostanze di fatto non contestate dal convenuto devono essere ritenute come provate (App. Catanzaro sez. lav. 22 gennaio 2020). L'art. 420, comma 6, c.p.c. enuncia che qualora ciò non sia possibile, fissa altra udienza, non oltre dieci giorni dalla prima, concedendo alle parti, ove ricorrano giusti motivi, un termine perentorio non superiore a cinque giorni prima dell'udienza di rinvio per il deposito in cancelleria di note difensive. In dottrina (Tarzia, Dittrich, 176) si ritiene che l'impossibilità che giustifica il differimento dell'udienza di assunzione delle prove previsto dall'art. 420, comma 6, c.p.c. si realizza quando la persona da ascoltare come teste non è presente all'udienza, ovvero per l'acquisizione della prova necessiti l'intervento di terzi o debba raccogliersi al di fuori dell'ufficio giudiziario adito. Il giudice che, nell'udienza fissata per la discussione, ammette la prova per testimoni ne dispone l'immediata assunzione in quanto ciò sia reso possibile dalla presenza delle persone da interrogare (Cass. III, n. 3275/1997). L'art. 420, comma 7, c.p.c. prevede che nel caso in cui vengano ammessi nuovi mezzi di prova – a norma dell'art. 420, comma 5, c.p.c. – la controparte possa dedurre i mezzi di prova che si rendano necessari in relazione a quelli ammessi, con assegnazione di un termine perentorio di cinque giorni. Nell'udienza fissata a norma dell'art. 420, comma 6, c.p.c. il giudice ammette, se rilevanti, i nuovi mezzi di prova dedotti dalla controparte e provvede alla loro assunzione. In forza del suddetto dettato normativo, emerge dunque un'ulteriore ipotesi di impossibilità che giustifica il differimento dell'udienza in aggiunta a quelle sopra evidenziate in dottrina, ed è il caso in cui si renda necessario disporre il rinvio dell'udienza di discussione al solo fine di consentire alla controparte di potere dedurre i mezzi di prova che si rendano necessari in relazione a quelli nuovi già dedotti ed ammessi da altra parte in causa, garantendo la pienezza del contraddittorio, per così dire, “ad armi pari”. L'art. 420, comma 8, c.p.c. stabilisce che l'assunzione delle prove deve essere esaurita nella stessa udienza o, in caso di necessità, in udienza da tenersi nei giorni feriali immediatamente successivi. In ordine a tale ultima disposizione normativa, si è condivisibilmente osservato che il suo rigoroso rispetto è funzionale a garantire uno dei principi cardine propri dello speciale rito lavoristico, quello dell'oralità (Tarzia, Dittrich, 176). Notificazioni e comunicazioniL'art. 420, comma 11, c.p.c., prevede che a tutte le notificazioni e comunicazioni occorrenti provvede la cancelleria. Tuttavia, secondo la ricorrente interpretazione giurisprudenziale, tale disposizione, al di là dell'ampia formula impiegata, deve intendersi riferita unicamente alle comunicazioni e notificazioni riguardanti la chiamata in causa del terzo, non potendo esimere le parti dall'osservanza degli artt. 250 c.p.c. e 104 disp. att. c.p.c., che pongono a carico della parte interessata l'onere di richiedere l'intimazione dei testimoni da escutere (v. in tal senso Cass. III, n. 6368/1995; Cass. III, n. 4161/1994; Cass., sez. lav., n. 3681/1987; Cass. III, n. 1133/1984). In particolare, secondo la giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. lav., n. 7371/1998; Cass., sez. lav., n. 1668/1986), la suddetta disposizione normativa si riferisce soltanto alle notificazioni e comunicazioni necessarie per l'instaurazione del contraddittorio nelle ipotesi contemplate dallo stesso art. 420, commi 8 e 9 c.p.c. di chiamata in causa a norma degli artt. 102, comma 2 c.p.c., e 106 e 107 c.p.c., per tale ragione, non risultando applicabile alla citazione dei testimoni, la quale è disciplinata dall'art. 250 c.p.c., secondo cui l'intimazione di comparire è rivolta ai testi dall'ufficiale giudiziario su richiesta della parte interessata, con la conseguenza, in caso di ingiustificata inerzia della medesima, della sua decadenza alla prova ai sensi dell'art. 104 disp. att. c.p.c. In dottrina (Luiso, 201), si è criticata la scelta giurisprudenziale volta a limitare l'applicazione dell'art. 420, comma 11, c.p.c. secondo cui a tutte le notificazioni e comunicazioni occorrenti provvede l'ufficio, considerando per lo più il tenore letterale della suddetta norma che si riferisce a tutte le “notificazioni”. In estrema sintesi, i poteri istruttori attribuiti all'Ufficio, pertanto, non sono rivolti a sopperire alle lacune istruttorie delle parti ma a superare i dubbi residuali rispetto alle prove già indicate dalle parti in causa ed acquisite agli atti del processo. BibliografiaCarrato, Le locazioni e il processo, a cura di Carrato e Scarpa, Milano, 2005; Cerino Canova, La domanda giudiziale ed il suo contenuto, in Commentario del codice di procedura civile, diretto da Allorio, II, 1, Torino, 1980; Consolo, Codice di procedura civile commentario, diretto da Consolo, tomo III, Milano, 2018; Converso, sub Art. 420, in Converso, Pini, Raffone, Scalvini, Il nuovo processo del lavoro, Milano, 1974; Fabbrini, Diritto processuale del lavoro, Milano, 1975; Fazzalari, Appunti sul diritto del lavoro, in Giur. it., 1974, IV; Federico, Foglia, La disciplina del nuovo processo del lavoro, Milano, 1973; Luiso, Il processo del lavoro, Torino, 1992; Mandrioli, L'estinzione per inattività delle parti nel nuovo processo del lavoro, in Giur. it., 1974; Masoni, Le locazioni, II, Il processo, a cura di Grasselli e Masoni, Padova, 2007; Montesano, Vaccarella, Manuale di diritto processuale del lavoro, Napoli, 1996; Montesano, Arieta, Diritto processuale del lavoro, Napoli, 1996; Montesano, Arieta, Trattato di diritto processuale civile, II, 1, Padova, 2002; Nicoletti, Giustizia del lavoro, Torino, 1987; Oriani, L'inattività delle parti nel processo del lavoro, in Riv. dir. proc., 1989; Pera, “Quod non est in actis, non est in hoc mundo” (a proposito della pubblicità dell'udienza nelle cause di lavoro), in Riv. dir. proc., 1977; Perone, Il nuovo processo del lavoro, Padova, 1975; Pezzano, in Andrioli, Barone, Pezzano, Proto Pisani, Le controversie in materia di lavoro, Bologna, 1987; Poliseno, in La nuova giustizia del lavoro, a cura di Dalfino, Bari, 2011; Proto Pisani, Controversie individuali di lavoro, Torino,1993; Tarzia, Manuale del processo del lavoro, Milano, 1999; Tarzia, Dittrich, Manuale del processo del lavoro, Milano, 2015; Verde, Olivieri, Processo del lavoro, in Enc. dir., Milano, 1987; Vocino, Verde, Appunti sul processo del lavoro, Napoli, 1986; Vullo, Il nuovo processo del lavoro, Bologna, 2015. |