Le ipotesi in cui la Corte di cassazione pronuncia a Sezioni Unite vengono disciplinate dall'art. 374 c.p.c.
Inquadramento
La Corte di cassazione, ai sensi dell'art. 374 c.p.c., pronuncia a Sezioni Unite:
a) se il ricorso è proposto per motivi attinenti alla giurisdizione, sia avverso decisioni dei giudici ordinari (art. 360, n. 1, c.p.c.: ma in tal caso può essere assegnato alle sezioni semplici se sulla questione di giurisdizione proposta si sono già pronunciate le Sezioni Unite) sia avverso decisioni di un giudice speciale (art. 362, comma 1, c.p.c.);
b) in caso di conflitti positivi o negativi di giurisdizione tra giudici speciali o tra questi e i giudici ordinari, ovvero di conflitti negativi di attribuzione tra la pubblica amministrazione e i giudici ordinari;
c) se la rimessione alle Sezioni Unite è disposta dal primo presidente ai fini della soluzione di contrasti, ossia su ricorsi che presentano una questione di diritto già decisa in senso difforme dalle sezioni semplici;
d) se la rimessione alle Sezioni Unite è disposta dal primo presidente su ricorsi che presentano una questione di massima di particolare importanza.
Le due ultime ipotesi considerate consentono alle Sezioni Unite di esercitare al massimo grado la funzione nomofilattica. L'assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite è in tali ipotesi decisa discrezionalmente dal primo presidente, a norma dell'art. 376, comma 1, c.p.c.
Nel 2006, inoltre, l'art. 374 c.p.c. è stato novellato con l'introduzione di un comma il quale, nell'intento di attribuire alle Sezioni Unite una particolare vincolatività, stabilisce che, se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso.
In tutti gli altri casi, secondo il citato art. 374, la Corte pronuncia a sezione semplice: ma vi sono disposizioni speciali ulteriori che contemplano la pronuncia a Sezioni Unite. In particolare:
sui ricorsi contro le decisioni di secondo grado del Tribunale superiore delle acque pubbliche (art. 200 R.d. n. 1775/1933);
sui ricorsi contro le decisioni del Consiglio nazionale forense (art. 36, comma 6, l. n. 247/2012);
i ricorsi contro i provvedimenti del Consiglio superiore della magistratura in materia disciplinare (art. 17, comma 3, l. n. 195/1958).
Bisogna infine aggiungere che, pur abrogato l'art. 19, comma 3, d.l.lgt. n. 219/1919, conv. in l. n. 1290/1921, ad opera del d.P.R. n. 327/2001, la giurisdizione della Giunta speciale presso la Corte d'appello di Napoli, soppressa, a seguito dell'abrogazione del d.l.lgt. n. 219/1919 da parte dell'art. 58, comma 1, n. 50, d.P.R. n. 327/2001, permane per le controversie derivanti da procedimenti espropriativi nei quali la pubblica utilità o l'indifferibilità ed urgenza dell'opera pubblica sia stata dichiarata in epoca anteriore all'entrata in vigore della nuova normativa, ossia dal 30 giugno 2003 (Cass. civ., Sez. Un., 10 marzo 2008, n. 6273).
Le questioni di giurisdizione
La pronuncia a Sezioni Unite è prevista in primo luogo nel caso in cui si tratti di risolvere una questione di giurisdizione, che può essere portata dinanzi ad esse attraverso tre vie:
attraverso il regolamento di giurisdizione di cui all'art. 41, comma 1, c.p.c. secondo cui, finché la causa non sia decisa nel merito in primo grado, ciascuna parte può chiedere alle sezioni unite della corte di cassazione che risolvano le questioni di giurisdizione di cui al precedente art. 37 c.p.c., che si riferisce al difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali; inoltre, ai sensi del comma 2, la pubblica amministrazione che non è parte in causa può chiedere in ogni stato e grado del processo che si era dichiarato dalle sezioni unite della corte di cassazione ha il difetto di giurisdizione del giudice ordinario a causa dei poteri attribuiti dalla legge all'amministrazione stessa, finché la giurisdizione non sia stata affermata con sentenza passata in giudicato;
attraverso l'ordinario ricorso per cassazione spiegato ai sensi del n. 1 dell'art. 360 c.p.c., ovvero ai sensi del comma 1 dell'art. 362c.p.c. (a seconda che la sentenza sia stata pronunciata dal giudice ordinario o da un giudice speciale) e cioè, appunto, per motivi attinenti alla giurisdizione;
attraverso la denuncia di conflitto di cui al comma 2 dell'art. 362 c.p.c., che si riferisce da un lato ai conflitti positivi (entrambi dichiarano di avere giurisdizione) o negativi (entrambi la negano) di giurisdizione tra giudici speciali o tra questi e i giudici ordinari, dall'altro ai conflitti negativi di attribuzione tra la pubblica amministrazione e il giudice ordinario.
Va subito rammentato, tuttavia, che lo spazio riservato al ricorso alle Sezioni Unite per motivi di giurisdizione si è significativamente contratto a seguito dell'affermazione del principio che ammette la formazione del giudicato implicito sulla giurisdizione.
Le Sezioni Unite hanno difatti affermato che l'interpretazione dell'art. 37 c.p.c., secondo cui il difetto di giurisdizione «è rilevato, anche d'ufficio, in qualunque stato e grado del processo», deve tenere conto dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo («asse portante della nuova lettura della norma»), della progressiva forte assimilazione delle questioni di giurisdizione a quelle di competenza e dell'affievolirsi dell'idea di giurisdizione intesa come espressione della sovranità statale, essendo essa un servizio reso alla collettività con effettività e tempestività, per la realizzazione del diritto della parte ad avere una valida decisione nel merito in tempi ragionevoli. All'esito della nuova interpretazione della predetta disposizione, volta a delinearne l'ambito applicativo in senso restrittivo e residuale, ne consegue che: 1) il difetto di giurisdizione può essere eccepito dalle parti anche dopo la scadenza del termine previsto dall'art. 38 c.p.c. (non oltre la prima udienza di trattazione), fino a quando la causa non sia stata decisa nel merito in primo grado; 2) la sentenza di primo grado di merito può sempre essere impugnata per difetto di giurisdizione; 3) le sentenze di appello sono impugnabili per difetto di giurisdizione soltanto se sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito, operando la relativa preclusione anche per il giudice di legittimità; 4) il giudice può rilevare anche d'ufficio il difetto di giurisdizione fino a quando sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito. In particolare, il giudicato implicito sulla giurisdizione può formarsi tutte le volte che la causa sia stata decisa nel merito, con esclusione per le sole decisioni che non contengano statuizioni che implicano l'affermazione della giurisdizione, come nel caso in cui l'unico tema dibattuto sia stato quello relativo all'ammissibilità della domanda o quando dalla motivazione della sentenza risulti che l'evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni altra valutazione (ad es., per manifesta infondatezza della pretesa) ed abbia indotto il giudice a decidere il merito per saltum, non rispettando la progressione logica stabilita dal legislatore per la trattazione delle questioni di rito rispetto a quelle di merito (Cass. civ., Sez.Un., 9 ottobre 2008, n.24883, che ha giudicato inammissibile l'eccezione di difetto di giurisdizione sollevata per la prima volta in sede di legittimità dalla parte che, soccombente nel merito in primo grado, aveva appellato la sentenza del giudice tributario senza formulare alcuna eccezione sulla giurisdizione, così ponendo in essere un comportamento incompatibile con la volontà di eccepire il difetto di giurisdizione e prestando acquiescenza al capo implicito sulla giurisdizione della sentenza di primo grado, ai sensi dell'art. 329, comma 2,c.p.c.).
Anche all'esito dell'affermarsi del principio concernente il giudicato implicito sulla giurisdizione, ed in linea con la pronuncia appena citata, si è ammesso il rilievo d'ufficio della questione di giurisdizione ove il giudice di merito abbia deciso soltanto sulla competenza e la sua statuizione sia stata impugnata con regolamento di competenza. E cioè, qualora una sentenza di primo grado, recante l'espressa affermazione della giurisdizione dell'adito giudice ordinario e la successiva declinatoria della sua competenza, sia stata impugnata con regolamento di competenza, da qualificarsi come facoltativo, la Corte di cassazione, non essendosi formato il giudicato sulla giurisdizione, giusta l'art. 43, comma 3, primo periodo, c.p.c., può rilevarne d'ufficio il difetto da parte di quel del giudice ai sensi dell'art. 37 c.p.c., attesi i concorrenti principi di pregiudizialità della questione di giurisdizione rispetto a quella di competenza, di economia processuale, di ragionevole durata del processo e l'attribuzione costituzionalmente riservata alla Suprema Corte di tutte le predette questioni, nonché il rilievo che la sua statuizione sulla sola questione di competenza risulterebbe inutiliter data se l'impugnazione riguardante la questione di giurisdizione ne sancisse la carenza per quel giudice (Cass. civ., Sez. Un., 5 gennaio 2016, n. 29)
Per altro verso l'espressione «motivi attinenti alla giurisdizione» ex art. 360, n. 1, c.p.c., richiamata dall'art. 374 c.p.c. per delineare un ambito di competenza delle Sezioni Unite, comprende l'ipotesi in cui il problema del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo sorga in funzione dell'accertamento della compromettibilità in arbitri e, quindi, della validità del compromesso o della clausola compromissoria, nel qual caso è ammissibile la questione di giurisdizione sollevata col ricorso per cassazione avverso la sentenza della corte d'appello sull'impugnazione per nullità del lodo (Cass. civ., Sez. Un., 27 gennaio 2016, n. 1514).
Un'ulteriore contrazione del campo di operatività della pronuncia a sezioni unite discende dalla previsione secondo cui, in caso di ricorso proposto ai sensi dell'art. 360, n. 1, c.p.c. (al di fuori, dunque, delle ipotesi di conflitto, ed anche, per espressa previsione normativa dettata dal comma 1 dell'art. 374 c.p.c., di quelle di impugnazione delle decisioni del Consiglio di Stato della Corte dei conti), il ricorso può essere assegnato alle sezioni semplici se sulla questione di giurisdizione proposta si sono già pronunciate le Sezioni Unite. Il limitato campo di operatività della previsione, che si applica ai soli ricorsi contro le decisioni del giudice ordinario, è dettato dall'evidente intento di evitare, anche per ragioni di coerenza sistematica, oltre che di opportunità, di sottoporre le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti al controllo delle sezioni semplici. La norma va poi letta in combinato disposto con il comma 3 dello stesso articolo 374 c.p.c., di cui si parlerà più avanti, il quale stabilisce che le sezioni semplici non si possono così e semplicemente discostare dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite: in linea di principio, cioè, le Sezioni Unite sono chiamate a «parlare una sola volta», dopodiché la medesima questione di giurisdizione può essere risolta in conformità dalle sezioni semplici, senza che occorra impegnare nuovamente l'attività delle Sezioni Unite.
Resta naturalmente ferma l'eventualità che le sezioni semplici, pur autorizzate a decidere la questione di giurisdizione (nella prassi dispone in tal senso il primo presidente), non condividano il precedente della Sezioni Unite, nel qual caso esse non possono discostarsi dal precedente, ma devono investire della questione le stesse Sezioni Unite.
In linea di principio, a fronte di un motivo attinente alla giurisdizione, la pronuncia a Sezioni Unite si impone sia che essa venga sollevata con il ricorso principale, sia che sia contenuta nel ricorso incidentale. Quando, però, si tratta di ricorso incidentale condizionato, «la prospettiva che l'esame di esso debba procedere solo se ricorrano le condizioni per l'accoglimento del principale deve suggerire come modus procedendi di previamente rimettere al primo presidente il fascicolo perché compia le valutazioni di cui alla norma citata [art. 374 c.p.c.: n.d.r.] e ciò anche al fine di evitare che alle Sezioni Unite venga rimesso l'esame dei motivi del ricorso principale in mancanza di connotazioni giustificative di una rimessione, come la particolare importanza o un contrasto, con la conseguenza di gravare il ruolo delle stesse al di là di quanto necessiti del loro intervento» (Cass. civ., Sez. Un., 22 dicembre 2015, n. 25777).
Una volta assegnato un ricorso alle Sezioni Unite, in presenza di un motivo attinente alla giurisdizione, la decisione investe oggi, o meglio può investire, l'intero ricorso, ossia tutti i motivi, anche quelli che esulano dal tema della giurisdizione. In passato, difatti, l'art. 142 disp. att. c.p.c. imponeva alle Sezioni Unite di rimettere la decisione dei motivi di ricorso «non di loro competenza». Attualmente la norma stabilisce che le Sezioni Unite, se non ritengono opportuno decidere l'intero ricorso, dopo aver deciso i motivi di propria competenza, rimettono, con ordinanza, alla sezione semplice la causa per la decisione, con separata sentenza, degli ulteriori motivi.
Quali sono i motivi attinenti alla giurisdizione?
È bene accennare, per il rilievo pratico della questione, che la nozione di «motivi attinenti alla giurisdizione», contenuta nel comma 1 dell'art. 362 c.p.c., è stata di recente ricondotta entro l'ambito suo proprio, anche per l'intervento del Giudice delle leggi, dopo un arco temporale, protrattosi per circa un decennio, nel corso del quale aveva subito una dilatazione fondata su una visione cd. «dinamica» della giurisdizione.
Secondo un orientamento ormai costante delle Sezioni Unite, il ricorso per cassazione avverso le decisioni del Consiglio di Stato, come pure della Corte dei conti, in applicazione del comma 8 dell'art. 111 Cost., è ammesso nel solo caso in cui la sentenza del giudice speciale abbia violato l'ambito della giurisdizione in generale, esercitando la giurisdizione nella sfera riservata al legislatore o alla discrezionalità amministrativa, ovvero, al contrario, negando la giurisdizione sull'erroneo presupposto che la domanda non possa formare oggetto, in modo assoluto, della funzione giurisdizionale, ovvero, ancora, qualora abbia violato i cosiddetti limiti esterni della propria giurisdizione, pronunciandosi su materia attribuita alla giurisdizione ordinaria o ad altra giurisdizione speciale, o negandola o compiendo un sindacato di merito, pur trattandosi di materia attribuita alla propria giurisdizione, limitatamente al solo controllo di legittimità degli atti amministrativi, così da invadere arbitrariamente il campo dell'attività riservata alla pubblica amministrazione.
Tale orientamento è stato condiviso dalla Corte costituzionale che, con sentenza numero 6 del 2018, ha negato la configurabilità di un concetto più ampio di giurisdizione (come si diceva «dinamico», o «funzionale», o «evolutivo»), sostenuto da una giurisprudenza minoritaria, secondo cui rivelerebbero non solo le norme sulla giurisdizione dettate ai fini dell'individuazione dei «presupposti dell'attribuzione del potere giurisdizionale», ma anche quelle che stabiliscono «le forme di tutela» attraverso cui la giurisdizione si estrinseca e, quindi, la violazione di legge in relazione alla giurisdizione, ogni qual volta ricorrano interpretazioni «abnormi o anomale», ovvero uno «stravolgimento» delle «norme di riferimento». La Consulta ha in particolare affermato che «la tesi che il ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione … comprenda anche il sindacato su errores in procedendo o in iudicando non può qualificarsi come una interpretazione evolutiva, poiché non è compatibile con la lettera e lo spirito della norma costituzionale». La nozione di controllo di giurisdizione così delineata, «nei termini puntuali che ad essa sono propri, non ammette soluzioni intermedie …, secondo cui la lettura estensiva dovrebbe essere limitata ai casi in cui si sia in presenza di sentenze “abnormi” o “anomale” ovvero di uno “stravolgimento”, a volte definito radicale, delle «norme di riferimento”».
La tesi della giurisdizione «dinamica», dunque, finendo per determinare l'equiparazione del ricorso avverso le sentenze del Consiglio di Stato o della Corte di conti con quello «ordinario», si pone in contrasto con l'art. 111 della Costituzione, che sottrae le sentenze di tali giudici al controllo nomofilattico della Corte di cassazione.
Tali principi, desunti dalla pronuncia della Corte costituzionale menzionata, sono stati fatti propri dalla giurisprudenza della S.C., che ha evidenziato trattarsi «di riaffermazione di principi già enunciati dalle Sezioni Unite» (Cass. civ., Sez. Un., n. 20529 del 2018), sicché la nozione di «motivi di giurisdizione» va letta in coerenza con quella esplicitata dalla Corte costituzionale (Cass. civ., Sez. Un., n. 31023 del 2019), la cui decisione esercita «carattere vincolante, dato che essa ha identificato gli ambiti dei poteri attribuiti alle differenti giurisdizioni dalla Costituzione, nonché i presupposti ed i limiti del ricorso ex art. 111 Cost., comma 8, così decidendo una questione che involge l'interpretazione di norme costituzionali e identificazione dei confini tra poteri da queste stabiliti … che non può non spettare alla Corte costituzionale, quale interprete ultimo delle norme costituzionali» (Cass. civ., Sez. Un., n. 15338/2019 e Cass. civ., Sez. Un., n. 15744/2019».
Non v'è dunque modo ormai di ritenere che diano luogo a diniego di giurisdizione da parte del Consiglio di Stato gli errori in procedendo o in iudicando, ancorché riguardanti il diritto dell'Unione europea, neppure nei casi di radicale stravolgimento delle norme di riferimento (p. es., in tale ottica, Cass. civ., Sez. Un., n. 31226/2017).
Il carattere relativamente vincolante delle decisioni delle Sezioni Unite
Si è già accennato che, ai sensi del comma 3 dell'articolo 374 c.p.c., se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso.
La Corte di cassazione, occorre rammentare, non è una corte suprema di common law, e le regole che essa stabilisce sono strettamente vincolanti solo per il giudice del rinvio, ai sensi dell'art. 384 c.p.c. Al di fuori di quest'ultima disposizione il precedente di legittimità possiede per il giudice di merito un'efficacia proporzionale alla sua persuasività: potremmo dire che i principi di diritto formulati dalla S.C. sono dotati non di autorità, ma — quando lo sono — di autorevolezza.
Poteva discutersi, fino a qualche anno fa, se anche in Italia avesse cittadinanza un blando stare decisis, ancorato al previgente art. 65 dell'Ordinamento Giudiziario (v. p. es. Galgano, Stare decisis e no nella giurisprudenza italiana, in Contr e impr., 2004, 2). I corni del dilemma si possono così brevemente riassumere. Per un verso «l'uniforme interpretazione della norma significa uguaglianza di trattamento dei cittadini di fronte alla legge, sicché la nomofilachia è diretta espressione di un principio cardine della Costituzione, l'art. 3» (Cass. pen., sez. III, 23 febbraio 1994, Lops, in Riv. pen., 1995, 457). Per altro verso l'art. 101 Cost. stabilisce che i giudici sono soggetti soltanto alla legge, e dunque non alla Corte di cassazione. La S.C. ha talora affermato in passato che il giudice di merito, per quanto libero «di non seguire l'interpretazione proposta dalla Corte di cassazione», ha nondimeno l'obbligo di «addurre ragioni congrue, convincenti a contestare e a fare venire meno l'attendibilità dell'indirizzo interpretativo rifiutato» (Cass. civ., 3 dicembre 1983, n. 7248). Ma altre volte è stata ritenuta semplicemente incensurabile la sentenza che non aveva tenuto conto di un precedente di legittimità, dato che il giudice del merito non è vincolato alla giurisprudenza della S.C. (Cass. civ., 19 dicembre 2001, n. 16007).
Pare difficile negare che oggi i termini della questione si siano modificati nel senso di un rafforzamento della vincolatività delle sentenze di legittimità, in particolare per la novella dell'art. 360-bis c.p.c. (Consolo, Dal filtro in cassazione ad un temperato stare decisis: la prima ordinanza sull'art. 360-bis, in Corr. giur., 2010, 1405) nonché alla luce dell'attuale art. 374 c.p.c. secondo cui i precedenti delle Sezioni Unite non possono essere disattesi dalle sezioni semplici che, se non li condividono, devono investire le Sezioni Unite. Si osserva in dottrina che la S.C. si avvierebbe così a recuperare il suo ruolo di «guida coerenziatrice (in prima battuta) della giurisprudenza (di merito) e, a più ampio raggio, degli affidamenti prognostici di cittadini e imprese» (Consolo, op. cit., 1405). Insomma, il rafforzamento dell'autorità del precedente parrebbe essere presentato come un importante tassello del recupero di efficienza della giustizia civile.
In tale prospettiva è stato ad esempio affermato che, benché non esista nel nostro sistema processuale una norma che imponga la regola dello stare decisis, essa costituisce, tuttavia, un valore o, comunque, una direttiva di tendenza immanente nell'ordinamento, stando alla quale non è consentito discostarsi da un'interpretazione del giudice di legittimità, investito istituzionalmente della funzione della nomifilachia, senza forti ed apprezzabili ragioni giustificative; in particolare, in tema di norme processuali, per le quali l'esigenza di un adeguato grado di certezza si manifesta con maggiore evidenza, anche alla luce dell'art. 360-bis, comma 1, n. 1, c.p.c., ove siano compatibili con la lettera della legge due diverse interpretazioni, deve preferirsi quella sulla cui base si sia formata una sufficiente stabilità di applicazione nella giurisprudenza della Corte di cassazione (Cass. civ., Sez. Un., 31 luglio 2012, n. 13620). Ed ancora è stato detto che dinanzi a due possibili interpretazioni alternative della norma processuale, ciascuna compatibile con la lettera della legge, le ragioni di economico funzionamento del sistema giudiziario devono indurre l'interprete a preferire quella consolidatasi nel tempo, a meno che il mutamento dell'ambiente processuale o l'emersione di valori prima trascurati non ne giustifichino l'abbandono e consentano, pertanto, l'adozione dell'esegesi da ultimo formatasi (Cass. civ., Sez. Un., 18 maggio 2001, n. 10864).
A distanza di anni dall'introduzione delle menzionate novità normative, appare chiaro che le aspettative salvifiche legate ad esse sono ampiamente fallite: i contrasti tra le sezioni e nelle sezioni permangono, e spesso si tratta di contrasti occulti, come nel caso, temutissimo in Cassazione, dei contrasti sincronici: due collegi che affermano l'uno il contrario dell'altro a distanza di giorni, sicché quello che ha pronunciato per secondo non è neppure a conoscenza della decisione di segno diverso. Anzi, ai contrasti tra le sezioni e nelle sezioni semplici si sono aggiunti i contrasti, talora striscianti, tra le Sezioni Unite, in più casi — si pensi a quello della rilevabilità officiosa della nullità — chiamata a successivi aggiustamenti di rotta.
Riferimenti
Carratta, La riforma del giudizio in cassazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2006, 1105;
Ianniruberto, Le attribuzioni delle s.u. civili e l'efficacia del principio di diritto, in Corr. giur., 2008, 722;
Luiso, Il vincolo delle sezioni semplici al precedente delle s.u., in Giur. it., I 2003, 817.
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