Decreto legislativo - 18/04/2016 - n. 50 art. 108 - (Risoluzione) 1(Risoluzione)1 [1. Fatto salvo quanto previsto ai commi 1, 2 e 4, dell'articolo 107, le stazioni appaltanti possono risolvere un contratto pubblico durante il periodo di sua efficacia, se una o più delle seguenti condizioni sono soddisfatte: a) il contratto ha subito una modifica sostanziale che avrebbe richiesto una nuova procedura di appalto ai sensi dell'articolo 106; b) con riferimento alle modificazioni di cui all'articolo 106, comma 1, lettere b) e c) sono state superate le soglie di cui al comma 7 del predetto articolo; con riferimento alle modificazioni di cui all'articolo 106, comma 1, lettera e) del predetto articolo, sono state superate eventuali soglie stabilite dalle amministrazioni aggiudicatrici o dagli enti aggiudicatori; con riferimento alle modificazioni di cui all'articolo 106, comma 2, sono state superate le soglie di cui al medesimo comma 2, lettere a) e b); c) l'aggiudicatario si è trovato, al momento dell'aggiudicazione dell'appalto in una delle situazioni di cui all'articolo 80, comma 1, sia per quanto riguarda i settori ordinari sia per quanto riguarda le concessioni e avrebbe dovuto pertanto essere escluso dalla procedura di appalto o di aggiudicazione della concessione, ovvero ancora per quanto riguarda i settori speciali avrebbe dovuto essere escluso a norma dell'articolo 136, comma 12; d) l'appalto non avrebbe dovuto essere aggiudicato in considerazione di una grave violazione degli obblighi derivanti dai trattati, come riconosciuto dalla Corte di giustizia dell'Unione europea in un procedimento ai sensi dell'articolo 258 TFUE [, o di una sentenza passata in giudicato per violazione del presente codice]3. 1-bis. Nelle ipotesi di cui al comma 1 non si applicano i termini previsti dall' articolo 21-nonies della legge 7 agosto 1990, n. 2414. 2. Le stazioni appaltanti devono risolvere un contratto pubblico durante il periodo di efficacia dello stesso qualora: a) nei confronti dell'appaltatore sia intervenuta la decadenza dell'attestazione di qualificazione per aver prodotto falsa documentazione o dichiarazioni mendaci; b) nei confronti dell'appaltatore sia intervenuto un provvedimento definitivo che dispone l'applicazione di una o più misure di prevenzione di cui al codice delle leggi antimafia e delle relative misure di prevenzione, ovvero sia intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato per i reati di cui all'articolo 80. 3. Il direttore dei lavori o il responsabile dell'esecuzione del contratto, se nominato, quando accerta un grave inadempimento alle obbligazioni contrattuali da parte dell'appaltatore, tale da comprometterne la buona riuscita delle prestazioni, invia al responsabile del procedimento una relazione particolareggiata, corredata dei documenti necessari, indicando la stima dei lavori eseguiti regolarmente, il cui importo può essere riconosciuto all'appaltatore. Egli formula, altresì, la contestazione degli addebiti all'appaltatore, assegnando un termine non inferiore a quindici giorni per la presentazione delle proprie controdeduzioni al responsabile del procedimento. Acquisite e valutate negativamente le predette controdeduzioni, ovvero scaduto il termine senza che l'appaltatore abbia risposto, la stazione appaltante su proposta del responsabile del procedimento dichiara risolto il contratto5. 4. Qualora, al di fuori di quanto previsto al comma 3, l'esecuzione delle prestazioni ritardi per negligenza dell'appaltatore rispetto alle previsioni del contratto, il direttore dei lavori o il responsabile unico dell'esecuzione del contratto, se nominato gli assegna un termine, che, salvo i casi d'urgenza, non può essere inferiore a dieci giorni, entro i quali l'appaltatore deve eseguire le prestazioni. Scaduto il termine assegnato, e redatto processo verbale in contraddittorio con l'appaltatore, qualora l'inadempimento permanga, la stazione appaltante risolve il contratto, fermo restando il pagamento delle penali. 5. Nel caso di risoluzione del contratto l'appaltatore ha diritto soltanto al pagamento delle prestazioni relative ai lavori, servizi o forniture regolarmente eseguiti, decurtato degli oneri aggiuntivi derivanti dallo scioglimento del contratto. 6. Il responsabile unico del procedimento nel comunicare all'appaltatore la determinazione di risoluzione del contratto, dispone, con preavviso di venti giorni, che il direttore dei lavori curi la redazione dello stato di consistenza dei lavori già eseguiti, l'inventario di materiali, macchine e mezzi d'opera e la relativa presa in consegna. 7. Qualora sia stato nominato, l'organo di collaudo procede a redigere, acquisito lo stato di consistenza, un verbale di accertamento tecnico e contabile con le modalità di cui al presente codice. Con il verbale è accertata la corrispondenza tra quanto eseguito fino alla risoluzione del contratto e ammesso in contabilità e quanto previsto nel progetto approvato nonché nelle eventuali perizie di variante; è altresì accertata la presenza di eventuali opere, riportate nello stato di consistenza, ma non previste nel progetto approvato nonché nelle eventuali perizie di variante. 8. Nei casi di cui ai commi 2 e 3, in sede di liquidazione finale dei lavori, servizi o forniture riferita all'appalto risolto, l'onere da porre a carico dell'appaltatore è determinato anche in relazione alla maggiore spesa sostenuta per affidare ad altra impresa i lavori ove la stazione appaltante non si sia avvalsa della facoltà prevista dall'articolo 110, comma 1. 9. Nei casi di risoluzione del contratto di appalto dichiarata dalla stazione appaltante l'appaltatore deve provvedere al ripiegamento dei cantieri già allestiti e allo sgombero delle aree di lavoro e relative pertinenze nel termine a tale fine assegnato dalla stessa stazione appaltante; in caso di mancato rispetto del termine assegnato, la stazione appaltante provvede d'ufficio addebitando all'appaltatore i relativi oneri e spese. La stazione appaltante, in alternativa all'esecuzione di eventuali provvedimenti giurisdizionali cautelari, possessori o d'urgenza comunque denominati che inibiscano o ritardino il ripiegamento dei cantieri o lo sgombero delle aree di lavoro e relative pertinenze, può depositare cauzione in conto vincolato a favore dell'appaltatore o prestare fideiussione bancaria o polizza assicurativa con le modalità di cui all'articolo 93, pari all'uno per cento del valore del contratto. Resta fermo il diritto dell'appaltatore di agire per il risarcimento dei danni6.]
[1] Articolo abrogato dall'articolo 226, comma 1, del D.Lgs. 31 marzo 2023, n. 36, con efficacia a decorrere dal 1° luglio 2023, come stabilito dall'articolo 229, comma 2. Per le disposizioni transitorie vedi l'articolo 225 D.Lgs. 36/2023 medesimo. [2] Così rettificato con Comunicato 15 luglio 2016 (in Gazz. Uff., 15 luglio 2016, n. 164). [3] Lettera modificata dall'articolo 72, comma 1, lettera a), del DLgs. 19 aprile 2017, n. 56. [4] Comma inserito dall'articolo 72, comma 1, lettera b), del DLgs. 19 aprile 2017, n. 56. [5] Comma modificato dall'articolo 72, comma 1, lettera c), del DLgs. 19 aprile 2017, n. 56. [6] Così rettificato con Comunicato 15 luglio 2016 (in Gazz. Uff., 15 luglio 2016, n. 164). InquadramentoL'art. 108 in esame conferma il potere del contraente pubblico di determinare autoritativamente ed unilateralmente la risoluzione del contratto senza la necessaria intermediazione di un provvedimento del giudice. La norma si applica per i lavori nonché, in quanto compatibili, ai contratti relativi a servizi e forniture. Come evidenziato dal Consiglio di Stato, Commissione Speciale, nel parere n. 00855/2016 del 1° aprile 2016, la nuova formulazione contenuta nell'art. 108, da un lato, sostituisce gli artt. 135 e 138 del previgente codice appalti, trascrivendone l'intero contenuto con limitate modificazioni e individuando le ipotesi al ricorrere delle quali la stazione appaltante può disporre la risoluzione di un contratto in corso di efficacia; dall'altro lato, recepisce le ipotesi di «risoluzione»previste dalle direttive comunitarie (artt. 44 della direttiva n. 23/2014, 73 della direttiva n. 24/2014 e 90 della direttiva del 2014). Nel contempo la disposizione del pari assorbe implicitamente anche le altre disposizioni del vecchio codice appalti che riguardavano rispettivamente, (Art. 136) la risoluzione del contratto per grave inadempimento grave irregolarità e grave ritardo; (Art. 137); l'inadempimento di contratti di cottimo: (Art. 138); i provvedimenti in seguito alla risoluzione del contratto; (art. 139) gli obblighi in caso di risoluzione del contratto. Sul punto, peraltro, giova subito evidenziare che nel citato parere del Consiglio di Stato, è stato rilevato come la tecnica di accorpare in un unico lungo articolo le disposizioni dapprima racchiuse in distinti articoli, aggiungendovi altresì ulteriori ipotesi di derivazione comunitaria, potrebbe comportare non una semplificazione normativa ma una maggiore difficoltà di lettura della disciplina. Tuttavia, come si dirà più avanti, se si accede ad un approccio sostanziale, la norma (commi 1 e 2) pare delineare in maniera abbastanza compiuta, da un lato, le ipotesi di risoluzione cd. discrezionale [... le stazioni appaltanti possono risolvere...] anche se la discrezionalità appare abbastanza legata al contesto ed alla concreta fattispecie ed alla ricorrenza di specifiche condizioni; dall'altro quelle «vincolate» in cui si tratta di un atto dovuto [...Le stazioni appaltanti devono risolvere un contratto pubblico...]. Sotto il profilo formale, la norma ha recepito alcuni suggerimenti contenuti nel parere del Consiglio di Stato del 2016, mentre il legislatore ha modificato il testo del comma 1, lett. c), eliminando la previsione che aveva spinto a suggerire al Governo di valutare «se sia congrua la previsione della risoluzione nel caso in cui le riserve iscritte dall'appaltatore superino il 15% dell'importo contrattuale. L'ipotesi potrebbe essere circoscritta ai soli casi in cui le riserve siano manifestamente infondate e pretestuose». Tale ipotesi, nel testo finale originario, come accennato, non è più contemplata, così come in termini più generali, non è più previsto il rinvio (abrogato l'art. 135) all'art. 51, commi 3-bis e 3-quater cod. proc. pen., perché si tratta di disposizioni che vengono di continuo modificate per le finalità più svariate. Di poi, il legislatore del recente correttivo ha accolto in parte i suggerimenti del Consiglio di Stato, Commissione Speciale, parere 30 marzo 2017 n. 782, sia dal punto di vista formale che sostanziale. L'Organo consultivo, ha infatti suggerito sul piano formale, «l'opportunità di anteporre, al comma 3 della disposizione in esame, l'avverbio «quando» alla parola «accerta»», recepito nel testo licenziato. Sul piano sostanziale ha supportato la scelta di introdurre il comma 1-bis per coordinare la norma del Codice con la previsione generale dell'art. 21-nonies l. n. 241/1990 che governa il potere generale di autotutela (annullamento d'ufficio). In particolare, nel parere viene sottolineato come «Nell'art. 108 viene introdotto un comma l-bis in cui si stabilisce – analogamente a quanto previsto con riguardo alla risoluzione del contratto di concessione dall'art. 176, comma 2, codice – che alle fattispecie di risoluzione del contratto di cui alle lett. a), b), c) e d) del comma 1 dell'art. 108 non si applicano i termini previsti dall'art. 21-nonies della l. n. 241/1990. In proposito la Commissione speciale rileva che tale modifica risulta conforme a quanto evidenziato da questo Consiglio di Stato con il parere n. 2777 del 28 dicembre 2016, concernente il regolamento in materia di attività di vigilanza sui contratti pubblici di cui agli art. 211, comma 2, e 213, codice». Questa disposizione, come più avanti evidenziato, avrà sicuramente delle conseguenze anche in punto di riparto di giurisdizione, nel senso che, se si tratta di esercizio del potere generale di autotutela, le controversie saranno devolute alla giurisdizione (esclusiva ovvero più in generale di legittimità) del giudice amministrativo ancorché ci si trovi in sede di esecuzione del contratto dal momento che può valere il disposto dell'art. 7 del CPA che attribuisce al G.A. le controversie in cui si faccia questione di atti e comportamenti riconducibili anche mediatamente all'esercizio di tale potere, ancorché si tratti di diritti soggettivi sorti dal contratto e dalla sua esecuzione. Infine, e di contro, non è stato accolto il suggerimento di «...espungere dall'art. 108, comma 1, lett. d) il richiamo effettuato all'ipotesi della risoluzione per grave violazione «di una sentenza passata in giudicato per violazione del presente codice», ritenuta dal Consiglio di Stato [nel citato parere n. 2777 del 2016, ndr] come una previsione «pleonastica» e non adeguatamente coordinata con la materia delle concessioni che, all'art. 176, non prevede la risoluzione in tale ipotesi.». La risoluzione del contratto.Come accennato, il potere della P.A. di determinare autoritativamente ed unilateralmente la risoluzione del contratto, è espressione di potere di autotutela in grado di incidere sul contratto, ma tale potere, in generale, trova dei limiti dopo la stipula del contratto e l'avvio della sua esecuzione. Tuttavia, l'introduzione del comma 1-bis e l'espressa deroga al termine ridotto per esercitare il potere di autotutela, chiarisce che all'amministrazione è consentito operare risoluzione del contratto durante tutta la durata del contratto e quindi ovviamente anche se superiore al termine derogato. In particolare, pur rilevando alcuni principi affermati in merito da Cons. St., Ad. plen., n. 14/2014, l'attività finalizzata alla risoluzione del contratto dovrà essere governata applicando quanto previsto dall'art. 108. Ciò non toglie che, verificata la sussistenza dei presupposti, l'esercizio di tale diritto potestativo potrà nel contempo essere affiancato da motivato annullamento o revoca degli atti della fase pubblicistica della procedura di gara, all'esito di una puntuale e approfondita istruttoria ove altresì ritenuto necessaria ed opportuna nel caso in cui il rapporto risulti essere già viziato a monte; in questo caso l'annullamento d'ufficio non sarà soggetto ai limiti temporali, fermi restando gli altri presupposti voluti dall'art. 21-nonies l. n. 241/1990 (Caringella, Protto). Tuttavia, seguendo l'impostazione che ritiene che l'istituto in esame rientri nel più ampio concetto del potere di autotutela e non sia solo uno strumento pubblicistico di incidere sul rapporto negoziale, la risoluzione unilaterale del contratto è considerata una misura tipizzata del potere di autotutela che, per essere legittima, deve dare contezza, attraverso una adeguata istruttoria e in contraddittorio con il destinatario, delle ragioni giuridiche che hanno supportato la scelta con specifico riferimento ai casi ed ai criteri dettati dalla disposizione in esame, massimamente quando si verta nelle ipotesi «discrezionali» (...le stazioni appaltanti possono risolvere...) indicata al comma 1 ovvero nelle ipotesi parimenti connotate di margine discrezionale previste nei successivi commi 3 e 4. Peraltro, l'obbligo di motivazione, seppure meno rafforzato, sussiste anche nei casi in cui la risoluzione sia un atto dovuto ricorrendo le ipotesi di cui al comma 2. Per tentare di fornire alcune agevolazioni interpretative ed applicative, si può suddividere la disposizione in tre parti: una prima, prevista dal comma 1, in cui sono individuate le ipotesi di risoluzione facoltativa, ma che in realtà quanto meno fanno sorgere l'obbligo di avvio d'ufficio della procedura per verificare la ricorrenza dei presupposti; una seconda, prevista al comma 2, in cui l'azione di scioglimento del vincolo negoziale è più marcatamente obbligatoria; infine, una terza, fornita dal combinato disposto dei commi 3 e seguenti, in cui sono delineate le modalità di avvio e conclusione dell'attività di risoluzione, nonché i passaggi intermedi e finali che devono essere svolti dalla stazione appaltante e dai responsabili della stessa ai vari livelli, nonché i diritti e gli obblighi dell'appaltatore. Procedendo con ordine, in relazione alle eventuali ipotesi di ritardo o di interruzione o sospensione dei lavori (ma anche di servizi e forniture, in quanto applicabili) la norma innanzitutto fa salve le ipotesi di sospensione dell'esecuzione del contratto previste ai commi 1, 2 e 4, dell'art. 107 precedente, che rispettivamente disciplinano in generale tale possibilità (comma 1), e la sospensione «per ragioni di necessità o di pubblico interesse, tra cui l'interruzione di finanziamenti per esigenze di finanza pubblica» (comma 2). Questo implica che tale periodo non può essere computato ai fini di eventuali ritardi nella tempistica per l'esatto adempimento delle reciproche prestazioni contrattuali. Non solo, ma l'eventuale eccessiva durata della sospensione o delle sospensioni abilita l'esecutore a chiedere la risoluzione del contratto, con il limite e le conseguenze previste dalla legge (art. 107, comma 4). Infatti, il comma 4, dell'art. 107, prevede la possibilità da parte del privato contraente di chiedere la risoluzione del contratto senza indennità; «Qualora la sospensione, o le sospensioni, durino per un periodo di tempo superiore ad un quarto della durata complessiva prevista per l'esecuzione dei lavori stessi, o comunque quando superino sei mesi complessivi». Tale facoltà riservata al privato, come accennato comporta l'effetto di scioglimento dal contratto senza nessuna indennità, salvo ovviamente il pagamento delle prestazioni eseguite a regola d'arte e verificate, anche in contraddittorio, dalla stazione appaltante. Peraltro, la concreta realizzazione dell'esercizio di tale diritto del privato, resta subordinata all'accettazione da parte della committenza pubblica, dal momento che se la stazione appaltante si oppone il vincolo non può essere sciolto e l'esecutore ha diritto alla rifusione dei maggiori oneri derivanti dal prolungamento della sospensione oltre i termini suddetti, cioè un quarto della durata complessiva ovvero oltre sei mesi. Sul punto, per ulteriori approfondimenti, si rinvia allo specifico commento dell'art. 107. Ciò posto, come accennato, la norma prevede quattro casi in cui la risoluzione del contratto, durante il periodo di sua efficacia, prende le mosse anche da una valutazione discrezionale in ordine alla verifica della ricorrenza e della «soddisfazione» di determinati presupposti previsti dalla legge. Le stazioni appaltanti possono risolvere un contratto pubblico, se una o più delle previste condizioni «sono soddisfatte», rectius se le stesse vengono acclarate all'esito di preventiva e necessaria apposita attività istruttoria, eventualmente anche in contraddittorio con l'appaltatore. In primo luogo a) occorre stabilire, se il contratto abbia subito una modifica sostanziale che avrebbe richiesto una nuova procedura di appalto ai sensi dell'art. 106, che disciplina la fattispecie generale della modifica di contratti durante il periodo di efficacia e le conseguenze che ne derivano, in primis l'obbligo di rinnovare la procedura, ovvero, in caso di valutazione negativa tutti gli altri obblighi e responsabilità che ne scaturiscono, evidentemente diverse dalla risoluzione del contratto. Il concetto di «modifica sostanziale» rilevante ai fini della risoluzione viene appunto dall'art. 106, comma 4, secondo cui una modifica è considerata sostanziale quando altera considerevolmente gli elementi essenziali del contratto originariamente pattuiti ovvero soddisfa le condizioni ivi indicate. La seconda ipotesi b) distingue tre casi: con riferimento alle modificazioni di cui all'art. 106, comma 1, lett. b) e c), e cioè se viene accertato che sono state superate le soglie di cui al comma 7 del predetto art. 106; con riferimento alle modificazioni di cui all'art. 106, comma 1, lett. e) del predetto articolo, se sono state superate eventuali soglie stabilite dalle amministrazioni aggiudicatrici o dagli enti aggiudicatori negli atti generali di gara; infine, con riferimento alle modificazioni di cui all'art. 106, comma 2, qualora del pari siano state superate le soglie di cui al medesimo comma 2, lett. a) e b). La terza ipotesi c) di risoluzione codificata riguarda il caso in cui l'aggiudicatario si è trovato, al momento dell'aggiudicazione dell'appalto in una delle situazioni di cui all'art. 80, comma 1, sia per quanto riguarda i settori ordinari sia per quanto riguarda le concessioni, e avrebbe dovuto pertanto essere escluso dalla procedura di appalto o di aggiudicazione della concessione, ovvero ancora per quanto riguarda i settori speciali avrebbe dovuto essere escluso a norma dell'art. 136, comma 1. La quarta ipotesi codificata d) attiene all'ipotesi in cui l'appalto non avrebbe dovuto essere aggiudicato in considerazione di una grave violazione degli obblighi derivanti dai trattati, come riconosciuto dalla Corte di giustizia dell'Unione Europea in un procedimento ai sensi dell'art. 258 TFUE. Due sono, infine, le fattispecie previste in cui sorge l'obbligo d'ufficio di risolvere il contratto. Il comma 2 dispone infatti che le stazioni appaltanti devono risolvere un contratto pubblico durante il periodo di efficacia dello stesso qualora: a) nei confronti dell'appaltatore sia intervenuta la decadenza dell'attestazione di qualificazione per aver prodotto falsa documentazione o dichiarazioni mendaci; b) nei confronti dell'appaltatore sia intervenuto un provvedimento definitivo che dispone l'applicazione di una o più misure di prevenzione di cui al codice delle leggi antimafia e delle relative misure di prevenzione, ovvero sia intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato per i reati di cui all'art. 80 del d.lgs. Sul punto, anche con riferimento al comma 3, giova anticipare quanto specifica il successivo comma 8, secondo cui, nei casi di cui ai commi 2 e 3, in sede di liquidazione finale dei lavori, servizi o forniture riferita all'appalto risolto, l'onere da porre a carico dell'appaltatore è determinato anche in relazione alla maggiore spesa sostenuta per affidare ad altra impresa i lavori ove la stazione appaltante non si sia avvalsa della facoltà prevista dall'art. 110, comma 1, e cioè non abbiano interpellato progressivamente i soggetti che hanno partecipato all'originaria procedura di gara, risultanti dalla relativa graduatoria, al fine di stipulare un nuovo contratto per l'affidamento del completamento dei lavori. Una volta stabiliti i casi in cui l'avvio dell'attività finalizzata alla determinazione di risoluzione del contratto sia un dovere giuridico ovvero un obbligo ineludibile, il legislatore si è occupato della specifica attività preparatoria, istruttoria e strumentale che deve compiere la stazione appaltante attraverso i propri organi ed uffici competenti. Infatti, il comma 3, prevede, innanzitutto che l'avvio dell'iniziativa risolutoria deve compiersi quante volte il direttore dei lavori o il responsabile dell'esecuzione del contratto (se nominato) accertino un grave inadempimento alle obbligazioni contrattuali da parte dell'appaltatore. Se il direttore dei lavori o il responsabile dell'esecuzione accertino che l'inadempimento possa essere tale da comprometterne la buona riuscita delle prestazioni, al responsabile del procedimento, una relazione particolareggiata, corredata dei documenti necessari, indicando la stima dei lavori eseguiti regolarmente, il cui importo può essere riconosciuto all'appaltatore. Nella stessa relazione, i soggetti indicati formulano, altresì, la contestazione degli addebiti all'appaltatore, assegnando un termine non inferiore a quindici giorni per la presentazione delle proprie controdeduzioni al responsabile del procedimento. L'ultimo periodo del comma 3, disciplina espressamente l'eventuale esito negativo del contraddittorio precisando che, una volta acquisite e valutate negativamente le predette controdeduzioni ovvero scaduto il termine senza che l'appaltatore abbia risposto, la stazione appaltante, su proposta del responsabile del procedimento, dichiara risolto il contratto. Questo significa che l'atto che dispone la risoluzione del contratto ha natura meramente dichiarativa, qualora vengano accertati i presupposti, e che lo stesso deve essere adottato dall'Organo o dall'Ufficio competente a manifestare all'esterno la volontà dell'Ente che funge da stazione appaltante, secondo l'assetto organizzativo e l'articolazione burocratica degli Enti interessati. Il comma 4 prevede un'ulteriore ipotesi di risoluzione, ricollegata agli effetti del tempo dell'esecuzione e ai casi in cui, come sopra accennato, il mancato rispetto del tempo sia correlato alla negligenza nell'esecuzione delle opere. In particolare, la norma dispone che, al di fuori di quanto previsto al comma 3, qualora l'esecuzione delle prestazioni ritardi per negligenza dell'appaltatore rispetto alle previsioni del contratto, il direttore dei lavori o il responsabile unico dell'esecuzione del contratto, se nominato gli assegna un termine, che, salvo i casi d'urgenza, non può essere inferiore a dieci giorni, entro i quali l'appaltatore deve eseguire le prestazioni. Scaduto il termine assegnato, e redatto processo verbale in contraddittorio con l'appaltatore, qualora l'inadempimento permanga, la stazione appaltante risolve il contratto, fermo restando il pagamento delle penali. I successivi commi 5, 6 e 7, forniscono un quadro abbastanza chiaro sull'attività da compiersi e delle conseguenze che ne scaturiscono. Più in particolare, viene precisato che nel caso di risoluzione del contratto l'appaltatore ha diritto soltanto al pagamento delle prestazioni relative ai lavori, servizi o forniture regolarmente eseguiti, decurtato degli oneri aggiuntivi derivanti dallo scioglimento del contratto (comma 5). A sua volta il RUP nella determinazione di risoluzione del contratto comunicata all'appaltatore dispone, con preavviso di venti giorni, che il direttore dei lavori curi la redazione dello stato di consistenza dei lavori già eseguiti, l'inventario di materiali, macchine e mezzi d'opera e la relativa presa in consegna (comma 6). Tale determinazione va altresì comunicata all'organo di collaudo, qualora sia già stato nominato, il quale procede a redigere, acquisito anche in contraddittorio lo stato di consistenza, un verbale di accertamento tecnico e contabile con le modalità di cui al alla presente legge. Il verbale accerta la corrispondenza tra quanto eseguito fino alla risoluzione del contratto e ammesso in contabilità e quanto previsto nel progetto approvato nonché nelle eventuali perizie di variante; è altresì accertata la presenza di eventuali opere, riportate nello stato di consistenza, ma non previste nel progetto approvato nonché nelle eventuali perizie di variante (comma 7). Infine, il comma 9, con una terminologia da genio militarie, ribadisce, nei casi appunto di risoluzione del contratto di appalto dichiarata dalla stazione appaltante, l'obbligo dell'appaltatore di «provvedere al ripiegamento dei cantieri già allestiti e allo sgombero delle aree di lavoro e relative pertinenze» nel termine a tal fine assegnato dalla stessa stazione appaltante. Ovviamente, detto termine dovrà essere proporzionalmente e ragionevolmente adattato caso per caso alle singole fattispecie. In caso di mancato rispetto del termine assegnato, è prevista la «sanzione» di esecuzione d'ufficio, [la stazione appaltante provvede d'ufficio] addebitando all'appaltatore i relativi oneri e spese. L'ultimo periodo del citato comma 9, contiene una norma che ha anche valore processuale e di parametro di riferimento per il giudice competente, in un'ottica acceleratoria e tutto sommato anticipatorio degli effetti anche materiali dello scivolamento del rapporto anche per quei profili che vanno ad incidere sul necessario rapporto fiduciario. Infatti, è previsto che, la stazione appaltante, in alternativa all'esecuzione di eventuali provvedimenti giurisdizionali cautelari, possessori o d'urgenza comunque denominati che inibiscano o ritardino il ripiegamento dei cantieri o lo sgombero delle aree di lavoro e relative pertinenze, può depositare cauzione in conto vincolato a favore dell'appaltatore o prestare fideiussione bancaria o polizza assicurativa con le modalità di cui all'art. 93, pari all'1% del valore del contratto. Fatto questo adempimento e prestata la garanzia, l'appaltatore dovrà ripiegare o sgomberare ovvero dovrà subire l'esecuzione d'ufficio. In questi casi non è chiaro, peraltro, se tale facoltà debba essere necessariamente statuita dal giudice ovvero se il deposito cauzionale faccia venir meno ipso jure gli effetti di inibitorie o provvedimenti cautelari, riconoscendo anche in questo caso un potere unilaterale, peraltro con garanzie non assolute o paritetiche, di una forma di autotutela esecutiva in applicazione del principio generale che scaturisce dall'art. 823, comma 2, del c.c., applicabile, secondo la giurisprudenza, ai contratti pubblici, formalizzata in una determinazione corredata di apposito verbale di constatazione, ai sensi degli art. 21-ter e art. 21-quater l. n. 241/1990 nonché dell'art. 823 c.c. (Cons. St., V, n. 3531/2015) avvalendosi eventualmente di mezzi propri, delle forze dell'ordine e, per i Comuni, della Polizia Municipale. In ogni caso, la norma, e del resto non poteva fare altrimenti, precisa che resta fermo il diritto dell'appaltatore di agire per il risarcimento dei danni per equivalente, ai sensi dell'art. 2043 c.c. e che, tuttavia non può riguardare il lucro cessante, essendo limitato il diritto (comma 5) al solo pagamento delle prestazioni relative ai lavori, servizi o forniture regolarmente eseguiti, e correttamente contabilizzate nei registri, decurtato degli oneri aggiuntivi derivanti dallo scioglimento del contratto. Come si evince dal tenore della disposizione, lo strumentario previsto e le misure stabilite introducono un potere di iniziativa d'ufficio, per un solo caso limitato rimesso all'iniziativa della parte (Caringella, Protto). La p.a. deve garantire il contradittorio, ma viene confermata la posizione privilegiata in un rapporto che, formalmente, si mostra paritetico, ma che è sbilanciato in favore dell'interesse pubblico che pone in una posizione recessiva l'esercizio del diritto all'intrapresa economica. Dal canto loro, le imprese hanno uno scarso potere in sede di intervento e partecipazione al rapido iter di formazione della determinazione di risoluzione del contratto, mentre possono esperire gli ordinari rimedi in sede giurisdizionale. Riguardo alle pretese partecipative volte ad indirizzare l'attività della stazione appaltante, in effetti, esiste un solo caso in cui l'iniziativa dell'impresa ha un suo potere parzialmente vincolante, e cioè quello di chiedere la risoluzione nel caso di illegittimo perdurare della sospensione oltre un quarto della durata complessiva ovvero nel caso in cui la sospensione superi i sei mesi. Se non lo fa ed accetta l'alea della prosecuzione del contratto non potrà avanzare per questo pretese risarcitorie, ma eventualmente formulare riserve che potranno essere valutate in sede di riconoscimento dei maggiori costi. Non solo, ma è soggetta anche al potere di opposizione alla richiesta risoluzione da parte della stazione appaltante, per cui lo scioglimento del vincolo contrattuale potrà essere pronunciato solo su domanda giudiziale, ricorrendone i presupposti. Va, infine, richiamata la disciplina della risoluzione del contratto introdotta dall'art. 5, comma 4 del d.l. 76/2020 in base alla quale «Nel caso in cui la prosecuzione dei lavori, per qualsiasi motivo, ivi incluse la crisi o l'insolvenza dell'esecutore anche in caso di concordato con continuità aziendale ovvero di autorizzazione all'esercizio provvisorio dell'impresa, non possa procedere con il soggetto designato, né, in caso di esecutore plurisoggettivo, con altra impresa del raggruppamento designato, ove in possesso dei requisiti adeguati ai lavori ancora da realizzare, la stazione appaltante, previo parere del collegio consultivo tecnico, salvo che per gravi motivi tecnici ed economici sia comunque, anche in base al citato parere, possibile o preferibile proseguire con il medesimo soggetto, dichiara senza indugio, in deroga alla procedura di cui all'articolo 108, commi 3 e 4, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, la risoluzione del contratto, che opera di diritto, e provvede secondo una delle seguenti alternative modalità: a) procede all'esecuzione in via diretta dei lavori, anche avvalendosi, nei casi consentiti dalla legge, previa convenzione, di altri enti o società pubbliche nell'ambito del quadro economico dell'opera; b) interpella progressivamente i soggetti che hanno partecipato alla originaria procedura di gara come risultanti dalla relativa graduatoria, al fine di stipulare un nuovo contratto per l'affidamento del completamento dei lavori, se tecnicamente ed economicamente possibile e alle condizioni proposte dall'operatore economico interpellato; c) indìce una nuova procedura per l'affidamento del completamento dell'opera; d) propone alle autorità governative la nomina di un commissario straordinario per lo svolgimento delle attività necessarie al completamento dell'opera ai sensi dell'articolo 4 del decreto-legge 18 aprile 2019, n. 32, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 giugno 2019, n. 55. Al fine di salvaguardare i livelli occupazionali e contrattuali originariamente previsti, l'impresa subentrante, ove possibile e compatibilmente con la sua organizzazione, prosegue i lavori anche con i lavoratori dipendenti del precedente esecutore se privi di occupazione». Con riferimento alla tutela giurisdizionale ed al giudice competente, nel silenzio della legge che, nel caso del comma 9, fa generico riferimento a «provvedimenti giurisdizionali cautelari, possessori o d'urgenza comunque denominati...», valgono i principi generali in materia di riparto tra G.O. e G.A. Trattandosi della fase esecutiva, è il giudice ordinario a doversi occupare delle specifiche controversie, ancorché possano venire in rilievo profili di discrezionalità tecnica ed accertamenti tecnici. La giurisprudenza si è espressa sulla competenza del giudice ordinario relativamente alla risoluzione trattandosi di atti autoritativi assimilabili ad atti di autonomia privata, ancorché finalizzata al pubblico interesse, che non hanno natura provvedimentale in senso stretto, sebbene ne abbiano la forma, tutte le volte che contesti la risoluzione del contratto di appalto (T.A.R. Veneto, I, n. 938/2015). Secondo la costante giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione «l'Amministrazione, una volta concluso il contratto, è del tutto carente del potere di sottrarsi unilateralmente al vincolo che dal contratto medesimo deriva: ipotizzare che essa abbia la possibilità di far valere unilateralmente eventuali vizi del contratto, semplicemente imputando quei medesimi vizi agli atti prodromici da essa posti in essere in vista dell'assunzione del predetto vincolo negoziale, equivarrebbe a consentire una sorta di revoca del consenso contrattuale (sia pure motivato con l'esercizio del potere di annullamento in via di autotutela) che la pariteticità delle parti negoziali esclude per il contraente pubblico non meno che per il contraente privato; intervenuta la stipulazione del contratto, la pubblica amministrazione non può più spendere pertanto alcun potere d'imperio, neppure in via di autotutela (ex multis Cass. S.U., 22554/2014; Cass. S.U., n. 12901/2013; Cass. S.U., n. 19046/2010; Cass. S.U., n. 26792/2008). Secondo la dottrina si tratta di una disposizione destinata a suscitare non pochi interrogativi, sia in merito alla sua portata temporale (visto che non sembra sottoposta ad un termine di durata previsto dal 1 comma dell'art. 5 con riguardo ai casi di sospensione in deroga all'art. 107) sia anche in merito alla natura del potere da essa conferito (se potere autoritativo, come invero farebbe propendere l'assenza di vincoli in ordine al suo esercizio, o contrattuale) (Pazzaglia). Peraltro, riguardo al riparto di giurisdizione nel caso di risoluzione, come evidenziato nel successivo paragrafo, si auspica un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite della Cassazione, in considerazione di quanto dispone il comma 1-bis ed il rinvio dallo stesso operato all'art. 21-nonies l. n. 241/1990, seppure limitatamente alla deroga del termine ragionevole per l'esercizio del potere e di quanto affermato dalla dottrina che riconduce comunque nell'alveo del generale potere di autotutela provvedimentale esecutiva la risoluzione d.l. contratto nei casi previsti. Problemi attuali: il dilemma del riparto di giurisdizione.La disposizione lascia aperte alcune questioni e pone delle problematiche rilevanti anche con riferimento al riparto di giurisdizione. In primo luogo, come evidenziato dal Consiglio di Stato nel parere del 2016, la tecnica di accorpare in un unico lungo articolo le disposizioni dapprima racchiuse in distinti articoli, aggiungendovi altresì ulteriori ipotesi di derivazione comunitaria, può causare una maggiore difficoltà di lettura della disciplina quindi della sua concreta applicazione. Inoltre, al di là delle due ipotesi tassative previste dal comma 2, non è altrettanto chiaro se le quattro ipotesi di risoluzione «discrezionale» abbiano altrettanto carattere di tassatività oppure meno. Sul punto, si può ritenere che la codificazione espressa al comma 1 non crei un numerus clausus che non possa ammettere altre ipotesi e comporti una sorta di risoluzione legata. Invero, il comma 4 lascia aperta una variegata gamma di ipotesi in cui l'esecuzione delle prestazioni ritardi per negligenza dell'appaltatore rispetto alle previsioni del contratto. Le ipotesi di ritardo e le negligenze che causano ritardo non paiono suscettibili di essere sussunte in fattispecie ben precise, anche se i casi disciplinati dall'art. 160 sembrano già fissarne una serie dai contorni ben definiti e definibili Tuttavia, le fattispecie sono sempre soggette a divenire ed è difficile prevedere tipologie generali ed astratte che possano contemplarle tutte. Ragionevolmente per completare lacune e incertezze sovvengono i principi generali rinvenibili dalle disposizioni del codice civile sulla soluzione del contratto, art. 1453 e ss. c.c. Peraltro, sia se si voglia accedere a tale impostazione e sia se si vogliano considerare un numerus clausus i casi di risoluzione, la stazione appaltante potrebbe sempre ricorrere all'istituto del recesso unilaterale di cui al successivo art. 109, al cui commento si fa rinvio. Riguardo ai dubbi da sciogliere, essi ci derivano anche dal ridetto parere del Consiglio di Stato. Secondo il supremo Consesso, il comma 2 lett. b) suscita perplessità dal momento che esso recepisce senza modifiche e adattamenti l'art. 135 d.lgs. n. 163/2006. Tuttavia, la formulazione dell'art. 38 del CDC «disegnava un cerchio concentrico più grande, dentro cui l'art. 135 individuava un nocciolo duro di reati più gravi, che determinavano la risoluzione del contratto se sopravvenuti in corso di rapporto». Di contro, secondo il parere del 2016, l'art. 80 elenca i titoli di reato che ostano alla partecipazione alle gare (e non più un genus complessivo avuto riguardo all'incidenza sulla moralità professionale). Ne discenderebbe che non vi sia più alcuna coincidenza, né inclusione, tra l'art. 80 e art. 108. E così, per effetto della trasposizione del vecchio art. 135 nel nuovo art. 108 senza opera di coordinamento, non vi è coincidenza tra le condanne penali menzionate nel comma 1 dell'art. 80 che determinano esclusione dalle gare, e le condanne penali sopravenute in corso di esecuzione dell'appalto che determinano risoluzione obbligatoria, ai sensi dell'art. 108, comma 2, lett. a), dove sono menzionati alcuni reati non previsti nell'art. 80, comma 1. La soluzione suggerita nel parere, non recepita dal legislatore, è stata quella di integrare l'art. 80, aggiungendo come causa di esclusione le condanne per altri reati incidenti sulla moralità professionale, e in tal caso l'art. 108, comma 2, lett. b), può restare invariato; ovvero occorrerebbe riformulare l'art. 108, comma 2, lett. b), facendo riferimento alle condanne definitive, sopravenute in corso di contratto, per i reati che ai sensi dell'art. 80 sono causa di esclusione dalla gara. E ciò anche al fine di evitare che, per effetto delle continue modifiche alla normativa penale, si possa determinare, in virtù del rinvio dinamico, un tendenziale continuo ampliamento indiretto delle cause di risoluzione degli appalti pubblici, non adeguatamente bilanciate ed effettivamente necessarie. Avuto riguardo al problema del riparto di giurisdizione, come sopra accennato, esse sorgano nel momento in cui si amplia il concetto del generale potere di autotutela e lo si vuole estendere tout court alle ipotesi di risoluzione del contatto. Invero, la risoluzione è un diritto potestativo che si esercita nella fase di esecuzione del contratto. Sul punto è jus receptum che le controversie rientrino nella giurisdizione del giudice ordinario in quanto interessa diritti soggettivi sorte dalla stipula del contratto di appalto. Inoltre, in relazione alla tendenziale tassatività dei casi di giurisdizione esclusiva, secondo gli insegnamenti della Corte Costituzionale (cfr. Corte cost. n. 204/2004) l'art. 133 non contempla la fase di esecuzione dei contratti. Da ciò se ne dovrebbe inferire che le controversie sarebbero sempre riservate al giudice ordinario. Tuttavia, stante la lettera della norma che usa l'espressione «possono» e anche nel caso di attività doverosa ovvero nei casi in cui si rilevino «un grave inadempimento alle obbligazioni contrattuali da parte dell'appaltatore, tale da comprometterne la buona riuscita delle prestazioni,» ovvero «l'esecuzione delle prestazioni ritardi per negligenza dell'appaltatore rispetto alle previsioni del contratto» viene in gioco l'esercizio di un potere tipico di autotutela cioè si tratta di un potere di controllo discrezionale nell'an e nel quid e nel quomodo nonché di un generale potere di verifica e controllo della fase di esecuzione e della ricorrenza dei presupposi per il doveroso scioglimento del rapporto. In estrema sintesi, non è da escludere a priori per la fase del rapporto amministrativo in cui interviene che possa trattarsi di atti aventi natura non solo autoritativa ma anche provvedimentale, espressione di discrezionalità valutativa, a fronte dei quali la posizione soggettiva del privato si atteggia a interesse legittimo. Se così è, sulla questione del riparto di giurisdizione possono incidere fortemente le affermazioni delle Sezioni Unite della Cassazione e del Supremo consesso della giustizia ammnistrativa. Invero, secondo la Corte nel caso di controversia tra privato e P.A. relativa alla fase di esecuzione di un contratto di appalto, occorre comunque verificare se sussista la giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo, non potendo escludersi che anche nella fase esecutiva del contratto di appalto l'Amministrazione committente disponga di poteri autoritativi, il cui esercizio si manifesta attraverso atti aventi natura provvedimentale espressione di discrezionalità valutativa, a fronte dei quali la posizione soggettiva del privato si atteggia a interesse legittimo (Cass. S.U., n. 23486/2016). E la stessa Corte Suprema ha affermato la giurisdizione del G.O. in una controversia promossa dalla cessionaria del ramo di azienda per ottenere, oltre al risarcimento del danno, l'annullamento del provvedimento con cui la stazione appaltante, su parere conforme di ANAC, ha rigettato, nel dichiarare la risoluzione di diritto dell'appalto, la richiesta di sostituzione della mandataria del raggruppamento temporaneo di imprese affidatario dell'appalto stesso. Infatti, tale controversia si colloca nella fase esecutiva del contratto di appalto, sicché, alla stregua del criterio di riparto fissato dall'art. 133, comma 1, lett. e), numero 1), cod. proc. amm., essa fuoriesce dalla giurisdizione esclusiva riconosciuta al giudice amministrativo in materia di procedure di affidamento di appalti pubblici; in tal caso, inoltre, non viene in rilievo l'esercizio di un potere amministrativo (Cass., S.U. civ., ord. n. 23468/ 2016 cit.). Un recente arresto della Corte Cassazione (S.U. civ., ord. n. 9862/2017) afferma che, accanto alla rilevanza della fase privatistica di esecuzione del contratto, il fondamentale criterio discretivo della giurisdizione del G.O. rispetto a quella del G.A., ormai accolto dalla giurisprudenza di legittimità, è quello del petitum sostanziale a termini del quale il riparto va operato in relazione alla posizione giuridica soggettiva fatta valere in giudizio (causa petendi), posizione individuata dal Giudice con riguardo ai fatti allegati e al rapporto giuridico del quale detti fatti costituiscono manifestazione, mentre il petitum viene in considerazione solo ai fini della determinazione dei poteri che, nella sfera della propria rispettiva competenza, siano attribuiti al G.O. e al Giudice amministrativo; bisogna, pertanto, far riferimento alla natura della situazione soggettiva controversa e verificare, in particolare, se il privato, ricorrendo le condizioni previste dalla legge, vanti un vero e proprio diritto soggettivo oppure sia titolare di un interesse legittimo (il che, comunque, non è dirimente nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva del G.A.). Più in particolare le Sezioni Unite rilevato che la «discrezionalità» amministrativa consiste nella facoltà di scelta fra comportamenti giuridicamente leciti per il soddisfacimento dell'interesse pubblico e per il perseguimento di un fine corrispondente alla causa del potere esercitato e che tale discrezionalità può avere ad oggetto l'an (riflettente l'emanazione stessa di un determinato provvedimento), il quid (contenuto del provvedimento), il quomodo (modalità accessorie del provvedimento) o il quando (individuazione del momento più opportuno per l'emanazione del provvedimento), osservano che il criterio che si fonda sul margine di apprezzamento dell'Autorità Amministrativa, pur non potendosi considerare tout court «erroneo», non può ritenersi «esaustivo», in quanto se è pur vero che l'interesse legittimo si correla, di norma, all'esercizio di un potere discrezionale dell'Amministrazione, non è altrettanto vero che di fronte ad un provvedimento vincolato il privato vanti sempre diritti soggettivi, ben potendo sussistere posizioni di interesse legittimo in relazione a provvedimenti vincolati, a condizione che questi ultimi siano emanati in via primaria ed immediata per la cura degli interessi pubblici e non per la soddisfazione di aspettative dei privati. Inoltre, un atto potrebbe essere «vincolato» quanto all'emanazione ma restare «discrezionale» quanto all'apprezzamento dei requisiti soggettivi del richiedente od ancora presentare alcuni caratteri della vincolatività ma essere emanato in base ad un apprezzamento complessivo di carattere discrezionale. Sulla scorta di tali affermazioni di principio appare evidente che viene messo in crisi l'unico criterio certo finora seguito, e cioè quello basato solo sulla rilevanza assoluta della fase di esecuzione del contratto. Se non lo si può più accettare unanimemente e pacificamente, gli operatori del settore (avvocati e giudici) si troveranno, caso per caso, a dovere affrontare la questione della scelta del giudice fornito di giurisdizione con un certo margine di incertezza (e dilatazione dei tempi della decisione) se non si prende la strada ritenuta corretta dal Giudice adito. E tale incertezza è alimentata dallo stesso legislatore che, come sopra evidenziato, pare avere introdotto casi in cui la risoluzione può essere discrezionale e casi in cui essa è doverosa ed anche con carattere sanzionatorio, con attribuzione a monte di un potere che, ove legittimamente esercitato, assume anche natura di provvedimento e non solo di diritto privato, che determina indubbiamente l'effetto pacifico di sciogliere unilateralmente il contratto ricorrendone i presupposti voluti dalla legge (Caringella, Protto). Questioni applicative1) Le risoluzioni di cui al comma 1 sono annullamenti mascherati? È discussa in dottrina la natura giuridica della risoluzione ivi prevista anche con riguardo a vizi della procedura, quali il difetto dei requisiti soggettivi dell'aggiudicatario e le gravi violazioni della normativa Europea. L'eterogeneità dei casi di risoluzione e la non piena sovrapposizione a quelli privatistici hanno reso incandescente il dibattito sulla natura giuridica del potere di risoluzione. Secondo la tesi privatistica, che si fonda sul nomen, nonché sulla volontà del legislatore di estendere l'applicazione del diritto privato proprio come è accaduto per l'istituto del recesso di cui all'art. 108, si tratta di istituto prettamente privatistico. In questo senso è fin troppo agevole osservare come non vi sia nel testo del codice, nella parte relativa all'esecuzione del contratto e, più segnatamente, nell'art. 108, alcun accenno espresso al potere pubblicistico di annullamento e, in generale, all'autotutela di diritto pubblico. Viene quindi naturale leggere tra le trame, allargando lo sguardo anche all'art. 109, una scelta di fondo del legislatore, deciso a sterilizzare completamente i poteri di autotutela pubblicistica una volta stipulato il contratto. Al fine di donare nuova linfa ai principi di piena parità tra le parti e di integrale soggezione del contratto pubblico alle regole privatistiche, il codice avrebbe previsto, in luogo di annullamento e revoca, rimedi squisitamente privatistici come, rispettivamente, la risoluzione (art. 108) ed il recesso (art. 109). Resta confermato, secondo questo assunto, che la concessione conserva ancora una fisionomia pubblicistica, in guisa da giustificare la soggezione all'autotutela autoritativa, al contrario dell'appalto, la cui natura integralmente privatistica impedisce un potere imperativo dopo la dimissione della veste pubblicistico con la stipula del contratto. Viene così recepito l'insegnamento della Cassazione, secondo cui, con la stipula del contratto, si costituisce tra le parti, pubblica e privata, un rapporto giuridico paritetico intercorrente tra situazioni soggettive da qualificare in termini di diritti soggettivi e di obblighi giuridici; il riscontro di sopravvenuti motivi di inopportunità della realizzazione dell'opera si riconduce perciò all'esercizio del potere contrattuale di risoluzione o recesso, previsto dalla normativa sugli appalti pubblici, con scelta che si riverbera sul contratto in quanto potere contrattuale del committente di recedere da esso, cosicché l'atto di revoca dell'aggiudicazione, ciò nonostante adottato, risulta lesivo del diritto soggettivo del privato in quanto incidente sul sinallagma funzionale (S.U., n. 10160/2003 e n. 29425/2008). Secondo questo approccio, in definitiva, il legislatore avrebbe fatto una scelta di fondo, volta a sterilizzare completamente i poteri di autotutela pubblicistica una volta stipulato il contratto. Questa impostazione – che, quindi, esclude il permanere di autotutele pubblicistiche in omaggio al principio di cui alla Plenaria n. 14/2014 – presenta anche il pregio di una ricostruzione unitaria dell'istituto di cui all'art. 109, scongiurando una qualificazione diversificata della natura del potere a seconda che la risoluzione sia motivata da sopravvenienza contrattuale o da vizio originario della procedura. Altra tesi reputa che, al di là della denominazione, si tratta di autotutela pubblicistica. Viene allora confermata da costoro la tesi dell'ammissibilità di tale potere anche dopo il contratto, pur se con riferimento solo a taluni vizi di particolari gravità e con implicita esclusione di detta potestà per ogni vizio della gara. A sostegno dell'assunto si mette in luce, in primo luogo, il permanere di un riferimento espresso ai poteri di autotutela (pubblicistica) in seno all'art. 32, non limitato all'angusto frangente ricompreso tra l'aggiudicazione e la stipula del contratto. Un'ulteriore perplessità nasce dall'incompletezza della disciplina di cui all'art. 108 (sul piano della procedura, degli effetti e della necessità di un ricorso al giudice ordinario), che lascia anche scoperto il problema della disciplina per i vizi di legittimità diversi da quelli tassativamente contemplati. Altro elemento a supporto della tesi pubblicistica è, poi, rappresentato, secondo questi autori, dalla disciplina specifica di cui all'art. 176 del nuovo Codice in tema di concessione. In detto articolo si stabilisce, con una terminologia ancora una volta assai imprecisa, che la concessione «cessa» in talune ipotesi di seguito tassativamente elencate. Ipotesi che ricalcano, in buona sostanza, i casi di cui all'art. 108. Che la cessazione passi per un annullamento d'ufficio dell'aggiudicazione è, in questo caso, chiarito dal richiamo, effettuato dal comma 2, all'art. 21-nonies della l. n. 241/1990. In maniera ancora più esplicita il comma 2 dell'art. 176 disegna un regime specifico per il caso in cui «l'annullamento d'ufficio dipenda da vizio non imputabile al concessionario». Il quadro è, in ultimo, ulteriormente complicato dalla rubrica dell'articolo ove si parla, addirittura, di «cessazione» della concessione, contrapponendo la stessa, quasi a sottolinearne l'alterità alla «revoca d'ufficio» e alla «risoluzione per inadempimento». Ebbene, se per le concessioni il fenomeno della «cessazione» è certamente conseguente all'annullamento d'ufficio appare illogico, secondo questa tesi, che, in tema di appalti, a conclusioni diverse si debba pervenire a fronte di casi sostanzialmente identici ex art. 108 riferiti agli appalti. Invero non vi sarebbe alcuna plausibile ragione per operare una simile discriminazione. Nell'impostazione del codice appalti e concessioni condividono, infatti, la medesima natura contrattuale. E anche le direttive pongono, per appalti e concessioni, con riguardo alla fase di esecuzione, una disciplina identica. Si conclude, pertanto, che l'art. 108, pur parlando di «risoluzione», avrebbe contemplato, nella sostanza, talune ipotesi di annullamento d'ufficio dell'aggiudicazione. Il legislatore si sarebbe limitato a descriverne le conseguenze, prendendo atto che dalla rimozione in autotutela dell'aggiudicazione non può che seguire lo scioglimento del contratto medio tempore stipulato. Si avrebbero, così, al comma 1, essendo ivi lo scioglimento del negozio solo facoltativo, dei casi di annullamento officioso tradizionale, a carattere discrezionale; al comma 2 verrebbero, invece, in rilievo delle ipotesi, eccezionali, di annullamento «doveroso», trattandosi di atto vincolato nel quid, in relazione al quale non residuano margini di discrezionalità in capo alla stazione appaltante. Lasciando per ora in disparte i problemi che l'annullamento doveroso comporta, in dottrina si ritiene che questa affermazione non possa valere con riferimento alla lett. b) suddetta, atteso che quest'ultima si riferisce ad una sopravvenienza fattuale che, intervenendo successivamente, allorché concretizzatasi, non legittima (e quindi non impone) l'esercizio di un potere di annullamento (doveroso), ma, semmai, per riprendere le categorie della manualistica tradizionale, fa sorgere, in capo alla stazione appaltante, il potere/dovere pubblicistico di rimozione (abrogazione) dell'atto originario divenuto contra jus. Non manca, infine, una tesi mediana, che legge l'art. 108 come norma composita, che abbina forme di annullamento pubblicistico (comma 1) e ipotesi di recesso privatistico (comma 2). Nei commi 1 e 2 dell'art. 108 convivono tanto ipotesi di risoluzione conseguente ad annullamento d'ufficio dell'aggiudicazione, quanto ipotesi di risoluzione autenticamente privatistiche. Il comma 1, in effetti, si riferisce a casi di vizi genetici della procedura o di affidamento della proroga del contratto rinegoziato a trattativa privata senza la necessaria gara. Questa tesi mista è da ultimo suffragata dal decreto correttivo n. 56/2017, che ha inserito, nell'art. 108, un comma 1-bis che esclude l'applicabilità, alle ipotesi di risoluzione di cui al comma 1, dei termini di cui all'art. 21-nonies della l. n. 241/1990 (in particolare, i dodici mesi entro i quali vanno annullati i provvedimenti favorevoli). Tale norma, nel derogare al regime temporale dell'autotutela pubblicistica, presuppone che i casi di risoluzione di cui al comma 1 siano forme di annullamento d'ufficio, lasciando intendere che a diversa soluzione si deve pervenire per le ipotesi cui al comma 2. Emerge allora una chiara differenza tra revoca e annullamento. Nei settori regolati dal codice dopo il contratto non è possibile la revoca del l'aggiudicazione (sia perché preclusa dal recesso ex art. 109, sia perché l'aggiudicazione esaurisce il suo effetto con la stipulazione e non è quindi possibile con lo strumento della revoca che, operando ex nunc, presuppone un atto a efficacia perdurante al momento del ritiro); l'annullamento è invece ammesso, pur se con l'uso del nomen risoluzione. Terminologia la quale vuole chiarire che, in tema di annullamento in autotutela, diversamente che in quello giurisdizionale, il ritiro amministrativo dell'aggiudicazione non può che mirare alla cessazione del rapporto contrattuale in corso e produrre, quindi, un effetto indefettibilmente risolutorio, come chiarito per le concessioni dall'art. 176. Visto che la dizione della norma si riferisce a “risoluzione del contratto”, si è autorizzati ad immaginare che si tratti di dizione impropria, che riguardi l'effetto (la caducazione) più che il contratto (che abiliterebbe a pensare più ad un'autotutela privatistica), volendo sottintendere la norma l'annullamento d'ufficio dell'aggiudicazione, il cui effetto è la caducazione automatica (“risoluzione”) del contratto. Tali autori soggiungono che ciò che rileva nella prospettiva eurounitaria è unicamente che la stazione appaltante sia messa in condizione, in talune circostanze specifiche, di liberarsi unilateralmente dal vincolo contrattuale. Resta indifferente il quomodo con cui lo scioglimento si produce, purché, come puntualizzato dallo stesso art. 73 della direttiva, ciò avvenga alle condizioni stabilite dal diritto nazionale. E secondo i principi di diritto interno la risoluzione del contratto può derivare sia dall'annullamento in autotutela, in virtù dell'incidenza che talune illegittimità possono sortire sulla causa in concreto del negozio, che dall'esercizio di diritti potestativi di matrice privatistica. 2) Quale giudice ha giurisdizione in caso di impugnazione congiunta della revoca dell’aggiudicazione e della risoluzione dell’appalto. Tar Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 9 febbraio 2022, n. 312 ritiene che sia competente il G.O. in caso di impugnazione congiunta della revoca dell’aggiudicazione e della risoluzione dell’appalto. Le controversie sulla fase esecutiva dell’appalto sono devolute alla cognizione del giudice ordinario, riscontrandosi una simmetria tra la pubblica amministrazione ed il contraente, che si sostanzia in un rapporto di natura privatistica. Pertanto la giurisdizione del G.O. si estenderà anche alla revoca dell’aggiudicazione poiché è espressione dello stesso potere iure privatorum che ha condotto alla risoluzione contrattuale. Limiti temporali e possibilità dell'annullamento d'ufficio Se si accede alla tesi che inquadra (in tutto in parte) la risoluzione ex art. 108 nell'annullamento pubblicistico e, quindi, ammette la permanenza del potere di auto-annullamento d'ufficio anche dopo il codice del 2016, si pone il problema di conciliare, anche per profili diversi da quello temporale, la disciplina codicistica con quella generale di cui all'artt. 21-nonies della l. n. 241/1990. Resta, in particolare, da chiarire se la stazione appaltante conservi il potere di annullare l'aggiudicazione nelle ipotesi diverse da quelle espressamente enucleate dall'art. 108. Pare, sulla scorta del dato letterale, che l'elencazione fornita dal legislatore sia tassativa. Ma questa tassatività, con riferimento alla formulazione originaria della lett. d) del comma 1 è, sembrata, in larga misura, solo apparente. La disposizione infatti, prima dell'intervento del decreto correttivo n. 56/2017, oltre a non brillare per chiarezza, recava in chiusura una fattispecie dall'evidente carattere residuale. Essa si riferiva a tutti i casi in cui fosse intervenuta «una sentenza passata in giudicato per violazione del presente codice». La sua latitudine applicativa era, quindi, in linea con la formulazione «aperta» dell'art. 73 della direttiva, assai ampia, finendo con l'abbracciare ogni possibile illegittimità della procedura, purché in grado di condizionare l'esito della stessa. Non pochi problemi di coordinamento poneva, inoltre, anche la precisazione secondo cui l'accertamento della violazione doveva essere accompagnato dal crisma della definitività. Allora la dottrina, argomentando a contrario, riteneva di poter concludere nel senso che non sarebbe sufficiente a fondare il ritiro in autotutela la pronuncia di una sentenza che non abbia acquisito autorità di cosa giudicata, ciò determinando una parziale consunzione del potere di annullamento in autotutela in favore di una maggiore stabilità del vincolo negoziale. Inoltre, detto potere di annullamento avrebbe visto, quantomeno nell'ipotesi sub lett. d) del comma 1, mutati i propri connotati. Se, infatti, tradizionalmente, spetta all'amministrazione valutare la ricorrenza del presupposto dell'illegittimità dell'atto, in questo caso il relativo accertamento avrebbe dovuto passare necessariamente per la pronuncia di un giudice. Finivano per intersecarsi, così, autotutela e giurisdizione, a conferma della tendenza dell'ordinamento a riconoscere alla prima una funzione di tipo lato sensu giustiziale. L'abrogazione di tale controversa e non chiara disposizione ad opera del decreto correttivo n. 56/2017 sembrerebbe a questo punto deporre, prima facie, a favore della tesi che vuole ravvedere un numerus clausus nelle ipotesi di cui all'art. 108, comma 1, lett. c) e d) (che sono le ipotesi nelle quali la prevalente tesi mediana ravvisa fattispecie di annullamento officioso). Accogliendo tale tesi, la stazione appaltante potrebbe, quindi, sempre annullare gli atti di gara, prima della stipula, restando assoggettata alle regole di cui alla l. n. 241/1990 e, dunque, anche al termine dei 12 mesi laddove applicabile, mentre la medesima non potrebbe invece annullare gli atti di gara dopo la stipula del contratto, all'infuori dei casi di cui alle lett. c) e d) dell'art 108, comma I, dove, evidentemente, potrebbe farlo anche al di là dei 12 mesi. Accedendo invece ad una diversa lettura, a parere di chi scrive preferibile, si potrebbe diversamente affermare che la p.a., una volta stipulato il contratto, resti comunque titolare del potere di annullamento officioso degli atti di gara e che le ipotesi di cui alle lett. c) e d) dell'art. 108 del Codice siano state espressamente codificate al solo fine di precisare che, in quei casi, la stazione appaltante potrà annullare l'aggiudicazione anche al di fuori del limite temporale dei 12 mesi, cui altrimenti resterebbe assoggettata e a cui rimane, in effetti, assoggettata, oltre che nei casi di annullamento degli atti di gara prima della stipula del contratto, anche nei casi, diversi da quelli delle lett. c) e d) dell'art. 108, di annullamento dell'aggiudicazione dopo la stipula del contratto. Vi è, in ultimo, la questione del riparto di giurisdizione (vedi par. 3). Mentre non v'è da dubitare che le fattispecie di risoluzione autenticamente privatistiche appartengano alla cognizione del giudice ordinario, le controversie relative alla risoluzione ex art. 108 sono di pertinenza del g.a. per le ipotesi che in via sostanziale sono espressione del potere pubblicistico di annullamento. Si deve abbracciare questa soluzione, oltre che per le lett. c) e d) che riguardano chiaramente vizi genetici della gara, anche, anche per le lett. a) e b), che si riferiscono a un affidamento a trattativa privata senza gara, qual è la rinegoziazione abusiva delle condizioni contrattuali, che giustifica un annullamento risolutorio dell'atto di autorizzazione dell'affidamento con effetto caducatorio del nuovo contratto e conferma della cancellazione del vecchio (non a caso questa modifica, anche nelle concessioni, consente, ex art. 176, comma1, lett. c, una forma di annullamento, chiamata in modo sbrigativo «cessazione degli effetti»; secondo CdS parere 18 dicembre 2016, n. 2777 e 30 marzo 2017, n. 782, è atto solo formalmente privato che in realtà partecipa della natura pubblica di chi lo emette). E’ necessario rispondere all’istanza di annullamento d’ufficio presentata dal terzo classificato? Negativa la risposta di Tar Lazio, III, 4552/2021, confermata da Cons. St all'udienza del 24 marzo 2022, che rammenta il consolidato indirizzo giurisprudenziale sulla discrezionalità dell'esercizio del potere di annullamento in via di autotutela. La richiesta avanzata dai privati nei confronti dell'amministrazione al fine di ottenerne un intervento in autotutela (a meno che non si tratti del secondo classificato avente una legittimazione speciale legata a un interesse pretensivo qualificato e differenziato) ha mera funzione “sollecitatoria” e non fa sorgere in capo all'amministrazione alcun obbligo di provvedere. I provvedimenti di autotutela sono infatti manifestazione dell'esercizio di un potere tipicamente discrezionale. Si afferma condivisibilmente sul punto che “la giurisprudenza è assolutamente concorde e consolidata nel ritenere l'insussistenza di tale obbligo provvedimentale a fronte di istanze volte a sollecitare l'esercizio da parte della P.A. dei suoi poteri di autotutela e in particolare del potere di annullamento d'ufficio di un precedente provvedimento (art. 21-novies l. n. 241/1990). In estrema sintesi, la inconfigurabilità di un obbligo della P.A. di provvedere a fronte di istanze di riesame di atti sfavorevoli precedentemente emanati, discende da un lato dalla natura officiosa e ampiamente discrezionale (soprattutto nell'an) del potere di autotutela (…) ” il potere di autotutela si esercita discrezionalmente d'ufficio, essendo rimesso alla più ampia valutazione di merito dell'Amministrazione, e non su istanza di parte e, pertanto, sulle eventuali istanze di parte, aventi valore di mera sollecitazione, non vi è alcun obbligo giuridico di provvedere (ex multis Cons.St., V, n. 7655 del 2019)…” Cfr., Cons. St., VI, 25 maggio 2020, n. 3277). Si ricorda, sul tema connesso dell'autotutela relativa alla scia, che, secondo le più innovative posizioni emerse in giurisprudenza e in dottrina, il terzo, dopo avere istato per la verifica alle condizioni previste per l'autotutela, ha la possibilità di agire con l'azione avverso il silenzio; vedi Cons.. St., sez. IV, 11 marzo 2022, n. 1737, secondo cui l'autotutela in materia di attività edilizia svolta sulla base di una SCIA, di cui al comma 4 dell'art. 19, l. 7 agosto 1990, n. 241, presenta alcune peculiarità rispetto al generale potere di autotutela, in quanto, mentre di regola si assume che questo sia ampiamente discrezionale nell'apprezzamento dell'interesse pubblico che può imporne l'esercizio e non coercibile (al punto che la p.a. non ha neanche l'obbligo di rispondere a eventuali istanze con cui il privato ne solleciti l'esercizio), ciò non vale in questo caso laddove, anche per l'intima connessione di tale potere col più generale dovere di vigilanza che incombe al Comune sull'attività edilizia ai fini dell'ordinato assetto del territorio, a fronte di un'istanza di intervento ai sensi dell'art. 19, comma 4, l'Amministrazione ha il dovere di rispondere, essendo la sua discrezionalità limitata solo alla verifica della sussistenza o meno dei presupposti di cui all'art. 21-nonies (conf. Cons. St, VI, 5208/2021; nonché, sulla questione connessa della normale esclusione di controinteressati nei casi in cui si impugna un provvedimento che nega un “diniego di SCIA”, Cons. St. IV 1302/2022).
BibliografiaCaringella, Giustiniani, Mantini (a cura di), Trattato dei contratti pubblici, Roma, 2021; Caringella, Protto, Il Codice dei contratti pubblici dopo il correttivo, Roma, 2017; Caringella, Manuale dei contratti pubblici, Roma 2021; De Nictolis, I nuovi appalti pubblici. Appalti e concessioni dopo il d.lgs. 56/2017, Bologna, 2017, 1540 e ss.; Esposito (a cura di), Codice dei Contratti Pubblici, (a cura di Esposito) Milano, 2017; Mastragostino (a cura di), Diritto dei contratti pubblici. Assetto e dinamiche evolutive alla luce del nuovo codice, del decreto correttivo 2017 e degli atti attuativi, Torino, 2017; Giuffrè, Provenzano, Tranquilli (a cura di), Codice dei Contratti Pubblici, Napoli, 2019; Pazzaglia, La sospensione e lo scioglimento del contratto pubblico. |