IMU: tra novità della Legge di Bilancio 2022 e gli orientamenti della giurisprudenza di legittimitàFonte: L. 30 dicembre 2021 n. 234
19 Gennaio 2022
Premessa
Vengono esaminate le principali questioni in tema di IMU (ex ICI) e gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità, con riferimento a: abitazione principale, aree edificabili, aree portuali, aree scoperte funzionali ad attività commerciali, consorzi di bonifica, consorzio ASI, enti ecclesiastici, immobili collabenti. Abitazione principale
La principale novità dal 2022, riguarda la prima casa dei coniugi, essendo prevista dall'ultima Legge di bilancio l'esenzione per un solo immobile, anche se gli immobili sono presenti in comuni diversi, nel caso in cui i componenti del medesimo nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi. In tal caso l'agevolazione vale per un solo immobile per nucleo familiare, scelto dai componenti del nucleo familiare, e ciò sia nel caso di immobili siti nello stesso comune, sia in comuni diversi. Già dal 2008 l'abitazione principale e le relative pertinenze non pagano l'ICI (ora IMU). Sono escluse dall'agevolazione le ville, i castelli e le abitazioni di lusso (accatastati A1 - abitazioni signorili - A8 – ville - A9 – castelli); tuttavia se questi immobili sono destinati ad abitazione principale godono di una detrazione fissata dai Comune, suddivisa tra i soggetti dimoranti.
Al fine di ottenere l'esenzione dell'abitazione principale occorre una apposita dichiarazione per mettere a conoscenza il Comune di verificare i requisiti per una riduzione o esenzione dell'imposta. La dichiarazione va presentata nell'anno successivo a quello in cui le variazioni si sono verificate solo per gli immobili variati nel corso dell'anno stesso, mentre se non si verificano variazioni la dichiarazione ha effetto anche per gli anni successivi. Non occorre, peraltro, la necessaria coincidenza della abitazione principale con quella della residenza anagrafica. È orientamento consolidato, anche alla stregua delle originaria formulazione dell'art. 8, comma 2, del d.lgs. 504/1992 che «l'agevolazione prevista […] per l'immobile adibito ad abitazione principale non può essere negata […] per la divergenza tra il luogo indicato e la residenza anagrafica del contribuente» (Cass. Sez. trib., ordinanza n. 13062 del 24/05/2017; Cass. Sez. trib., ordinanza n. 12299 del 17/05/2017).
La definizione contenuta nell'art. 8, comma 2, del d.lgs. n. 504/1992, cit., (secondo la quale « per abitazione principale si intende quella nella quale il contribuente, che la possiede a titolo di proprietà, usufrutto o altro diritto reale, e i suoi familiari dimorano abitualmente») prescinde dal dato formale della residenza anagrafica, e attiene, invece, al dato fattuale della effettiva dimora del nucleo familiare del contribuente.
E siffatta conclusione, lungi dall'essere contraddetta, è piuttosto avvalorata dalla modifica della disposizione operata dall'art. 1, comma 173, lett. b), della legge n. 296/2006 cit., in virtù della quale « ... al comma 2 dell'articolo 8, dopo le parole: ‘adibita ad abitazione principale del soggetto passivo' sono [state] inserite le seguenti: intendendosi per tale, salvo prova contraria, quella di residenza anagrafica».
Il legislatore, infatti, nell'introdurre la presunzione iuris tantum della coincidenza tra il comune della residenza anagrafica del contribuente e la localizzazione della «unità immobiliare adibita ad abitazione principale dal soggetto passivo» del tributo de quo ha riaffermato il principio che, ai fini della detrazione, l'abitazione principale non è necessariamente determinata dalla residenza anagrafica del contribuente e, con la eccezione di salvezza, ha, quindi, espressamente sancito la possibilità della «prova contraria», addossandone l'onere relativo alla parte interessata.
L'esenzione dal pagamento dell'IMU sull'abitazione principale, riguarda anche le relative pertinenze quali cantine e garage, ma una autonomia al riguardo è lasciata ai regolamenti comunali, potendo i Comuni limitare il numero delle unità immobiliari qualificabili come pertinenze. Area edificabile
In tema di ICI, a seguito dell'entrata in vigore dell'articolo 11-quaterdecies, comma 16, del d.l. n 203/2005, conv. con modif. dalla legge n. 248/2005, e dell'articolo 36, comma 2, del d.l. n. 223/2006, conv. con modif. dalla legge n. 248/2006, che hanno fornito l'interpretazione autentica dell'articolo 2, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 504/1992, l'edificabilità di un'area, per l'applicabilità del criterio di determinazione della base imponibile fondato sul valore venale, deve essere desunta dalla qualificazione ad essa attribuita nel piano regolatore generale adottato dal comune, indipendentemente dall'approvazione dello stesso da parte della regione e dall'adozione di strumenti urbanistici, tenuto altresì conto che il detto articolo 2, comma 1, del d.lgs. n. 504/1992, prevedendo che un terreno sia considerato edificatorio anche ove esistano possibilità effettive di costruzione, delinea, ai fini fiscali, una nozione di area edificabile ampia ed ispirata alla mera potenzialità edificatoria (Cass., Sez. 5, n. 4952 del2 marzo 2018).
Dette considerazioni sono esattamente riproponibili nel rapporto tra previsione generale di piano e norme attuative, quali siano le denominazioni in concreto assunte anche secondo le legislazioni regionali (Cass. 27 gennaio 2017, n. 2109). Si tratta di orientamento che recepisce quanto stabilito dalla S.C., la quale ha osservato che: "L'inizio del procedimento di trasformazione urbanistica è infatti sufficiente a far lievitare il valore venale dell'immobile, le cui eventuali oscillazioni, in dipendenza dell'andamento del mercato, dello stato di attuazione delle procedure incidenti sullo ius aedificandi o di modifiche del piano regolatore che si traducano in una diversa classificazione del suolo, possono giustificare soltanto una variazione del prelievo nel periodo d'imposta, conformemente alla natura periodica del tributo in questione, senza che ciò comporti il diritto al rimborso per gli anni pregressi, a meno che il Comune non ritenga di riconoscerlo, ai sensi dell'art. 59, comma primo, lettera f), del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446. L'inapplicabilità del criterio fondato sul valore catastale dell'immobile impone peraltro di tener conto, nella determinazione della base imponibile, della maggiore o minore attualità delle sue potenzialità edificatorie, nonché della possibile incidenza degli ulteriori oneri di urbanizzazione sul valore dello stesso in comune commercio". (Cass., SS.UU., n. 25506/06).
Anche se i terreni sono oggetto di procedura espropriativa, conservano la natura edificabile ed in quanto tale sono assoggettabili all'imposta comunale, la quale non si fonda sulla idoneità del bene a produrre reddito o sulla sua attitudine ad incrementare il proprio valore o il reddito prodotto. Infatti, “in tema di imposta comunale sugli immobili (ICI), l'art. 1 del d.lgs. n. 504/1992, in nessun modo ricollega il presupposto dell'imposta all'idoneità del bene a produrre reddito o alla sua attitudine ad incrementare il proprio valore o il reddito prodotto, assumendo rilievo il valore dell'immobile, ai sensi del successivo art. 5, ai soli fini della determinazione della base imponibile - e quindi della concreta misura dell'imposta -, con la conseguenza che deve escludersi che un'area edificabile soggetta ad un vincolo urbanistico che la destini all'espropriazione sia per ciò esente dall'imposta. (Cass. 29/01/2019 n. 2392).
La disciplina dettata dall'art. 16, comma 2, del citato d.lgs. n. 504/1992 - abrogato a decorrere dal 30 giugno 2003, ai sensi degli artt. 58, comma 1, n. 134, e 59 del d.P.R. n. 327/ 2001, modificati dal d.lgs. n. 302/2002 - e dall'art. 37, comma 8, del menzionato d.P.R. n. 327/2001, mira a ristorare il proprietario del pregiudizio a lui derivante nel caso in cui l'imposta versata nei cinque anni precedenti all'espropriazione, conteggiata sul valore venale del bene, sia superiore a quella che sarebbe risultata se fosse stata calcolata sull'indennità di espropriazione effettivamente corrisposta; nè tale disciplina, nella parte in cui non si applica al periodo di tempo antecedente agli ultimi cinque anni rispetto alla data dell'espropriazione, pone dubbi di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 2, 3 e 53 Cost., in quanto l'imposta, come già evidenziato, non è correlata all'idoneità del bene a produrre reddito, ovvero alla sua attitudine ad incrementare il proprio valore o il reddito prodotto, sicché detta idoneità risulta irrilevante ai fini impositivi (Cass. n.12272/2017; n.10699/2018).
L'edificabilità, pertanto, non può essere esclusa dalla ricorrenza dei vincoli o destinazioni urbanistiche, giacchè tali limiti incidendo sulle facoltà dominicali connesse alla possibilità di trasformazione urbanistico edilizia del suolo medesimo, ne presuppongono la vocazione edificatoria. Ne discende che la presenza dei suddetti vincoli non sottrae le aree su cui insistono al regime fiscale propri dei suoli edificabili, ma incide soltanto sulla concreta valutazione del relativo valore venale e, conseguentemente, sulla base imponibile (cass. n. 9510/2008). Deve, quindi negarsi, ai fini ICI la natura inedificabile dell'area compresa in una zona destinata dal PRG a “opere di urbanizzazione primaria quali marciapiedi, aree verdi, opere impiantistiche, rete fognarie, gas-metano,”, la quale per i principi espressi non può ritenersi esente da imposta. Ciò che rileva ai fini fiscali è che venga adottato un diverso criterio di valutazione dei suoli, quando questi siano avviati sulla strada della edificabilità poiché, normalmente, già l'avvio della procedura per la formazione del PRG determina un consistente aumento di valore, pur con tutti i necessari distinguo riferiti alle zone e alla necessità di ulteriori passaggi procedurali, e che l'edificabilità dei suoli, ai fini fiscali, non è condizionata dall'approvazione e dall'adozione di strumenti attuativi del medesimo, proprio perché il valore del terreno nelle contrattazioni aumenta per effetto della sola adozione di un piano regolatore che ne preveda l'edificabilità, e ciò che assume rilievo, dunque, ai fini del prelievo fiscale è lo stato di fatto del terreno secondo lo strumento urbanistico che lo conforma. Questione controversa è se il vincolo di destinazione urbanistica a “verde pubblico” sottragga l'area al regine fiscale dei suoli edificabili, ai fini dell'ICI. Un'area compresa in una zona destinata dal PRG a verde pubblico attrezzato è sottoposta ad un vincolo di destinazione che preclude ai privati tutte quelle trasformazioni del suolo che sono riconducibili alla nozione tecnica di edificazione. Ne deriva che un'area con tali caratteristiche non può essere qualificata come fabbricabile, ai sensi dell'art. 1, comma 2, d.lgs n. 504/1992, e, quindi, il possesso della stessa non può essere considerato presupposto dell'imposta comunale in discussione. (Cass. Sez. trib., n. 9169 del 21/04/2011; Cass. Sez. trib., n. 25672 del 24/10/2008). Manca, pertanto, il presupposto di imposta, limitato dal d.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, artt. 1 e 2 per le aree urbane, ai terreni fabbricabili, intendendosi per tali quelli destinati alla edificazione per espressa previsione degli strumenti urbanistici ovvero – quale criterio meramente suppletivo, - in base alle effettive possibilità di edificazione.
Deve, quindi, negarsi la natura edificabile delle aree comprese in zona destinata dal PRG a "verde pubblico attrezzato" in quanto tale destinazione è preclusiva ai privati di forme di trasformazione del suolo riconducibile alla nozione tecnica di edificazione e le trasformazioni, se previste, sono concepite al solo fine di assicurare la fruizione pubblica degli spazi (Cfr Cass., sez. I, 20 novembre 2006 n. 24585; Cass., 11741/06; Cass., sez. I, 29 maggio 2001 n. 7258).
Pertanto, "ove la zona sia stata concretamente vincolata ad un utilizzo meramente pubblicistico (verde pubblico; attrezzature pubbliche;ecc.), la classificazione apporta un vincolo di destinazione che preclude ai privati tutte quelle forme di trasformazione del suolo che sono riconducibili alla nozione tecnica di edificazione" (Cass. 14 giugno 2007 n. 13917). Aree portuali
L'imposizione ICI sulle aree portuali è fondata sul criterio della funzione (attività libero-imprenditoriale) e non sul criterio di ubicazione, con la conseguenza che il censimento catastale delle stesse impone l'accertamento non già della loro localizzazione, bensì dell'esercizio dell'attività secondo parametri imprenditoriali, restando invece irrilevante l'interesse pubblico al suo svolgimento. (Cass. n. 23067/2019).
Si è affermato che «in tema di ICI, ai fini del classamento di un immobile nella categoria E, come previsto dall'art. 2, comma 40, del d.l. n. 262 n. 2006, conv. dalla l. n. 286/2006, è necessario che lo stesso presenti caratteristiche tipologico-funzionali tali da renderlo estraneo ad ogni uso commerciale o industriale, con la conseguenza che le aree portuali non sono classificabili in detta categoria se in concreto destinate a tali finalità. (Cass. n. 10674 del 2019).
Quindi, ad esempio, sono assoggettati ad ICI i locali magazzini utilizzati dalle società imprenditrici "terminaliste", concessionarie del suolo, per le attività di movimentazione, stoccaggio, deposito, imbarco e sbarco di merci. Peraltro «si deve escludere, per il carattere innovativo che deve essere ad esse riconosciuto, l'applicabilità alle fattispecie pregeresse delle disposizioni di cui ai commi 578 e 579 dell'art. 1 della legge n. 205/2017 che riconoscono a decorrere dal 1° gennaio 2020 la possibilità di ottenere, a seguito di specifica istruttoria, la classificazione in E/1 dei depositi allocati in area portuale e strettamente funzionali alle operazioni e servizi portuali di cui all'art. 16 della legge n. 84/1994.
Si è affermao, al riguardo che “In tema di ICI, sono assoggettate al pagamento dell'imposta in quanto non classificabili in categoria E, le aree c.d. scoperte che risultino indispensabili al concessionario del bene demaniale per lo svolgimento della sua attività, atteso che il presupposto dell'imposizione è che ogni area sia suscettibile di costituire un'autonoma unità immobiliare, potenzialmente produttiva di reddito” (Cass. n. 10031 del 2017).
Se le aree c.d.”scoperte” risultano indispensabili al concessionario del bene demaniale per svolgere la propria attività imprenditoriale, alle stesse non può essere applicata alcuna esenzione perché produttrici di reddito.
A tale riguardo va ricordato che: “In tema di classamento, ai sensi dell'art. 2, comma 40, del d.l. n. 262/2006, convertito, con modificazioni, nella legge n. 286/2006, nelle unità immobiliari censite nelle categorie catastali E/1, E/2, E/3, E/4, E/S, E/6, ed E/9 non possono essere compresi immobili o porzioni di immobili destinati ad uso commerciale, industriale, ed ufficio privato ovvero ad usi diversi, qualora gli stessi presentino autonomia funzionale e reddituale, e, cioè, alla luce del combinato disposto degli artt. 5 del r.d.l. n. 652/1939 e 40 del d.P.R. n. 1142/1949, immobili per se stessi utili o atti a produrre un reddito proprio, anche se utilizzati per le finalità istituzionali dell'ente titolare” (Cass. n. 20026 del 2015) Consorzi di bonifica
La questione dell'assoggettamento dei consorzi di bonifica all'ICI è stata risolta dalla S.C. in senso affermativo avendo statuito che: "in tema di imposta comunale sugli immobili, i beni demaniali nella disponibilità dei consorzi di bonifica per l'espletamento della loro attività istituzionale sono assoggettati all'imposta, ai sensi dell'art. 3 del d.lgs. 26 ottobre 1995, n. 504, trattandosi di beni non meramente detenuti dai consorzi ma da questi posseduti in quanto loro affidati in uso per legge in qualità di soggetti obbligati alla esecuzione, manutenzione ed esercizio delle opere realizzate per finalità di bonifica e di preservazione idraulica" (Cass. n. 19053 del 2014).
Non può, quindi, sostenersi che, ai fini ICI, il consorzio di bonifica sia da considerarsi mero detentore degli immobili demaniali. Il rapporto tra i consorzi di bonifica e i beni del demanio loro affidati è declinabile secondo lo schema della concessione a titolo gratuito; ed è un rapporto basato sulla stessa legge istitutiva dei consorzi (il r.d. n. 215 del 1933), in correlazione con la funzione specifica, ivi loro assegnata, di “esecuzione, manutenzione ed esercizio delle opere di bonifica” (art. 54 del r.d. cit.).
I consorzi possiedono i beni demaniali in quanto quei beni solo loro affidati in uso per legge, in qualità di soggetti obbligati alla esecuzione, manutenzione ed esercizio, delle opere realizzate per finalità di bonifica e di preservazione idraulica. Ne consegue che la relazione tra il consorzio ed i beni, avente titolo nella legge, non può essere relegata nell'alveo della mera detenzione, come d'altronde è indirettamente confermato dall'essere i relativi contributi (alla spesa di esecuzione e manutenzione delle opere pubbliche) considerati esigibili dai consorzi stessi come oneri reali sui fondi dei contribuenti (art. 21 del r.d. n. 215 del 1993). Il possesso è, quindi, qualificato dal titolo. Consorzi ASI
il Consorzio ASI è, in forza del suo stesso Statuto, un ente pubblico economico che esercita attività industriale e commerciale ed è quindi soggetto ad ICI al pari di qualsiasi operatore commerciale o industriale (Cass. n. 12798 del 2017). A tale riguardo, si è chiarito che ai sensi dell'art. 1 del d.lgs. n. 504/1992 "Presupposto dell'imposta è il possesso di fabbricati, di aree fabbricabili e di terreni agricoli, siti nel territorio dello Stato, a qualsiasi uso destinati, ivi compresi quelli strumentali o alla cui produzione o scambio è diretta l'attività di impresa"; pertanto è tenuto al pagamento dell'imposta l'assegnatario, anche provvisorio, di un lotto di proprietà del Consorzio per l'Area di Sviluppo industriale "nonostante non sia stato ancora stipulato l'atto notarile di trasferimento della proprietà in suo favore" (Cass. n. 18294 del 2004).
Il Consorzio ASI è, quindi, un ente avente soggettività giuridica riconosciuta dalla legge 5 ottobre 1991, n. 317 (art. 36 comma 4) dello Statuto Consortile (art. 1 comma 1) e della giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 22685 del 2008 e Cass. n. 12797 del 2016), pertanto allo stesso va applicata la disciplina fiscale prevista per gli enti pubblici economici. In ragione della natura giuridica del consorzio non può trovare applicazione la clausola di esenzione di cui all'art. 7, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 504 del 1992, riguardo all'attività esercitata dall'ente mediante beni utilizzati per l'esercizio di attività imprenditoriale, anche se non prevalente, essendo la predetta attività, nella fattispecie, finalizzata alla locazione a terzi di immobili, dietro corrispettivo. (Cass. 16282 del 2017).
La locuzione “compiti istituzionali” contenuta nell'art. 7, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 504 del 1992, al fine di fruire dell'esenzione dall'ICI, è riferita solo a funzioni pubbliche e ad attività di servizio pubblico dell'ente locale, con esclusione delle attività meramente economiche, come la locazione di beni a terzi, rispetto alle quali gli enti non si pongono in veste di istituzione ma operano come ordinari soggetti dell'ordinamento (Cass. n. 10809 del 2016). Il concetto di finalità istituzionali, che sono proprie dell'ente locale e che costituiscono la ragione di essere dello stesso, non deve confondersi con quello di interesse pubblico, che può essere svolto anche per tramite di altri soggetti di natura privata. Per cui non ogni iniziativa solo perché intrapresa dall'ente locale fa conseguire l'esenzione, dovendosi tenere conto se la stessa integri funzioni pubbliche o una attività puramente economica. L'esenzione prevista dall'art. 7, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 504 del 1992 si applica per gli immobili posseduti da enti “destinati esclusivamente a compiti istituzionali”, e spetta soltanto se l'immobile è direttamente e immediatamente destinato allo svolgimento di tali compiti: ipotesi che non si configura quando il bene venga utilizzato per attività di carattere privato, come avviene nel caso in cui il godimento del bene stesso sia concesso a terzi verso il pagamento di un canone o, comunque di un corrispettivo (Cass. n. 14094 del 2010). Enti ecclesiastici
Le questioni controverse concernono l'esenzione di cui all'art. 7, comma 1, lett. i) d.lgs. n. 504/1992 che, nella versione anteriore al d.l. n. 203/2005, prevede che sono esenti da ICI “gli immobili utilizzati dai soggetti di cui al testo unico delle imposte sui redditi, approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 87, comma 1, lett. c), e successive modificazioni, destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui alla legge 20 maggio 1985, n. 222, art. 16, lett.a)”. L'esenzione spetta, ai sensi dell'art. 7, comma 2, “per il periodo dell'anno durante il quale sussistono le condizioni prescritte”.
L'art. 7, comma 2-bis, d.l. 30 settembre 2005, n. 203, aggiunto dalla legge di conversione 2 dicembre 2005, n. 248, poi modificato dal comma 133 dell'art. 1 l. 23 dicembre 2005, n. 266 e infine sostituito dall'art. 39 d.l. 4 luglio 2006, n. 223, conv. nella l. 4 agosto 2006, n. 248, ha esteso l'esenzione disposta dall'art. 7, comma 1, lett. i) cit. alle attività ivi indicate “a prescindere dalla natura eventualmente commerciale delle stesse” (versione originaria) e poi a quelle “che non abbiano esclusivamente natura commerciale” (versione vigente). La norma assume carattere innovativo e non interpretativo (Cass. n. 24500/2009; Cass. n. 14530/2010) e “deve essere escluso dall'esenzione un fabbricato nel quale un ente religioso svolga un'attività a dimensione imprenditoriale anche se non prevalente, essendo la predetta esenzione prevista in via generale solo per gli immobili destinati direttamente ed in via esclusiva allo svolgimento di determinate attività tra le quali quelle dirette all'esercizio del culto ed alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi e all'educazione cristiana mentre per gli immobili in cui si svolgono attività diverse dalla religione e dal culto è necessario verificare se tali attività, ancorchè esercitate da enti religiosi siano svolte per lo scopo istituzionale protetto ai sensi del d.lgs. n. 504/1992, art. 7, comma 1, lett. i) nella formulazione anteriore alle modificazioni introdotte dalla legge n. 248/2005 (nella fattispecie, assimilabile a quella in esame, l'esenzione è stata esclusa per un fabbricato gestito da un ente religioso destinato a “casa religiosa di ospitalità” (Cass. n. 16728/2010; Cass. n. 23584/2011; Cass. n. 5041/2015).
Il riconoscimento del diritto all'esenzione è condizionato alla verifica di due requisiti che debbono necessariamente coesistere:
Le condizioni della esenzione devono sussistere entrambe. Deve sussistere il requisito soggettivo e cioè la natura non commerciale dell'ente, quanto il requisito oggettivo e cioè che l'attività svolta nell'immobile rientri tra quelle previste dall'art. 7 citato (Cass. n. 13966 del 2016). Al fine della sussistenza del requisito oggettivo non rileva la destinazione degli utili eventualmente ricavati al perseguimento di fini sociali o religiosi, che costituisce un momento successivo alla loro produzione e non fa venire meno il carattere commerciale dell'attività (Cass. n. 24500 del 2009). Il contribuente, inoltre, ha l'onere di dimostrare l'esistenza, in concreto, dei requisiti dell'esenzione, mediante la prova che l'attività cui l'immobile è destinato, pur rientrando tra quelle esenti non sia svolta con le modalità di un'attività commerciale (Cass. n. 6711/2015; Cass. n. 7415/2019).
Con riferimento alle disposizioni che regolamentano l'esenzione ICI, di cui all'art. 7, comma 1, lett. i) del d.lgs. n. 504/1992, deve tenersi conto della decisione della Commissione dell'Unione Europea del 19 dicembre 2012, secondo cui tale disposizione, nelle sue formulazione succedutesi nel tempo, concretizza un aiuto di Stato in violazione del diritto dell'Unione, sicchè anche un ente senza fine di lucro può svolgere attività economica, cioè offrire beni o servizi sul mercato; la Commissione ha osservato che anche laddove un'attività abbia una finalità sociale, questa non basta da sola a escluderne la classificazione di attività economica. E' necessario, quindi, al fine dell'esclusione del carattere economico dell'attività, che quest'ultima sia svolta a titolo gratuito, ovvero dietro versamento di un importo simbolico. Con la predetta decisione la Commissione dell'Unione europea ha valutato la compatibilità delle disposizioni legislative nel tempo susseguitesi con l'articolo 107, paragrafo 1, del Trattato che dispone: “ sono incompatibili con il mercato interno, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza”.
Alla luce di tale decisione della Commissione occorre tenere conto:
Ha, quindi osservato che, secondo una giurisprudenza costante, la nozione di impresa abbraccia qualsiasi entità che esercita una attività economica, a prescindere dallo status giuridico di detta entità e dalle sue modalità di finanziamento: pertanto, anche un soggetto che in base alla normativa nazionale è classificato come un'associazione o una società sportiva può essere considerato come un'impresa ai sensi dell'art. 107, paragrafo 1, del Trattato. L'unico criterio rilevante al riguardo è se il soggetto interessato svolga o meno un'attività economica. La Commissione osserva, altresì, che l'applicazione della normativa sugli aiuti di Stato non dipende dal fatto che un soggetto venga costituito per conseguire utili, poiché anche un ente senza fine di lucro può offrire beni e servizi sul mercato.
Vanno pertanto considerate irrilevanti, ai fini tributari, le finalità solidaristiche che connotano le attività ricettive religiose, essendo necessario verificare se l'attività ricettiva è rivolta ad un pubblico indifferenziato o, invece, a categorie predefinite e che il servizio non sia offerto per l'intero anno solare. Il fornitore di servizi è, inoltre, tenuto ad applicare tariffe di importo ridotto rispetto ai prezzi di mercato e la struttura non deve funzionare come un normale albergo (Cass. n. 7415/2019). Va tenuto conto, altresì, che le norme agevolati sono di stretta interpretazione (art. 14 preleggi), sicchè risponde ad un criterio di ragionevolezza ritenere applicabile l'esenzione dal pagamento di un'imposta solo in ipotesi di sussistenza di determinati presupposti, trattandosi di una deroga al regime ordinario. Tali disposizioni, inoltre, non contrastano con il principio di cui all'art. 7, comma 3, dell'Accordo 18 febbraio 1984 tra la Repubblica italiana e la Santa Sede (l. 25.3.1985, n. 121), secondo cui le attività diverse da quelle di religione o di culto, svolte dagli enti ecclesiastici, devono avvenire nel rispetto delle strutture e delle finalità di tali enti, atteso che l'applicabilità o meno di un trattamento agevolativo non interferisce con l'utilizzo di un bene immobile secondo le finalità a cui è deputato.
L'esenzione non si applica agli immobili di proprietà di enti ecclesiastici locati a terzi, in quanto, ai fini in esame, non ha alcuna rilevanza la natura giuridica dell'ente e la sua qualità di soggetto passivo di imposizione astrattamente possibile destinatario dell'esenzione ma il fatto che, in concreto, l'utilizzo degli immobili non risponda alle condizioni previste dalla legge per l'operatività dell'esenzione, risultando, di conseguenza, irrilevante anche che i proventi della locazione siano poi destinati alle attività istituzionali dell'ente. (Cass. n. 3733 del 2010; Cass. n. 13542 del 2016). Lo svolgimento esclusivo nell'immobile di proprietà di ente ecclesiastico di attività di assistenza o di altre attività equiparate, senza le modalità di un'attività commerciale, costituisce il requisito oggettivo necessario ai fini dell'esenzione dall'imposta e va accertato in concreto, con criteri di rigorosità, seguendo le indicazioni della circolare ministeriale n. 2/DF del 2009 e, dunque, verificando determinate caratteristiche della "clientela" ospitata, della durata dell'apertura della struttura e, soprattutto, dell'importo delle rette, che deve essere significativamente ridotto rispetto ai "prezzi di mercato", onde evitare un'alterazione del regime di libera concorrenza e la trasformazione del beneficio in un aiuto di Stato.” (Cass. n. 14226 del 2015; Cass. n. 13970 del 2016).
Si è anche affermato che sussistono i requisiti di natura soggettiva e oggettiva per l'esenzione dal versamento dell'ICI in caso di immobile adibito all'esercizio – convenzionato – dell'attività di assistenza sociale residenziale, nei confronti di anziani autosufficienti e non, svolta da una Fondazione Onlus, stante l'assenza di carattere commerciale – quanto meno esclusivo – di tale attività e soprattutto il carattere solidaristico e non lucrativo della stessa. (CTR per la Lombardia 30 gennaio 2018, n. 389). Immobili collabenti
Costituisce orientamento consolidato che “il fabbricato collabente iscritto in conforme categoria catastale F/2 si sottrae ad imposizione Ici; e ciò non per assenza del presupposto dell'imposta (art.1 d.lgs. 504/1992), ma per azzeramento della base imponibile (art. 5 d.lgs. cit.), stante la mancata attribuzione di rendita e l'incapacità di produrre ordinariamente un reddito proprio”; si è inoltre osservato come la tassazione Ici, in tal caso, “non possa essere recuperata prendendo a riferimento la diversa base imponibile prevista per le aree edificabili, costituita dal valore venale del terreno sul quale il fabbricato insiste, atteso che la legge prevede l'imposizione ICI per le aree edificabili, e non per quelle già edificate, e che tale non può essere considerata l'area inserita dallo strumento urbanistico in zona di risanamento conservativo per la quale la normativa comunale preveda solo interventi edilizi di recupero” (Cass.n. 17815/17).
Gli elementi della fattispecie impositiva sono prestabiliti dalla legge secondo criteri di certezza e tassatività, e che - nel caso dell'Ici - la legge sottopone ad imposta (art. 1 d.lgs. 504/92) unicamente (il possesso di) queste tre ben definite tipologie di beni immobili: fabbricati, aree fabbricabili, terreni agricoli. Come sì è detto, il fabbricato iscritto in categoria catastale F/2 non cessa di essere tale sol perché collabente e privo di rendita; lo stato di collabenza ed improduttività di reddito, in altri termini, non fa venir meno in capo all'immobile - fino all'eventuale sua completa demolizione - la tipologia normativa dì 'fabbricato'.
Esclusa la rilevanza tassabile del fabbricato collabente, l'imposizione Ici non potrebbe essere 'recuperata' dall'amministrazione comunale facendo ricorso ad una base imponibile diversa: quella attribuibile all'area di insistenza del fabbricato. Ciò perché quest'ultima non rientra in nessuno dei presupposti Ici, trattandosi all'evidenza di area già edificata, e dunque non di area edificabile. L'inconciliabilità fra queste due ultime nozioni non è solo concettuale, ma anche giuridica; dal momento che, diversamente ragionando, si verrebbe ad inammissibilmente introdurre nell'ordinamento - in via interpretativa - un nuovo ed ulteriore presupposto d'imposta, costituito appunto dall' ‘area edificata'”.
Si è, al riguardo, osservato che “in tema di imposta comunale sugli immobili (ICI), il fabbricato accatastato come unità collabente (categoria F/2), oltre a non essere tassabile come fabbricato, in quanto privo di rendita, non è tassabile neppure come area edificabile, sino a quando l'eventuale demolizione restituisca autonomia all'area fabbricabile, che da allora è soggetta a imposizione come tale, fino al subentro della imposta sul fabbricato ricostruito”. (Cass. n. 23801/17, cfr Cass. n. 8620/19) |