Utilizzo di false fatture, evasione dell’I.V.A. e determinazione del profitto del reato
Ciro Santoriello
07 Gennaio 2022
Come è noto, il profitto nei reati fiscali deve essere rinvenuto nell'imposta evasa ovvero nella somma di denaro non corrisposta al fisco in conseguenza della condotta fraudolenta. Tale principio, pacifico in giurisprudenza, trova solo due eccezioni ovvero in relazione al reato di distruzione o occultamento di documenti contabili di cui all'art. 10 d.lgs. n. 74/2000, delitto che si ritiene, salvo episodiche pronunce contrarie (Cass., sez. III, 9 ottobre 2019, n. 166), non dia luogo ad alcun profitto, e con riferimento al delitto di cui all'art. 11 del medesimo testo giacché quanto tenuta la condotta di sottrazione fraudolenta ala pagamento delle imposte il vantaggio viene rinvenuto, oltre che nell'imposta non pagata anche negli interessi e nelle sanzioni che si sarebbero dovuti versare in conseguenza della violazione fiscale.
Il problema
Come è noto, il profitto nei reati fiscali deve essere rinvenuto nell'imposta evasa ovvero nella somma di denaro non corrisposta al fisco in conseguenza della condotta fraudolenta. Tale principio, pacifico in giurisprudenza*, trova solo due eccezioni ovvero in relazione al reato di distruzione o occultamento di documenti contabili di cui all'art. 10 d.lgs. n. 74/2000, delitto che si ritiene, salvo episodiche pronunce contrarie (Cass., sez. III, 9 ottobre 2019, n. 166), non dia luogo ad alcun profitto, e con riferimento al delitto di cui all'art. 11 del medesimo testo giacché quanto tenuta la condotta di sottrazione fraudolenta ala pagamento delle imposte il vantaggio viene rinvenuto, oltre che nell'imposta non pagata anche negli interessi e nelle sanzioni che si sarebbero dovuti versare in conseguenza della violazione fiscale (Si veda tabella seguente).
*In evidenza. Cass., sez. III, 27 settembre 2018, n. 1657
Peraltro, si è giunti oggi ad escludere che del profitto facciano parte anche gli interessi e le sanzioni che il contribuente deve versare in conseguenza della violazione tributaria, voci di spesa che rilevano solo nella definizione del profitto relativo al reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte di cui all'art. 11 d.lgs. n. 74/2000, Cass., sez. III, 6 febbraio 2019, n. 17535; Cass., sez. III, 28 gennaio 2017, n. 28047.
Posto tale principio, tuttavia, la sua operatività presenta alcuni profili problematici rappresentati proprio nella definizione dell'imposta evasa ovvero nella determinazione del quantum economico dell'importo che andava versato all'Erario.
In particolare, posto che, come è noto, il calcolo dell'imposta si fonda, in via di estrema sintesi, sul raffronto fra i ricavi ed i costi rispettivamente ottenuti e supportati dal contribuente nel corso della sua attività d'impresa ci si domanda se nella voce “costi” vadano considerati anche le spese pur supportate ma non adeguatamente documentate.
La questione, evidentemente, non è di poco momento: l'eventuale presa in considerazione dei costi non documentati, infatti, non incide solo sulla definizione del beneficio economico ottenuto per il tramite dell'evasione (profilo che rileva, ad esempio, ai fini dell'adozione di un decreto di sequestro a fini di confisca sul patrimonio dell'indagato), ma ha rilievo anche con riferimento alla determinazione dell'imposta evasa, aspetto a sua volta rilevante per valutare il superamento o meno della soglia di punibilità laddove prevista.
La posizione della giurisprudenza. A) La tesi più severa: riconoscimento dei soli costi correttamente contabilizzati
Il problema in discorso è venuto diverse volte all'attenzione della giurisprudenza, che però presenta sul punto opinioni diversificate.
Secondo una prima, ma minoritaria, giurisprudenza la definizione dell'imposta evasa deve avvenire solo sula base dei costi effettivamente documentati, non rilevando dunque la sussistenza eventuale di costi non documentati (Cass., sez. III, 3 dicembre 2018, n. 53980; Cass., sez. III, 8 gennaio 2020, n. 230).
Secondo questa tesi se è innegabile che alla ricostruzione del reddito dell'impresa nell'esercizio di competenza concorrono anche le spese e gli altri componenti negativi, questi devono essere certi o comunque determinabili in modo obiettivo (art. 109, comma 1, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917), non potendo essere puramente e semplicemente presunti. Di conseguenza, ove a fronte dell'accertamento di ricavi non dichiarati l'imputato lamenti la mancata deduzione dei costi ad essi inerenti, egli deve provarne l'esistenza (artt. 187 e 190, cod. proc. pen.), o comunque allegare i dati dai quali l'esistenza di tali costi poteva essere desunta e dei quali il giudice non ha tenuto conto, “non essendo legittimo, nemmeno in sede penale, presumere l'esistenza di costi deducibili in assenza quantomeno di allegazioni fattuali che rendano almeno legittimo il dubbio in ordine alla loro sussistenza” (Cass., sez. III, 9 aprile 2013, n. 37131).
Una posizione intermedia. B) Differenziare fra evasione delle imposte dirette ed evasione IVA
L'impostazione indicata nel paragrafo che precede è tuttavia minoritaria. Infatti, in primo luogo si sostiene, con riferimento al delitto di omessa dichiarazione ma si tratta di considerazione che può operare per qualsiasi altro delitto indicato nel d.lgs. n. 74/2000, che, quanto meno in relazione alle imposte dirette, per il calcolo dell'imposta evasa, la sussistenza di costi effettivi non documentati può esplicare effetti sulla determinazione della base imponibile e sulla determinazione dell'importo del tributo (Cass., sez III, 16 luglio 2018, n. 53980).
Secondo questa ulteriore impostazione, infatti, occorre differenziare le modalità con cui va determinata l'imposta evasa in ambito penalistico a seconda che si discuta di imposte dirette o di imposta sul valore aggiunto, la quale è collocata in un sistema di rilevanza sovranazionale che può funzionare solo attraverso la specifica tracciabilità di tutte le fatture, attive e passive, emesse nei traffici commerciali. In particolare, la possibilità di riconoscere la rilevanza anche a costi sostenuti dal contribuente ma non contabilizzati non può operare in relazione all'I.V.A. per la definizione del relativo ammontare occorre che i costi siano adeguatamente documentati o meglio ancora siano documentati secondo le modalità prescritte dalla legge; in caso di mancata attestazione nei modi previsti dall'ordinamento, tali costi, pur se effettivamente sostenuti, non possono essere considerati dal giudice penale onde abbattere la base imponibile.
Le ragioni di tale conclusione sono rinvenute nella natura sovranazionale dell'imposta sul i tale imposta, la cui disciplina quindi troverebbe fonte, non solo nella legislazione nazionale, ma anche in fonti di diritto europeo, il cui dettato normativo dovrebbe perciò trovare sempre applicazione nello Stato italiano, anche quando si discuta dell'ammontare dell'IVA in sede penale: come si legge in alcune decisioni citate l'IVA "è collocata in un sistema chiuso di rilevanza sovranazionale, che può funzionare solo attraverso la specifica tracciabilità di tutte le fatture, attive e passive, emesse nei traffici commerciali".
La posizione maggioritaria. C) La prevalenza della sostanza sulla forma
L'importazione prevalente, tuttavia, è assai meno severa di quelle finora esaminate ed afferma che nella determinazione del calcolo della base imponibile e dell'imposta evasa – dati a loro volta rilevanti per il calcolo dell'eventuale superamento delle soglie di punibilità – il giudice penale non deve assumere un approccio “formalistico” ma deve prendere in esame il dato sostanziale dei ricavi e dei costi effettivamente ottenuti e sostenuti dal contribuente sottoposto a procedimento, per cui quando si procede alla “determinazione del reddito imponibile … la mera non contabilizzazione dei costi aziendali da parte del [contribuente non osta] alla loro valorizzazione” quando sia possibile dimostrare altrimenti, sulla base di altri elementi di prova, che le spese sono stati effettivamente sostenute (Cass., sez. III, 20 settembre 2021 n. 34661).
A questa impostazione aderisce anche la dottrina (FIORENTINO, La Corte di Cassazione e gli «accertamenti bancari: questioni «vecchie e nuove» tra retroattività, obbligo di preventivo contraddittorio e valenza «probatoria» delle movimentazioni bancarie alla stregua di una interessante pronuncia della Suprema Corte, in Riv. dir. trib., 2002, II, 342; SAMMARTINO, La rilevanza fiscale delle operazioni bancarie di prelevamento, in PERRONE, BERLIRI (a cura di), Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli, 2006, 451. In giurisprudenza, in questo senso, Cass., sez. III, 1 giugno 2016, n. 53907; Cass., sez. III, 4 giugno 2014, n. 38684.) che, valorizzando il principio del libero convincimento del giudice, sostiene che per accertare l'ammontare dell'imposta evasa ai fini della verifica del superamento delle soglie di punibilità, il giudice penale non è tenuto al rispetto delle regole stabilite dalla legislazione fiscale per quantificare l'imponibile, regole che spesso introducono limitazioni di carattere probatorio a svantaggio del contribuente in ragione delle finalità dell'accertamento tributario, finalità ovviamente ben diverse da quelle perseguite nel processo penale.
In sostanza, secondo questa prima posizione, il principio del libero convincimento impone di ritenere il giudice penale libero di considerare la sussistenza di costi non contabilizzati, la cui riconosciuta rilevanza determina un abbattimento del carico imponibile e di frequente il mancato superamento della soglia di punibilità e quindi l'irrilevanza penale della condotta. Unica condizione perché in tali casi possa operare nella sua ampiezza il libero convincimento del giudice è che i costi di cui l'imputato chiede si prenda atto per la determinazione dell'imposta evasa siano pienamente dimostrati mediante allegazioni fattuali da cui si desuma la certezza o comunque il ragionevole dubbio della loro esistenza (CESARI, Una nuova pronuncia della Corte di Cassazione sulle regole probatorie in materia di superamento delle soglie di punibilità nel reato di omessa dichiarazione, in Dir. prat. trib., 2015, II, 542; PUTINATI, Omessa dichiarazione, in NOCERINO - PUTINATI (a cura di), La riforma dei reati tributari, Torino, 2016, 119).
Quanto all'eventuale differenza di calcolo dell'imposta evasa in sede penale a seconda che il tributo rientri fra le imposte dirette o sia l'imposta sul valore aggiunto, si nega qualsiasi rilievo a tale circostanza sostenendosi che “l'eventuale accertamento di ulteriori elementi reddituali, rilevante ai fini della determinazione delle imposte, fra esse comprese anche l'IVA, non può essere eseguito se non tenendo conto di tutti gli elementi - costi, ricavi, proventi ed oneri - che concorrono alla loro formazione e la determinazione della imposta sul valore aggiunto evasa deve essere eseguita attraverso la contrapposizione tra l'IVA risultante dalla fatture emesse e l'IVA detraibile sulla base delle fatture ricevute, senza che tale computo possa ritenersi ineseguibile sulla sola base del difetto di allegazione di eventuali fatture passive incombente sull'imputato, dovendo tenersi conto, pertanto, in un'ottica volta a privilegiare il dato fattuale rispetto a quello meramente formale, anche degli altri elementi probatori certi acquisiti agli atti” (Cass., sez. III, 20 settembre 2021 n. 34661).
In conclusione
Premesso che l'incertezza che sul punto è presente in giurisprudenza suggerirebbe che la questione fosse rimessa quanto prima alle sezioni unite, ci permettiamo di osservare come l'opinione più convincente – e comunque maggiormente conforme all'impostazione del sistema penale italiano – sia quella esposta da ultimo.
Infatti, tanto quella che, ai fini del calcolo dell'imposta evasa, subordina tout court la deducibilità dei costi asseritamente supportati alla loro corretta contabilizzazione alla luce della normativa tributaria, quanto quella che riferisce questa imposta alla sola imposta sul valore aggiunto, finiscono inevitabilmente per confliggere con il principio del libero convincimento che da sempre governa il processo penale italiano e che impedisce al legislatore di configurare prove legali alle cui risultanze il giudice deve inevitabilmente vincolare il proprio giudizio.
In sostanza, un conto è sostenere che la modalità principale con cui il contribuente può dimostrare di aver sostenuto di determinati costi di cui chiede si tenga conto nella determinazione dell'imposta dovuta e non versata è la loro corretta contabilizzazione, di modo che in assenza di tale requisito la prova per l'indagato risulta assai difficoltosa e soggetta ed un regime di valutazione particolarmente rigorosa, altro è sostenere che in mancanza di tale contabilizzazione il giudice penale non può tenerne in alcun modo conto quale che sia l'impegno dimostrativo profuso dalla difesa.
In questo secondo caso, per l'appunto, si giunge a porre un inammissibile vincolo alla discrezionalità decisionale del giudice che il nostro sistema penale vuole invece non comprimibile, salvo un controllo circa la ragionevolezza del suo esercizio a mezzo dell'esame della relativa motivazione (CESARI, Una nuova pronuncia della Corte di Cassazione sulle regole probatorie in materia di superamento delle soglie di punibilità nel reato di omessa dichiarazione, in Dir. prat. trib., 2015, II, 542; PUTINATI, Omessa dichiarazione, in NOCERINO - PUTINATI (a cura di), La riforma dei reati tributari, Torino, 2016, 119).
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Sommario
La posizione della giurisprudenza. A) La tesi più severa: riconoscimento dei soli costi correttamente contabilizzati
Una posizione intermedia. B) Differenziare fra evasione delle imposte dirette ed evasione IVA
La posizione maggioritaria. C) La prevalenza della sostanza sulla forma