Codice di Procedura Civile art. 434

Vito Amendolagine

Inquadramento

Il ricorso deve contenere le indicazioni prescritte dall'art. 414 c.p.c.

L'appello deve essere motivato e la motivazione dell'appello deve contenere, a pena di inammissibilità l'indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado, e l'indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata.

L'art. 434 c.p.c., ripropone lo stesso contenuto dell'art. 342, comma 1, c.p.c. per la proposizione dell'appello nel rito civile ordinario di cognizione, salvo che per quanto attiene alla forma dell'atto d'impugnazione, la citazione nel rito civile ordinario ed il ricorso nel rito del lavoro.

Infatti, mentre l'art. 434 c.p.c. richiama l'art. 414 c.p.c., l'art. 342 c.p.c. rinvia all'art. 163 c.p.c.

Il ricorso deve essere depositato nella cancelleria della Corte d'Appello entro trenta giorni dalla notificazione della sentenza, oppure entro quaranta giorni nel caso in cui la notificazione abbia dovuto effettuarsi all'estero.

L'art. 434 c.p.c. si riferisce al c.d. termine “breve”, mentre nel caso di sentenza non notificata, il termine da osservare per proporre l'impugnazione è quello “lungo” previsto dall'art. 327 c.p.c.

Nello speciale rito del lavoro, la pendenza dell'appello si realizza all'atto del deposito del ricorso.

Nel rito del lavoro, la tempestività dell'appello, anche in relazione al termine di cui all'art. 327 c.p.c., va riscontrata con riferimento alla data del deposito del ricorso introduttivo presso la cancelleria del giudice di secondo grado e non a quella della successiva notificazione del ricorso stesso e del decreto di fissazione di udienza (Cass. sez. lav., n. 3807/2019).

Tale principio è stato confermato anche dalla più recente giurisprudenza laddove si è affermato che il termine di impugnazione si intende rispettato – con riferimento all'applicazione dell'art. 434 c.p.c. – con il deposito del ricorso, non venendo in rilievo, ai fini della valutazione della relativa tempestività, anche la notificazione di esso e del decreto di cui all'art. 435 c.p.c. (Cass. II, n. 3967/2024).

Inoltre, l'appello pur tempestivamente proposto nel termine previsto dalla legge, è improcedibile ove la notificazione del ricorso depositato e del decreto di fissazione dell'udienza non sia avvenuta, non essendo consentito – alla stregua di un'interpretazione costituzionalmente orientata ex art. 111, comma 2, Cost. – al giudice di assegnare ex art. 421 c.p.c. all'appellante, previa fissazione di un'altra udienza di discussione, un termine perentorio per provvedere ad una nuova notifica a norma dell'art. 291 c.p.c. (Cass. sez. lav., n. 19083/2018; Cass. sez. lav., n. 6159/2018; Cass. S.U., n. 20604/2008; in senso conforme, Trib. Roma 13 dicembre 2018).

Il decreto integrativo e correttivo della Riforma Cartabia approvato nella bozza del Consiglio dei Ministri in data 15 febbraio 2024 ha espunto dalla norma i riferimenti a depositi da effettuare in cancelleria, dovendo essi essere eseguiti telematicamente.

Nella relazione illustrativa al decreto integrativo e correttivo della Riforma Cartabia si precisa che il comma 1 dell'art. 434 c.p.c., relativo al contenuto dell'atto di appello nel rito del lavoro, viene modificato in modo da renderlo coerente con le modifiche apportate all'art. 342 c.p.c. a sua volta relativo al contenuto dell'atto di appello nel rito ordinario. In particolare, come si evince dalla relazione illustrativa all'art. 342 c.p.c. si tratta di modifiche meramente linguistiche che non intaccano il contenuto della disposizione ma sono volte a chiarire che i canoni di chiarezza, sintesi e specificità, non costituiscono di per sé requisiti di ammissibilità dell'appello, fatte salve le ipotesi in cui questo sia formulato in modo tale da dare adito a seri dubbi interpretativi circa l'effettiva portata dei motivi di impugnazione, secondo l'insegnamento della Suprema Corte, ed a specificare che ciascun motivo di appello deve essere relativo ad uno specifico capo della sentenza, la cui individuazione non fa parte dell'illustrazione delle ragioni per cui si chiede la riforma della decisione del giudice di prime cure.

La motivazione dell'appello nell'interpretazione giurisprudenziale

L'art. 434 c.p.c., ha sostituito al requisito dell'esposizione dei “motivi specifici dell'impugnazione” il diverso requisito della motivazione dell'appello, e, la ratio di tale modifica, accentua la capacità di selezione del ricorso in appello con l'intento di perseguire un potenziale esito deflattivo.

La giurisprudenza di legittimità ha quindi stabilito che a norma del novellato art. 434 c.p.c., i requisiti di contenuto che la motivazione delle censure deve contenere per sottrarsi alla sanzione di inammissibilità, consistono in tre punti essenziali, ovvero, la delimitazione dell'oggetto del giudizio di secondo grado, e, dunque, l'indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare, onde consentire l'immediata verifica della formazione del giudicato in relazione a quelle parti della sentenza che non hanno costituito oggetto di gravame; la proposizione di una nuova e diversa ricostruzione del fatto rispetto a quella compiuta dal giudice di primo grado, a sua volta scindibile in due momenti logicamente distinti, una pars destruens della pronuncia oggetto di gravame, volta a demolire la falsa rappresentazione della realtà sulla quale essa è stata fondata, ed un'altra pars construens, contenente un progetto alternativo di risoluzione della controversia, attraverso una diversa lettura del materiale di prova acquisito o acquisibile al giudizio, nei limiti consentiti in grado di appello, e previa indicazione della sua effettiva rilevanza ai fini del decidere; infine, l'indicazione delle norme di diritto violate o falsamente applicate e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata (Cass. III, n. 8666/2017).

Quanto al profilo riguardante l'allegazione dei motivi volti a censurare la sentenza resa dal giudice in ordine all'omessa pronuncia sull'eccezione di difetto di specificità dei motivi di gravame, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito il principio secondo cui il mancato esame da parte del giudice di una questione puramente processuale non è suscettibile di dare luogo al vizio di omissione di pronuncia, il quale si configura esclusivamente nel caso di mancato esame di domande od eccezioni di merito (Cass. Lav., 9 agosto 2022 n. 24551).

Le Sezioni Unite hanno quindi più recentemente affermato il principio che gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal d.l. n. 83/2012, convertito, con modificazioni, nella l. n. 134/2012, vanno interpretati nel senso che l'impugnazione deve contenere una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice.

Tuttavia, resta escluso, in considerazione della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata, che l'atto di appello debba rivestire particolari forme sacramentali o che debba contenere la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado (Cass. VI, n. 13535/2018; Cass. S.U., n. 27199/2017).

La riforma del 2012 non ha dunque trasformato, come alcuni hanno ipotizzato, l'appello in un mezzo di impugnazione a critica vincolata.

L'appello è rimasto una revisio prioris instantiae, ed i giudici di secondo grado sono chiamati in tale sede ad esercitare tutti i poteri tipici di un giudizio di merito, se del caso svolgendo la necessaria attività istruttoria, senza trasformare l'appello in una sorta di anticipato ricorso per cassazione.

La diversità tra il giudizio di appello e quello di legittimità va fermamente ribadita proprio alla luce della portata complessiva della riforma legislativa del 2012 la quale, mentre ha introdotto un particolare filtro che può condurre all'inammissibilità dell'appello in presenza di determinate condizioni artt. 348-bis c.p.c. e 348-ter c.p.c., ha nel contempo ristretto le maglie dell'accesso al ricorso per cassazione per vizio di motivazione, il che impone di seguire un'interpretazione che abbia come obiettivo non quello di costruire un'ulteriore ipotesi di decisione preliminare di inammissibilità, bensì quello di spingere verso la decisione nel merito delle questioni poste dall'appellante.

In buona sostanza, l'individuazione di un percorso logico alternativo a quello del primo giudice, non dovrà necessariamente tradursi in un progetto alternativo di sentenza, in quanto, il richiamo, contenuto nei citati artt. 342 e 434 c.p.c., alla motivazione dell'atto di appello, non implica che il legislatore abbia inteso porre a carico delle parti un onere paragonabile a quello del giudice nella stesura della motivazione di un provvedimento decisorio.

Infatti, l'assolvimento dell'onere che viene richiesto – nel rispetto del principio costituzionale della ragionevole durata del processo – è che la parte appellante ponga il giudice superiore in condizione di comprendere con chiarezza qual è l'esatto contenuto della censura proposta avverso il provvedimento impugnato, dimostrando così di avere compreso le ragioni del primo giudice, ed indicando il perché queste siano censurabili.

Conseguentemente, è stato affermato che ai sensi dell'art. 434, comma 1, c.p.c., nel testo introdotto dall'art. 54, comma 1, lett. c-bis del d.l. n. 83/2012, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 134/2012, in coerenza con il paradigma generale contestualmente introdotto nell'art. 342 c.p.c., è comunque indispensabile che l'appellante individui, sotto il profilo quantitativo, in modo chiaro ed esauriente il quantum appellatum, circoscrivendo il giudizio di gravame con riferimento agli specifici capi della sentenza impugnata nonchè ai passaggi argomentativi che la sorreggono e formuli, sotto il profilo qualitativo, le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo giudice, sì da esplicitare l'idoneità di tali ragioni a determinare le modifiche della decisione censurata (Cass. II, n. 305/2019; Cass., sez. lav., n. 7332/2018; Cass., sez. lav., n. 2143/2015; App. Bari 22 gennaio 2019; App. Roma 30 novembre 2018; Trib. Velletri 8 marzo 2018; App. Torino 15 febbraio 2018).

Tale impostazione è tutt'ora confermata dalla più recente giurisprudenza, laddove si è stabilito che l'art. 434 c.p.c. non richiede che le deduzioni della parte appellante assumano una determinata forma o ricalchino la decisione appellata con diverso contenuto, essendo richiesto unicamente che venga individuato in modo chiaro ed esauriente il cosiddetto quantum appellatum, circoscrivendo il giudizio di gravame con riferimento agli specifici capi della sentenza impugnata, nonché ai passaggi argomentativi che la sorreggono, formulando, poi, le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo giudice. In buona sostanza, l'impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l'utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata (App. Ancona 29 settembre 2021; Conf. Cass. II, n. 20066/2021; App. Milano 13 luglio 2021; App. Palermo 18 giugno 2021; Trib. Benevento 4 giugno 2021; App. Milano 19 maggio 2021).

La specificità dei motivi di appello, finalizzata ad evitare un ricorso generalizzato e poco meditato al giudice di seconda istanza, esige che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell'appellante, volte ad incrinare il fondamento logico giuridico delle prime, ragione per cui alla parte volitiva deve sempre accompagnarsi una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice.

Tale esigenza, tuttavia, non può impedire che il dissenso della parte soccombente investa la decisione impugnata nella sua interezza e che esso si sostanzi proprio in quelle argomentazioni che suffragavano la domanda disattesa dal primo giudice, essendo innegabile che, in tal caso, sottoponendo al giudice d'appello dette argomentazioni – perché ritenute giuste e idonee al conseguimento della pretesa fatta valere – si adempia pienamente all'onere di specificità dei motivi (Cass. VI, n. 932/2018).

Nell'atto di appello, deve affiancarsi alla parte volitiva una parte argomentativa, che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice.

La maggiore o minore ampiezza e specificità delle doglianze ivi contenute sarà, pertanto, diretta conseguenza della motivazione assunta dalla decisione di primo grado, dunque, ove le argomentazioni della sentenza impugnata dimostrino che le tesi della parte non sono state in effetti vagliate, l'atto di appello potrà anche consistere, con i dovuti adattamenti, in una ripresa delle linee difensive del primo grado, mentre è logico che la puntualità del giudice di primo grado nel confutare determinate argomentazioni richiederà una più specifica e rigorosa formulazione dell'atto di appello, che dimostri insomma di aver compreso quanto esposto dal giudice di primo grado offrendo spunti per una decisione diversa.

Inoltre, con riferimento all'art. 434, comma 1, c.p.c., l'inammissibilità del gravame per violazione dell'art. 342 c.p.c. sussiste solo quando il vizio investa l'intero contenuto dell'atto, mentre quando sia possibile individuare motivi o profili autonomi di doglianza sufficientemente identificati, è legittimo procedere allo scrutinio degli stessi da parte del giudice d'appello (App. Roma 5 settembre 2018).

Il contenuto dell'appello

Il richiamo contenuto nell'art.434 c.p.c. alle indicazioni contenute nell'art.414 c.p.c. non equipara totalmente la disciplina del contenuto del ricorso in appello al ricorso introduttivo.

A seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. 31 ottobre 2024, n. 164 noto come Correttivo alla riforma Cartabia, recante disposizioni integrative e correttive al d. lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, a sua volta recante l'attuazione della l. 26 novembre 2021, n. 206, recante la delega al Governo per l'efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonchè in materia di esecuzione forzata, al comma 1 e 2 dell'art. 434 c.p.c. attualmente si prevede che il ricorso deve contenere le indicazioni prescritte dall'art. 414 c.p.c. e deve essere motivato in modo chiaro, sintetico e specifico. Per ciascuno dei motivi, a pena di inammissibilità, l'appello deve individuare lo specifico capo della decisione impugnato ed in relazione a questo deve indicare: 1) le censure proposte alla ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di primo grado; 2) le violazioni di legge denunciate e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata. Il ricorso deve essere depositato entro trenta giorni dalla notificazione della sentenza, oppure entro quaranta giorni nel caso in cui la notificazione abbia dovuto effettuarsi all'estero. La modifica di cui al comma 2 dell'art. 434 c.p.c. riguarda la soppressione del riferimento alla cancelleria, in quanto il deposito degli atti nel processo civile – anche quando il rito è quello speciale del lavoro – avviene in forma telematica.

La ratio dell'art. 414, n. 2 c.p.c., nel primo grado di giudizio, della precisa indicazione del nome, cognome e della residenza, domicilio o dimora del convenuto risponde alla necessità di identificazione della parte evocata in giudizio, mentre nell'appello l'indicazione degli appellati può avvenire anche per relationem ai soggetti che hanno partecipato al giudizio di primo grado, proponendo il ricorso o la memoria difensiva introduttivi del giudizio, senza che per ciò solo si verifichi l'incertezza sui soggetti evocati in giudizio, che, ai sensi dell'art. 164 c.p.c., è sanzionata con la nullità dell'atto (Cass., sez. lav., n. 22746/2004).

La mancata indicazione nel ricorso introduttivo del giudizio del lavoro del requisito di cui all'art. 414, n. 4), c.p.c., concernente l'esposizione dei fatti su cui si fonda la domanda, richiamato dall'art. 434 c.p.c., per il ricorso in appello, è causa di nullità insanabile dell'atto, rilevabile d'ufficio, derivando tale sanzione dal principio contenuto nell'art. 156, comma 2, c.p.c. con la conseguente pronuncia di inammissibilità del ricorso (Cass. III, n. 13005/2006).

Gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134/2012, vanno interpretati nel senso che l'impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l'utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata. I principi enunciati chiariscono che non occorrono particolari forme per manifestare il dissenso da parte dell'appellante rispetto alla decisione impugnata, occorrendo invece che tale dissenso sia articolato in ragioni che individuino chiaramente la parte di motivazione non condivisa e offrano argomentazioni utili a confutare il decisum (Cass., sez. lav., n.16765/2024).

La Cassazione ha precisato che la disciplina relativa alla fissazione dell'udienza di discussione nel giudizio di appello non contiene alcuna previsione di avviso all'appellato in ordine alle conseguenze di una sua mancata o tardiva costituzione, atteso che la necessità di una simile comunicazione non può certamente desumersi dalla specifica previsione dell'art. 163, n. 7) c.p.c., relativa all'atto di citazione secondo il rito ordinario, per estenderlo anche nel giudizio in appello secondo il rito del lavoro (Cass., sez. lav., n. 14829/2002).

A parte la diversità di forma dell'introduzione del giudizio con ricorso, nel giudizio di appello disciplinato dal rito lavoristico, destinato a svolgersi nell'ambito degli stessi accertamenti di fatto già compiuti in primo grado, non opera lo stesso sistema di preclusioni e decadenze che caratterizza la prima istanza, ragione per cui, non può dunque prospettarsi un'analoga esigenza di salvaguardia del diritto di difesa.

Nel rito del lavoro – applicabile anche alle controversie locatizie ai sensi dell'art. 447-bis c.p.c. – il convenuto, rimasto contumace nel giudizio di primo grado, può nell'atto di appello contestare la fondatezza della domanda, nel rispetto delle disposizioni di cui agli artt. 434 e 437 c.p.c.

La previsione dell'obbligo del convenuto di formulare nella memoria difensiva di primo grado, a pena di decadenza, le eccezioni processuali e di merito, nonché di prendere posizione precisa in ordine alla domanda attorea, e, di indicare le prove di cui intende avvalersi, infatti, da un lato, non esclude il potere-dovere del giudice di accertare se parte attrice abbia fornito la dimostrazione probatoria dei fatti costitutivi e giustificativi della pretesa – indipendentemente dalla circostanza che, in ordine ai medesimi, siano state o meno proposte, dalla parte legittimata a contraddire, contestazioni specifiche, difese ed eccezioni in senso lato – e, dall'altro, non impedisce alla stessa parte di sollevare in qualunque momento – anche nel giudizio di appello – tutte le difese in senso lato, e le questioni rilevabili d'ufficio che possano incidere sul rapporto controverso (Cass. III, n. 25281/2009; Cass., sez. lav., n. 12317/2003).

In dottrina, si ritiene che i termini brevi per impugnare la decisione di primo grado, di cui all'art. 434, comma 2, c.p.c. abbiano natura perentoria (Tarzia, Dittrich, 324).

Nel rito del lavoro, il deposito del ricorso in appello assume rilevanza – agli effetti della tempestività dell'impugnazione – per il suo obiettivo avverarsi ed il fatto che la relativa certificazione appaia non dall'originale ma da una copia costituisce un vizio formale che non vale ad incidere sull'ammissibilità dell'impugnazione (Cass., sez. lav., n. 15838/2002).

La tempestività dell'appello è decisa dal deposito del ricorso non dalla sua notificazione, e, a tale fine, il deposito dell'atto presso un ufficio giudiziario, prevede necessariamente l'intervento certificativo del cancelliere, e, nel caso di deposito del ricorso, determina la costituzione del ricorrente e l'iscrizione della causa a ruolo, pertanto appare estranea alla previsione dello schema legale l'invio di atti alla cancelleria del giudice a mezzo del servizio postale.

La potestà certificativa del cancelliere si estende a tutti gli atti che per legge devono essere depositati presso l'ufficio giudiziario.

La tempestività del compimento di un atto può eventualmente essere provata diversamente solo nel caso in cui, per qualunque motivo, manchi l'attestazione del cancelliere, perché ove la certificazione sia stata apposta all'atto, la stessa può essere impugnata solo con querela di falso (Cass., sez. lav., n. 9706/2002).

La giurisprudenza di legittimità ha, quindi, statuito che poiché deve ritenersi assolutamente infungibile l'attività del deposito in cancelleria del ricorso per la valida proposizione dell'appello nel rito del lavoro deve di conseguenza escludersi una sanatoria per raggiungimento dello scopo dell'atto in caso di invio dello stesso a mezzo del servizio postale (Cass., sez. lav., n. 9069/2005).

Nelle materie in cui trova applicazione il rito del lavoro, la lettura in udienza del dispositivo e della esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, equivale a pubblicazione della sentenza, con esonero della comunicazione di Cancelleria, analogamente a quanto previsto dall'art. 281-sexies, comma 2, c.p.c.

Pertanto, il dies a quo di decorrenza del termine cd. lungo di decadenza per la proposizione dell'impugnazione, previsto dall'art. 327 c.p.c., con riferimento alla pubblicazione della sentenza, deve essere individuato alla stessa data dell'udienza in cui è stato definito il giudizio, dando lettura del dispositivo e dell'esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, con la conseguente conoscenza legale del provvedimento, ai sensi dell'art. 176, comma 2, c.p.c., per le parti presenti o che avrebbero dovuto comparire all'udienza (Cass. III, n. 14724/2018).

In dottrina si è altresì osservato come la costituzione dell'appellante ex art. 434 c.p.c. esige il tempestivo deposito del ricorso non anche del fascicolo di parte e della sentenza gravata da appello, potendo tali omissioni unicamente determinarne il rigetto in punto di merito, non già l'inammissibilità del proposto gravame (Consolo, 434).

L'inammissibilità dell'appello per tardivo deposito del relativo atto è rilevabile d'ufficio, e non è sanata dalla costituzione dell'appellato, in quanto la tardività dell'impugnazione implica il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado (Cass., sez. lav., n. 2260/1990), così come nell'ipotesi in cui il ricorso sia stato depositato presso la cancelleria del giudice incompetente (Cass., sez. lav., n. 938/1999), mentre l'appello tempestivamente depositato, benché notificato oltre il termine “lungo” dal deposito della sentenza, deve essere eseguita presso il difensore costituito non alla parte personalmente (Cass., sez. lav., n. 19576/2004).

L’impugnazione tardiva della parte rimasta contumace nel giudizio di primo grado

Il contumace per evitare la decadenza dal diritto di proporre impugnazione avverso la sentenza del giudice di prime cure per decorso del termine annuale - come pure per proporre opposizione tardiva avverso il decreto ingiuntivo ex art. 650 c.p.c. o la convalida di sfratto ai sensi dell'art. 668 c.p.c. - non è sufficiente la sola nullità dell'atto di citazione o della sua notificazione - o l'irregolarità della notificazione nei casi analoghi del processo monitorio o di sfratto - occorrendo altresì la prova - il cui onere incombe alla stessa parte contumace che intenda avvalersi del diritto di proporre tardivamente l'impugnazione - della mancata conoscenza del processo a causa di tale nullità o dell'irregolarità nella notifica dell'atto introduttivo del giudizio di primo grado (Cass. III, n. 532/2020).

La questione si è posta con riferimento ad un'associazione che pur non avendo sede legale presso l'immobile locato, in esso si svolgeva un'attività riconducibile all'oggetto sociale della medesima, e che in due diverse occasioni aveva ricevuto la notificazione degli atti giudiziari notificati a mano ad un soggetto presente nell'immobile, qualificatosi come legittimato a ricevere la notificazione ai sensi dell'art. 145 c.p.c. e con ciò determinando la presunzione che egli lì si trovasse in modo non occasionale, presunzione che l'associazione destinataria della notifica  non aveva vinto, essendosi limitata a negare che egli avesse la rappresentanza legale e che in realtà era soltanto un pensionato, senza alcun titolo nemmeno provvisorio e precario per trovarsi nell'immobile locato non essendo in alcun modo riconducibile alla propria organizzazione.

In particolare, ai fini della regolarità della notifica di un'atto diretto ad un soggetto diverso dalla persona fisica, qualora dalla relata dell'ufficiale giudiziario o del portalettere risulti, nella sede legale od effettiva, la presenza di una persona all'interno dei relativi locali, è da presumere che tale persona sia addetta alla ricezione degli atti, senza che il notificatore debba accertarsi della sua effettiva condizione, là dove l'ente  societario, per vincere la presunzione in parola, ha l'onere di provare la mancanza dei presupposti per la valida effettuazione del procedimento notificatorio.

Infatti, la disposizione dell'art. 46 c.c. secondo cui, qualora la sede legale della persona giuridica sia diversa da quella effettiva, i terzi possono considerare ugualmente quest'ultima come sede della persona giuridica, vale anche in tema di notificazione, con la conseguente applicabilità dell'art. 145 c.p.c.

Tale principio, trova applicazione anche per le associazioni non riconosciute, e comporta che, ai fini della regolarità della notificazione degli atti, è sufficiente che il consegnatario sia legato alla persona giuridica od all'associazione non riconosciuta da un rapporto che, pur non essendo di prestazione lavorativa, risulti dall'incarico - non importa se provvisorio o precario - di ricevere la corrispondenza (Cass. trib., n. 32981/2018).

Ai fini della notificazione alle persone giuridiche ed alle società non aventi personalità giuridica, l'erronea indicazione della persona fisica del rappresentante legale non dà quindi luogo a nullità della notificazione, ai sensi dell'art. 160 c.p.c., tranne che non vi sia incertezza sull'individuazione dell'ente destinatario dell'atto da notificare, non prevedendo l'art. 145 c.p.c. la necessaria indicazione della persona fisica del rappresentante dell'ente.

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