Il termine per la riassunzione del processo interrotto per la sopravvenuta dichiarazione di fallimento

Pasqualina Farina
12 Maggio 2021

Le Sezioni Unite, a composizione del contrasto interpretativo, hanno enunciato il seguente principio: «in caso di apertura del fallimento, ferma l'automatica interruzione del processo che ne deriva ai sensi dell'art. 43, comma 3, l.f., il termine per la relativa riassunzione o prosecuzione...decorre da quando la dichiarazione giudiziale dell'interruzione stessa sia portata a conoscenza di ciascuna parte...».
Questione controversa

La questione controversa origina da un giudizio volto ad ottenerne la condanna di un istituto di credito alla restituzione dell'indebito per tassi usurari e la vicenda processuale si snoda lungo i seguenti passaggi.

Il Tribunale di Siena ha accolto la domanda e condannato la convenuta alla restituzione di Euro 56.246,90 oltre accessori. Nel corso dell'appello, proposto dalla banca, è sopravvenuta la dichiarazione di fallimento della società (appellata); successivamente l'istituto di credito (appellante) ha provveduto alla riassunzione del giudizio.

Il curatore del fallimento, dal proprio canto, costituitosi in giudizio ha eccepito l'estinzione del processo conseguente alla tardiva riassunzione da parte della banca. Quest'ultima aveva ricevuto, difatti, l'avviso ex art. 92 l. fall. (che consente ai creditori la partecipazione al giudizio di verifica del passivo), in data 3 maggio 2014 e tale comunicazione avrebbe determinato in capo all'istituto di credito la conoscenza legale dell'evento interruttivo (fallimento) anche nell'ambito del giudizio d'appello. Il tardivo ricorso in riassunzione dell'istituto di credito avrebbe - pertanto - determinato l'estinzione del giudizio di appello.

L'eccezione della curatela è stata accolta dai Giudici di secondo grado che, in data 24 marzo 2016, hanno dichiarato estinto il giudizio di appello.

Tale decisione è stata impugnata dalla banca dinanzi alla Suprema Corte. In particolare, la banca lamenta che l'estinzione del giudizio di secondo grado si regge sul fatto che il momento in cui l'istituto di credito ha avuto conoscenza legale dell'evento interruttivo è stato individuato dal Giudice di merito nella ricezione dell'avviso di cui all'art. 92 l.fall. e non, invece, nella dichiarazione dell'interruzione del processo avvenuta nell'udienza del 9 dicembre 2014. In sintesi, a dire della banca ricorrente, se la Corte d'appello avesse individuato il dies a quo (per il calcolo del termine per la riassunzione del giudizio avvenuta con ricorso del 29 aprile 2015) nella dichiarazione di interruzione, la riassunzione sarebbe stata considerata tempestiva, senza alcun margine per l'operatività dell'estinzione.

Orientamenti contrapposti

La mancanza di un'esplicita disciplina positiva per la riassunzione dei giudizi sui rapporti di natura patrimoniale di cui sia parte il fallito ha dato luogo ad una pluralità di interpretazioni giurisprudenziali che, pur in presenza di situazioni processuali analoghe, hanno individuato una diversa decorrenza del termine per riassumere.

Il contrasto che si registra tra i diversi orientamenti è risalente e soprattutto - ci sia consentito il rilievo - «resistente». Ed infatti, nel corso degli anni non sono state sufficienti a forgiare una disciplina univoca diverse decisioni della Consulta, né le innovazioni apportate all'art. 43 l. fall. dalla riforma attuata nel 2006, né la più recente riforma attuata dal codice della crisi d'impresa e, nello specifico, dall'art. 143.

Deve essere pure chiaro che la contrapposizione nella vicenda processuale sottoposta alla disamina della Corte non è soltanto tra interessi della curatela e quelli della parte non fallita, ma riguarda - in linea più generale - principi centrali del giusto processo civile (come la celerità, il diritto alla difesa e la parità delle armi), che nella variegata e sincopata giurisprudenza della Cassazione vengono talvolta disattesi.

Gli snodi fondamentali del contrasto, anzi dei contrasti, si articolano in base alla sequenza temporale che qui si riporta.

La prima tessera del mosaico è stata forgiata dal Giudice delle leggi che, come noto, ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 305 c.p.c. laddove faceva decorrere dalla data dell'interruzione del processo «il termine per la sua prosecuzione o la sua riassunzione anche nei casi regolati dal precedente art. 301»( Corte cost., 15 dicembre 1967, n. 139). Sviluppando tale premessa la Cassazione ha poi stabilito che se l'illegittimità consiste nella «non conoscenza» della parte, l'effettività della difesa in giudizio impone di ancorare il decorso del termine al momento in cui la parte ha avuto conoscenza dell'evento interruttivo, nel rispetto del precetto stabilito dal comma 2° dell'art. 24 Cost. (Cass. civ., 21 gennaio 1970, n. 129, in Giust. civ., 1970, I, 1055; Cass. civ., 17 giugno 1968, n. 1943).

La bontà di tale interpretazione è stata confermata dalla Corte costituzionale quando, a breve distanza, ha dichiarato l'incostituzionalità, per violazione dell'art. 24 Cost., dell'art. 305 c.p.c., rispetto alle previsioni di cui agli artt. 299 e 300, comma 3, c.p.c., laddove si disponeva che il termine per la prosecuzione o riassunzione del processo interrotto «decorre dall'interruzione, anzichè dalla data in cui le parti ne abbiano avuto conoscenza» (Corte cost. 28 giugno 1971, n. 159).

È bene rilevare sin da ora che il Giudice delle leggi ha omesso di individuare forme vincolate o predeterminate per far acquisire - alle parti interessate alla riassunzione/prosecuzione del processo colpito da un evento interruttivo automatico - la conoscenza di quest'ultimo. Così la Cassazione ha finito per meglio precisare le modalità che determinano in capo alle parti la conoscenza degli eventi interruttivi automatici. Più precisamente, deve trattarsi di conoscenza legale che va acquisita non in via di mero fatto, ma tramite una dichiarazione, notificazione o certificazione rappresentativa dell'evento che determina l'interruzione del processo, assistita da fede privilegiata (ex multis Cass. civ., 19 marzo 1996, n. 2340).

Alla conoscenza legale viene affidata, in concreto, una funzione ben precisa: quella di correlare il decorso del termine per la riassunzione a criteri sicuri ed oggettivi, criteri che vanno mantenuti ben saldi dopo che la Consulta ha «disancorato il termine per la riassunzione dal verificarsi dell'interruzione, così rendendolo mobile e variabile» (Cass. civ., 30 gennaio 2019, n. 2658).

Ma v'è di più. Laddove sia il curatore ad essere interessato alla riassunzione del processo interrotto, per tale soggetto non può reputarsi sufficiente la mera conoscenza dell'evento interruttivo (id est la dichiarazione di fallimento), essendo necessaria anche la conoscenza (legale) dello specifico giudizio sul quale detto effetto interruttivo è in concreto destinato ad operare (Cass. civ., 28 dicembre 2016, n. 27165 cit.; Cass. civ., 13 marzo 2013, n. 6331; Cass. civ., 7 marzo 2013, n. 5650. Per Cass. civ., 18 aprile 2018, n. 9578 la conoscenza legale del giudizio di impugnazione di un lodo, da parte della curatela, si deve desumere della domanda di ammissione al passivo del credito fondata sulla statuizione del lodo stesso, in una fattispecie in cui la predetta domanda faceva puntuale riferimento al giudizio incardinato presso il giudice dell'impugnazione).

A conclusioni analoghe la Cassazione è pervenuta anche per la parte estranea all'evento interruttivo.

In più occasioni, la Corte ha avuto modo di precisare che il termine per la detta riassunzione decorre – anche per la parte in bonis - dall'acquisizione di una conoscenza legale che ha ad oggetto sia l'evento interruttivo, sia lo specifico procedimento rispetto al quale l'evento ha operato (Cass. civ., 15 marzo 2018, n. 6398; Cass. civ. 30 novembre 2018, n. 31010; nonché Cass. civ., 30 gennaio 2019, n. 2658, in motivazione. Ma contra Cass. civ., 29 agosto 2018, n. 21325. La recente Cass. civ., 26 giugno 2020, n. 12890, ha ribadito la necessità di una conoscenza legale estesa al giudizio interrotto per tutte le parti del processo, escludendo la legittimità di un «trattamento asimmetrico» a favore del solo curatore e con minori garanzie per la parte non fallita). Ancora. La conoscenza legale non deve essere fornita alla parte personalmente, ma al difensore, quale professionista in condizione di comprendere, valutare gli effetti dell'evento interruttivo e di adottare la condotta processuale necessaria alla migliore tutela delle ragioni della parte (Cass. civ., 15 marzo 2018, n. 6398; Cass. civ., 26 giugno 2020, n. 12890. Nel senso che la comunicazione effettuata dal curatore ex art. 92 l. fall. è idonea a far decorrere il termine di cui all'art. 305 c.p.c., solo se, oltre a recare esplicito riferimento alla lite interrotta, e ad essere corredata di copia autentica della sentenza di fallimento, sia appunto indirizzata al difensore della parte, v. Cass. civ., 30 novembre 2018, n. 31010. In termini anche Cass. civ., 30 gennaio 2019, n. 2658, ove si aggiunge che non è invece necessario che la conoscenza legale sia procurata dal difensore della parte che ha subito l'evento interruttivo, potendo provenire da soggetti diversi, come il curatore).

Sviluppando ulteriormente tali argomentazioni la giurisprudenza più garantista ha, conseguentemente e coerentemente, affermato che è irrilevante, ai fini del decorso del termine per la riassunzione, la comunicazione dell'evento fornita ad un difensore diverso da quello che assiste la parte nello specifico procedimento: il singolo difensore non è, difatti, tenuto a conoscere tutti i procedimenti che interessano la parte che rappresenta; pertanto quel che rileva è la sola comunicazione «legale» fornita al difensore della parte nel processo interrotto (così Cass. civ., 15 marzo 2018, n. 6398). Né - per Cass. civ., 16 dicembre 2019, n. 33157 - è idonea a far scattare il termine per la riassunzione la conoscenza del fallimento che il procuratore della parte, non colpita dall'evento interruttivo, ha acquisito in altro giudizio, neanche ove le parti siano assistite, in entrambi i processi, dagli stessi procuratori; a ritenere diversamente si finirebbe per riconoscere all'avvocato una sorta di «rappresentanza generale» della parte che gli ha affidato uno o più mandati ad litem.

Sul crinale opposto a quello ora illustrato si colloca invece l'indirizzo che attribuisce rilevanza, ai fini della decorrenza del termine, alla conoscenza effettiva (acquisita dalla parte) e non a quella legale dell'evento interruttivo (che andrebbe comunque acquisita dal difensore): pertanto in assenza di altri elementi si è ritenuto rilevante il momento del deposito o dell'invio della domanda di ammissione al passivo del fallimento, trattandosi di una vera e propria domanda giudiziale (Cass. civ., 14 giugno 2019, n. 15996).

A completamento del composito quadro interpretativo consegnato dalla giurisprudenza di legittimità agli addetti ai lavori va pure considerato un recente orientamento in forza del quale una volta pronunciato il fallimento, l'interruzione - in deroga al regime di cui all'art. 300 c.p.c. - è automatica e va dichiarata dal giudice non appena sia venuto a conoscenza dall'evento, senza che la parte in bonis sia tenuta alla riassunzione del processo nei confronti del curatore indipendentemente dall'avvenuta, o meno, dichiarazione (Cass. civ., 1 marzo 2017, n. 5288; Cass. civ., 27 febbraio 2018, n. 4519; Cass. civ., 9 aprile 2018, n. 8640; Cass. civ., 11 aprile 2018, n. 9016).

Questa tesi nel risolvere in radice ogni questione trova conforto nell'art. 143 cci che dopo aver ribadito che l'apertura della liquidazione giudiziale determina l'interruzione del processo, ha altresì precisato che «il termine per la riassunzione del processo interrotto decorre da quando l'interruzione viene dichiarata dal giudice». Vero è che il nuovo dato normativo non è ancora entrato in vigore ma è anche vero che al legislatore va riconosciuto il merito di aver codificato quell'indirizzo giurisprudenziale che ha individuato in maniera univoca il dies a quo per la riassunzione, indipendentemente dai requisiti «oggettivi» e «soggettivi» della conoscenza del fenomeno interruttivo.

Tali aperture - interpretative e normative - non sono state sufficienti, tuttavia, a ricondurre ad unità l'orientamento della Corte di cassazione: il summenzionato indirizzo è stata tuttavia contraddetto da diversi arresti (Cass. civ., 30 novembre 2018, n. 31010; Cass. civ., 27 giugno, 2018, n. 16887) per i quali la necessità della dichiarazione del giudice per il decorso del termine per effettuare la riassunzione vanificherebbe, nella sostanza, la previsione di automaticità dell'evento interruttivo, così come prevista dall'art. 43, comma 3, l. fall., introdotto dalla riforma del 2006.

Rimessione alle Sezioni unite

Com'è evidente, la questione attinente alla necessità di individuare univocamente il momento a partire dal quale opera il decorso del termine per la riassunzione del processo interrotto in forza della sopravvenuta dichiarazione di fallimento appare di capitale importanza, non solo sotto il profilo sistematico ma anche - e soprattutto - pratico-applicativo, come dimostra la breve disamina giurisprudenziale poc'anzi compiuta.

Preso atto, dunque, della necessità di consentire alle parti di formulare una prognosi affidabile circa le conseguenze della propria condotta processuale, il Supremo Collegio ha rimesso la causa al Primo Presidente affinché valuti l'opportunità di investirne le Sezioni unite per la risoluzione dell'emerso contrasto.

Soluzione

Le Sezioni Unite hanno composto il contrasto, enucleando il seguente principio: «in caso di apertura del fallimento, ferma l'automatica interruzione del processo (con oggetto i rapporti di diritto patrimoniale) che ne deriva ai sensi dell'art. 43, comma 3, l.fall., il termine per la relativa riassunzione o prosecuzione, per evitare gli effetti di estinzione di cui all'art. 305 c.p.c. e al di fuori delle ipotesi di improcedibilità ai sensi degli artt. 52 e 93 l. fall. per le domande di credito, decorre da quando la dichiarazione giudiziale dell'interruzione stessa sia portata a conoscenza di ciascuna parte; tale dichiarazione, ove già non conosciuta nei casi di pronuncia in udienza ai sensi dell'art. 176, comma 2, c.p.c., va direttamente notificata alle parti o al curatore da ogni altro interessato ovvero comunicata - ai predetti fini - anche dall'ufficio giudiziario, potendo inoltre il giudice pronunciarla altresì d'ufficio, allorché gli risulti, in qualunque modo, l'avvenuta dichiarazione di fallimento medesima».

Al Supremo Collegio, in relazione al caso di specie, si prospettavano diverse soluzioni riconducibili a due interpretazioni che si articolano nei seguenti snodi.

La prima era nel senso di ritenere «conosciuto» il fallimento della società debitrice, in capo alla banca, per aver quest'ultima ricevuto in proprio dal curatore l'avviso destinato ai creditori, avviso seguito dalla relativa insinuazione al passivo, risultando il dies a quo per la riassunzione integrato dal primo evento (la comunicazione ricevuta dalla parte, avvenuta su iniziativa del curatore, in data 3 maggio 2014) ovvero dal secondo (la domanda di partecipazione al concorso del 10 giugno 2014) o comunque dal coordinamento di entrambi. Da qui l'evidente violazione del termine posto dall'art. 305 c.p.c. per essere stata la riassunzione effettuata - mediante il deposito del ricorso - solo in data 29 aprile 2015.

La seconda soluzione - in astratto prospettabile - era nel senso di ritenere, all'opposto, che il giudice del merito avrebbe dovuto individuare solo nella dichiarazione dell'interruzione del processo (avvenuta all'udienza del 9 dicembre 2014, dunque ivi conosciuta ex art. 176 comma 2 c.p.c.) il momento che ha segnato il (decorso del) termine per la riassunzione del giudizio. Sicché rispetto a quest'ultimo il deposito del ricorso in riassunzione effettuato dalla banca risulterebbe tempestivamente eseguito, precludendo l'operatività dell'estinzione.

Le Sezioni Unite hanno preferito quest'ultima soluzione e, pertanto, in accoglimento dei motivi di ricorso, hanno cassato la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d'appello di Firenze, in diversa composizione reputando altresì sussistenti, ai sensi degli artt. 92 e 385 c.p.c. e per la natura della questione dirimente trattata, le ragioni per dichiarare la compensazione delle spese del giudizio.

Innanzitutto le Sezioni unite segnalano come la soluzione adottata, pur coincidendo con la regola fissata nell'art. 143, comma 23, c.c.i., non integri un dato di assoluta novità enunciativa, poiché - come evidenziato dall'ordinanza di remissione – si tratta di un' interpretazione già sostenuta dalla giurisprudenza di legittimità che, nonostante il rinvio dell'entrata in vigore del nuovo testo normativo, risulta «già oggi idonea ad indicare una complessiva linea di condivisibile semplificazione ermeneutica» (§ 17). La Corte si allinea, in parte, alla precedente interpretazione resa dalle stesse Sezioni Unite per la quale il nuovo codice della crisi non si applica alle procedure anteriori alla sua entrata in vigore ex art. 390, comma 1, c.c.i.), tuttavia si possono «rinvenire in esso norme destinate a rappresentare un utile criterio interpretativo degli istituti della legge fallimentare potrebbe essere ammessa se (e solo se) si potesse configurare - nello specifico segmento - un ambito di continuità tra il regime vigente e quello futuro» (Cass. sez. un., n. 12476/2020; Cass. civ., sez. un., n. 8504/2021).

Ebbene, per la Corte «un utile criterio interpretativo» è direttamente fornito dalla Relazione illustrativa al nuovo codice ove si precisa (in ordine all'art. 143) che, per consentire al curatore di costituirsi nei giudizi che hanno ad oggetto rapporti patrimoniali compresi nella liquidazione, l'apertura della stessa comporta l'interruzione automatica del processo, in linea con l'attuale art. 43, comma 3, l.fall.; salvo aggiungere che per assicurare il diritto di difesa delle parti [incluso quello della parte non colpita dal fenomeno interruttivo], il termine della riassunzione decorre dal momento in cui il giudice dichiara l'avvenuta interruzione.

Né - continua il Collegio - tale interpretazione attua una restaurazione della vecchia formulazione dell'art. 43 l. fall. (anteriore alla riforma del 2006) quando l'interruzione non era automatica, potendo oggi il giudice dichiarare l'interruzione del procedimento solo per essere venuto a conoscenza del sopravvenuto fallimento, indipendentemente dalle modalità formali con cui tale conoscenza è stata acquisita. Il superamento, ad opera del d.lgs. 5/2006, della indispensabile informazione data formalmente dalle parti al giudice circa la dichiarazione di fallimento rappresenta, in concreto, una duplice emancipazione, sia dagli eventi partecipativi dell'art. 300 c.p.c., sia da un implicito limite dichiarativo gravante sul giudice stesso. Così – prosegue la Corte - la temuta «vanificazione»del principio di automaticità (sulla quale fanno leva Cass. civ., n. 31010/2018 e Cass. civ., n. 16887/2018) ricorrerebbe solo ove il ruolo assegnato alla dichiarazione giudiziale d'interruzione si esaurisse nel riconsegnare al mero discrezionale impulso delle parti (rectius dei difensori) l'intera operatività dell'istituto.

Ma v'è di più. Il codice della crisi accosta la scelta della necessaria dichiarazione (per il decorso del termine della riassunzione) al principio dell'effetto interruttivo (ancora automatico), senza chiarire se tale opzione interpretativa sia limitata ad alcuni soggetti, come lascia intendere il riferimento alla riassunzione (e non anche alla prosecuzione) circoscrivendo la previsione della decorrenza del termine, alla sola parte (ex art. 303 c.p.c.) non colpita dal fallimento, quella cioè che già nel processo interrotto si ammanta di tale veste. Resterebbe, dunque, al di fuori della portata precettiva dell'art. 143 c.c.i. il problema della decorrenza in capo al curatore, rispetto al quale rileva tanto l'esigenza di conoscere l'evento interruttivo (id est: la sopravvenuta liquidazione giudiziale) quanto l'incidenza dell'effetto interruttivo su un determinato processo. Per la Corte, la novella può operare in termini generali e simmetrici solo quando la pronuncia dichiarativa sia formalmente portata a conoscenza del curatore, perché: a) resa in un'udienza cui egli abbia presenziato; ovvero b) gli sia stata comunicata o notificata come atto autonomo.

In un successivo passaggio (sub § 32) il Supremo Collegio chiarisce, inoltre, che la posizione della parte (di regola, rappresentata dal difensore) non colpita dall'evento interruttivo e quella del curatore sono solo parzialmente simmetriche; ed infatti, la summenzionata parte necessita di sapere essenzialmente, seppure in un contesto di garanzia procedimentale attinente al processo pendente, che la controparte è stata dichiarata fallita, mentre il curatore ha bisogno di avere contezza dei giudizi che coinvolgono gli interessi (patrimoniali) del fallito. A ben guardare però, in chiave semplificatrice, la Corte precisa che come «per l'assolvimento dei bisogni del curatore» ed in considerazione «delle più varie forme partecipative al fine di procurargli la conoscenza del giudizio da proseguire» si rinviene «un'analoga estesa latitudine altresì degli atti cui a sua volta il curatore ricorre per notiziare le altre parti del processo interrotto non colpite dall'evento» e numerose varianti che, a propria volta, determinano un elevato grado d'incertezza. Basti al riguardo pensare al problema dell'individuazione del destinatario nell'avvocato della parte ovvero nella parte personalmente; analogamente, la medesima incertezza ricorre quando l'atto provenga dalla parte e sia diretto nei confronti della procedura concorsuale, rimanendo così da chiarire se rivolto al curatore dallo stesso avvocato che patrocina quel creditore nel processo interrotto, ovvero da altro avvocato della parte o dal creditore in persona.

Provando a sintetizzare il pensiero delle Sezioni unite, si può affermare che la dichiarazione dell'interruzione ad opera del giudice finisce per assurgere ad elemento indefettibile e generale costitutivo del dies a quo per la decorrenza del termine di riassunzione o prosecuzione, in quanto assicura un'interpretazione normativa uniforme. Da ultimo va preso atto che le Sezioni Unite non si limitano ad aderire al precedente orientamento di legittimità per il quale non vi è onere di riassunzione prima della dichiarazione di interruzione (Cass. civ., n. 10696/2019), ma lo sviluppano; al contempo finiscono per innovare anche il regime sancito dall'art. 143 c.c.i. laddove statuiscono che «la dichiarazione, al di fuori dei casi di pronuncia in udienza ex art. 176, comma 2, c.p.c., deve essere direttamente notificata alle parti o al curatore da ogni altro interessato, ovvero comunicata - ai predetti fini - anche dall'ufficio giudiziario».

Riferimenti:

  • C. Bellomi, La legittimazione processuale residuale del fallito, in Il fall., 20116, 564.
  • G.P. Califano, Sul termine per la riassunzione della causa interrotta per fallimento della parte, in www.judicium.it, 12 gennaio 2021.
  • M. Gaboardi, Riassunzione del processo interrotto per fallimento: chiarimenti giurisprudenziali e dubbi legislativi, in Il fall., 2021, 212.
  • M. Montanari,I nodi irrisolti della riassunzione del processo interrotto per fallimento di una delle parti al vaglio delle Sezioni Unite, in Il fall., 2021, 331.
  • F. Murino, Fictio iuris della regola dell'“ora zero” e dies a quo per la prosecuzione del giudizio da parte della curatela fallimentare (dopo Corte cost. 21 gennaio 2010, n. 17), in Corr. giur., 2010, 610.
  • G. Trisorio Liuzzi, Il termine per la riassunzione del processo interrotto a seguito della dichiarazione di fallimento, in Il fall., 2019, 1038.
  • S. Vincre, Tutele e simmetrie nella riassunzione del giudizio interrotto ex art. 43, 3° comma, l. fall., in Riv. dir. proc., 2019, 891 ss.

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